Tesoriere avido e inetto prima ancora che traditore
Il primo a raffigurare Giuda all’ultima cena che, isolato dagli altri apostoli, si gira a guardarci negli occhi mentre lo stiamo guardando nell’affresco sul muro del refettorio delle Terziarie francescane nel Convento di San Onofrio delle Contesse a Firenze, è stato il Perugino, intorno al 1495. Da quel momento in poi l’immagine di Giuda che si volta e fissa negli occhi lo spettatore tornerà nell’affresco della Cena di Giovan Antonio Bazzi, detto il Sodoma; in quello di San Bartolomeo a Monte Oliveto; in pittori di fine Cinquecento come Bernardino Poccetti in Santo Spirito a Firenze e della Controriforma come Daniele Crespi, che dipinse nella Milano di Carlo Borromeo; e anche in un dipinto di Pieter Paul Rubens. Perché così tanti artisti hanno presentato Giuda come specchio ammonitore di chi lo sta osservando? Probabilmente per catturare meglio l’attenzione sul tradimento di Gesù che è l’elemento centrale di ogni raffigurazione dell’ultima cena. Centrale perché il suo tradimento è avvolto ancora oggi dal mistero. Così non deve stupire che lo stesso Benedetto XVI, grande studioso della vita di Gesù, il 18 ottobre del 2006 proprio a Giuda abbia dedicato le sue riflessioni, nell’udienza generale in San Pietro. — già qualche tempo fa, in Indagine su Giuda. Vita e morte dell’uomo che cambiò il corso della storia (Castelvecchi), Massimo Centini ha ben messo in risalto quanto questa figura di «traditore» abbia da sempre attratto pensatori e filosofi, anche fuori della cosiddetta cerchia degli specialisti. A partire da quel vero e proprio documento della cultura gnostica che fu il Vangelo di Giuda.
Ha scritto, in merito, James Hillman: «Nella storia di Gesù siamo colpiti immediatamente dal motivo del tradimento; lo schema ternario (il tradimento di Giuda, dei discepoli dormienti, di Pietro) che si ripete nel triplice rinnegamento dello stesso apostolo, ci parla di qualcosa di fatale, ci dice che il tradimento è essenziale alla storia di Gesù e che perciò il tradimento è nel cuore del mistero cristiano» . Tant’è che gli gnostici parlavano di un «mistero del tradimento» . Pregevoli sono le pagine sul confronto tra il tradimento di Giuda e quello di Pietro nel libro del grande medievista Friedrich Ohly, Il dannato e l’eletto. Vivere con la colpa (Il Mulino). Indispensabile per chi voglia approfondire la questione è poi la lettura del celeberrimo «Le tre versioni di Giuda» contenuto in Finzioni di Jorge Luis Borges (Einaudi, traduzione di Franco Lucentini). Borges trae spunto dalle tesi del teologo svedese Nils Runeberg che nel 1904 aveva scritto Kristus och Judas, un libro in cui sosteneva essere Giuda lo specchio di Cristo. Che bisogno c’era di tradire Cristo? Davvero per coloro che dovevano trarlo in arresto era un problema «riconoscerlo» ? Era proprio necessario che tra gli apostoli dovesse esserci un delatore? No. Secondo Runeberg, Giuda era stato l’unico tra i discepoli a intuire la tremenda missione di Gesù e aveva fatto in modo da renderla possibile. Discorso ripreso dal teologo canadese William Klassen, che in Giuda, traditore o amico di Gesù? (Bompiani) definisce il nostro personaggio come «l’uomo più ingiustamente diffamato dalla storia» . Sostiene Klassen che tra gli apostoli Giuda era quello su cui Gesù poteva contare maggiormente in quella circostanza decisiva: «Ricordiamo che senza la morte di Gesù non ci sarebbe stata la resurrezione e senza la resurrezione forse non ci sarebbe stato il Cristianesimo» . Secondo Klassen nei Vangeli non viene mai detto che Giuda ha «tradito» Gesù, ma solo che lo ha «consegnato» .
Se Giuda avesse saputo che Gesù sarebbe finito nelle mani di Pilato, forse non avrebbe accettato di consegnarlo. Quantomeno non in quel modo. Per quel che riguarda poi i trenta denari, «chiunque fornisse informazioni ai sacerdoti del Tempio veniva pagato, era la regola» . «Inoltre, se Giuda avesse voluto davvero tradire Gesù e farlo finire in croce, avrebbe chiesto un compenso ben più alto di trenta denari» . Una notazione interessante. Il medievista Giacomo Todeschini — già autore de I mercanti e il tempio, di Ricchezza francescana e di Visibilmente crudeli, tutti e tre pubblicati dal Mulino — nel libro Come Giuda. La gente comune e i giochi dell’economia all’inizio dell’epoca moderna (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino) sostiene la tesi che elemento centrale di quella vicenda sia proprio il prezzo (incredibilmente basso) per il quale l’apostolo traditore consegnò Cristo a coloro che lo avrebbero crocefisso. Ed effettivamente trenta denari sono pochi, molto pochi, come taglia per una figura di quel rilievo politico, oltreché religioso, e per un tradimento di quella portata. Ad ogni evidenza Giuda, che pure tra gli apostoli svolgeva funzioni di economo, non fece bene il proprio interesse di traditore. E come scrisse nel 1759 Adam Smith, la mancanza di attenzione per il proprio interesse è all’origine di un disprezzo sociale «ben meritato» . Nascosto nelle pieghe della storia di Giuda c’è dunque — oltre ai temi etici di cui abbiamo detto e che per secoli sono stati ampiamente dibattuti — qualcosa che attiene all’economia. Qualcosa su cui è utile soffermarci. Quella somma di denaro che i sacerdoti del Tempio avevano pagato a Giuda, in se stessa alquanto modesta, appare come un modello di inadeguatezza economica, un esempio dei paradossi a cui poteva condurre il primitivismo della scelta compiuta. Era infatti la scelta economica di Giuda, scrive Todeschini, «a creare, prima ancora che il suo tradimento, un dilemma per coloro che, sin dai primordi dell’era cristiana elaboravano la sua immagine oppure la ricevevano per il veicolo di discorsi, prediche, figure visibili sulla pergamena, sulla carta, sui muri delle chiese...
Perché un apostolo, un eletto dunque, non a caso rappresentato prima del suo tradimento nei panni di un signore rispettabile e potente, aveva potuto decidere di tradire e cioè consegnare chi era all’origine della sua stessa fortuna in cambio di una somma insignificante?» . Basilio di Cesarea e Ambrogio di Milano, seguiti in ciò da molti autori cristiani del V e del VI secolo, attribuirono questo «abbaglio valutativo» a un’ispirazione del demonio. Ma come aveva potuto il diavolo impadronirsi di uno dei dodici apostoli? Ci era riuscito perché Giuda era un corrotto, un disonesto già prima di consegnare il suo signore in cambio di quei trenta sicli che bastavano appena a comprare un piccolo campo di terra. Che fosse un poco di buono lo si desume dal Vangelo di Giovanni, l’unico dei quattro ad approfondire la sua storia. Giuda Iscariota, l’uomo di Kariot, il «sicario» , o colui che era venuto da «fuori la Giudea» oppure «l’uomo che porta le borse» , quello «che già gli interpreti medievali considerano segnato come estraneo e come economicamente competente già dal suo nome, compare fugacemente» , osserva Todeschini, «nei Vangeli sinottici e poi negli Atti degli Apostoli; la sua presenza è discontinua e anzi nei tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca la sua figura appare abbastanza definita soltanto nel momento della vendita e della consegna, ossia del tradimento di Cristo» .
Invece nel Vangelo di Giovanni — che, va detto, è il più ostile agli ebrei — Giuda appare con una sua specifica storia. La storia di una ben definita coerenza criminale. La sua «improvvida decisione di vendere il tutto a poco era connessa e da tempo, dicono poi sulla scorta di Giovanni i padri della Chiesa, all’indole di deviante economico: di amministratore disonesto dei beni di Cristo e della comunità apostolica» . Ma da cosa si desume che Giuda sia un disonesto, un falso apostolo, un impostore? Dalla storia di Maria Maddalena, la peccatrice che lava i piedi di Cristo, li asciuga con i suoi capelli e poi spalma sul corpo di Gesù un unguento prezioso. Secondo i Vangeli di Matteo e Marco, un imprecisato apostolo disapprova lo sperpero di quel liquido di grande valore, vendendo il quale si sarebbe potuto ottenere una grande quantità di denaro da dare in elemosina. Nel Vangelo di Luca è invece il fariseo Simone che definisce «fuori luogo» quell’unzione, non per lo spreco di una ricchezza, bensì per l’inopportunità di un gesto come quello di Maria Maddalena, che tocca con le sue mani impure il corpo di Cristo. Finché Giovanni sostiene che è Giuda a protestare: sarebbe meglio, dice il futuro traditore, convertire quell’unguento pregiato in monete da distribuire ai poveri, i quali ne hanno più bisogno. Più di Cristo, che, per definizione, non ha bisogno di nulla. Nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca— nota l’autore del libro— Cristo approva l’omaggio della Maddalena e redarguisce gli apostoli troppo oculati, oppure il fariseo che non comprende il valore del pentimento e delle lacrime della peccatrice; nel Vangelo di Giovanni, invece, il rimprovero di Cristo è indirizzato solo contro l’apostolo Giuda. È a questo punto che l’evangelista osserva che «l’apparente attenzione di Giuda per i poveri e per un impiego economico e avveduto della ricchezza non dipende da una sua reale attenzione per i bisogni dei poveri, e cioè da una sua particolare competenza economica, ma dal fatto che, essendo avaro e ladro dei beni che gli apostoli gli hanno affidato in custodia, rimpiange il guadagno mancato» .
Giuda, dunque, tradisce perché il suo ruolo di amministratore delle sostanze apostoliche lo ha reso disonesto, ma anche perché, in conseguenza della sua propensione ai facili guadagni, mira a realizzarne sempre di più, ogni qual volta gli sia possibile. Il fraintendimento e la disapprovazione dell’unzione della Maddalena fa il paio con la svendita di Cristo per trenta denari: discendono entrambi dalla incomprensione di un valore e da un errato conferimento (o non conferimento) di fiducia. Giovanni colloca Giuda e la Maddalena agli antipodi. E, mentre secondo Matteo, Marco e Luca, la «perfidia» è in certo modo innescata dall’avidità di Giuda, secondo Giovanni questa «perfidia» precede la rozzezza di Giuda e in un certo senso la determina. Matteo è invece quello che più si sofferma sul successivo pentimento di Giuda, rimorso che lo spinge ad impiccarsi. Osserva Todeschini che la drammatica fine di Giuda conteneva implicazioni che solo il futuro avrebbe rivelato. A ben guardare, scrive, «questo epilogo portava di nuovo sulla scena, accanto a Giuda, i sacerdoti ebrei: a loro infatti veniva restituito il prezzo della colpa e, mentre Giuda moriva impiccato, sarebbero stati loro, secondo Matteo, a comprare con quel denaro impuro e dunque non restituibile al Tempio, un pezzo di terra da adibirsi a luogo di sepoltura dei peregrini, ossia degli stranieri» . Terreno che, negli Atti degli Apostoli, diverrà il luogo stesso in cui Giuda si darà la morte. La tradizione medievale riprenderà poi il collegamento tra un pagamento illecito, abominevole, impuro e una terra separata dalle altre, adatta alla morte vergognosa o alla sepoltura di chi è senza patria. Preciserà all’inizio del Duecento Guglielmo di Auxerre che la svendita di Gesù per trenta sicli d’argento compenserà la svendita della purezza di Adamo in cambio di una mela dell’albero nell’Eden. Poi Cipriano di Cartagine, Giovanni Crisostomo e Agostino faranno di Giuda il capostipite di quanti sembravano opporsi tra il II e il IV secolo all’unità della Chiesa come quella riassunta dalla formulazione del credo di Nicea: vale a dire gli eretici. Lo si descrive come un infiltrato nella comunità apostolica. Lo si associa a Simon Mago, che voleva acquistare il potere taumaturgico degli apostoli («Tutti e due» , mette a fuoco Todeschini, «vivono il miracolo della rivelazione del verbo in termini di appropriazione individuale mediata da un pagamento in denaro: in entrambi i casi il denaro sembra loro il mezzo attraverso il quale un Valore sacro può essere scambiato così da produrre un utile personale; e una fine maledetta punisce tutti e due gli autori di così improvvide transazioni» ). Giuda diventa dal IV secolo, in Occidente, la rappresentazione di un’umanità degradata a causa di insensate scelte economiche che appaiono lesive della sacra organizzazione assunta dalla società dei cristiani. Lui e tutti gli eretici sembrano aver smarrito il «sale» della grazia divina e ciò li rende incapaci di cimentarsi con il tema del valore. Di ogni valore.
Il peccaminoso commercio di Giuda, scrive l’autore di questo libro, «introduce un discorso sulla bruta incapacità di agire e produrre di chi non comprenda o rifiuti o abiuri le verità cristiane; questa incapacità, questa renitenza e questa resistenza si rivelano, per analogia con la storia di Giuda così come viene ricostruita dalla patristica, altrettante forme di una molto quotidiana e comunissima ottusità intellettiva, spesso rivelata da modi grossolanamente sbagliati di calcolare il valore e il prezzo delle cose e delle persone» . Ambrogio di Milano e Agostino d’Ippona insistono molto sull’incomprensione da parte di Giuda del gesto di Maddalena che sparge unguento su Gesù. Ambrogio anche sulla similitudine tra Cristo venduto da Giuda e Giuseppe venduto dai fratelli. Non si trattava, come potrebbe sembrare, di oziose disquisizioni, scrive Todeschini, ma dell’inizio di un ragionare, molto europeo, sulle equivalenze tra valori e anche sugli errori di valutazione che accomunavano, in epoche diverse, reprobi di differente specie come, da un lato, Giuda e i fratelli di Giuseppe e, dall’altro, i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme e i mercanti ismaeliti. «Ciò che accomunava Giuda ai fratelli di Giuseppe era indubbiamente una mancanza di fede-fiducia nel Valore superiore, che dunque svendevano; nello stesso tempo gli Ismaeliti e i sacerdoti del Tempio venivano collegati tra loro da definizioni che ne sottolineavano la bestialità: chi commerciava con loro evidentemente derivava la propria incompetenza valutativa da un’eccessiva vicinanza con la realtà ferina di coloro che volevano acquistare le sacre figure di Giuseppe e del Cristo per dissacrarle» . Stesso discorso vale per la natura bestiale e selvatica di Giuda, che gli impedisce di stabilire un valore giusto (stavolta per un eccesso opposto) dell’unguento di Maddalena. La frequenza con cui il testo patristico e poi altomedievale insiste sull’uso di metafore di fallimento commerciale sottolinea che la complicità di Giuda e degli ebrei è stata all’origine di una rovina, frutto in sostanza di una incapacità di ragionare e calcolare correttamente. Si comincia ad alludere «a tutti coloro che, per la propria naturale inconsapevolezza delle regole più profonde dello scambio, per la loro naturale stoltezza, finiranno per imbrogliarsi da soli, dunque per fallire e vergognosamente sparire» .
C’è una linea che congiunge Ambrogio, Origene, Agostino, Ilario di Poitiers, Agobardo di Lione, Pascasio — siamo giunti nel IX secolo — per la quale il «furto» di cui è accusato Giuda risulta essere un’azione non conclusa dall’atto di rubare, ma piuttosto un comportamento, indotto da una natura deviata, il cui più notevole effetto è quello di alterare la natura degli scambi basati sulla fiducia che si instaura in una comunità — nel nostro caso quella cristiana — sulla base dei valori a cui la comunità stessa fa riferimento. Dopodiché diverranno sempre più centrali la contrapposizione tra Giuda e Maddalena e la sovrapposizione di Giuda agli ebrei, in particolare all’epoca della loro espulsione dal regno di Francia (1182). Il banco dell’usuraio ebreo diventa il luogo metafisico della «morte» della ricchezza cristiana. Il tradimento viene descritto come derivante dal fraintendimento di valori economico-sociali. Nelle parole di Giordano da Pisa, di Bernardino da Siena o di Matteo di Agrigento come nelle pitture di Pietro Lorenzetti, del Ghirlandaio o del Perugino, Giuda è raffigurato come il vicino della porta accanto che ignora le regole dell’economia «civile» e del «bene comune» senza neanche rendersene conto. L’animale che gli sta vicino (un cane, talvolta un gatto che segnala una natura infida) la borsa che gli pende dal fianco o che lui stesso stringe nel pugno cercando di nasconderla, alludono alla sua falsità, alla sua natura ingannatrice e perfida. A fronte poi di un volgo esperto soltanto di un’economia del quotidiano e del bisogno, il «grande mercante» fa riferimento a Maddalena e — sulla scia della metafora di quel che a Giuda appare come uno spreco dell’unguento — sceglierà di «sprecare» (in realtà, di investire) una parte della sua ricchezza monetaria, specializzata, internazionale, derivata dall’appartenenza a un mondo di transazioni a rischio, in un’amministrazione dell’assistenza e della carità anch’essa complicata e difficile. «Sarà infatti la faticosa gestione degli ospedali, delle case di accoglienza, dei Monti di Pietà fondati a partire da un’elargizione al pubblico di quantità superflue di ricchezza privata, a dare concretezza all’investimento caritativo scaturito da un’economia oligarchica. Se la conduzione delle avventure economiche di questi ardimentosi finanzieri ricava senso e appare giustificata, come ripetono i teologi tra Tre e Quattrocento, a partire dai rischi che la rendono peculiare, l’amministrazione delle realtà assistenziali risulta estremamente rischiosa» . E Giuda, come si è detto all’inizio, comincia da quell’affresco del Perugino a guardare noi, che stiamo guardando i quadri in cui è raffigurato, come ad ammonirci che è lui la chiave del messaggio. Messaggio che contrappone — per quel che riguarda l’economia— il perseguimento dell’interesse immediato (o per meglio dire quello che appare come l’interesse immediato) alle scelte economiche sensate e lungimiranti basate sui valori e sulla fiducia. Fiducia che discende dal comune riconoscimento dei valori stessi. Che è poi ciò che caratterizza la modernizzazione economica europea nel periodo che va dalla mutazione — a cavallo di Quattro e Cinquecento — degli equilibri tra mercati, alla cosiddetta «nascita della scienza economica» nel XVII secolo. «La consapevolezza, lungamente appresa, di far parte del gregge incapace forse di comprendere ciò che propriamente significhi valore, peserà a lungo nel costruirsi, al di là dei mercati, del Mercato, sull’agire economico di chi, la massa, stava fuori dal cerchio magico dei competenti, degli ispirati, dei professionisti della ricchezza...
Soltanto l’affidarsi agli ispirati, ai sacerdoti preposti alla gestione della pubblica felicità, ai "filantropi della finanza", avrebbe potuto placare l’inquietudine di chi ormai sapeva di vivere nello spazio economico come "nella casa di un altro"e che solo affidandosi, ovverosia fidandosi, avrebbe potuto sfuggire al destino dei traditori del pubblico Bene, per accedere al "cielo della ricchezza"» . Giuda diventa così una figura fondamentale che ci guida sul terreno del rapporto tra credulità e mercato, tra scelta e fiducia. Per capire qualcosa di più a proposito del contrasto fra la prudenza quotidiana nel fare la spesa o nella gestione dei propri affari, e l’azzardo spericolato da cui può capitare di essere tentati. Giuda compie un gesto tragico perché non sa riconoscere il «vero» valore. Valore che si può ben individuare solo nel contesto di un insieme di valori morali, sottraendoci al quale rischiamo di perdere ogni orientamento e di finire in un precipizio come può essere considerato (ancora oggi) quello delle bolle speculative. Ha compiuto, l’Iscariota, un viaggio nei secoli assai più lungo e movimentato di quello degli altri apostoli. Per voltarsi a guardarci dall’affresco del Perugino in modo da metterci in guardia dai rischi che corriamo se cediamo alla tentazione di porci fuori da un sistema di valori. Quello cristiano, nel suo caso. Ma questo discorso può essere esteso anche ad altri sistemi di valori, purché siano ispirati da un’etica trascendente.
Paolo Mieli