domenica 2 settembre 2012

Cappuccino e pizza sono italiani ma i soldi li fanno Starbucks e PizzaHut

Pizza e pasta sono italiane ma l’idea di inserirle in un concept innovativo di ristorazione è venuta a Pizza Hut che ne ha fatto un successo mondiale. L’Italia ha inventato il cappuccino e l’espresso, ma sono Starbucks e Nestlé-Nespresso a dominare nel mondo. Sono i colossi francesi Lvmh e Ppr che salvano e vendono il lusso italiano di Gucci, Bottega Veneta, Bulgari e le scarpe di RossiModa. Forse l’Italia non è degna della grandezza del Made in Italy?
Dal libro La sindrome del turione di Giovanni Costa

E se provassimo a spiegare la crisi attuale (iniziata prima di quella finanziaria) con una carenza di spirito imprenditoriale capitalistico, a lungo occultata dalla retorica dell’imprenditorialità diffusa? In Italia, non mancano certo le piccole imprese, mentre non sono abbastanza numerose le imprese in grado di essere protagoniste nei settori che crescono e si globalizzano. Le conseguenze sono presto dette: minore sviluppo del mercato finanziario (quello sano), minore produttività, minore capacità di pianificare il medio termine, minore capacità di investire in ricerca e sviluppo, minore managerialità, minore internazionalità. Le carenze nella finanza e nella ricerca e sviluppo non però vanno drammatizzate ricordando i tempi non lontanissimi in cui, pur con le stesse carenze, lo spirito imprenditoriale italiano è riuscito a creare onde lunghe di sviluppo, mobilitando forze «deboli».

Alcuni esempi:
– agganciare l’abbigliamento a uno stile di vita emergente e a tutti i valori che lo alimentano, è stata un’idea base per molte aziende del fashion che da Benetton a Diesel hanno modificato, assieme al prodotto, il modo di fabbricarlo e distribuirlo;
– trasformare una protesi sanitaria (occhiale da vista) o uno strumento di protezione (occhiale da sole) in un accessorio di moda che risponde al bisogno di cambiarsi un po’ la faccia senza ricorrere alla chirurgia, è stata l’idea base da cui ha preso il volo l’occhialeria griffata, da Luxottica a Safilo;
– convertire la grappa, un alcolico dai sapori grevi in un distillato evocativo di valori e sapori raffinati, è stata l’idea che ha trasformato un sottoprodotto della vinificazione in un business di tutto rispetto da Nonino a Poli;
– mettere alla portata dei sempre più numerosi single il tortellino di pasta fresca, tipico prodotto della famiglia tradizionale, è stata la scommessa vincente che ha portato Rana ad affermarsi in un settore molto frazionato.

E non mancano altri esempi in settori più tecnici. Le imprese leader che si sono imposte nei decenni passati, oggi sembrano ferme. Di nuovi protagonisti non ne appaiono e quelli affermati amministrano talora molto bene i loro successi, e i loro patrimoni, o poco più. Eppure basterebbe tirar fuori un po’ di grinta capitalistica per rivitalizzare un patrimonio di competenze che ci appartiene. Partiamo dalle cose più semplici: in Italia la pizza e la pasta fanno parte della cultura alimentare e culinaria, eppure l’idea di inserirle in un «concept» innovativo di ristorazione è venuta a Pizza Hut che ne ha fatto un successo mondiale. L’Italia ha inventato prodotti come il cappuccino, il caffè espresso, i gelati ma ha lasciato a Starbucks, Nestlé-Nespresso, Baskin-Robbins l’opportunità di farne dei business mondiali. Solo recentemente c’è qualche tentativo di recupero come è dimostrato dalle gelaterie Grom di Federico Grom e Guido Martinetti; e da Eataly di Oscar Farinetti.

Molti pensano all’Ikea come un gruppo che ha dato un colpo mortale ai mobilifici italiani. Ma è l’Ikea che vende i mobili italiani: nel 2009, l’Italia rappresentava il quinto mercato di vendita con circa il 5-6% del fatturato globale di Ikea, era però il terzo mercato di approvvigionamento dopo Cina e Polonia. È la dimostrazione che la fase manifatturiera non è più in grado da sola di garantire ricchezza e occupazione qualificata a una nazione. Sono i colossi francesi, Lvmh e Ppr, che salvano e vendono il lusso italiano di Gucci, Bottega Veneta, Bulgari e le scarpe di RossiModa. Riescono a farlo perché hanno la finanza, il marketing, la distribuzione idonei a gestire brand che «o sono globali o non sono». Salvano persino le tanto celebrate (ma solo nei libri e nei convegni) competenze artigianali italiane. Chi avesse dei dubbi, visiti a Fiesso d’Artico, nel cuore del distretto calzaturiero della Riviera del Brenta, l’avveniristico stabilimento dal nome inequivocabile di «Manifacture des souliers Vuitton» che appare come un monumento a tutte le sciocchezze che si sono dette e scritte sulla capacità di auto organizzazione dei distretti.


*Professore emerito all’Università di Padova. Attualmente è docente di Strategia d’Impresa alla Facoltà di Economia. È vicepresidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo e presidente della Cassa di Risparmio del Veneto.

La sindrome del turione; Nordest, mercato globale e imprese adeguate
di Giovanni Costa
Nordest Europa/Marsilio, pp. 167, euro 10

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