Nel mio ruolo di Coordinatore del Centro Studi "Luigi Einaudi" ho ritenuto importante celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia con un libretto che potesse rimanere a testimonianza di questa importante celebrazione.
Introduzione dell'Autore: Dott. Alessio Guidotti*
Questo mio breve lavoro altro non vuol essere che un piccolo omaggio, non retorico riconoscimento ad una città, Imola, ed alla sua provincia la quale ha attivamente partecipato al Risorgimento Italiano, pagando un alto tributo non solo in mezzi ma soprattutto in uomini. Questo vuol essere un sintetico, ma spero esaustivo viaggio che ci porterà dal tentativo di Restaurazione effettuato dalle grandi potenze nel 1815 sino al compimento dell’Unità nazionale nel marzo 1861.
Non è un caso che proprio in questi giorni, ma in realtà già da alcuni mesi, hanno preso il via, senza non poche polemiche, le celebrazioni per il 150° anniversario della suddetta Unità d’Italia. Celebrazioni troppo spesso caricate ed esasperate da contrasti a mio parere non del tutto ingiustificati, ma che hanno prestato il fianco ad un facile processo di strumentalizzazione politica. E’ vero infatti che il processo Risorgimentale italiano non ha certo visto la piena partecipazione popolare, anche se non sono totalmente d’accordo quando leggo o sento parlare di un processo unitario unidirezionale, imposto dall’alto e gestito esclusivamente da una ristretta minoranza. D’altronde, a differenza dei primi moti carbonari esplosi nel 1820-21 e nel 1830-31, che
avevano visto una scarsa partecipazione popolare e principalmente a tale fattore, ma certamente non solo ad esso, va attribuito il loro totale fallimento, nel 1848 e nelle successive guerre per l’Indipendenza nazionale e soprattutto nel corso dell’ "impresa"dei mille non credo si possa parlare apertamente di generale passività ed attendismo delle masse popolari. E’ comprovato il fatto che moltissimi volontari, seppur per svariati motivi, si unirono al generale Garibaldi nella sua trionfale cavalcata che lo avrebbe portato in brevissimo tempo a "liberare" il sud del paese dal dominio borbonico per consegnarlo nelle mani del futuro primo re d’Italia Vittorio Emanuele II. Lo stesso Cavour, autentico regista del processo di unificazione ed inizialmente contrario alla spedizione, mutò atteggiamento favorendo decisamente l’invio di uomini ed armi dopo le prime esaltanti vittorie delle camicie rosse garibaldine. Naturalmente il suo scopo era di controllare gli avvenimenti nel timore di un eccessivo rafforzamento della corrente democratica, che avrebbe gravemente ostacolato il progetto di un’Italia unita sotto la monarchia sabauda, visto che non pochi democratici erano poi accorsi in massa ad aiutare il generale nizzardo nella sua impresa, convinti di poter riuscire a proclamare un governo repubblicano nei territori meridionali. Altrettanto comprovata fu però la delusione provata da tanti contadini siciliani quando i liberatori si schierarono a difesa dei vecchi rapporti di proprietà e introdussero la coscrizione obbligatoria, non prevista dal precedente governo borbonico. Il malcontento non di rado sfociò in aperta ribellione e lo stesso Nino Bixio, uno dei fedelissimi di Garibaldi, intervenne duramente a Bronte, cittadina ai piedi dell’Etna, ordinando numerose fucilazioni per tutti coloro che vennero troppo semplicisticamente etichettati come pericolosi briganti solo per il fatto di aver reclamato una migliore condizione di vita. Altro esempio con due opposti risvolti è quello dei plebisciti: su proposta dello stesso Cavour, nei territori insorti e liberati si tennero plebisciti a suffragio universale maschile (evento inedito per quell’epoca in Italia dove vigeva un suffragio ristrettissimo) affinchè gli siti ne ricevessero maggiore legittimità (avevano diritto al voto gli uomini che avevano compiuto i 21 anni). In realtà, la popolazione si trovò davanti ad una non scelta: difatti si votava per essere annessi al nuovo regno d’Italia o per rimanere in una sorta di stato non ben definito. Inoltre il timore di un forte astensionismo specialmente tra i contadini era alto e i governi provvisori dovettero utilizzare ogni mezzo per scongiurare un fallimento. I due esempi appena riportati risultano di notevole utilità per rimarcare ancora una volta quanto la storia del Risorgimento italiano (ma, potremmo sostenere, un po’ tutta la storia dell’Italia almeno dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente) è stata costellata da intense divisioni. Era oggettivamente difficile poter arrivare a mettere tutti d’accordo in un paese che del particolarismo regionale e provinciale aveva fatto la sua caratteristica principale, diventando proprio a causa della sua mancata unità e compattezza per secoli e secoli terra di conquista e campo di battaglia per i già consolidati stati nazionali europei (basti pensare allo scontro tra l’impero spagnolo di Carlo V e i francesi di Francesco I che vide proprio, per tutta la prima metà del XVI secolo, come teatro delle battaglie e oggetto della contesa il plurifrazionato e fragile territorio italiano).
Soffermiamoci allora un attimo sulla parola Risorgimento e analizziamone poi le differenti anime presenti al suo interno. Con tale termine si è soliti denominare il periodo di storia italiana nel quale si crearono le condizioni per l’affermazione di un movimento teso a realizzare uno stato indipendente ed unitario. Il termine si diffuse rapidamente negli anni dell’unificazione nazionale proprio per significare l’auspicata necessità che la nazione italiana "risorgesse" dalla cosiddetta decadenza. Decadenza dovuta soprattutto alla sua divisione in tanti territori e all’influenza esercitata da potenze straniere su di essa. Ciò che doveva rinascere (o forse nascere?) era anche un autentico sentimento di Patria e Nazione, fratellanza e libertà che alcuni sfortunati pensatori e rivoluzionari, in primis Giuseppe Mazzini, avevano cercato di far sorgere ed inculcare nelle masse. Erano proprio gli stessi ideali propugnati e diffusi dai philosophes illuministi e che avevano ispirato la grande Rivoluzione esplosa in Francia, destinata ad abbattere quell’ ancien regime che poggiava le sue basi sullo sfruttamento e su una serie di scandalosi privilegi a favore dei ceti aristocratici e dell’alto clero tenendo per troppo tempo soggiogata la popolazione. Possiamo allora sicuramente sostenere che l’iniziativa fu presa da una ristretta minoranza, ma ciò non toglie che nel corso degli eventi la partecipazione delle masse crebbe costantemente. Tuttavia, come accennavo in precedenza, neanche questa minoranza era compatta al proprio interno e ciò fu un altro fattore di non secondaria importanza che contribuì decisamente al fallimento dei primi moti del 1820 e del 1830-31. Difatti essa era frazionata in varie anime che possiamo però con qualche piccola semplificazione ridurre prevalentemente a due: liberali (o moderati) e democratici.
Il liberale credeva che uno stato si dovesse fondare su una costituzione che funga da regola suprema della vita politica e civile. La costituzione ha il ruolo fondamentale di limitare l’esercizio del potere e di garantire la libertà individuale, in particolare quella di opinione. I liberali si riconoscevano nell’istituto monarchico e ritenevano il voto non un diritto naturale, ma una funzione riservata a cittadini particolarmente affidabili (i notabili) per equilibrio, competenze e ricchezza; auspicavano l’articolazione del parlamento in una camera bassa e in una camera alta e sul piano economico avevano una fiducia incondizionata nella funzione auto regolatrice del mercato. Diversa era la figura del democratico, che aveva compreso che nella lotta delle forze
borghesi contro il ritorno del vecchio regime, l’appoggio delle classi popolari diveniva sempre più importante. Del liberalismo il democratico condivide la difesa dei diritti dell’individuo, per estenderli e potenziarli verso una totale eguaglianza. Si battevano per introdurre il suffragio universale e al concetto di sovranità nazionale, tanto caro al liberale, sostituivano quello di sovranità popolare. L’obiettivo era almeno la gestione pubblica della scolarità, sottratta agli enti religiosi e la richiesta di maggiore giustizia in ambito sociale e fiscale.
Il "conto da pagare" per un processo di unificazione nazionale come era stato quello italiano, potremmo dire che si presentò proprio nell’immediato periodo post-unitario. Il 17 marzo 1861 la prima assemblea nazionale, eletta su base censitaria, proclamò Vittorio Emanuele II re d’Italia "per grazia di Dio e volontà della nazione". L’unificazione dell’Italia era in gran parte conclusa (mancavano ancora il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, parte del Lazio e il Veneto): in pochi anni aveva trionfato, grazie all’intreccio di vari fattori la strategia piemontese mentre i democratici, pur avendo dato un contributo determinante, erano di fatto sconfitti dai moderati. Il nuovo Stato unitario nasceva come semplice espansione del regno sabaudo; una continuità espressa anche dal fatto che il sovrano conservava il titolo di Vittorio Emanuele II. Al momento dell’unificazione l’Italia era un paese ancora molto arretrato e profondamente diviso. I tempi dell’unificazione erano stati veloci e non avevano permesso di affrontare alcuna delle ragioni di un’arretratezza che diveniva sempre più allarmante a mano a mano che si procedeva da Nord a Sud. Il settore agricolo assorbiva ancora il 70% della forza lavoro e solo il 18% della manodopera era occupata nel settore industriale. Mentre in alcune regioni settentrionali erano diffuse aziende agricole gestite con metodi di produzione capitalistici ed impiego di manodopera salariata, nelle regioni meridionali persisteva la piaga del latifondo e in quelle centrali dominavano i rapporti di mezzadria. Su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti, il tasso medio di analfabetismo era del 78%, ma con evidenti dislivelli: nel meridione e nelle isole raggiungeva punte del 90% mentre era del 54% in Lombardia, Piemonte e Liguria. Solo una piccola minoranza parlava la lingua italiana correntemente, mentre nel resto della penisola lo strumento principe per la comunicazione rimaneva il dialetto e lo rimarrà ancora per un lungo periodo.
"Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani". La frase di Massimo d’Azeglio riassume felicemente il nostro problema: l’unificazione politica del paese, che nei decenni precedenti era stato l’ideale di alcune minoranze di patrioti di vario orientamento, si realizzò nel 1861 nel precipitare di una serie fortunata di eventi politico-militari più che per il concorso di robuste forze culturali, sociali ed economiche convergenti. Lo Stato unitario era stato dichiarato, ma un’Italia unita ancora non esisteva. Ai governanti del nuovo regno toccò dunque un compito per certi versi immane: quello di dare fondamenta solide al nuovo Stato Nazionale, che conformemente ai loro orientamenti doveva essere uno Stato liberale. Si trattava dunque di sviluppare la nuova intelaiatura dello Stato amministrativo, un’identità ed una cultura comuni ed infine, non certo per ordine di importanza, di dare al neonato paese una collocazione internazionale. In questo senso, la frase attribuita a d’Azeglio sintetizza egregiamente il grave compito che spettava alle classi dirigenti di quel periodo. Tale frase in questi ultimi anni è sempre più menzionata da vari storici, che si sono via via convinti che gli stati nazionali dell’Ottocento non costituivano tanto l’affermazione di identità nazionali che reclamavano il proprio riconoscimento, quanto una costruzione politica e culturale, strumento allora necessario per lo sviluppo di società moderne (il caso dell’unificazione tedesca presenta molte analogie con quello italiano). Cosa che, ribadisco ancora con forza, mi appare tanto più vera per l’Italia del 1860, che probabilmente in maniera ancor maggiore rispetto ad altri paesi europei del tempo, mancava di un vero passato storico, di un’identità, di ordinamenti civili ed economici unitari. L’unificazione era stata raggiunta, anche se voluta fortemente da alcune minoranze, in maniera fortunosa grazie al compromesso tra manovre diplomatiche, spinte dinastiche ed insorgenza patriottica. Adesso però oltre che unitaria, l’Italia doveva essere liberale e borghese, inserita nel sistema internazionale di mercato allora vigente, basato sulla concorrenza e sulla specializzazione produttiva, ma anche ispirata a un insieme di valori propri dell’epoca, laici e moderati, fiduciosi nei diritti dei singoli, nel mantenimento di una gerarchia sociale stabile e nel progresso. Sul fatto che questi obiettivi siano stati realizzati e se si, con quali limiti e quali caratteristiche i pareri tra gli storici sono assai discordanti. Non potendo in tale contesto approfondire anche questa tematica, ci concentreremo inizialmente sul quadro cronologico che fa appunto da cornice e sfondo ai singoli eventi che più ci interessano e che ovviamente tratteremo in seguito maniera più articolata ed approfondita nei singoli capitoli.
* Alessio Guidotti, docente di storia e filosofia, laureato in Storia (inidirizzo contemporaneo) presso l'Università degli Studi di Bologna. Ha conseguito due abilitazioni all'insegnamento secondario di secondo grado. Tra le sue specializzazioni si possono indicare il titolo di Master in beni culturali ecclesiastici, indirizzo archivistico-bibliotecario, presso l'Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna (dove ha inoltre ottenuto una borsa di studio per i risultati conseguiti), e il Diploma di perfezionamento in La ricerca storica: strumenti e metodi, presso il consorzio interuniversitario For.Com.
Laureando in Lettere, indirizzo moderno, presso l'Università degli Studi di Bologna. Attualmente collabora con il gruppo Cesd, preparazione scolastica ed universitaria.
Pierangelo Raffini