sabato 30 aprile 2011

I salumi del re, il brodo di Einaudi Il Quirinale visto dalla tavola


I menu dei pranzi ufficiali: dalla polenta ai cibi più leggeri. Il racconto di come è cambiato il gusto italiano attraverso 250 liste di cibi



La copertina del volume «I menu del Quirinale», a cura di Maurizio Campiverdi e Francesco Ricciardi,  realizzato dall’Accademia italiana della cucina
La copertina del volume «I menu del Quirinale», a cura di Maurizio Campiverdi e Francesco Ricciardi, realizzato dall’Accademia italiana della cucina

Fa un certo effetto, al tempo dell’iPad che ha contaminato ogni angolo della vita sociale, fino a trovar posto sulle tavole dei ristoranti in forma di menù tecnologico, sfogliare un volume che sembra cristallizzare, nonostante il cammino dei tempi, riti, abitudini, liste delle vivande, impresse su carta e impreziosite con decorazioni artistiche. Ma qui siamo nel più importante dei Palazzi, il Quirinale. E qui si descrivono i menù dei pranzi ufficiali riguardanti i 15 capi di Stato, che vi hanno dimorato, nell’arco di 150 anni. Un altro pianeta, si direbbe. In verità, non è (non è stato) tutto così immutabile. Anzi. L’elemento più concreto dello stile gastronomico quirinalizio, il cibo, si è notevolmente evoluto, nell’arco di un secolo e mezzo.
«La cucina ha contribuito all’unificazione d’Italia e viceversa», notava Giovanni Ballarini, presidente dell’Accademia Italiana della Cucina, presentando, ieri al Circolo della Stampa di Milano, «I menu del Quirinale ». Il volume, curato da Maurizio Campiverdi e Francesco Ricciardi, è stato promosso dall’Istituzione culturale fondata nel 1953 da Orio Vergani, anche con il sostegno della Fondazione Corriere della Sera.
E’ lo stesso Giorgio Napolitano, con il suo messaggio d’apertura, a indicare il significato dell’opera: «Veri e propri documenti di valore storico e culturale, questi menu raccontano della progressiva evoluzione dei punti di riferimento dell’alta cucina nell’Italia post-unitaria». In concreto, si tratta di un’ampia testimonianza su usi e costumi dei capi di Stato attraverso 250 menu inediti. Scopriamo così dove e con chi hanno mangiato re e presidenti. Sia al Quirinale, sia nei Palazzi degli altri Paesi durante le visite. All’epoca di Casa Savoia regnante, i pranzi — ricchi, ipercalorici e sfarzosi (nel corso dell’anno si raggiungevano ben 500 diverse preparazioni culinarie) — erano di impronta franco-piemontese. Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, poco mondano e neppure una buona forchetta, talvolta metteva in imbarazzo i commensali. Inoltre, preferiva i cibi rustici (polenta, formaggi locali, salumi delle Langhe) e beveva volentieri Barolo e Barbaresco, mentre trionfavano i grandi Chateaux e Champagne.


Da sinistra i menu del Quirinale: UMBERTO I:  Re d’Italia dal 9 gennaio 1878 al 29 luglio 1900 quando fu ucciso a Monza da Gaetano Bresci.  LUIGI EINAUDI: Secondo presidente della Repubblica: dall’11 maggio 1948 al 28 aprile 1955. CARLO AZEGLIO CIAMPI:  Decimo presidente della Repubblica: dal 18 maggio 1999 al 15 maggio 2006
Da sinistra i menu del Quirinale: UMBERTO I: Re d’Italia dal 9 gennaio 1878 al 29 luglio 1900 quando fu ucciso a Monza da Gaetano Bresci. LUIGI EINAUDI: Secondo presidente della Repubblica: dall’11 maggio 1948 al 28 aprile 1955. CARLO AZEGLIO CIAMPI: Decimo presidente della Repubblica: dal 18 maggio 1999 al 15 maggio 2006















Anche Umberto I non era un fan dell’alta cucina. In compenso, la moglie Margherita fece brillare di celebrità, in Europa, la tavola dei Savoia. Uno dei menu memorabili celebra il primo convegno di Araldica di Roma (1883): 16 portate, 9 vini (uno solo italiano, il Marsala Ingham), descritti al centro del foglio decorato da 23 stemmi.


A sinistra una delle sale delle «Vaselle» del Quirinale dove sono custodite porcellane, argenti, cristalli e posaterie di varie epoche. A detra, la cucina utilizzata quotidianamente dai cuochi della presidenza della Repubblica
A sinistra una delle sale delle «Vaselle» del Quirinale dove sono custodite porcellane, argenti, cristalli e posaterie di varie epoche. A detra, la cucina utilizzata quotidianamente dai cuochi della presidenza della Repubblica








Dal regno alla Repubblica, con i suoi 11 presidenti. I menù «dimagriscono» progressivamente: massimo 6 portate, non più di 3 vini. Italiani, finalmente. Lo Spumante a fine pasto viene sostituito dal Passito o dal Moscato. Essenziali i menu dei pranzi di Stato (e non) del Dopoguerra, quando l’Italia stava uscendo dalla fame. Un episodio, citato da Indro Montanelli, invitato al Quirinale dal presidente Einaudi, rende bene il concetto di sobrietà. «Il pranzo consistette in prosciutto e melone, consommé, branzino lesso e frutta— raccontò il giornalista —. Alla frutta, Einaudi prese dalla fruttiera una mela, e mi chiese "Ne vuole mezza?". Ma l’opulenza culinaria non va di pari passo con la migliore situazione economica. Anzi. Dagli anni ’70, si punta sulla leggerezza. Tra i più leggeri, si ricordano i cibi offerti da Sandro Pertini. Brodo, pesce e carni bianche. Ma l’ultraottantenne presidente talvolta rompeva le righe, ordinando piatti «proibiti», come il babà allo zabaione. E Giorgio Napolitano, infine, seguendo le linee della gastronomia di oggi, appare molto attento alla qualità delle materie prime e al rapporto tra gusto e salute.
Marisa Fumagalli

giovedì 28 aprile 2011

I nuovi manager si preparano in cucina

Corso speciale ai fornelli: "Così si impara il lavoro di squadra"

I pantaloni del gessato e le gonne del tailleur spuntano sotto il grembiule bianco, mentre ciuffi ribelli scappano dal cappello da chef. Ma nessuno si scompone più di tanto. L’attenzione è tutta mirata a eseguire nel migliore dei modi la ricetta del brasato, senza perdere di vista quello che fanno i compagni di squadra e i rivali delle altre.

No, non siamo a qualsiasi gara ai fornelli tra aspiranti re della cucina. Intorno ai tavoli di marmo e a quelli super hi-tech dell’Italian food style education (Ifse), al castello di Piobesi, alle porte di Torino, sono concentrati i manager di alcune delle più prestigiose aziende italiane.

Vengono qui per apprendere l’arte del lavoro di squadra nelle «cooking session» del «team building». Che non è un semplice gruppo di persone, ma una squadra che lavora per raggiungere uno scopo comune potenziando lo spirito collaborativo, competitivo e dirigenziale. Ai fornelli, appunto. Alla presenza di chef stellati e assistenti reclutati dal direttore dell’Ifse Raffaele Trovato e dal presidente Piero Boffa.

«Riuscire a creare un team può essere un’impresa ardua - osserva Trovato, 46 anni, chef di lunga esperienza con il pallino della psicologia applicata all’economia -, ma questo tipo di eventi riesce a trasmettere i principi di condivisione di ideali che poi, in modo naturale, si riflettono sull’ambiente di lavoro».

Una tendenza che sta prendendo sempre più piede. Se in passato erano più diffusi corsi di rafting o parapendio, ora il banco di prova è preferito se si trova tra forni, padelle e frullatori super accessoriati. «La cucina è un microcosmo che riproduce la realtà di un ufficio - prosegue Raffaele Trovato -: se non sei più che organizzato, se non sai chi coordinare chi sta al tuo fianco e se non sai modulare con equilibrio i tempi e i modi d’intervento, il risultato finale è un mezzo fallimento. Preparando un piatto di gamberi in pastella piuttosto che una torta Sacher, tutto diviene, invece, più facile e divertente».

Il team building, cioè la creazione di un gruppo, in cucina favorisce il potenziamento di alcune capacità indispensabili per svolgere al meglio il ruolo di manager. Sia che si tratti di architetti o ingegneri di società di costruzioni (per esempio la Building), sia che i manager appartengano ad aziende di certificazione (tipo Certo company) o di consulenza strategica (come Wave group), piuttosto che a colossi come Lagostina, il progetto non cambia. Consente di lavorare a piccoli gruppi per imparare a comunicare, delegare, capire le persone.

Il cibo come veicolo di maturazione emotiva e di sviluppo della leadership. Senza trascurare, tuttavia, l’occasione di divertirsi. Tritando, friggendo e impastando prelibatezze, non manca infatti l’opportunità di condividere momenti di entusiasmo.

La cooking session coinvolge in media una trentina di manager, suddivisi in gruppi tra i cinque e gli otto componenti. Si propone come un processo formativo personalizzato, adatto alla crescita delle capacità interpersonali nelle gestioni e risoluzioni di problemi, che si conclude con un appuntamento doppiamente interessante. Quale? La cena, che se da un lato è la rappresentazione concreta della full immersion tra i fornelli, dall’altro costituisce un momento di autentico piacere.

Grazia Longo - La Stampa


Il decalogo:
1. Sviluppare la fiducia in se stessi
2. Individuare i punti di forza di una squadra
3. Creare un ambiente pieno di energia
4. Innalzare il desiderio di collaborazione
5. Potenziare lo spirito competitivo
6. Motivare la partecipazione del gruppo
7. Pianificare ed eseguire le decisioni
8. Incoraggiare comunicazione e conversazione
9. Lavorare in team per raggiungere lo scopo
10. Cenare insieme premia i lavoro di squadra

mercoledì 27 aprile 2011

La via del Samurai

Nella cultura occidentale la luce è in guerra con l'oscurità, la vita è in guerra con la morte, il bene è in guerra con il male, il positivo è in guerra con il negativo e così via.
Per il pensiero giapponese tradizionale ciò è incomprensibile. La correte elettrica non esisterebbe senza entrambi i poli, positivo e negativo, perchè la polarità è il principio nel quale il più e il meno sono differenti aspetti di uno stesso fenomeno che scomparirebbe in assenza di uno dei due.
Così come l'approccio alla vita e alle sue necessità o avversità è differente. Il ramo di pino, essendo rigido, si spezza sotto il peso della neve e del ghiaccio, mentre il ramo di salice si piega sotto il peso della neve che scivola giù; il salice comunque non si affloscia poichè è elastico e non rigido.
Per comprendere il complesso fluire delle energie occorre concentrarsi su sé stessi, ma vigili esternamente, fissando l'attenzione su un solo punto per volta. Risparmiare energie e agire a ragion veduta su un solo punto esterno alla volta e coerentemente con l'obiettivo dato.

Per seguire la via del Samurai si deve mantenere l'attenzione sul momento presente e non vacillare, non avere pensieri mondani, né essere schiavi delle passioni. Vivere ogni momento del presente è importante. Ogni istante. E' quindi necessario concentrarsi sempre sul momento presente. La concentrazione si ottiene cambiando opportunamente e volontariamente l'oggetto della nostra attenzione, ne momento presente, in modo da favorire sempre la massima probabilità di raggiungere l'obiettivo prioritario. 
Per competere con la massima efficacia bisogna quindi essere in forma fisicamente , mentalmente rilassati e sereni. Ma vigili.
Cuore, ente e polmoni sono legati. Controllando il respiro si calmano i battiti e si svuota la mente per mezzo di esercizi prima di concentrazione e quindi di meditazione. La mente deve essere serena, rilassata e concentrata.
Emozioni come ira, avidità, paura e così via sono negative. La vittoria è del Guerriero calmo, riservato, imperturbabile, distaccato, non di una testa calda, di un uomo vendicativo o ambiguo. Il pieno di se stessi sono forza, sicurezza ed equilibrio, il vuoto è debolezza, squilibrio, incertezza.

Per purificare la mente e predisporla alla miglior comprensione occorre mettere in pratica qualche tecnica per svuotarla dai pensieri e dalle preoccupazioni, che possono disturbare la riflessione. In Giappone un esempio è offerto dalla cerimonia del tè, ma tutto contribuisce. Gli utensili per la cerimonia, l'ambiente, le cose, tutto deve essere adeguato al proprio stato. L'armonia è essenziale.

Il Perdono

Chi non sa perdonare spezza il ponte sul quale egli stesso dovrà passare.

Perdonare è liberare un prigioniero e scoprire che quel prigioniero eri tu.

Sacre Scritture

martedì 26 aprile 2011

L'identità italiana in cucina

Un bel libro in onore dei 150 anni dell'unità d'Italia, quello scritto da Massimo Montanari, professore di storia medievale e storia dell'alimentazione all'Università di Bologna, dove è anche direttore del Master "Storia e cultura dell'alimentazione". 

Consiglio la lettura di questo volumetto di 84 pagine, facile e molto interessante per capire come la cucina del nostro Paese è, in realtà, il vero stile culinario italiano esistente fin dal Medioevo. 

Una cucina, quella italiana, non identificabile nelle identità regionali, invenzione che risponde ad esigenze politiche, commerciali, turistiche, non culturali. Ma tante cucine identificabili come "locali", "territoriali", "cittadine", dove un circuito nazionale che, declinandosi in modalità a rete, le integra.

lunedì 25 aprile 2011

L'arte della vendita

Le chiavi di successo per un buon commerciale sono:
- riuscire a trovare, con continuità, nuovi prospect per trovare nuovi Clienti;
- essere in grado di stabilire veri contatti professionali;
- saper individuare l'interlocutore giusto, il "decision maker", per non rischiare di perdere tempo;
- coltivare continuamente l'esercizio nella competenza e l'abilità come superare le resistenze e le obiezioni;
- dimostrare di saper chiudere la vendita, spesso molti sono bravi nelle parti precedenti, ma non riescono a concludere o fanno decidere il Cliente.

La figura del commerciale oggi è sempre di più una figura "problem-solver" che partecipa attivamente alle strategie di marketing, offrendo contributi e collaborazione attiva, lavora su obiettivi di gruppo quantitativi e qualitativi.

E' in grado di comprendere il ruolo, il potere e gli orientamenti dei suoi interlocutori; sa individuare all'interno dell'azienda gli uomini di potere che influenzano le decisioni, riesce a pianificare una strategia; ha ampia considerazione e rispetto del Cliente e quindi analizza i suoi problemi e i fabbisogni in modo professionale, a cui sa dare risposte offrendo soluzioni. Il buon commerciale riesce a trasformare un prospect in un Cliente e non attende che si propongano già con le richieste, deve essere in grado di gestire la sua zona con una mentalità di un vero Direttore Vendite.

Non attende che la società gli passi i prospect e non si cura di "accapparrarsi" i nominativi solo per avere in portafoglio un numero sempre più elevato di nominativi. Cura la propria zona, analizza a fondo il suo portafoglio, lo suddivide e stabilisce una metodologia di approccio e di continuità nel rapporto. Sceglie con professionalità i Clienti su cui fare attività di reselling. Si pone degli obiettivi tragiuardabili e li rispetta.

domenica 24 aprile 2011

Il Giudizio

Non giudicate per non essere giudicati, perchè col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura in cui misurate sarete misurati.

Vangelo Matteo cap.7:1-2

sabato 23 aprile 2011

Riflessione sulla morte

Credendo in Dio ho sempre pensato alla morte come un fatto ineluttabile. Non ho mai cercato di comprenderne, da semplice uomo, la ragione,  certo che vi sia comunque un disegno per ognuno di noi voluto dalla Provvidenza. 
Oggi siamo, domani potremmo non esserlo più. Eppure noto che molta gente attorno a me prova ripugnanza nel pensare alla propria morte, evita accuratamente di rifletterci. Passiamo molta parte della nostra vita ad accumulare beni come se potessimo portarceli con noi. Penso sia giusto pensare e fare progetti come se non si dovesse morire mai, ma è sempre saggio imparare a vivere meditando, di quando in quando, che la morte è parte integrante della vita poiché essa ha un inizio e una fine. E su questa noi non ne abbiamo visibilità.
La riflessione su questo tema è sempre d'aiuto di fronte ad un nostro atteggiamento egoistico verso il prossimo.

L'arte della vendita

Per imparare ad essere un ottimo venditore, occorre assumere una mentalità da atleta agonistico. Imparare a pensare in positivo, di essere qualcuno in qualcosa. Nella fattispecie la vendita. Occorre esaltare le proprie caratteristiche. Concentrarsi su ciò che si sa far meglio, su ciò che riesce meglio ed allenarsi ad essere il migliore.
Molti venditori pensano che basti volere, ma la volontà seppur importante non è tutto. Nella vendita occorrono anche altre caratteristiche. Bisogna anche essere un uomo d'azione. Agire ! E mantenere lo spirito e la mente giovani, freschi, aperti al cambiamento, alle novità. Per non essere, un giorno tagliati fuori senza che ce ne rendiamo conto. Perché l'abitudine ci ha impedito che il cambiamento ci stava superando. Quante volte accade. 

Solo uno spirito giovane del venditore potrà affrontare un mercato che si rinnova nelle dimensioni, nelle sue caratteristiche, ma soprattutto nelle sue esigenze. E per mantenere questo spirito giovane bisogna far cadere prevenzioni, abitudini, preconcetti. Giovane non è esattamente un numero anagrafico, è giovane chi accetta un'idea, chi ne coglie l'importanza e la fa immediatamente sua, la raccoglie, la lavora, la medita, a sperimenta e magari la migliora. Poi la giudica ala prova dei fatti e la modifica se necessario. Chi non riesce a sviluppare queste capacità, chi non comprende e non accetta il confronto, quale che sia la sua data di nascita, è già troppo vecchio per lavorare nel mondo della vendita.

Nel mondo della vendita occorre sempre ricordare che oggi è sempre più vero, che non esiste nel business un livello di successo che garantisca il successo anche per il futuro. Chi pensa di essere arrivato o di aver trovato la "formula" giusta, normalmente non si è accorto che qualcun altro lo ha già superato.

domenica 10 aprile 2011

Verso l'Unità d'Italia passando dalla Romagna. Breve storia del periodo risorgimentale imolese.

Nel mio ruolo di Coordinatore del Centro Studi "Luigi Einaudi" ho ritenuto importante celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia con un libretto che potesse rimanere a testimonianza di questa importante celebrazione.

Introduzione dell'Autore: Dott. Alessio Guidotti*

Questo mio breve lavoro altro non vuol essere che un piccolo omaggio, non retorico riconoscimento ad una città, Imola, ed alla sua provincia la quale ha attivamente partecipato al Risorgimento Italiano, pagando un alto tributo non solo in mezzi ma soprattutto in uomini. Questo vuol essere un sintetico, ma spero esaustivo viaggio che ci porterà dal tentativo di Restaurazione effettuato dalle grandi potenze nel 1815 sino al compimento dell’Unità nazionale nel marzo 1861.

Non è un caso che proprio in questi giorni, ma in realtà già da alcuni mesi, hanno preso il via, senza non poche polemiche, le celebrazioni per il 150° anniversario della suddetta Unità d’Italia. Celebrazioni troppo spesso caricate ed esasperate da contrasti a mio parere non del tutto ingiustificati, ma che hanno prestato il fianco ad un facile processo di strumentalizzazione politica. E’ vero infatti che il processo Risorgimentale italiano non ha certo visto la piena partecipazione popolare, anche se non sono totalmente d’accordo quando leggo o sento parlare di un processo unitario unidirezionale, imposto dall’alto e gestito esclusivamente da una ristretta minoranza. D’altronde, a differenza dei primi moti carbonari esplosi nel 1820-21 e nel 1830-31, che
avevano visto una scarsa partecipazione popolare e principalmente a tale fattore, ma certamente non solo ad esso, va attribuito il loro totale fallimento, nel 1848 e nelle successive guerre per l’Indipendenza nazionale e soprattutto nel corso dell’ "impresa"dei mille non credo si possa parlare apertamente di generale passività ed attendismo delle masse popolari. E’ comprovato il fatto che moltissimi volontari, seppur per svariati motivi, si unirono al generale Garibaldi nella sua trionfale cavalcata che lo avrebbe portato in brevissimo tempo a "liberare" il sud del paese dal dominio borbonico per consegnarlo nelle mani del futuro primo re d’Italia Vittorio Emanuele II. Lo stesso Cavour, autentico regista del processo di unificazione ed inizialmente contrario alla spedizione, mutò atteggiamento favorendo decisamente l’invio di uomini ed armi dopo le prime esaltanti vittorie delle camicie rosse garibaldine. Naturalmente il suo scopo era di controllare gli avvenimenti nel timore di un eccessivo rafforzamento della corrente democratica, che avrebbe gravemente ostacolato il progetto di un’Italia unita sotto la monarchia sabauda, visto che non pochi democratici erano poi accorsi in massa ad aiutare il generale nizzardo nella sua impresa, convinti di poter riuscire a proclamare un governo repubblicano nei territori meridionali. Altrettanto comprovata fu però la delusione provata da tanti contadini siciliani quando i liberatori si schierarono a difesa dei vecchi rapporti di proprietà e introdussero la coscrizione obbligatoria, non prevista dal precedente governo borbonico. Il malcontento non di rado sfociò in aperta ribellione e lo stesso Nino Bixio, uno dei fedelissimi di Garibaldi, intervenne duramente a Bronte, cittadina ai piedi dell’Etna, ordinando numerose fucilazioni per tutti coloro che vennero troppo semplicisticamente etichettati come pericolosi briganti solo per il fatto di aver reclamato una migliore condizione di vita. Altro esempio con due opposti risvolti è quello dei plebisciti: su proposta dello stesso Cavour, nei territori insorti e liberati si tennero plebisciti a suffragio universale maschile (evento inedito per quell’epoca in Italia dove vigeva un suffragio ristrettissimo) affinchè gli siti ne ricevessero maggiore legittimità (avevano diritto al voto gli uomini che avevano compiuto i 21 anni). In realtà, la popolazione si trovò davanti ad una non scelta: difatti si votava per essere annessi al nuovo regno d’Italia o per rimanere in una sorta di stato non ben definito. Inoltre il timore di un forte astensionismo specialmente tra i contadini era alto e i governi provvisori dovettero utilizzare ogni mezzo per scongiurare un fallimento. I due esempi appena riportati risultano di notevole utilità per rimarcare ancora una volta quanto la storia del Risorgimento italiano (ma, potremmo sostenere, un po’ tutta la storia dell’Italia almeno dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente) è stata costellata da intense divisioni. Era oggettivamente difficile poter arrivare a mettere tutti d’accordo in un paese che del particolarismo regionale e provinciale aveva fatto la sua caratteristica principale, diventando proprio a causa della sua mancata unità e compattezza per secoli e secoli terra di conquista e campo di battaglia per i già consolidati stati nazionali europei (basti pensare allo scontro tra l’impero spagnolo di Carlo V e i francesi di Francesco I che vide proprio, per tutta la prima metà del XVI secolo, come teatro delle battaglie e oggetto della contesa il plurifrazionato e fragile territorio italiano).

Soffermiamoci allora un attimo sulla parola Risorgimento e analizziamone poi le differenti anime presenti al suo interno. Con tale termine si è soliti denominare il periodo di storia italiana nel quale si crearono le condizioni per l’affermazione di un movimento teso a  realizzare uno stato indipendente ed unitario. Il termine si diffuse rapidamente negli anni dell’unificazione nazionale proprio per significare l’auspicata necessità che la nazione italiana "risorgesse" dalla cosiddetta decadenza. Decadenza dovuta soprattutto alla sua divisione in tanti territori e all’influenza esercitata da potenze straniere su di essa. Ciò che doveva rinascere (o forse nascere?) era anche un autentico sentimento di Patria e Nazione, fratellanza e libertà che alcuni sfortunati pensatori e rivoluzionari, in primis Giuseppe Mazzini, avevano cercato di far sorgere ed  inculcare nelle masse. Erano proprio gli stessi ideali propugnati e diffusi dai philosophes illuministi e che avevano ispirato la grande Rivoluzione esplosa in Francia, destinata ad abbattere quell’ ancien regime che poggiava le sue basi sullo sfruttamento e su una serie di scandalosi privilegi a favore dei ceti aristocratici e dell’alto clero tenendo per troppo tempo soggiogata la popolazione. Possiamo allora sicuramente sostenere che l’iniziativa fu presa da una ristretta minoranza, ma ciò non toglie che nel corso degli eventi la partecipazione delle masse crebbe costantemente. Tuttavia, come accennavo in precedenza, neanche questa minoranza era compatta al proprio interno e ciò fu un altro fattore di non secondaria importanza che contribuì decisamente al fallimento dei primi moti del 1820 e del 1830-31. Difatti essa era frazionata in varie anime che possiamo però con qualche piccola semplificazione ridurre prevalentemente a due: liberali (o moderati) e democratici.

Il liberale credeva che uno stato si dovesse fondare su una costituzione che funga da regola suprema della vita politica e civile. La costituzione ha il ruolo fondamentale di limitare l’esercizio del potere e di garantire la libertà individuale, in particolare quella di opinione. I liberali si riconoscevano nell’istituto monarchico e ritenevano il voto non un diritto naturale, ma una funzione riservata a cittadini particolarmente affidabili (i notabili) per equilibrio, competenze e ricchezza; auspicavano l’articolazione del parlamento in una camera bassa e in una camera alta e sul piano economico avevano una fiducia incondizionata nella funzione auto regolatrice del mercato. Diversa era la figura del democratico, che aveva compreso che nella lotta delle forze
 borghesi contro il ritorno del vecchio regime, l’appoggio delle classi popolari diveniva sempre più importante. Del liberalismo il democratico condivide la difesa dei diritti dell’individuo, per estenderli e potenziarli verso una totale eguaglianza. Si battevano per introdurre il suffragio universale e al concetto di sovranità nazionale, tanto caro al liberale, sostituivano quello di sovranità popolare. L’obiettivo era almeno la gestione pubblica della scolarità, sottratta agli enti religiosi e la richiesta di maggiore giustizia in ambito sociale e fiscale.

Il "conto da pagare" per un processo di unificazione nazionale come era stato quello italiano, potremmo dire che si presentò proprio nell’immediato periodo post-unitario. Il 17 marzo 1861 la prima assemblea nazionale, eletta su base censitaria, proclamò Vittorio  Emanuele II re d’Italia "per grazia di Dio e volontà della nazione". L’unificazione dell’Italia era in gran parte conclusa (mancavano ancora il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, parte del Lazio e il Veneto): in pochi anni aveva trionfato, grazie all’intreccio di vari fattori la strategia piemontese mentre i democratici, pur avendo dato un contributo determinante, erano di fatto sconfitti dai moderati. Il nuovo Stato unitario nasceva come semplice espansione del regno sabaudo; una continuità espressa anche dal fatto che il sovrano conservava il titolo di Vittorio Emanuele II. Al momento dell’unificazione l’Italia era un paese ancora molto arretrato e profondamente diviso. I tempi dell’unificazione erano stati veloci e non avevano permesso di affrontare alcuna delle ragioni di un’arretratezza che diveniva sempre più allarmante a mano a mano che si procedeva da Nord a Sud. Il settore agricolo assorbiva ancora il 70% della forza lavoro e solo il 18% della manodopera era occupata nel settore industriale. Mentre in alcune regioni settentrionali erano diffuse aziende agricole gestite con metodi di produzione capitalistici ed impiego di manodopera salariata, nelle regioni meridionali persisteva la piaga del latifondo e in quelle  centrali dominavano i rapporti di mezzadria. Su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti, il tasso medio di analfabetismo era del 78%, ma con evidenti dislivelli: nel meridione e nelle isole raggiungeva punte del 90%  mentre era del 54% in Lombardia, Piemonte e Liguria. Solo una piccola minoranza parlava  la lingua italiana correntemente, mentre nel resto della penisola lo strumento principe per la comunicazione rimaneva il dialetto e lo rimarrà ancora per un lungo periodo.

"Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani". La frase di Massimo d’Azeglio riassume felicemente il nostro problema: l’unificazione politica del paese, che nei decenni precedenti era stato l’ideale di alcune minoranze di patrioti di vario orientamento, si realizzò nel 1861 nel precipitare di una serie fortunata di eventi politico-militari più che per il concorso di robuste forze culturali, sociali ed economiche convergenti. Lo Stato unitario era stato dichiarato, ma un’Italia unita ancora non esisteva. Ai governanti del nuovo regno toccò dunque un compito per certi versi immane: quello di dare fondamenta solide al nuovo Stato Nazionale, che conformemente ai loro orientamenti doveva essere uno Stato liberale. Si trattava dunque di sviluppare la nuova intelaiatura dello Stato amministrativo, un’identità ed una cultura comuni ed infine, non certo per ordine di importanza, di dare al neonato paese una collocazione internazionale. In questo senso, la frase attribuita a d’Azeglio sintetizza egregiamente il grave compito che spettava alle classi dirigenti di quel periodo. Tale frase in questi ultimi anni è sempre più menzionata da vari storici, che si sono via via convinti che gli stati nazionali dell’Ottocento non costituivano tanto l’affermazione di identità nazionali che reclamavano il proprio riconoscimento, quanto una costruzione politica e culturale, strumento allora necessario per lo sviluppo di società moderne (il caso dell’unificazione tedesca presenta molte analogie con quello italiano). Cosa che, ribadisco ancora con forza, mi appare tanto più vera per l’Italia del 1860, che probabilmente in maniera ancor maggiore rispetto ad altri paesi europei del tempo, mancava di un vero passato storico, di un’identità, di ordinamenti civili ed economici unitari. L’unificazione era stata raggiunta, anche se voluta fortemente da alcune minoranze, in maniera fortunosa grazie al compromesso tra manovre diplomatiche, spinte dinastiche ed insorgenza patriottica. Adesso però oltre che unitaria, l’Italia doveva essere liberale e borghese, inserita nel sistema internazionale di mercato allora vigente, basato sulla concorrenza e sulla specializzazione produttiva, ma anche ispirata a un insieme di valori propri dell’epoca, laici e moderati, fiduciosi nei diritti dei singoli, nel mantenimento di una gerarchia sociale stabile e nel progresso. Sul fatto che questi obiettivi siano stati realizzati e se si, con quali limiti e quali caratteristiche i pareri tra gli storici sono assai discordanti. Non potendo in tale contesto approfondire anche questa tematica, ci concentreremo inizialmente sul quadro cronologico che fa appunto da cornice e sfondo ai singoli eventi che più ci interessano e che ovviamente tratteremo in seguito maniera più articolata ed approfondita nei singoli capitoli.

* Alessio Guidotti, docente di storia e filosofia, laureato in Storia (inidirizzo contemporaneo) presso l'Università degli Studi di Bologna. Ha conseguito due abilitazioni all'insegnamento secondario di secondo grado. Tra le sue specializzazioni si possono indicare il titolo di Master in beni culturali ecclesiastici, indirizzo archivistico-bibliotecario, presso l'Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna (dove ha inoltre ottenuto una borsa di studio per i risultati conseguiti), e il Diploma di perfezionamento in La ricerca storica: strumenti e metodi, presso il consorzio interuniversitario For.Com.
Laureando in Lettere, indirizzo moderno, presso l'Università degli Studi di Bologna. Attualmente collabora con il gruppo Cesd, preparazione scolastica ed universitaria.

Pierangelo Raffini

venerdì 8 aprile 2011

Cambiare la propria vita è il potere più grande

Il potere più grande che possediamo è quello di essere in grado di cambiare la nostra vita, di concretizzare le proprie sensazioni, in modo che le cose operino a nostro beneficio. Il vero potere che possiamo esprimere non è imposto, ma condiviso e consiste nel governare i propri processi mentali.
Per avere il potere di cambiare occorre agire. L'azione è ciò che produce i risultati. Decidersi all'azione è la dote massima che si può possedere per riuscire. Oltre all'azione, il potere sta nella comunicazione. Oggi più che mai. Qualità e attenzione nella comunicazione sono fondamentali. E' importante impegnarsi perchè sia sempre attentamente studiata. Essere in grado di trasmettere una visione, un'aspirazione, una gioia, una missione.

Agire significa molte cose, significa interpretare in modo positivo quel che ci accade, sviluppando quella flessibilità che ci metta in grado di cambiare il nostro comportamento, le nostre abitudini.
Bisogna avere passione. Darsi uno scopo, una motivazione trainante, esaltante, al limite dell'ossessione che sia uno stimolo alla continua crescita, al dare di più, al perfezionarsi.
Credere. Avere fede. Darsi una strategia, sapersi organizzare, pianificarsi e affrontare tutti gli step uno dopo l'altro. Qualsiasi obiettivo può essere visto come un elefante. Va sezionato a fettine. Coltivare la propria energia. Sviluppare l'empatia che ha il potere di legare i rapporti con chi ti sta accanto, con le persone con cui lavori. 

Nella nostra vita si ottengono risultati. Sta in noi gettare i "semi" mentali e fisologici, orientando consciamente la nostra mente e i nostri stati d'animo. Giorno dopo giorno. Senza mollare. Mai.
Quando sembra che non si ottengano risultati , non bisogna scegliere un atteggiamento di rassegnazione. E' il momento di rivedere e riflettere su ciò che pare non funzionare, trovando altre vie, altre modalità.  Scegliere la felicità o l'infelicità sta in noi. E' la convinzione a fare la differenza e a portarti all'eccellenza.
Tutto ciò che succede ha una ragione e uno scopo. Non dobbiamo mai dimenticarcene. Serviamoci invece di questi segnali per cambiare. Continuiamo a sperimentare nuove strade. L'esperienza è il nostro vantaggio competitivo, l'affiniamo, diventa quel qualcosa in più che ci permette di trovare la nostra strada. Non esiste il fallimento: gli esseri umani hanno imparato solo sbagliando. Esistono risultati che possono non soddisfarci o essere quelli desiderati. Allora si cambia. Si cambiano le azioni e si ottengono nuovi risultati. La storia è maestra di vita in questo. Grandi uomini e imprese sono il risultato, tante volte, di fallimenti, di errori, di azioni che non hanno portato al giusto risultato.

martedì 5 aprile 2011

L' economia in difesa dell' uomo

La lezione di Einaudi: sviluppo dei corpi intermedi e pari opportunità Metodo Ottimismo e valorizzazione delle risorse erano le sue strategie di promozione.

L uigi Einaudi, l' economista, lo storico, il giornalista, il banchiere centrale, lo statista, fu soprattutto un uomo concreto, nelle diagnosi e nelle proposte. La conoscenza e il gusto del particolare ricorrenti nei suoi scritti - il prezzo delle singole derrate, i modi alternativi di coltivazione, le clausole dei contratti di lavoro, i capitoli del bilancio dello Stato - sono manifestazioni di questa concretezza. Fecero anche la sua fortuna di scrittore. Tanto che abbiamo dedicato una delle relazioni di questo convegno alla lingua di Einaudi, alla sua retorica, che ne segnò il rapporto con l' opinione pubblica. Da quando, giovanissimo, seguì come cronista le lotte degli operai lanieri biellesi per la riduzione dell' orario di lavoro a quando, come presidente della Repubblica, si occupò di liberalizzazione degli scambi, di lavoro minorile, di vincoli all' emigrazione interna, di difesa del suolo dopo l' alluvione nel Polesine del 1951, egli non cessò mai di ragionare, con gli strumenti della sua disciplina e con i fatti alla mano, sui problemi e sulle risorse, soprattutto umane, dell' Italia. La discussione dei problemi del Paese è sistematicamente intrecciata, nei suoi scritti, con la valorizzazione delle risorse, così che in nessun luogo lo vediamo preda del pessimismo. In una delle sue prime monografie, Un principe mercante. Studio sulla espansione coloniale italiana, racconta con ammirazione le traversie di Enrico Dell' Acqua, un imprenditore di Busto Arsizio che, vincendo mille difficoltà, riesce ad affermarsi come esportatore su grande scala di tessuti italiani in America Latina, e poi come produttore. «Accanto ai grossi libri che fanno la diagnosi dei mali del nostro Paese - osserva Einaudi nell' Introduzione - è bene che sia scritto anche un piccolo libro improntato all' ottimismo e alla speranza». Era l' anno 1900, e il lavoro italiano all' estero era ancora in gran parte lavoro bruto di sterratori, di poveri coloni. Einaudi vide la possibilità, che poi ampiamente si sarebbe realizzata, di trasformazione e riqualificazione dell' emigrazione italiana: per virtù dell' ingegno, del lavoro, dell' istruzione. Quando, circa sessanta anni dopo, quel libro si ristampò per iniziativa di una grande impresa italiana attiva in Argentina, Einaudi scrisse nell' Introduzione: «Non sono più gli emigranti scalzi ed incolti, i quali sbarcano in America in cerca di lavoro (...). Ora è un gruppo di tecnici, periti nelle industrie e nella economia, che in patria hanno fatto le loro prove, che offre ai Paesi dell' America Latina il frutto della esperienza e delle relazioni di affari, di commercio e di intrapresa che essi possedevano già in Italia». Fra le risorse dell' Italia, Einaudi annoverava la laboriosità, lo spirito di iniziativa, l' emulazione, sia negli imprenditori sia negli operai. Delle leghe operaie apprezzava la capacità di difendere i diritti, di essere luogo di identificazione sociale, dove trovavano espressione l' orgoglio per il mestiere e la volontà di miglioramento. Ma Einaudi diventava subito sospettoso nei confronti delle leghe, operaie e imprenditoriali, se difendevano privilegi, vantaggi esclusivi, favori di Stato. Per Einaudi la concorrenza - fra persone, idee, operatori di mercato, classi sociali - genera progresso. Fu anche però consapevole che questa forza, lasciata sola, rischia di degenerare in oligopolio, oppure di strappare il tessuto della società. Non fu un seguace del darwinismo sociale. Apprezzò e valorizzò le istituzioni, i corpi intermedi fra l' individuo e lo Stato. Si è detto delle leghe operaie. Altrettanto può dirsi della banca cooperativa, della mutua, della società culturale o politica, che egli vedeva capaci di proteggere la persona nei momenti di crisi, ma anche di collocarla in una realtà in qualche misura dominabile. Sono, nella sua visione, antidoti ai mali insiti nella società di massa; palestre dove ci si educa all' organizzazione e alla direzione. Il governo dei corpi intermedi è per Einaudi la miglior scuola per la formazione della classe dirigente nazionale. Certo, egli avrebbe preferito che la funzione di protezione sociale fosse svolta da istituzioni spontanee o tradizionali - la famiglia allargata, l' orto dietro la casa, la mutua operaia - ma di fronte all' avanzare della società di massa accettò in parte il concetto di Stato sociale ispirato nel Regno Unito da William Beveridge negli anni della Seconda guerra mondiale. In mancanza del buon mondo antico, la pensione di vecchiaia erogata dallo Stato diveniva una necessità, un fattore indispensabile di inclusione e di dignità. L' antipatia di Einaudi per le grandi organizzazioni economiche, per le grandi città, per gli «alveari umani», considerati tutti fattori di disumanizzazione o di alienazione, va oggi riletta quale esempio dell' importanza che nella sua visione avevano i temi della qualità della vita e dell' ambiente. Durante e dopo la guerra, Einaudi propugnò un obiettivo nuovo, non tradizionale: l' uguaglianza dei punti di partenza, il «principio del minimo che è punto di partenza e non di arrivo». Questa idea, che lo distaccò da molti altri economisti liberali come Friedrich von Hayek, pone in discussione l' intoccabilità della distribuzione iniziale di beni. Gli economisti restringano la loro analisi tecnica a quel che avviene nel mercato data una certa distribuzione iniziale, dice Einaudi, ma è pieno diritto del corpo politico alterare la distribuzione iniziale affinché l' affermazione delle migliori energie di intelletto e di organizzazione non rimanga soltanto una possibilità teorica, ma diventi reale e concreta. L' opera di Einaudi governatore della Banca d' Italia discende logicamente anche da queste posizioni. Al governatore nominato durante la guerra toccò creare le condizioni economiche dello sviluppo nella pace. Con Donato Menichella, fu protagonista della stabilizzazione monetaria del 1947, emblematica dell' avversione al disordine, agli squilibri, che caratterizzò sempre l' Einaudi studioso e l' Einaudi uomo d' azione. La moneta, nella sua visione, è una di quelle istituzioni preziose che possono però divenire perniciose se usate a vantaggio di gruppi organizzati. Ai disordini monetari del primo dopoguerra aveva attribuito gran parte della responsabilità dei disordini sociali e politici nei quali maturò l' affermazione del fascismo. È la stabilità monetaria - ci insegna Einaudi - il contesto in cui possono ottenersi insieme la libertà economica e la coesione sociale. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Il volume Pubblichiamo la prefazione di Mario Draghi al volume Luigi Einaudi: libertà economica e coesione sociale (Laterza, pp. 224, 18), curato da Alfredo Gigliobian- co. Il libro, in uscita dopo- domani, raccoglie gli atti di un convegno del 2008 con i contributi di Alberto Baffigi, Piero Bini, Pierluigi Ciocca, Domenico da Empoli, Valeria Della Valle, Riccardo Faucci, Francesco Forte, Pier Luigi Porta, Alessandro Roncaglia.

Mario Draghi

domenica 3 aprile 2011

Il potere della comunicazione

Oggi il potere consiste nella capacità di comunicare e di persuadere. Si possono avere idee o prodotti eccezzionali, ma se si è privi del potere di persuadere, è come se non si avesse nulla.
Comunicare ciò che si ha da offrire costituisce la sostanza della nostra esistenza, a tutti i livelli e in qualsiasi conidzione vi troviate. Questa è la massima capacità di cui ci si possa dotare e che ci servirà sempre nella vita.
Molti non prendono in giusta considerazione questo aspetto e si disperano o danno la responsabilità dei propri insuccessi o delle proprie delusioni, ad altri.