martedì 30 settembre 2008

Musei del Gusto: "Un legame con il passato, una risorsa turistica per il futuro"

In un periodo in cui si parla molto del pericolo di perdere memoria della nostra storia, la Regione Emilia Romagna ha certamente contribuito a dare un segnale forte e importante per la salvaguardia del “ricordo” di un popolo. Durante il “Sana 2008” – il salone internazionale del naturale – tenutosi come ogni anno a Bologna a metà settembre , la Regione ha infatti presentato il network de “I musei del gusto” (http://www.museidelgusto.it/ ) , oltre ad un libro ad essi dedicato. In pratica si tratta di una rete di 19 musei, in cui troviamo dai “nostri” Museo del castagno, Museo all’aperto dell’Olio di Brisighella e Museo della Frutticoltura, fino al Museo del Parmigiano-Reggiano o del Salame Felino.
Trovo l’idea interessante perché offrono una duplice opportunità: una legata appunto alla nostra storia, l’altra alla possibilità di utilizzare tale iniziativa per fare “marketing enogastronomico a rete” a favore di tutto il territorio regionale e per questo, non a caso, molti musei propongono gli stessi itinerari delle Strade dei Vini e dei Sapori. I musei del gusto possono diventare uno strumento che coniuga quindi tradizione e innovazione, divenendo espressione di un’innovativa forma di turismo che intende conservare e scoprire la cultura di un territorio attraverso i suoi prodotti enogastronomici. Anche dal cibo si possono apprezzare le tradizioni, la storia e la cultura di un territorio, la civiltà della tavola contribuisce al mantenimento della memoria di un popolo. D’altronde troviamo un legame sempre più forte tra cibo e cultura perché il cibo è cultura e questo patrimonio ricco di contenuti deriva, mai dimenticarlo, dalla terra. Ecco quindi i musei assumere una funzione di cerniera tra passato e presente, ricordandoci come la nostra storia sia legata ad essa e all’esperienza contadina trasmettendoci, attraverso le emozioni di personaggi veri, le loro facce, le loro mani e quindi il loro lavoro, un giusto orgoglio di appartenenza e il valore di una vita fatta spesso di sacrifici, di rinunce, e anche di lotte, che hanno però permesso di consegnare a noi una terra invidiata da molti. Ci ricordano altresì che certi valori che oggi paiono desueti, sono invece fondamentali per il nostro futuro. I “musei del gusto” ci parlano di cose e di simboli, da come si coltiva un vigneto a come si fabbrica un formaggio, da come si fa l’olio a come si innesta un albero da frutto, ma anche dei valori di socialità che queste pratiche hanno sviluppato fra gli uomini.
Infine, ma non meno importante valorizzano il patrimonio regionale degli stessi prodotti a qualità certificata, costituiti da 26 DOP e IGP e oltre 200 prodotti censiti come “Tradizionali”, eccellenze importanti che contribuiscono a mantenere un’immagine della nostra regione come una terra del “bon vivre”.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 25 settembre 2008

sabato 27 settembre 2008

Saviano, lettera a Gomorra tra killer e omertà

di Roberto Saviano
I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così. Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle. E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"? Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?
Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage. Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte. Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano. Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. È l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia. Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar", uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer. L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non avere anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini. Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici. Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone. Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d'ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria. Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto. Ammazzano chiunque si opponga. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno. Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli. Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell'Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castel Volturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana. I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone. Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari. E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani - e fra questi nessuno viene dalla Nigeria - colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati. I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali. Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati. Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole. Come vi immaginate questa terra? Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare. Ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone. Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% per cento? Soldi veri che generano, secondo l'Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce. Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico? Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti. Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato. Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)? Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri. E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente. Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati? Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo. La Calabria ha il Pil più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ?ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita. Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina. "Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?", domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljo?a. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo? Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un'altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita. Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini. Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio. Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

venerdì 26 settembre 2008

"La mia vita in bilico nel casinò Wall Street"

Broker a New York: auto di lusso, un bell'appartamento. Si sentiva Signore dell'Universo. Dopo il crollo di Lehman Brothers aspetta rassegnato che anche il suo mondo finisca.
Vittorio Zucconi inviato di Repubblica.
NEW YORK - "Esco di casa quando voi dormite, come i ladri. Perché adesso questo sono diventato per voi, il malfattore, l'untore, io che fino a ieri ero l'incarnazione del nuovo secolo americano, questa sera potrei tornare a casa con la mia vita in una scatola, buttata alla rinfusa con i ritratti dei figli che non vedo mai, la foto della moglie che sta già parlando con l'avvocato divorzista, il cappelluccio dei New York Yankees, la coppetta vinta nel torneo aziendale di softball a Central Park, il blackberry muto e il rolodex di clienti che sei mesi fa mi chiamavano a casa di notte per offrirmi soldi e oggi non si fanno trovare. Oggi sono il predatore diventato preda e quella scatola sarà la mia bara di cartone".
"Esco alle quattro, quattro e mezzo nel New Jersey, dove eravamo venuti in tanti a cercare una casa e un giardino per crescere i figli piccolini lontani dalle trappole di lusso di Manhattan, sparpagliati nelle cittadine costruite lungo la ferrovia locale del New Jersey, la NJ Transit, paesi come Summit, Chatham, Madison, Morristown, fino a Dover, la stazione di testa, la terra dei cavalli e delle colline, e sembra di stare in Via col Vento, non a un'ora da New York. Ogni mattina lo stesso orizzonte e lo stesso incubo della bara di cartone alle cinque". "Un filo di alba che si alza sopra la skyline d'estate in fondo all'autostrada numero 78, buio da lazzaroni in inverno, con l'orecchio alla radio per sapere quale dei tunnel sotto lo Hudson che portano in città, il Lincoln, lo Holland, sia già intruppato da altri ladri come me dentro le loro Bmw, Audi, Rover, Porsche, Mercedes (mai Cadillac, quella è roba da giardinieri italo americani arricchiti) in leasing, che fanno la gara dei topi grassi per arrivare primi dentro le scatole di cristallo attorno a Times Square e Broadway.
Le strade dove siamo scappati dopo il massacro dell'11 settembre che bruciò vivi tanti di noi nelle Torri. Conoscevo tanti di loro e vivevano qui, lungo il percorso del treno e dell'autostrada, miei vicini, grigliata al sabato e birra alla domenica. Guidiamo veloci, sapendo che la polizia del New Jersey ci conosce e chiude un occhio sul limite, correndo per scoprire se il nostro mondo sia finito mentre dormivamo agitati e quando tornerò a casa per non vedere i miei figli già addormentati dovrò dire a mia moglie, se è ancora sveglia e non ha già firmato i documenti del divorzio, che sono un disoccupato. Un milionario con le pezze al sedere, senza soldi per pagare le rate di quella casa che non avrei mai dovuto comperare, senza fondi per le scuole private dei figli, senza scorte per saldare i debiti dello shopping nelle boutique dei "mall" di lusso, e senza nessuna possibilità di trovare un altro posto. Non c'è bisogno di un master a Yale per sapere che il livello delle spese sale sempre con il livello del reddito e anche oltre: questa è la terra del credito. Sarò un profugo come almeno altri 70 od 80 mila come me, che oggi vagano per le vie di Manhattan con il Range Rover a due settimane dal pignoramento per morosità, agitando come barboni da Zegna e Armani curriculum che non interessano a nessuno. Per dare la caccia a posti che non ci sono più, neppure a un decimo di quello che avrei guadagnato ieri.
Sono un broker di "investment bank", settore "hedge funds" e "derivate" che neppure sto a spiegarvi che cosa siano perché non l'ho mai capito neppure io, se non che erano formule create da "idiot savants" sui computer per far fare soldi a tutti, finché ce n'erano, e adesso per farli perdere a tutti. I nostri "managing directors", quelli che a fine anno devono distribuire i sei, sette, anche nove, proprio come Lehman, miliardi di bonus fra i dipendenti, ci dicono di non preoccuparci, anche se non capiamo le formule che lampeggiano sui nostri monitor, perché "noi siamo come i casinò e non possiamo mai perdere, perché abbiamo la percentuale assicurata su tutte le operazioni e il 20 per cento sui profitti del cliente". "The sure thing", il sogno di tutti i giocatori, scommettere sul sicuro, a corsa finita, e con i soldi degli altri, nel giro infinito dei credito che sciabordava come l'acqua nella stiva di una nave e bagna tutti. Fino a quando l'acqua finisce e tutti restiamo a secco, come adesso. La mia banca è una delle poche ancora vive, e non vi dirò quale, almeno questa mattina, mentre vi parlo, avvio il motore senza sgasare per non svegliare i bambini e accendo l'autoradio. Ma anche la mia sanguina e boccheggia come tonni sul ponte di un peschereccio destinato appunto a finire in scatola, una di quelle banche d'affari, cioè senza conti correnti, mutui, flusso di cassa e di soldi dei cadaveri dello stipendio fisso che depositano i loro stipendi che oggi vorremmo tanto avere anche noi, noi che prima neppure guardavamo in faccia chi ci proponeva operazioni sotto i 10 milioni di dollari, il minimo per accedere ai nostri prodotti.
Eravamo gli dei senza controlli governativi, senza quei rompiscatole moralisti e statalisti che fanno le pulci alle banche commerciali, esaltati come i pionieri di un mondo nuovo e senza frontiere, noi che dalle scatole di cristallo e targhe di bronzo alle porte, Bear Stearns, Lehman Brothers, Morgan Stanley, Goldman Sachs, JP Morgan, AIG, giocavamo ai "Masters of the Universe", ai signori dell'universo. E oggi ci guardiamo allo specchio lavandoci i denti alle quattro chiedendoci che mestiere potrebbe fare un prete se un giorno qualcuno dimostrasse che Dio non c'è più. Al mio piano che guarda su Broadway, quando ci sto, perché per almeno una settimana al mese svolazzo tra Chicago, Dallas, New York, San Francisco, Miami, Los Angeles per vendere i miei prodotti - ho più "miglia" nel conto che l'intera Air Force americana - a clienti che fino a ieri ci inseguivano e oggi ci accolgono come un ispettore del fisco, i cubicoli dei traders, le truppe d'assalto che trattano le azioni e di noi "brokers", i mediatori dei grandi affari, sono sempre più deserti. Nella mia banca, a questo piano, eravamo in 35 ancora nel mese di maggio, fino a un venerdì alle cinque, quando il capo di tutti i capi ci chiamò per dire che 30 di noi avrebbero potuto dormire fino a tardi, lunedì, e non tornare. Grazie e tanti cari saluti.
Io sono stato fortunato, sono fra i cinque sopravvissuti, ma a una condizione: devi scordarti di avere una famiglia, una casa, una vita, non voglio più sentire storie di mogli che piagnucolano e bambini che hanno la partita di pallone, chiaro? Chiarissimo. Ora siamo in cinque a fare il lavoro di 35. Rivedrò mio figlio quando licenzieranno anche me o quando si sposerà. Un giorno di permesso credo che per l'occasione me lo daranno. Qui dentro, come alla Lehman, dove mi avevano ingaggiato con bonus grassi nel 2005, con palate di stock che non potevamo vendere e ora valgono meno della carta igienica, siamo tutti giovani, o almeno lo sembriamo, trent'anni o poco più. La Lehman era "the place to be", il posto dove stare, perché Fuld, il presidente, il Master dei Master dell'Universo, era il più aggressivo e spregiudicato di tutti, enormi rischi, enormi guadagni, andate e moltiplicate i profitti e i bonus, ci dicevano dalla Washington repubblicana, ma per fortuna sono scappato in fretta. I direttori portavano a casa milioni di bonus a fine anno, noi un gradino sotto, mezzo milione, oltre lo stipendo di 250 mila dollari, vagonate di quattrini che i più sciocchi buttavano subito in barche, seconde case, condomini di lusso venduti a prezzi di rapina per sfilare appunto quei ghiotti bonus e costruiti nei quartieri di Manhattan già malfamati e rasi dai "luxury condos" con annessi ristoranti. A New York tutto respira con i polmoni di Wall Street, quando i polmoni si sgonfiano, tutto si gonfia, ristoranti, rette per asili privati da 20 mila dollari l'anno, alberghi da 1.500 a notte per la junior suite, fitness club. Non ci sono quarantenni, attorno a me. Gli anni in questo mondo che lavora dalle 5 del mattino alle 10 di sera, perché oggi i mercati non chiudono mai e puoi fare o perdere fortune a Singapore o a Londra o a Mosca mentre dormi, sono come gli anni dei cani, contano per sei o sette di voi umani. A quarant'anni, o sei assurto al cielo del top management, con garanzia di paracadute d'oro se ti buttano dalla finestra o ti sei fatto un fondo per conto tuo tirandoti dietro i clienti che avevi servito prima. O sei un relitto che nessuno vuole più. Nemmeno nei tempi grassi, figurarsi ora.
Lunedì scorso, dopo il collasso di Lehman, venticinque dei miei ex amici e colleghi sono venuti qui per offrirsi. Ho fatto una proposta a uno solo di loro, che era un mio capo e nel 2006 aveva intascato due milioni e mezzo di bonus a dicembre. Gli ho offerto 150 mila dollari lordi annui, senza bonus, lo stipendio iniziale che prende un ventenne con un Master in Business venuto da Harvard o da Stanford. Ha detto che ci penserà, perché con 100 mila dollari all'anno, pagate le tasse, ci paga si e no cinque mesi del proprio stile di vita che gli costa 15 mila dollari al mese. Sorry, prendere o lasciare e non è detto che domattina ci siano ancora io, la mia banca e l'offerta. Non sono amareggiato, non ce l'ho con nessuno. Noi in America diciamo che "it was good while it lasted", è stato bello fino a quando è durato, come un amore, una vacanza, un ciclo vittorioso della tua squadra. Soltanto mi addolora sentirmi trattato come una prostituta che ora i clienti fingono di non conoscere dopo avere fatto la coda per andare a letto con lei a qualsiasi prezzo. Quando garantivamo noi, con le nostre formule scritte da geni della matematica come il mio capo, che è un pazzo capace di lavorare 24/7 e nei pochi momenti liberi esegue le Variazioni di Goldberg su uno Steinway da concerto, i milioni di aria fritta accumulati da ventenni brufolosi in California che avevano costruito una "punto.com" fatta di panna montata e volevano tradurre in soldi veri le loro stock options prima che si squagliassero, eravamo i santi protettori della nuova America post industriale e tutta a credito. Chi se ne importa se prendevi il quinto dei profitti, quando i profitti si misuravano a diecine di milioni?
Domani sarò anche io assorbito da un'altra banca e licenziato per esubero, o buttato dalla finestra, o ripescato da quel governo che credeva nella santità del libero mercato e oggi corre con il secchio dell'acqua per spegnere più incendi di quanti secchi abbia, ma non porto rancore. Nessuno mi ha obbligato a lavorare per un casinò. Nessuno mi aveva promesso 40 anni di posto sicuro con pensione, orologio d'oro e liquidazione a 65 anni. L'ho sempre saputo che alla fine dell'autostrada 78 non c'era la pentola d'oro, ma una scatola di cartone. Almeno potrò dire al mio capo, al genio che non ha mai visto i suoi figli e compila equazioni come fughe di Bach, che i suoi New York Yankees mi hanno sempre fatto schifo".

martedì 16 settembre 2008

La città per i cittadini

"Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Non possono esistere gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti."
Antonio Gramsci - "La città futura" - 1917

La razza cialtrona dilaga. Purtroppo

di Pietro Calabrese su Style di Agosto
La prima e più seria modifica costituzionale dovrebbe essere una nuova formulazione dell’articolo 1: “L’italia è una repubblica democratica fondata sull’avverbio purtroppo”. Fateci caso, siamo invasi dai “purtroppo” in ogni momento della giornata e in tutte le occasioni. Non si scappa. Immaginate una mattinata così: state aspettando i muratori per una ristrurazione della casa, arrivano in ritardo di due ore: “Purtoppo gli operai oggi sono in ritardo, la ditta aveva altre esigenze”. E uno. “Purtoppo i mattoni non sono sufficienti, bisogna acquistarne altri”. E due. “Purtoppo le pareti della stanza da letto sono venute di un colore leggermente diverso da quello che aveva chiesto. E tre. A questo punto è già arrivato mezzogiorno e siccome avete i muratori a casa, decidete di andare a mangiare al ristorante, ordiniamo una bistecca e un contorno e dopo mezz’ora d’attesa sollecitiamo il cameriere: “Purtoppo oggi il secondo cuoco non è potuto venire perchè doveva rinnovare il permesso di soggiorno, e così i tempi delle ordinazioni si sono allungati”. Paghiamo con la carta di credito. Torna ancora il nostro cameriere: ” Purtoppo il servizio card non funziona da due giorni, avevavo promesso che sarebbere venuti stamattina a ripararlo, purtroppo hanno avuto un contrattempo”. Uscite dal ristorante e vi recate in un ufficio pubblico per chiedere un documento: “Guardi, le conviene tornare un altro giorno, magari domani, perchè purtroppo la persona che conosce questa pratica oggi non è potuta venire causa malattia”. Al limite dell’esasperazione chiedete: “E’ una persona cagionevole di salute?”, e l’impiegata, calma e serafica: “Purtoppo sì” ed aggiunge: “Poverina”. Pensate che abbia esagerato in questa cronaca? Sbagliate, le cose sono andate esattamente così. Naturalmente tutto questo non è soltanto una cosa fine a se stessa, ma rappresenta una delle peculiarità peggiori del carattere nazionale. Il purtroppismo, il pressapochismo, la faciloneria nello scansare le regole del proprio lavoro, sono parte integrante dell’italico paesaggio, come le macchine in doppia fila, quelli che vanno in moto senza casco, e gli altri che vi scavalcano con fare indifferente mentre state facendo la fila.
Purtroppo, è così.

domenica 14 settembre 2008

Tra Cina e Giappone

Le prime avvisaglie c’erano state mesi orsono quando, a Imola, ho notato che un ristorante cinese era diventato giapponese. Subito ho pensato un po’ compiaciuto che il mio considerare la cucina un’arte che unisce era giusta. Di fatto la storica inimicizia sino-giapponese, derivante soprattutto dalle scuse mai ricevute dal governo di Tokyo alla Cina per lo stupro sistematico di 20.000 donne cinesi a Nanchino nel ’39 ad opera delle truppe del Sol Levante, era stata cancellata nel giro di poche ore grazie proprio al potere della gastronomia.
Quando alcune settimane fa però ho letto su un settimanale locale che c’è l’intenzione di aprire un altro ristorante di Sushi, ho capito. Ci siamo. La moda del cibo giapponese è arrivata anche qui. Il Giappone da noi ha avuto influenze ondivaghe, a flussi intermittenti. Tutto ha inizio negli anni ’70 con l’apertura delle prime palestre per l’insegnamento delle arti marziali, nel giro di pochi anni dilagarono in tutta l’Italia. Di nuovo negli anni ottanta i film di Akira Kurosawa divennero il “must” per intellettuali e “radical-chic”. Tutti a inneggiare a questo filone. Kurosawa si portò appresso anche una certa letteratura legata ai Samurai e allo studio dell’Hagakure (il codice dei samurai). Infine negli anni ’90 cominciano ad arrivare – in particolare a Milano e Roma – i primi ristoranti di Sushi. Lentamente, ma inesorabilmente la moda è dilagata, unitamente ai “famigerati” piatti quadrati. Trovo indicativo che moltissimi ristornati cinesi si stiano convertendo – con risultati dubbi – al sushi giapponese: lo strapotere della Cina non riesce a essere così forte in tutti i settori evidentemente.
Ma cos’è il sushi? Brevemente si tratta di una cucina basata su piccoli pezzetti di pesce crudo, ma non solo, accompagnati con riso - cotto con aceto di riso, zucchero e sale - da inzuppare in salsa di soia nella quale è stata stemperata una piccolissima dose di wasabi. Il wasabi è una salsina verde che accompagna molti piatti giapponesi. Esistono vari tipi di sushi, quelli che più attraggono maggiormente l’occidente sono i vari futomaki, hosomaki, uramaki. Si tratta di sushi di varie forme che hanno in comune la presenza di un’alga scura - chiamata nori - intorno al riso o all’interno del pesce. Questi “piatti” hanno vari tipi di guarnizione quali ad esempio: tonno pregiato, salmone, polpo, uova di pesce, anguilla, gamberetti, frittata, avocado, cetriolo. Se vi capiterà di frequentare questi locali troverete anche il termine sashimi che è, banalmente, pesce crudo senza nient’altro. L’arte del sashimi è nella filettatura, cioè nel modo in cui viene tagliato e per mangiare un buon sashimi è fondamentale che il pesce sia fresco e di qualità. Ecco su questo punto, invece non banale, molti esercizi improvvisati o riciclati distruggono tutta la “poesia” che i cultori di questa cucina possono avere. La mia impressione è che molte persone in verità non siano in grado di giudicare questo elemento – impressione acquisita dai giudizi più disparati che nascono durante una cena a base di pesce “normale” – e pertanto tutto passa in secondo piano di fronte al “fare tendenza” perché si mangia sushi. Con il sushi infine si beve sake, freddo o caldo, (bevanda alcolica tipica giapponese realizzata dal riso) oppure tè verde bollente.
Tenete presente che in un vero ristorante giapponese i prezzi non sono popolari, tutt’altro. Proprio perché si dovrebbe usare pesce crudo, quindi freschissimo, il costo sale. In Italia capita di sovente, ma quasi sarebbe inutile sottolinearlo, viene immediatamente recepita e applicata la questione del prezzo, per la qualità ci si pensa strada facendo…
Comunque preparatevi a farvi trascinare come agnelli sacrificali a provare il benedetto Sushi, molti di voi sconteranno l’imperdonabile errore di dire che non lo avete mai mangiato. Troverete la non richiesta disponibilità di qualche amico che vorrà farvi vivere un’imperdibile esperienza di cui voi in realtà avreste fatto volentieri a meno. Nel caso poi siate un minimo identificati come buongustai o gastronauti sarete inesorabilmente colpiti da una frase, come una frustata micidiale, che suonerà più o meno così: “…proprio uno come te non ha mai provato il Sushi…”, accompagnato da uno sguardo di leggero compatimento come a dire “e poi vuoi fare l’intenditore”. La cosa più mortificante è che dovrete, probabilmente, pure mentire per non essere tacciati di pochezza culturale e xenofobia gastronomica. Salvo che, trovando un momento di orgoglio, non decidiate di reagire come Fantozzi di fronte all’ennesima proiezione del film sulla corazzata Potemkin e davanti a tutti riusciate a pronunciare “per me il sushi è una c….. bestiale”. Il vantaggio da tutto questa cucina ricercata e molto “fusion” è che ne guadagna la linea, vi sentirete leggeri all’uscita, un poco anche nel portafoglio.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 14 settembre 2008

giovedì 11 settembre 2008

Dal Papa una sferzata salutare

Intervista a Enrico Letta pubblicata su «Il Messaggero» di lunedi 8 settembre 2008.

Onorevole Enrico Letta, è anche una critica quella del Papa che chiede alla nuova generazione di politici cattolici di essere più rigorosi e più bravi?
«Io la prendo come una salutare sferzata per tutti noi, sia per quelli impegnati nel Pd sia per quelli del Pdl sia per quelli dell'Udc. È un richiamo benvenuto, e io l'ho letto con grande contentezza, perché non stiamo facendo abbastanza e perché abbiamo una inadeguatezza di fondo».
Dovreste essere migliori?
«Da tanto tempo non veniva da parte della Chiesa un'esortazione così netta. Che va letta nel suo complesso».
Cioè?
«Non c'è soltanto il richiamo ai cattolici perché si impegnino in politica e alla politica perché sia talmente laica da accogliere positivamente un nuovo impegno dei cattolici. C'è anche l'insistenza su altri tre concetti, il rigore morale, la competenza e lo sviluppo sostenibile, che descrivono un orizzonte di grande interesse e di grande respiro».
Rigore morale in che senso?
«Rigore morale vuol dire linearità dei comportamenti personali e sguardo agli interessi generali delle persone e del Paese».
La competenza?
«Qui, nelle parole del Papa, c'è un ragionamento profondo. Oggi più che mai, la politica è complicata perché la società e la cosa pubblica sono complicate. E quindi, ormai, non basta nelle questioni politiche andare a naso e muoversi sulla base del vecchio fiuto dei volponi di partito d'un tempo».
Il Papa, insomma, vi chiede di essere dei politici secchioni?
«Dice, giustamente, che serve da parte nostra un nuovo impegno di studio e un maggiore sforzo di approfondimento. Perché oggi, in politica, chi è più competente ne sa più degli altri e tira fuori soluzioni più avanzate».
Il terzo punto è quello dello sviluppo sostenibile. Non crede che la maggiore novità sia qui?
«Anche questo è un concetto bello. Oggi siamo in un tempo nel quale l'operato politico per lo sviluppo difende anzitutto il creato, quindi l'ambiente, e mi sembra che in questo campo impegno della Chiesa sia forte. Ma c'è di più».
Ovvero?
«Lo sviluppo sostenibile si lega alla questione energetica e anche, e soprattutto, alla questione del crollo della natalità. Il nostro Paese si sta rimpicciolendo e depauperando. Invecchia. Abbiamo due record, uno negativo e l'altro positivo. L'Italia è la nazione europea con il più basso tasso di natalità. E l'Italia è anche la nazione che detiene il più alto tasso di longevità nel nostro Continente».
La somma è il disastro?
«Che si viva più a lungo è un bene. Anzi, dobbiamo scoprire il modo di non far sentire inutili i tanti anziani attivi. Se però sommiamo i due dati che abbiamo appena citato, viene fuori che oggi il 61 per cento della popolazione italiana è in età lavorativa. Continuando così, fra trent'anni la popolazione in età lavorativa sarà soltanto il 44 per cento. Il che significa un Paese di pensionati. Quindi, anche su questo punto, è lungimirante il discorso del papa».
Di sicuro, però, ci sarà qualcuno che giudicherà questa parole un'indebita ingerenza clericale.
«Ma figuriamoci. Ce ne fossero di ingerenze come questa!».

mercoledì 10 settembre 2008

Questione Etica

«C’è una questione etica che molti si mettono sotto i piedi. Oggi il potere dei soldi è diventato arrogante. Prima il manovratore era un misterioso signore che si chiamava Cuccia che era difficile anche intravedere in foto. Ora imperversano signori che parlano al telefono fregandosene delle intercettazioni. Se ne preoccupano solo quando vengono intercettati».
Andrea Camilleri

lunedì 8 settembre 2008

Il mito delle "Azdore" tra famiglia e piatti unici

Si tiene oggi l’ultima giornata della Festa delle Azdore a Dozza. In Romagna le azdore sono un simbolo del nostro territorio, unitamente alla piadina e i bagnini. Solo che ormai, a differenza degli altri due, sono estinte. Questa figura quasi leggendaria si trova raramente e, quando la si incontra, riveste solitamente tutte le caratteristiche di un personaggio “felliniano”.
I più anziani naturalmente le ricordano e le hanno viste all’opera, ma per i più giovani – e parlo già delle generazioni dei primi anni ’60 – sono perlopiù personaggi della memoria. Ma chi era l’azdora ? In realtà era la “reggitrice” della casa in particolare nelle famiglie contadine, di solito la moglie dell’azdor, del capo famiglia. E quindi l’azdora era anche la regina del focolare e della cucina. Detta così ha un sapore quasi fiabesco, ma le cose non stavano esattamente in questo modo. La sua vita era segnata da enormi sacrifici – le famigliole non erano “corte” come ora, avere 7-8 persone da accudire era il minimo – e da rapporti interfamiliari a volte incestuosi, finalizzati però al “mantenimento del capitale” – la terra – più che a una morbosità deviata. L’azdora rimane un simbolo positivo di un’operosità instancabile e il cardine del tradizionale nucleo famigliare in Romagna.
Passando al lato più squisitamente gastronomico, era lei cui andavano i meriti quando, seduti a tavola, le persone mangiavano di gusto i buoni piatti che preparava, complice e su sciaddur (il suo matterello). Anche perché in Romagna il “piatto” per eccellenza di tutta la proposta gastronomica è la pasta, naturalmente fatta a mano. Potevano anche non essere delle perfette “sfogline”, ma sicuramente sapevano “tirare” la sfoglia di svariate uova o quella “matta” - senza uova, la nostra è stata a lungo una terra dove la miseria era di casa - evitando che si rompesse e mantenendo la necessaria “rugosità” , che serve a trattenere meglio il condimento , deliziando i palati con le tipiche ricette della nostra terra. E’ quindi intuibile lo stretto legame che intercorre tra le azdore e le sfogline, legame che spesso si sovrappone confondendosi.
Pasta si diceva, in un trinomio tutto romagnolo: azdore, sfogline e minestre (come si usa chiamare la pasta da noi). Quando affermo che sono le minestre il nostro segno di riconoscimento principale lo dico a ragion veduta poiché nessun’altra regione, nelle paste fresche, ha la ricchezza di quelle della tradizione concentrata in Emilia e Romagna che, per la fantasia dei nomi e il numero dei formati, ha un indiscutibile primato.
A sostegno di quanto affermo cito alcune minestre che potranno essere in parte famigliari e rendono l’idea della varietà cui facevo riferimento poc’anzi. Tortelli, cappelletti, ravioli, garganelli, passatelli, tagliatelle, tagliolini, strozzapreti, zuppe, gnocchi e gnocchetti, per citare i più famosi, ma tra le paste “dimenticate”, e oggi più difficili da reperire nelle osterie e ristoranti, sono assolutamente da citare i bigul (bigoli), i curzul (letteralmente lacci da scarpe, pasta quaresimale fatta di solo acqua e farina, ottimi con il sugo di scalogno), i giugétt (giogetti), gli ingannapoveretti, i malfattini, i maltagliati, gli orecchioni, i strichétt (nastrini) e gli scrichètt, i qudrelli, la spoja lorda (minestra “sporca” di raveggiolo, il formaggio che rimaneva dal ripieno dei cappelletti o dei tortelli), i sbrofabérba, i tajadlòtt (una delle minestre più povere del periodo estivo), i voltagabàna, i zavardòn (tra le più “miserabili” ).
Se a tutte queste minestre aggiungiamo le varianti asciutta o in brodo e pensiamo alla vasta tipologia dei condimenti – in base anche alla stagionalità - potete comprendere il “patrimonio” in nostro possesso e che, questo è un mio grande cruccio, non dovrebbe disperdersi. La memoria di un popolo rimane anche attraverso le sue espressioni enogastronomiche e di civiltà della tavola. Fortunatamente le numerose sagre che si tengono nel nostro territorio svolgono questa funzione di tutela nella quasi totalità dei casi.
Pertanto oggi vale la pena fare un “giretto” a Dozza e godersi le specialità preparate dalle azdore, forti naturalmente anche negli altri piatti della nostra tradizione: carne, il castrato in particolare, verdure alla griglia e i dolci in cui segnalo la zuppa inglese, vero baluardo della Romagna che di inglese non ha nulla.
Vi lascio invece con una segnalazione che riguarda proprio le sfogline e la pasta. A Castel del Rio il prossimo sabato, 13 settembre, organizzano una disfida molto interessante tra sfogline, con tanto di giuria, togliendo, di fatto, il monopolio di queste manifestazioni a Massa Lombarda. Fateci un pensierino, viste anche le temperature, per andarci godendo contemporaneamente di frescura e palato.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 7 settembre 2008

venerdì 5 settembre 2008

Breve viaggio nell'inciviltà

Scritto da Nando dalla Chiesa

(l'Unità, 3 settembre 2008) - Il primo a salire sull’aliscafo fu un aitante signore a torso nudo. Un largo cappello chiaro in testa e il passo del dominatore. Centinaia di turisti di ritorno da Stromboli verso Napoli si accalcavano intorno al piccolo ponte levatoio. Ognuno con il proprio bagaglio a rimorchio. Tranne un gruppo di turisti che aveva lasciato sul pontile le sue valigie e i suoi zaini. Enormi, numerosissimi. Ammassati e poi consegnati diligentemente da un ragazzo ai proprietari quando già erano sul ponte levatoio, così che potessero insinuarsi nella coda con più agio. Entrai anch’io facendo la fila con il mio bagaglio insieme a mia moglie, anche lei con il suo seguito di valigia e sacchetti. Andammo verso la parte anteriore dell’aliscafo, che appariva praticamente deserta. C’erano solo il signore aitante, che nel frattempo si era messo una camicia, e pochissimi altri viaggiatori. Scoprimmo però che quasi tutte le poltrone erano “presidiate” da borsette e oggettini d’ogni sorta. Cercammo dunque di sederci sulle poltrone vuote, ma il signore, aitante più che mai, gridava che erano tutte occupate. Io contestavo che non c’era nessuno. Lui mi guardò di traverso e mi sibilò, dando a intendere di avermi riconosciuto: “Proprio lei che è un democratico”. Lì per lì non capii che diavolo c’entrasse l’essere democratici con il reclamare un posto a sedere. Lo spettacolo era incredibile: quasi un quarto dell’aliscafo era stato requisito dal signore in questione. A questo punto protestai che non poteva farlo. Lui mi ripeté “Lei che è un democratico”, stavolta dicendo la parola “democratico” come Berlusconi dice “comunista”. E io risposi che proprio perché ero un democratico non potevo accettare una prepotenza del genere. Lui allora proclamò con tono offeso che erano posti tenuti per i bambini. Gli chiesi come fosse possibile: il gruppo di bambini che avevo visto sul pontile non superava le dieci unità. “Bambini” giurò, mentre i passeggeri neutrali iniziavano a parteggiare per la mia causa. Poi arrivò il gruppone dei suoi amici. I bambini erano cinque. C’era anche il ragazzo che aveva passato i bagagli sul ponte levatoio, che risultò essere suo figlio, e che evidentemente era stato applicato da lui a quell’ingegnoso compito. Constatata la bufala dei bambini, mi presi due posti di forza accanto a uno dei suoi amici, visibilmente imbarazzato per la sceneggiata cui il capo comitiva aveva costretto la compagnia.
Ma sull’aliscafo costui non era stato l’unico. Pur sapendo che i posti erano tutti, ma proprio tutti occupati, come accade a fine agosto al rientro dalle isole, decine di viaggiatori tenevano sulla poltrona accanto alla loro ogni tipo di oggetto. Per stare più comodi o per avere il bagaglio pronto all’arrivo. Si aprì così l’infuocata disputa tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo. Con la richiesta al comandante di intervenire a garantire i diritti dei passeggeri. Finalmente a quel punto, grazie alle direttive impartite imperiosamente via altoparlante, l’ordine fu stabilito.
Qualcuno potrà pensare, magari traendo qualche conclusione dal torso nudo, che il signore aitante e i suoi compagni di viaggio fossero degli arrembanti turisti con tegami di pastasciutta al seguito e il rifiuto facile sul pavimento. Niente di tutto questo, ed è qui il guaio. Lui era un imprenditore bresciano con master alla Bocconi. Tutti avevano un libro in mano (la persona vicina a me era di grande e piacevole cultura) ed erano vestiti con qualche pregio. Gente da cui non ti aspetteresti mai che non abbia interiorizzato in mezzo secolo e passa il principio della fila e della occupazione del proprio posto, che non provi vergogna a raccontare plateali panzane e che non si senta in grado di fare un viaggio di qualche ora a distanza di pochi metri dal proprio amico o parente. Gente da cui non ti aspetteresti insomma che non conosca le regole civili.
E infatti le regole le conosceva. E pure bene. Tanto che quando vi un cenno di arrembaggio ai bagagli in vista del golfo di Napoli, fu proprio lui, il signore aitante, che -essendo seduto davanti a un immenso deposito di bagagli e temendo l’assalto alla sua parte di aliscafo- incominciò a tenere appassionate concioni sull’importanza delle regole, sulla loro utilità per vivere tutti più ordinatamente, discutendo animatamente con più di una signora e di un giovane. Qualcuno del personale di bordo disse: “Evabbe’, fate come volete”. Di nuovo si ebbe un confronto tra la parte civile e quella incivile dell’aliscafo, anche se le due parti avevano un po’ cambiato i loro confini. E di nuovo, su sollecitazione della parte civile dei passeggeri, il comandante fissò le regole per lo sbarco delle tonnellate di bagagli.
Seppi infine, con mia sorpresa e amarezza, che l’imprenditore bresciano era figlio di un imprenditore ucciso molto tempo fa dalla mafia e di cui serbavo memoria chiarissima. Mi resi conto che era saltata anche una regola non scritta, come lo sono tutte le vere regole. L’ ho sempre vista praticare tra i familiari delle vittime della mafia: ed è quella del reciproco riconoscimento e rispetto, oserei dire affetto, che scatta verso chi ha subito la stessa tragedia. Per la prima volta avevo visto quel legame di solidarietà infranto. L’imprenditore mi aveva riconosciuto; ma aveva anteposto a quel rapporto di rispetto il suo fastidio per il mio essere “democratico” e l’interesse più piccolo e minuto, quello a sedersi tutti insieme, della sua comitiva, del suo moderno clan.
Ecco come attraverso gli episodi minimi si può rappresentare l’Italia, la qualità dei suoi problemi veri, profondi. La sua incapacità di superare la storica distanza (quanto ci si arrovellò Sylos Labini…) tra sviluppo economico e sviluppo civile, la doppiezza delle regole (valgono per me ma non valgono per te), l’incertezza del diritto, la rottura dei principi più sacri di solidarietà, la latitanza delle istituzioni, che invece di muoversi autonomamente si muovono solo su pressione dei cittadini e dell’opinione pubblica. Cose grandi, che dovrebbero impegnare un grande partito. I paesi crescono con le infrastrutture materiali. Ma hanno anche e soprattutto bisogno delle infrastrutture immateriali: il senso delle regole, il riconoscimento di diritti e doveri, la fiducia e la solidarietà, l’autorità responsabile, la cultura civile. Il guaio è che a usare in massa i cellulari ci si mettono due anni, a imparare a fare la coda ci vogliono decenni. E sono questi che fanno la differenza.

giovedì 4 settembre 2008

Allora riguardo al calcio siamo sempre stati così...

"Gli italiani perdono le guerre come fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre"

Winston Churchill

martedì 2 settembre 2008

L'attualità del pensiero di Luigi Einaudi

"Liberalismo è la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, la elevazione della persona umana. E' una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo."
"Liberale è quella democrazia che, pur potendo violarli, rispetta alcuni tabù che si chiamano libertà di religione, di coscienza, di parola, di stampa, di riunione ed impone a tutte queste libertà solo i limiti esterni formali imposti dalla necessità della convivenza pacifica."
"Chi cerca rimedi economici a problemi economici è su falsa strada, la quale non può condurre se non al precipizio. Il problema economico è l'aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale."
"Le riforme per essere sul serio efficaci mi ostino a dire che debbono essere graduali. A un passo dopo l'altro si arriva lontani. A far le cose d'un colpo si precipita."
"Ricordate quel che è vivo in noi del passato giova a riconoscere il presente ed a preparare il futuro."
"Non le lotte o le discussioni devono impaurire, ma la concordia ignava e l'unanimità dei consensi."

lunedì 1 settembre 2008

Nella pizza gli ingredienti sono ciò che fa la differenza

Adoro la pizza come la adorano tutti gli italiani in generale. Gli imolesi non fanno eccezione e lo dimostrano sia il numero di pizzerie-ristoranti, pizzerie al taglio e “take-away” (prendi e porta via) presenti nella nostra città, sia l’affluenza in questi locali. Infatti, benché i rincari effettuati da tutta la ristorazione, alla pizza non si rinuncia e secondo l'associazione dei consumatori (Adoc) nonostante le pizzerie in particolare abbiano aumentato i prezzi mediamente del 20% in un anno, sono quelli che si difendono meglio dalla crisi del settore. Nonostante questi rialzi - ingiustificati in verità sommando il costo degli ingredienti e di esercizio - una famiglia spende sempre meno che andare al ristorante ed è probabilmente anche per questo motivo che le pizzerie risultano nella grande maggioranza, anche nella nostra città, sempre molto frequentate. In pizzeria si pagano mediamente 8 - 9 euro a testa - limitandoci a pizza Margherita e acqua – fino a giungere ai 12 – 13 euro se “vogliamo dare uno schiaffo alla miseria” e chiedere pizze più elaborate, bevendo birra e concedendoci pure un caffè. A parte il prezzo ci sono comunque alcune caratteristiche che fanno la differenza tra una pizzeria ed un’altra.
La prima consiste nella scelta degli ingredienti. Forse molti di noi sono assuefatti, o forse più banalmente distratti o indifferenti, a cogliere le diversità delle materie prime utilizzate per preparare questo prodotto che è un vero e proprio simbolo nazionale, ma certamente nella pizza questi elementi sono il vero spartiacque tra il “buono e il cattivo”. Vi invito quindi a porre attenzione agli ingredienti perché, purtroppo, qualcuno ne approfitta e, nonostante gli aumenti, usa concentrato di pomodoro cinese, olio extravergine tunisino o mozzarelle taroccate – per fare un esempio - al posto di olio di oliva nostrano, pomodoro sanmarzano e mozzarella vera.
Un secondo aspetto non meno importante è il “segreto” – di tutti i pizzaioli – che permette ad una pizza di essere veramente buona, di appagarci nei sapori, nei profumi e nella... digeribilità. Questo “segreto” consiste in alcuni piccoli accorgimenti semplici, ma basilari, quali ad esempio l’evitare di bruciare il lievito con l'acqua troppo calda, il sistemare il sale a corona ben distante dal lievito - diversamente il lievito non si attiva - e il fondamentale lungo impasto con un duro lavoro compiuto dalle mani. In particolare proprio l’impasto e l’esecuzione di qualità fanno della pizza un prodotto altamente digeribile, il problema sta nel fatto che oggi un certo numero di pizzerie ormai utilizza solo impasti industriali “pre-preparati”. Pensateci quando nel pomeriggio o a tarda sera che, dopo alcune ore, dovreste aver finito la digestione vi sentite al contrario ancora appesantiti. Infine un altro aspetto importante consiste nella buona lievitazione grazie ad un forno preriscaldato – c’è chi infila anche una pentola di acqua calda – naturalmente funzionante a legna. Mi auguro non passi mai una norma europea, prospettata qualche tempo fa e che io trovavo demenziale, che richiedeva per motivi di salute la dismissione di tutti i forni a legna nelle pizzerie. Essendo praticamente solo in Italia l’uso della legna (parliamo di ca. 25.000 pizzerie), vi lascio immaginare le conseguenze anche per la identificazione e difesa come prodotto DOP.
Il problema di questi esercizi – parlo in modo generico delle pizzerie con posti a tavola - nasce quando iniziano a proporre servizi extra o (per loro) di lusso e si addentrano nella ristorazione più classica.
In questo caso salta spesso il rapporto prezzo/prestazione perché non sono preparati e mancano di cultura in tal senso. Ormai il 90% delle pizzerie è anche ristorante e tutti ritengono di proporre un’ottima cucina. Così non è. Prima di tutto mentre quando si parla di pizzeria un certo servizio un poco trascurato con mancanze e/o disattenzioni si possono perdonare, quando si “passa” al ristorante ciò non deve più essere accettato. Vi sarà capitato inoltre di uscire con amici che scelgono dal menù ristorante e si vedono recapitare, ad esempio, piatti di pasta annegati nella panna, secondi “senza memoria” con insalatine “strimizzite” e dolci ben farciti di panna montata, cioccolato cremì fuso o lavorazioni “finta nouvelle cousine” nei famigerati piatti quadrati. La mania poi, che ha colpito in verità tutta la ristorazione in generale, di affiancare anche il “famoso” menù di pesce a quello tradizionale, porta a proporre piatti che non sempre fanno onore al nome che portano e al prezzo a cui vengono proposti: non dimentichiamoci mai dove ci troviamo.
Semplicità, proposizione mirata ed un corretto posizionamento del prezzo dovrebbero essere la base su cui costruire qualsiasi offerta enogastronomica per qualsivoglia tipo di esercizio. Ma questa è la teoria, nella pratica molti si perdono e il cliente sembra non accorgersene.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 24 agosto 2008