sabato 27 febbraio 2010

Buonumore ed entusiasmo

Il buonumore nella propria vita è fondamentale. Detto così pare quasi una banalità. Essere di buonumore. Semplice ma vitale, aiuta a mantenre la giusta ottica e uno spirito positivo verso gli altri e i problemi. A volte mi sembra che le cose non stiano andando come vorrei. In quei momenti, ho imparato, faccio di tutto per rilassarmi, distrarmi, prendere tempo. Mi aiuta a pensare e riflettere su ciò che sta accadendo, cerco di capire se è il mio pensiero che vede le cose in negativo oppure se è reale la situazione e come sto reagendo. Se in modo corretto o sbagliato. In qualche modo tento di vedere le cose "dall'alto", distaccandomi il più possibile dalla situazione. Analizzo il da farsi e le possibili mosse successive.
Normalmente se mi accorgo che qualcosa di negativo, come un problema, sta impossessandosi della mia mente cerco di spostare il focus della mente su un nuovo progetto, su una idea diversa, mi interesso di una necessità di altri. Ho imparato essere sempre salutare distogliere la mente da quello che mi preoccupa o che mi può mettere in ansia.
Quando si mantiene il buonumore, si è anche entusiasti e si trasmette questo sentimento. Mi ritengo un entusiasta nell'intimo, in tutte le cose che decido di affrontare. L'entusiasmo genera passione nelle cose che si fanno e questo diviene contagioso, producendo positive reazioni a loro volta negli altri. L'entusiasmo ha due componenti fondamentali: coraggio e sicurezza.

martedì 23 febbraio 2010

70 anni, ma non li dimostra

Nonostante abbia più settanta anni trovate ancora tanta freschezza. Non parlo di una persona, ma del forno pasticceria Dondi che si trova sulla via Montanara in località Casalfiumanese. L’attività, che vanta una continuità nella gestione dai fondatori, è una “perla” di qualità nel dolce e salato. Qui si trovano prodotti sempre appena sfornati con una garanzia di freschezza certa. Con l’ultima ristrutturazione hanno inserito anche l’angolo bar per cui è possibile farsi anche una bella e opulenta colazione con una grande varietà di brioche dolci e invitanti cornetti salati anche golosamente farciti, accompagnati da ottimi cappuccini o caffè cream. Il punto di eccellenza è raggiunto nei dolci in generale e dalle torte in particolare, vere regine in questo luogo e, a giusta causa, il prodotto più conosciuto e richiesto per compleanni, ricorrenze e feste di bambini. Tutta loro la produzione della parte dolce, dei mignon farciti, dei cornetti salati, delle diverse varietà dei grissini, delle “piade” (assolutamente da segnalare) e tanto altro. Le grandi varietà di pane sono invece fornite da un forno dello stesso comune, una volta dipendenti di Dondi, avendo scelto di non occuparsene più direttamente, e da alcuni forni di Firenzuola e Traversa (località limitrofa). Il personale è molto cordiale e disponibile anche nei momenti di grande affluenza che, grazie a una sapiente rapidità del servizio, riescono a gestire al meglio. Da evidenziare “nonostante l’età” l’apertura domenicale che porta tanti “viandanti” a fermarsi o a frequentare volutamente il posto con il risultato che, complice una produzione così golosa e ambita, si può correre il rischio di non trovare grande assortimento nelle ore più tarde della mattinata.

Pierangelo Raffini - Pubblicato sul Sabato Sera del 20 febbraio 2010

sabato 20 febbraio 2010

Possedere una propria "vision"

Ritengo che possedere una visione sia la capacità di fare sintesi sui propri desideri più veri e profondi e dargli un percorso che non ostaccoli il fiume della vita, ma ne segua consapevolmente il corso. Avendo una "vision" riesci a trovare anche la tua missione e, di conseguenza, la tua serenità, il tuo benessere interiore. La propria missione cambia nel tempo, perchè normalmente si evolve durante la propria esistenza. Non è un voltafaccia. Si può cambiare missione restando fedele a se stessi, ai propri principi, ai propri Valori. Significa applicare quello che qualcuno definisce "coerenza dinamica" e non "statica", cambiando appunto come cambia il mondo e come mutano i propri Valori nel tempo. Se così non fosse si rimmarrebbe sempre uguali senza cogliere i mutamenti attorno a noi.

Segui il tuo cuore

Fai ciò che senti essere giusto nel tuo cuore, perchè verrai criticato comunque: biasimato se lo fai e anche se non lo fai.

Eleanor Roosvelt

venerdì 19 febbraio 2010

ETICA PUBBLICA / Lo smog dei clan e l'aria pulita del mercato

Il Sole 24 ore - 18 febbraio

Che impressione può farsi dell'Italia chi guarda da lontano il caos delle intercettazioni, delle accuse, delle pressioni palesi e nascoste di cui i giornali trattano in queste ore? La prima preoccupazione è che non sia – contro Guido Bertolaso – solo un affondo che poi non arrivi mai in un tribunale. Le contestazioni mosse in Abruzzo, fino all'arresto del governatore, hanno portato alla caduta della giunta, a nuove elezioni, una diversa maggioranza senza che, a distanza di un anno, ci sia non un processo, ma neppure un chiaro capo d'accusa: non è strano se poi l'Europa stigmatizza i nostri processi, eterni e confusi.
Chi non rinuncia a dirsi garantista, scelta che non è affidata a variabili filosofie personali, ma è a tutti noi imposta dalla Costituzione, non può non guardare con amarezza al reticolo di amicizie, fratellanze, consorterie, reciproci favori, ammiccamenti, che prova a inquinare il nostro libero mercato. Ieri su questa pagina Giovanni Bazoli ragionava dei limiti e delle virtù di un mercato governato dal merito: il nuovo rischio è che quelle virtù e quei limiti, insieme, vengano travolti e negati da un sistema dove non vincono l'appalto più innovativo e tecnologico, l'azienda più capace di economia di scala e rapidità, il progettista più elegante e razionale, le maestranze più affidabili e pratiche. No, tutto si rincorre tra Leporelli servili, Capitan Fracassa roboanti, avidi Pantalone che mettono alle corde etica e sana economia.
I moralisti potranno dare la colpa al «particulare» di Guicciardini, i settari all'opposta setta politica. La verità è che – nel vivo di una aspra crisi economica e finanziaria, con il paese che cresce poco e male – se ogni iniziativa pubblica finisce prigioniera di un'emergenza continua e blindata, ostaggio di una casta che odia, teme e ostacola la libera concorrenza degli imprenditori onesti, allora son guai per tutti.
In attesa che le responsabilità dei singoli, incluso Bertolaso, vengano esaminate, è indispensabile che l'aria cambi, e il governo, l'opposizione e l'intera classe dirigente devono contribuire a mutarla liberandosi delle mele marce. Non è in gioco un affare, una lobby, un interesse privato. È interesse nazionale che, da lontano, o da vicinissimo, l'Italia non sia quel paese che sembra essere nelle intercettazioni.

Mishima

La realizzazione individuale e comunitaria di un imprecisato ordine cavalleresco, a metà tra la cultura e la testimonianza vivente, il pensiero e l'azione eroica. Quanto mi ha attratto da giovane la sua figura. Sole e Acciaio: il suo testamento civile ed esistenziale fu per me una sorta di breviario spirituale, insieme all'Hagakure, negli anni '70. Significò assumere una grande forza e disciplina interiore. Mishima fu testimone coraggioso di una vita, di una protesta e di scritti di una certa rilevanza contro il suo tempo. Un uomo gracile che non aveva fatto in tempo a perdere la guerra e si era forgiato con il sole e l'acciaio, fino a diventare un'atleta nella mente e nel corpo. Era un antagonista, un esteta armato, un dannunziano dei nostri tempi in qualche modo dove il pensiero coincideva con l'azione. Ma fu anche l'ultimo dei Samurai, un soldato che aveva combattuto la sua battaglia con la penna e con la spada. In quegli anni mi aveva colpito la sua passione spirituale per il suo paese e per la tradizione, quel messaggio che si portava dietro della morte eroica, dell'atto estremo. Quel suicidio con l'antico rito del seppuku sul tetto della caserma, dopo un discorso fiero e disperato allo stesso tempo, dopo aver preso atto che tutto ormai era inutile.
Lo accumunavo allora, non ancora "inflazionato" e "svilito" dalla non-conoscenza dei più, con il Che, il guerrigliero (per me) del Popolo contro tutti gli oppressori, la visione eroica e combattiva della vita, insieme aritocratica e militare, antiamericana nel concetto della prevaricazione e della potenza solo materiale, non spirituale e storica. Anche antiborghese, seppure declinata in modo differente, ma in qualche modo per me coincidente (non c'è stata forse una rivalutazione di questa figura negli ultimi anni ?). Un certo senso mistico e anche nichilista della vita, unita ad una visione ciclica dell'evolversi della civiltà. La morte come atto estremo di una vita per dargli valore, senza temerla, condivisa dal gruppo come gli antichi ordini cavallereschi al servizio di una causa, di un'idea. Lo ricordo ancora in quelle immagini plastiche a torso nudo e lo sguardo fiero...
Mi è ricapitato per caso in mano il libro questa mattina. Oggi però mi appare tutto molto lontano e anche un poco anacronistico alla luce di questo tempo... 

giovedì 18 febbraio 2010

Il progetto interrotto di Adriano Olivetti


di Paolo Bricco - Il Sole 24 ore

Adriano Olivetti era un uomo affettuoso, goffo e timido. Amava mangiare dolci e credeva che, indagando le pieghe della firma di una persona su un foglio bianco, si potesse intuirne la forza e le fragilità. Ma, soprattutto, era un industriale di grande abilità e allo stesso tempo aveva una passione politica che, con il suo carico di utopia, era insieme simile e profondamente diversa rispetto a quella del suo tempo.

Uno strano mix che lo avrebbe portato, il 23 aprile del 1955, in un discorso ai lavoratori, a formulare alcune domande, probabilmente ancora oggi rimaste inevase: «Può l'industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell'indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?».
I suoi 59 anni, conclusisi il 27 febbraio del 1960, ovvero mezzo secolo fa, su un treno che da Milano portava a Losanna, sono stati paradigmatici del secolo scorso, ma hanno rappresentato bene la contraddizione che egli ha incarnato per la cultura, la vita pubblica e l'industria del nostro paese.
Suo padre Camillo, che aveva fondato l'azienda a Ivrea nel 1908, era un ingegnere allievo di Galileo Ferraris e aveva idee socialiste. Anche l'ingegner Adriano era permeato dal rigore positivista del Politecnico di Torino e nutriva interesse per il socialismo. Un episodio spiega bene quanto questa posizione, nei tempi duri del fascismo, non fosse esclusivamente teorica, né la sua personalità fosse da "consenso di massa". L'8 dicembre del 1926, portò in macchina il leader socialista settantenne Filippo Turati e il pensatore liberal-socialista Carlo Rosselli fino al porto di Savona, da dove si sarebbero imbarcati per scappare dai sicari del regime. Dai diari di Ferruccio Parri, con cui Adriano si alternava alla guida dell'auto: «Una gelida e chiara notte di dicembre. Neve, strade difficili. Lunga notte di corse or precipitose, or caute, che si temevano i posti di blocco dei carabinieri».
In lui, un altro elemento coerente con cosa è stato il Novecento per noi è l'amore verso l'America: come già capitato in gioventù a suo padre, e anche a molti altri rampolli del capitalismo nascente (per esempio Gianni Agnelli), si reca a venticinque anni negli Stati Uniti dove resta affascinato dal fordismo, tanto che convincerà gradualmente il vecchio Camillo a riorganizzare l'impresa di Ivrea, ormai una realtà nella produzione di macchine da scrivere e da calcolo, secondo i criteri tayloristici del "tempi e metodi".
Dunque, nel suo profilo ci sono la cultura positivista, l'industrialismo fordista, il sottofondo socialista (pur temperato dalla conoscenza di Piero Gobetti) e l'America, tanta America. Tutta roba del Novecento. Anche se Adriano, alla fine della seconda guerra mondiale, scarta all'improvviso di lato. Il socialismo non basta. Come non bastano il pensiero liberale o per lui, ebreo da parte di padre e valdese da parte della madre Luisa, una interpretazione religiosa unitaria del mondo. Inizia infatti a elaborare una visione originale che condensa nell'Ordine politico delle comunità: una miscela di utopia e federalismo, autonomie locali e democrazia diretta. Una impostazione ignorata dalla politica italiana uscita dal fascismo, ma che avrebbe dato origine, al rientro a Ivrea, al movimento Comunità.
Sì, perché c'è un ritorno a Ivrea. Camillo è morto nel 1943. L'azienda, adesso, la guida lui. La crescita, dal 1946 al 1958, è significativa. Posto un indice iniziale pari a 100, l'esportazione sale a 1.787, il fatturato interno a 600, l'occupazione a 258, i salari reali medi a 386 punti. L'Olivetti è una multinazionale: in dodici anni le consociate estere salgono da quattro a diciannove. Cinque gli stabilimenti in Italia, altrettanti all'estero. Per ottenere questi risultati, Adriano Olivetti moltiplica i prodotti meccanici (la Divisumma costa 35mila lire e viene venduta a 350mila lire), chiama a Ivrea una serie di intellettuali (fra i tanti, impegnati in azienda e nelle attività culturali, lo scrittore Paolo Volponi, i poeti Franco Fortini e Giovanni Giudici, il critico letterario Renzo Zorzi, i sociologi Luciano Gallino e Franco Ferrarotti, il designer Ettore Sottsass), garantisce servizi sociali ai dipendenti (hai la depressione? L'azienda ti fa curare dai medici migliori e ti manda al mare in Toscana) e punta sulla prima elettronica. All'assemblea degli azionisti del 1959 l'imprenditore di Ivrea dice: «La tecnica elettronica potrà avere nel futuro notevoli ripercussioni sul metodo di fabbricazione di prodotti attualmente realizzati in via meccanica: esiste quindi una ragione fondamentale di sicurezza che ci consiglia di non lasciarci cogliere impreparati quando la tecnica permetterà di trasformare alcuni nostri prodotti da meccanici a elettronici».
Fra il 1958 e il 1960 succede tutto, nell'accavallarsi di dimensioni diverse che caratterizza costantemente la sua vita. Nel 1958 partecipa, con il movimento di Comunità fattosi partito, alle elezioni politiche nazionali: si dissangua finanziariamente e viene eletto solo lui. Nel 1959 esce sul mercato il calcolatore elettronico Elea 9003. Nello stesso anno, compra la Underwood, compiendo la prima acquisizione italiana negli Stati Uniti (dovrà arrivare, a condizioni storiche completamente diverse, Sergio Marchionne con Fiat-Chrysler).
Il nodo, che si reciderà l'anno dopo con la sua morte, si aggroviglia proprio in quel 1959: l'impresa, che soffre di una sottocapitalizzazione strutturale tipica del capitalismo italiano, non ha la forza finanziaria per sostenere la doppia operazione. La crisi si avvita: a tre anni dalla sua morte, nel 1963, il patrimonio netto (61,8 miliardi di lire) è la metà dei debiti (118,5 miliardi di lire) e il gruppo sta per finire in mano a un pool di banche svizzere, che potrebbe escutere le azioni della famiglia avute in pegno in cambio di prestiti.
Il gruppo di intervento organizzato da Mediobanca, che non poteva fare a meno della Fiat come partner industriale, salverà una impresa ricca di prodotti, competenze, estetica e cultura internazionale, ma povera di capitali e molto indebitata. Le posizioni del presidente della Fiat Vittorio Valletta (per cui l'elettronica di Ivrea era un «neo da estirpare») e di Enrico Cuccia (convinto soprattutto della centralità della chimica per lo sviluppo italiano), con un mitizzato e fantomatico favore americano all'uscita dall'elettronica, fanno sì che, alla fine, si sacrifichi quest'ultima, ceduta alla General Electric, e si conservi la presenza negli Stati Uniti.
L'anomalia naturale, il progetto interrotto dalla morte, l'unicità in fondo della sconfitta e il seme che, quando tutto sembrava finito con Adriano scomparso e la grande elettronica venduta, nel 1965 avrebbe comunque generato la Programma 101, il primo personal computer da tavolo. È in questo modo che si forma una specie di icona del capitalismo diverso, un uomo così descritto da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare: «Lo incontrai a Roma per la strada, un giorno, durante l'occupazione tedesca. Era a piedi; andava solo, con il suo passo randagio; gli occhi perduti nei suoi sogni perenni, che li velavano di nebbie azzurre. Era vestito come tutti gli altri, ma sembrava, nella folla, un mendicante; e sembrava, nel tempo stesso, anche un re. Un re in esilio, sembrava». 

martedì 16 febbraio 2010

Valore aggiunto digitale

Nòva 24   

Alessandro Carenza non è un istintivo. Ma quel giorno presentandosi in ufficio non ha avuto dubbi. Ha messo nero su bianco le sue ragioni e ha rassegnato le dimissioni da lavoratore a tempo indeterminato per una nota multinazionale del settore alimentare. Ha smesso i panni del travet e si è auto-imprenditorializzato. Con l’aiuto della rete.È diventato un dog- sitter online e istruttore cinofilo. La sua passione per i cani l’ha fatta diventare una professione. Su Baubau.biz i clienti possono prenotare il suo servizio di dog-sitting per il fido. Da Milano alle colline del Chianti. Altra storia, analogo destino baciato dalla rete. Quella dei Bertolucci, famiglia di artigiani itineranti in fiere. Un bel giorno hanno deciso di parcheggiare il furgoncino e di accendere il computer. Oggi hanno un negozio online. Su Ecoartigianato. com vendono cuscini in pula di farro bio. E le commesse non mancano. Alessandro e la famiglia Bertolucci sono wwworkers, ovvero world wide workers. Nell’acronimo c’è la sintesi tra il mondo della rete e quello del lavoro. Hanno lasciato il posto fisso e si sono messi in proprio. Il tutto con il supporto (indispensabile) delle nuove tecnologie. Come loro, centinaia di lavoratori di ogni ordine e grado in questi mesi hanno scelto di cambiar pelle diventando wwworkers. Appassionati, intraprendenti, per alcuni incoscienti. Non necessariamente nativi digitali (spesso hanno superato gli anta, e da molto).

Su http://www.wwworkers.it/ si sta scattando un’istantanea per cogliere un trend che ha ribaltato gli stereotipi della italica predisposizione al posto fisso. Il 2010 segnerà la moltiplicazione di questo fenomeno apparso timidamente nel nostro paese, incubato nel sottobosco della crisi economica per tutto il 2009. Già otto anni fa Dan Pink coniò l’espressione “free agent nation” per descrivere il (crescente) movimento dei dipendenti divenuti autonomi abbandonando l’azienda nella quale timbravano il cartellino. Oggi razza in via di moltiplicazione, i wwworkers sono la generazione italiana che lascia il posto fisso creandosi un lavoro in rete. Per sopravviverci. Una tribù indistinta trasforma la propria passione in professione. I wwworkers –impavidi e coraggiosi eroi del terzo millennio – hanno deciso di uscire dalla logica del certo per l’incerto. E di reinventarsi. Passo impegnativo, spesso sofferto. Si diventa wwworker per piacere o per necessità. Non ci sono vie di mezzo. A oggi il 40% dei profili mappati lo fa a seguito di un licenziamento. Gli altri vi approdano per perseguire il sogno nel cassetto relegato al fine settimana, la passione posposta alla necessità di un lavoro sicuro. Fenomeno globale. E in crescita. Microsoft ha pubblicato una ricerca condotta su 13 paesi europei che sottolinea come il 90% dei lavori avrà soprattutto competenze online entro il 2015. E non è un caso che i negozi su eBay si siano moltiplicati: a oggi in Italia la comunità conta 5 milioni di utenti.

Da noi gli imprenditori che gestiscono attività sono circa 18mila e le loro vendite hanno generato un giro d’affari di oltre 270 milioni di euro lo scorso anno. L’Italia nel business sul web trionfa con le esportazioni. Insomma, il made in Italy è una delle chiavi del successo per i wwworkers nostrani. Ecco allora che internet diventa interset di micro-esperienze imprenditoriali. Come fatturato non fanno numeri da capogiro, ma sfruttano le leve di un global che diventa glocal. Global microbrand li ha definiti Hugh McLeod, un pubblicitario inglese che coniò questo termine dopo aver messo in piedi una vetrina virtuale per uno storica bottega sartoriale londinese. In un paese imbalsamato da logiche di casta, i wwworkers – connessi alla rete e alla propria creatività – sono anche la dimostrazione di come si può scommettere sulla cosa più preziosa di cui si è in possesso. Se stessi.

Giampaolo Colletti

sabato 13 febbraio 2010

Il virus nichilista che contagia il capitalismo

di Ettore Gotti Tedeschi

Nel riflettere su cause, conseguenze e soluzioni di questa crisi economica, ritengo che non sia il capitalismo a dover avere sensi di colpa bensì piuttosto il moralismo perduto. Ciò perché l'origine vera della crisi è di ordine morale. Il comportamento dell'uomo economico operante in un sistema capitalistico è regolato dal suo pensiero. Se la crisi è nel suo pensiero si trasferirà inesorabilmente nelle azioni, perciò ritengo che se qualcuno debba aver "sensi di colpa" sia piuttosto chi ha avuto la responsabilità morale di ispirare tali comportamenti. Non è poi così difficile risalire a questa responsabilità. Essa risiede nel pensiero nichilista che ha confuso le ultime generazioni dissacrando l'uomo, riducendolo ad animale intelligente da soddisfare appunto solo materialmente. Pertanto trovo ingiusto responsabilizzare uno strumento, come il capitalismo, anziché chi lo ha mal usato perché mal ispirato. Il mondo dell'impresa non è in contraddizione con il pensiero etico o non etico, sono due cose diverse. Il primo spiega cosa fare, il secondo spiega perché. Già Sant'Agostino scrisse che da oriente a occidente sta disteso un gigantesco malato contagiato da un virus universale che non provoca malattie fisiche, ma nelle idee e perciò nel comportamento. Perché se lo spirito è malato lo diventa anche il comportamento, economico in specifico. Questo virus, questo pensiero nichilista che rifiuta ogni valore e verità oggettiva e porta a considerare l'uomo solo un animale intelligente da soddisfare materialmente, impedisce all'uomo di fare vera economia arrivando a ignorare persino le leggi di economia naturale e negare la vita, camuffare le leggi economiche, barare nel loro uso. In pratica sovvertendo le leggi stesse dell'economia, come è successo negli ultimi anni. È il nichilismo il nemico dell'economia per l'uomo. Ora, oltre a fare tanti progetti di soluzione della crisi, sarebbe bene cercare di lavorare anche sulle idee, distinguendo che cosa è mezzo da che cosa è fine, e pertanto smettendo di riconoscere all'economia una sua autonomia morale, facendola tornare alla responsabilità personale di chi fa economia. Ma anche il senso di responsabilità personale, essendosi un po' affievolito, deve essere rieducato perché le scelte economiche producono effetti sociali e morali importanti. È "come e perchè" queste leggi economiche sono applicate che spiega se si sta facendo o no vera economia. Deve anche esser rieducata perché mentre gli strumenti economici sono diventati piuttosto sofisticati (si pensi ai famosi prodotti finanziari derivati), l'uomo sembra aver avuto una evoluzione inversa di maturità nella conoscenza e sapienza. Così questi strumenti tendono a sfuggirgli di mano... (come predisse Giovanni Paolo II nella Sollecitudo). Provocando e gestendo questa crisi, l'uomo immaturo ha dimostrato di saper sprecare molte risorse anziche valorizzarle; ha sostenuto uno sviluppo economico incompleto, fittizio e persino falsato; non ha operato per la distribuzione della ricchezza come avrebbe dovuto. La presunta autonomia morale, sempre nichilista, dell'economia ha portato a prescindere relativisticamente da valori e regole etiche, spingendo al massimo egoismo e ricerca del piacere e potere. Non solo, lo ha portato a credere che etico sia solo ciò che si tocca. Che sia il profitto in quanto tale (prescindendo da come si è creato) o le cose disponibili in un sistema consumistico e materialistico. Sì, c'è una crisi morale alla base di questa economica, c'è una crisi che si fonda sulla certezza che solo la libertà totale (anche irresponsabile e ignorante) può condurre alla conquista della verità, anziché il contrario. Che cioè la vera libertà nasca solo dall'accettazione di una verità originale. Senza questa verità, per esempio, la soluzione di questa crisi nel nostro paese si potrebbe trovare a breve in una bella bolla edilizia condita da dosi massiccie d'inflazione (con evidenti vantaggi e svantaggi), anziché in un giusto periodo di austerità condita da sobrietà dovuta, dato un benessere precedente insostenibile. Persino Bertrand Russell scrisse profeticamente che, senza il senso morale civile, le comunità spariscono e senza morale privata la loro sopravvivenza non ha valore... In fondo se, ragionando nichilisticamente, la vita umana non ha un senso, perché mai dovrebbe averlo l'economia? La risposta si trova nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI.

“Noi italiani senza memoria”.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera fanno un’analisi del nostro Paese a quasi 150 anni dall’Unità d’Italia e nelle prossime settimane proporranno un percorso sui luoghi del nostro Risorgimento.

Era questo il Paese che sognavano Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni Cairoli e tutti gli altri ragazzi morti perché noi italiani stessimo insieme? E’ questa l’«Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione» che immaginava Mazzini nella lettera alla madre Adelaide («Voi che li avete veduti sparire a uno a uno…») dove si diceva certo che la memoria di quei fratelli sarebbe rimasta in eterno «simbolo a tutti del dolore che redime e santifica»? Mah… Centocinquanta anni dopo, il nostro è uno strano Paese che non conosciamo bene. Un Paese che, lasciandosi alle spalle secoli di povertà, violenza e degrado che ancora a metà dell’Ottocento spinsero Charles Dickens a scrivere pagine cupe in Visioni d’Italia, ha vissuto tra mille contraddizioni decenni di recupero e sviluppo fino al formidabile boom che ci portò ai primissimi posti nel mondo. Un Paese dai paesaggi bellissimi e insieme sfregiato da orrori urbanistici.
Traboccante di intelligenze, ma il pi delle volte sprecate. Ricco come nessun altro di opere e città d'arte ma incapace di sfruttare questo immenso patrimonio. Un Paese nel quale la burocrazia soffoca le imprese, dove le tasse sono fra le pi alte del pianeta, dove la classe dirigente, anziana e aggrappata al potere, ostacola il ricambio. E dove il razzismo strisciante avvilisce la nostra storia di emigranti. Un Paese pieno di energia ma anche impaurito, capace di straordinari slanci di solidarietà come dopo il terremoto a l'Aquila ma anche esposto alle tentazioni di barricarsi, dal Nord al Sud, in egoismi sovente gretti e suicidi che rischiano di portare alla disgregazione.

Un Paese spaesato. Che fa sempre pi fatica a riconoscere le ragioni dello stare insieme. Che giorno dopo giomo, liberandosi di certe forzature retoriche sabaude e poi fasciste che avevano impomatato una certa idea di patria («Ed essa faremo co'petti, co'carmi / superba nell'arti, temuta nell'armi / regina nell'opre del divo pensierx.) sembra aver buttato via l'unica epopea che aveva. Quella del Risorgimento. ll grande romanzo culturale, mllitare e sociale (pieno di colpi di scena e avventure umane e tradimenti e slanci ideali e lutti e pathos ed errori e leggendari esempi di dedizione) che altri avrebbero sbandierato con l'orgoglio di chi mostra la storia di terre e genti divise da secoli che in pochi anni sanno diventare una nazione.
Dove va un Paese che non ama la propria storia? Un Paese timoroso del suo futuro e infastidito quasi dal suo passato, come dimostrano le incertezze e le insofferenze nella programmazione del Centocinquantenario? E' quello che cercheremo di scoprire con un lungo viaggio attraverso i luoghi della nostra memoria collettiva. Scopriremo che i campi di battaglia sono diventati aree industriali forse oggi un pò arnmaccate ma floride, che dove attraccarono i Mille ci sono ombrelloni e vilette abusive, che a due passi da dove Garibaldi disse «Obbedisco» comanda la camorra o si batte coraggioso un prete di frontiera. E magari scopriremo anche che non solo l'Italia è un Paese vivo pronto a ricominciare ma che nella storia rlisorgimentale ci sono ancora molte cose da raccontare, che forse vengono ignorate dai libri ma sono nel cuore e nella pancia delle persone e rappresentano la ricchezza delle comunità locali. Una ricchezza da preservare e tramandare.

venerdì 12 febbraio 2010

Dove si trova la felicità

Un recente studio recita testualmente che "... l'85 per cento degli intervistati riconosce di avere provato il flow, l'esperienza ottimale, soprattutto in tre ambiti: il lavoro, il tempo libero strutturato, cioè hobby come lo sport, la lettura un'attività artistica, e le relazioni." A dare i livelli più bassi di soddisfazione, sebbene la gente confessi di dedicarvi molto tempo, sono i media: tv, videogiochi, internet.
Viene spesso citato uno studio a conferma di un fatto all'apparenza sorprendente: chi ha vinto la lotteria o realizzzato un sogno di una vita non vede aumentare il suo livello di felicità nel lungo periodo. Mentre sopravissuti a traumi e tragedie, passato un pò di tempo, dichiarano lo stesso livello di felicità di prima.
Come se si tornasse al punto di partenza. Incredibile no ?

Gli esseri umani hanno molte idee sbagliate su cosa può renderli felici. Seguendo il vecchio adagio che i soldi non danno la felicità è stato dimostrato in una ricerca che se passare da un guadagno annuale di 5 mila euro a 50 mila euro fa un'enorme differenza, mettere in tasca 50 milioni invece di 50 mila euro non influisce granchè su come uno si sente. Errori sistematici di valutazione che si fanno, soprattutto quando si tratta di proiettarsi nel futuro. Tra i più comuni è quello di pensare che ci sentiremo nel futuro come ci sentiamo oggi. Quante volte dico ad amici che hanno momenti di sconforto o si sentono depressi di proiettarsi a 2 settimane, poi 2 mesi in avanti e pensare cosa rappresenterà per loro questa cosa. Più nulla. Ma l'esercizio mentale spesso non riesce perchè ci si ancora allo stato del momento. Non si esce dalla griglia mentale.

Molte delle più importanti sfide, tirare su  dei bravi figli, fare bene al lavoro, essere un buon membro della comunità, non portano solitamente felicità nel breve termine. Molte delle cose che dobbiamo fare ogni giorno per essere persone decenti e accettate sono in realtà stancanti, impegnative, stressanti. Conta la sensazione di essere in grado di affrontare la vita quotidiana, ma anche quella di crescere emotivamente e sentire di avere uno scopo nell'esistenza, avere buone relazioni con altri e non lasciarsi influenzare troppo dal loro giudizio. Inoltre è importante avere un alto tasso di resilienza, significa farcela nonostante le difficoltà, lavorare duro e perseverare.

Seneca nel De vita beata già sosteneva che la felicità si può apprendere con l'esercizio. Nonostante gli antichi avessero già scritto tutto, oggi si è conspevoli che è possibile accrescere il benessere psicologico per resistere di più allo stress che questa vita porta ad affrontare.
Occorre lavorarci sopra con impegno...

giovedì 11 febbraio 2010

L'integrità

Le persone integre sono quelle persone "intere" che possono essere identificate poichè orientate verso scopi precisi. Rappresentano una sorte di libro aperto. Tutti noi ci troviamo di fronte a desideri conflittuali o a scelte difficili. L'integrità, che è una sorte di codice morale interno che uno si forma negli anni, stabilisce le regole fondamentali e consente di risolvere le tensioni e scegliere. Si può dire che l'integrità non è tanto ciò che facciamo, quanto ciò che siamo.
Ritengo l'integrità un risultato dell'autodisciplina, di quella capacità di sviluppare una fiducia interiore che ti porta ad essere onesto in tutte le situazioni della vita. A volte sarà difficile, ma la riflessione attenta e quella sensazione che ti coglie immediatamente dentro, sgradevole o no, davanti alla decisione, ti permette sempre di stabilire cosa fare.
Socrate diceva "...la prima chiave della grandezza è essere nella realtà ciò che sembriamo...". Semplice, ciò "costringe" ad essere autentici ed esprimere il nostro carattere a tutto tondo.
Quando si perde la ricchezza, niente è perduto; quando si perde la salute, si perde qualcosa; quando si perde il carattere, si perde tutto.

domenica 7 febbraio 2010

Fita, un’osteria che è nei ricordi di tanti.

Ha riaperto a novembre dello scorso anno l’osteria Fita, che sicuramente riporta nella memoria di molti della generazione dei “baby boomers” (anni ’56-63) a momenti della propria giovinezza quando si usciva indubbiamente meno per mangiare e si cercavano comunque posti poco costosi. Fita era un luogo “alternativo” a ristoranti come “Richì”, sempre situato a Borgo Tossignano, e fungeva involontariamente da contraltare a locali come questo famoso all’epoca per matrimoni, banchetti e per una certa ristorazione “un po’ più elevata”. Inoltre era un ritrovo per quelli che “andavano a mercato”. Altri momenti di un mondo diverso ormai scomparso. La nuova gestione è sulla buona strada per farsi segnalare nuovamente come un posto da frequentare con soddisfazione per il palato e per lo spirito. La ristrutturazione, profonda e accurata, ha richiesto più tempo del previsto costringendo a rimandare un poco l’apertura, ma consegnando inalterato il locale com’era un tempo e offrendo alcuni contributi alla storia del luogo. Entrando vi ritrovate nella lunga sala, con i tavoloni come un tempo ma particolari (tante casse di vino hanno collaborato alla loro realizzazione). Il camino centrale c’è ancora, migliorato perché l’odore di fumo non vi accompagnerà una volta usciti, alcuni particolari come il rifacimento dell’impianto elettrico e delle lampade come si vedevano un tempo denotano la cura e la passione di chi ha rilevato l’esercizio, che mi dicono essere anche un notevole “bricolare” e l’autore di buona parte della ristrutturazione. Presente ancora il bancone, come la piccola saletta interna. I locali della cucina rinnovati. Foto di Borgo Tossignano negli anni ’20 arredano le pareti. La cantina ferocemente recuperata all’abbandono delle precedenti gestioni, presenta in un angolo ancora il rialzo in legno che conteneva le botti in cui il primo proprietario faceva il vino (l’uva era versata dalla finestra-feritoia che dà sul cortile interno) poi mesciuto nei locali sopra agli avventori. Sono state recuperate anche delle doghe delle vecchie botti e sfruttate come divisori nella cantina. La cucina è quella che io chiamo di tradizione e innovazione. Attenzione ai prodotti del territorio, ma con puntate creative e accostamenti anche “stranieri”. Così troviamo le uova del contadino affogato con trifola di vallata, la polenta abbrustolita con sfiandrine e ricotta al forno, gli strozzapreti con friggione e guanciali di mora romagnola, le tagliatelle con porcini, prosciutto e scalogno, il carré di agnello con patata mantecata o il maialino da latte al forno con olivelle e rosmarino. Accanto a carne alla griglia, cotta in bella vista nel camino, troviamo il ciurrasco o il gulash. Tra i dolci cito la mousse di squacquerone con castagne caramellate e la torta di mandorle e ricotta. Pane toscano e “streghe”. Buona proposta di vini, italiani e non, con suggerimenti particolari come il rosso della costa del Rodano francese che ho potuto assaggiare. Il lunedì è proposto il baccalà, il giovedì i bolliti e l’intenzione da febbraio è di dedicare uno spazio ogni mese a piatti di una cucina regionale: la prima sarà quella piemontese.

Osteria da Fita - Via Roma - 40021 Borgo Tossignano (BO) - Tel. 0542 91183 - Chiuso Domenica e Sabato a pranzo

Per non dimenticare ancora: Vi porto a Belzec

di Andrzej Stasiuk

Qui i nazisti hanno sterminato 500 mila ebrei nelle camere a gas e poi bruciati
 
Un giorno prima dell'inizio delle feste ho fatto un viaggio lungo la frontiera orientale della Polonia. Amo molto quella zona. Di tanto in tanto si vede scorrere il Bug lungo la frontiera. Non c'è molto traffico. A volte appare una vecchia automobile. Per decine di chilometri non c'è neanche un distributore di benzina. Dalla strada si vedono pascolare i cerbiatti. Non hanno paura. Sollevano la testa, ti guardano un attimo e tornano al loro mondo. Nei villaggi ci sono delle chiese ortodosse. È l'antica frontiera polacco-ucraina. Qui finiva l'Occidente e aveva inizio l'Oriente. Qui il cattolicesimo cedeva il passo all'ortodossia. Oltre alle chiese cattoliche e ortodosse non vi è nulla di antico. È una zona di campagna con gli edifici in legno, e del passato non sono rimaste molte tracce. Dominano primitivi palazzotti comunisti a forma di cubo. Questa zona è definita la 'Polonia B': arretrata dal punto di vista culturale, povera, preindustriale.
Proprio accanto alla frontiera ucraina si trova la località di Belzec. Una via di mezzo fra una cittadina e un paesotto. Una strada statale, una stazione, alcune case a non più di un piano. Qualche negozio. Boschi tutto intorno. Nient'altro. Qui nel novembre del 1941 i tedeschi costruirono un lager. I trasporti umani arrivavano anzitutto dalla Galizia orientale e occidentale, da cittadine piccole e medie in cui a volte la maggior parte degli abitanti erano ebrei. Venivano trasportati qui dai dintorni dell'ucraina Kolomya, là dove nacque il chassidismo che con la sua santità gioiosa e plebea aveva irradiato tutto il mondo, ebraico e non ebraico. Venivano trasportati qui dalle mie zone, dalla Polonia attuale, da Dukla, Zmigrod, Gorlice. Non si sono conservati documenti. È possibile anzi che non ci fossero affatto. Nei punti di carico scrivevano col gesso sui vagoni il numero delle persone che vi erano stipate. Una volta arrivati a Belzec controllavano se il numero coincideva. Poi uno stretto passaggio delimitato da filo spinato, un vagone dopo l'altro, lungo cui si veniva sospinti verso un edificio in legno. Sull'ingresso era appesa una stella di Davide e la scritta: bagni, inalazioni. Humour tedesco.
Sul retro dell'edificio in un capanno a parte il motore di un carro armato sovietico T34 pompava gas di scarico. Era provvisto di filtri che rendevano il fumo assolutamente inodore. Nei locali della camera a gas erano appese delle finte docce. Dopo 20 minuti si aprivano le porte e il Sonderkommando ebraico trascinava fuori i cadaveri nudi, a cui venivano strappati i denti d'oro e d'argento e a cui si esaminava l'ano per controllare che non vi fossero nascosti oggetti di valore. Poi i cadaveri venivano sepolti in grandi fosse proprio accanto alle camere a gas. In seguito però gli analisti dello sterminio decisero di rimuovere ogni traccia. I cadaveri vennero esumati e bruciati all'aria aperta. Su graticole di binari ferroviari: uno strato di corpi, uno strato di legna, uno strato di corpi, uno strato di legna, e infine un liquido facilmente infiammabile, olio o benzina. Le ossa che non si erano bruciate venivano macinate in un apposito mulino e sparse al vento. Tutto ciò a tre, quattrocento metri di distanza dalle case dove abitava la gente. Nelle relazioni si ripete spesso che per settimane intere gli abitanti di Belzec raschiavano via dai vetri delle finestre il grasso umano che vi si era depositato. Il grasso di 500 mila ebrei.
Di questi 500 mila se ne salvarono tre. Uno di loro - Chaim Hirszman - dopo la guerra diventò un funzionario dei servizi di sicurezza segreti comunisti. Nel 1946 la guerriglia anticomunista gli sparò mentre si trovava a casa sua. Oggi è difficile stabilire se sia stato ucciso perché ebreo o perché comunista.
Pioveva e si scioglieva la neve. Tutta la zona del campo era ricoperta di rifiuti, pietre, sassi, scorie degli altiforni, scorie di carbone. Nel luogo in cui si trovava la strada che conduceva alle camere a gas è stata scavata una fenditura nel terreno. Si scende in basso, in basso, in basso, finché il cielo sulla tua testa quasi scompare. Sulle pareti di granito hanno inciso centinaia di nomi. I cognomi non si sono salvati, sono dunque rimasti solo i nomi: Genia, Gendla, Haskiel, Hedda, Hudesa, Icchak, Icek, Ichel Juda, Jude, Judel, Judes. Qualche decina di ettari di cenere e nomi nudi. Nel giugno del 1943 i tedeschi liquidarono il campo e cancellarono ogni traccia. Solo la gente del luogo sapeva cosa fosse veramente successo. Dopo la guerra, quando i tedeschi non c'erano più, scavarono alla ricerca di oro e brillanti.
Pioveva e oltre a me nel campo c'era solo una coppia messicana con una guida polacca. Cercavano di capire qualcosa, ma non potevano far altro che tenersi per mano e guardarsi intorno impotenti. Subito oltre la recinzione iniziava il bosco, senza interruzioni fino alla frontiera. Fino alla frontiera dell'Unione europea. Oltre a Belzec in quella zona di confine i tedeschi costruirono altri due campi, a Treblinka e a Sobibór, destinati unicamente allo sterminio degli ebrei. Entrambi nei boschi, e di entrambi non è rimasta alcuna traccia materiale. Tutti e tre al limitare della 'civiltà europea' ovvero là dove, secondo i tedeschi, avevano inizio la barbarie e il nulla.

venerdì 5 febbraio 2010

Resistere

Ogni battaglia, ogni lotta, ogni sconfitta, acuisce la nostra abilità e aumenta la nostra forza. Alimenta il nostro coraggio, la nostra resistenza, potenzia le nostre capacità e il nostro senso di sicurezza. Ogni ostacolo quindi diventa un compagno d'armi che ci costringe a diventare migliori. Oppure possiamo mollare, abbandonare la lotta e rientrare nel branco. Ricordiamoci che ogni umiliazione è un'opportunità per andare avanti un passo in più, per mettersi ancora una volta alla prova e dimostrare, prima a se stessi, che "si può fare". Non accettarlo significa rinunciare ai nostri sogni, al nostro futuro. Esiste sempre un'altra possibilità. 

mercoledì 3 febbraio 2010

Le delusioni

La vita è composta anche di problemi. E' utopico pensare che si possano evitare e impossibile a realizzarsi. La nostra esistenza è attraversata anche dai problemi oltre che dalle soddisfazioni. Così come non esistono avvenimenti da cui trarre sempre il 100% di soddisfazione.Un piccolo margine di insoddisfazione ci sarà spesso. Dobbiamo esserne consapevoli ed accettarlo. Aiuta ad affrontare con il giusto spirito le delusioni che, inevitabilmente, ci procura la vita di tanto in tanto. Esigere troppo nei singoli momenti ci rende eternamente insoddisfatti e, molte volte, poco piacevoli a chi ci circonda.

martedì 2 febbraio 2010

Nella visione di Adriano Olivetti il nuovo paradigma dell’economia partecipata

Le affinità fra il modello olivettiano e quello cooperativo

di Mauro Casadio Farolfi

Parte da Imola una riflessione sull’attualità del modello aziendale dell’imprenditore Adriano Olivetti e sulle sue affinità con i valori espressi dalla cooperazione industriale. Imola è certo la sede naturale di tale riflessione, per il suo imponente contributo alla storia del mondo cooperativo e per essere sede, da un lustro, dei convegni organizzati dall’associazione Città dell’uomo sul pensiero del grande imprenditore di Ivrea.

Mauro Casadio Farolfi, è ideatore e fondatore dell’associazione Città dell’Uomo di Imola. Casadio Farolfi, qual è l’attualità del pensiero di Adriano Olivetti?
«Lo stile aziendale olivettiano era innanzitutto basato sulla valorizzazione delle risorse umane e più in generale dei fattori immateriali dell’impresa, su un fecondo rapporto fra azienda e cultura e sull’interrelazione tra impresa e la sua responsabilità sociale ed etica con il territorio. Sono temi di un dibattito da alcuni anni avviato in molte imprese private e cooperative. Le imprese cooperative industriali, a partire da quelle presenti nel nostro polo economico possono trovare nel confronto con l’esperienza olivettiana nuovi riferimenti etici, aggiornando quei valori di mutualità e solidarismo che caratterizzarono la loro origine».

Ma Olivetti fu un industriale, non un cooperatore.
«Fu un grande industriale che intese l’azienda come centro di una comunità che saldasse uomini, lavoro e cultura. Nella visione di Adriano Olivetti l’impresa è motore di sviluppo economico e sociale della comunità, è cuore produttivo e centro di diffusione di valori etici per la persona e per la comunità. La sua era una cultura imprenditoriale costruita su forti convinzioni riformiste e solidaristiche, con una forte influenza da parte del padre socialista di origini ebree e della madre di fede valdese. Il suo pensiero politico, alimentato sempre da valori di origine spirituali liberi da dogmi, ebbe una pluralità di riferimenti storici e culturali: da Jacques Maritain a Emmanuel Mounier, da Simon Weil ad Altiero Spinelli. Fondamentali nella visione olivettiana furono le esperienze di comunità di Robert Owen e il pensiero di Lewis Mumfod, precursore del federalismo».

Ma come fece ad applicare la sua «utopia concreta»?
«La principale aspirazione di Adriano Olivetti fu di sperimentare il connubio tra etica e produzione, di coniugare modernizzazione e umanesimo. Per giungervi fondò un modello industriale che al lavoro affiancò servizi socio-assistenziali e il varo di una rivista e di un movimento politico fregiati dell’identico nome “comunità”. Una “comunità concreta”, ossia un raggruppamento di forze sociali, individualizzato storicamente, geograficamente ed economicamente, che fosse in grado di soddisfare con la propria azione collettiva i bisogni essenziali dell’uomo: il lavoro, l’abitato, la cultura, il tempo libero, l’ambiente. L’esperienza di Olivetti ebbe anche un altro enorme merito: mirò a valorizzare le competenze culturali dei tanti storici, sociologi, urbanisti ed esperti del design che trovarono nell’azienda una sorta di fucina in cui forgiare le proprie idee e, grazie all’apporto delle menti più evolute nei rispettivi ambiti, una vera agorà utile all’impresa e alla società per un rinnovamento quotidiano. Attorno a Olivetti crebbe in tal modo un’intera generazione di uomini che hanno in seguito caratterizzato fortemente il terreno culturale dell’Italia repubblicana, una generazione tutt’oggi molto attiva che ha tramandato alle generazioni successive gli ideali di quell’esperienza».

Dunque un’alternativa ai modelli dominanti?
«L’impianto ideologico che sorreggeva il progetto olivettiano L’Associazione Città dell’Uomo affronta «l’utopia concreta» del grande imprenditore con la visione etica e mutualistica della cooperazione industriale. Superare le dualità dipendente-socio e capitale-lavoro nel rilancio di una nuova fase economica era quello di fondare una “terza via” tra liberalismo e socialismo di stato. Questa “terza via” mirava a conservare le linfe migliori dei modelli economici già sperimentati, a preservare dunque sia il liberalismo e sia il socialismo, coniugandoli in uno stampo aziendale dove al centro ci fosse l’uomo.
Per Olivetti il capitalismo basato su un liberismo senza regole era “cieco”, per cui pensò che fosse necessario far convivere nella società capitalismo d’impresa, socialismo fabiano e democrazia partecipata. L’ideazione di quel percorso e la sua attuazione pratica sono movimenti di squisita natura “politica”. L’idea olivettiana fu idea politica nel senso pieno del termine, rivolta cioè alla “polis”, alla “comunità”, cui egli intendeva fornire un centro forte: l’azienda».

Ma arriviamo alla cooperazione.
«L’origine del movimento cooperativo industriale imolese fu caratterizzato dalla forte influenza politica e culturale di Andrea Costa e quindi del pensiero socialista, cui si affiancarono influenze di uomini con impronta politica liberale e cattolica che avviarono cooperative in vari settori e fecero del polo cooperativo imolese un unicum per pluralità d’esperienze. Centrale per una riflessione su quest’aspetto di mescolanza di cultura politica è la collocazione del polo imolese in un modello economico e sociale, quello dell’Emilia Romagna, dove da oltre un secolo uomini e idee si sono fatti portatori di un processo di governo riformatore di impronta cattolica, liberale, socialista. La storia dell’economia della nostra regione ha suscitato l’interesse di molti studiosi europei ed anche di premi Nobel per l’economia, come l’americano Joseph Stiglitz e il premio Nobel Amartya Sen. La ricerca e l’innovazione delle imprese cooperative devono andare di pari passo con la cultura della cooperazione, aggiornata e calata nelle esigenze e nelle sfide attuali, mantenendo l’impegno anche sugli aspetti dell’etica e dei valori base fondanti. La cooperazione nazionale può rappresentare una valida proposta imprenditoriale con una missione basata sul principio di partecipazione del lavoratore alla conduzione dell’impresa, capace nello stesso tempo di competere sui mercati mondiali».

Etica e competitività possono coesistere?
«Al centro del pensiero economico e sociale olivettiano c’è un’etica di impresa che non mira solamente al profitto, ma rispetta il legame profondo con la società civile. Al fianco di una buona redditività deve esserci, per qualsiasi impresa, una vocazione umanistica del lavoro, che non si esprime solamente in un taylorismo dal volto umano ma in una concezione più ampia. Era evidente in Olivetti l’aspirazione a un’impresa etica che per rafforzarsi ed espandersi necessitava di un coinvolgimento più ampio del sistema economico, sociale e anche politico sull’intero territorio nazionale. L’impianto del pensiero olivettiano si basa su alcuni pilastri forti e fra loro conseguenti: la persona, la comunità, l’impresa socialmente responsabile e non ultimo il federalismo. In Olivetti non c’era alcun desiderio di un ritorno a una visione romantica della comunità, bensì la costruzione di una comunità aperta, moderna rivolta prevalentemente al futuro. C’era in lui una forte attenzione per la ricerca di un modello aziendale partecipativo, non antagonista, dove i lavoratori a tutti i livelli devono avere un ruolo nei processi decisionali».

In che modo, oggi?
«Parlando di cooperative, occorre valorizzare la crescita culturale e professionale del management e più in generale delle modalità di selezione della classe dirigente cooperativa, occorre rendere condivisi e compartecipati dai singoli lavoratori i comportamenti etici dell’impresa cooperativa, nel rispetto della persona. Occorre trasferire nelle persone quelle “tracce di comunità” presenti nelle cooperative affinché siano consapevoli e protagonisti di un processo collettivo di trasformazione dell’economia, soggetti attivi per una comunità concreta. Il dibattito sulla cooperazione e le sue prospettive non può prescindere da alcuni nuovi interrogativi per estendersi al di fuori dei distretti storici, come quello imolese, per proporsi come modello economico e sociale valido in tantissimi comparti imprenditoriali e affiancarsi con proprie modalità alle imprese private e pubbliche».

Imprese private e imprese cooperative?
«Una cooperazione di tipo nuovo e un capitalismo di stampo etico devono insieme affrontare le sfide del futuro ssumendo processi di innovazione e modernizzazione anche nei rispettivi processi di “governance”, di codici aziendali spesso superati, utilizzando, però, tutti i nuovi strumenti che il mercato mette a disposizione. Tra questi l’accesso in borsa anche per alcune cooperative, attraverso forme societarie che possono essere quotate, ma pur sempre gestite con l’obiettivo finale di perseguire i propri fini sociali e mutualistici. La trasformazione del capitalismo da industriale a finanziario, sempre più accentuato negli ultimi decenni, fu una delle cause, insieme alla improvvisa morte a soli 59 anni di Adriano, del declino della Olivetti e rappresenta tutt’ora una sfida e nel contempo un’opportunità per le imprese private e cooperative in continua evoluzione verso un capitalismo finanziario sempre più aggressivo e senza regole. La finanziarizzazione dei mercati va affermando la preminenza dell’economia speculativa su quella produttiva e sociale e ciò richiede che tutti noi adottiamo un nuovo paradigma di lettura, compiendo ulteriori riflessioni sul capitalismo “senza volto e nomade” e su quali misure fiscali siano possibili senza attivare semplicistiche quanto impossibili barriere di protezionismo».

MAURO CASADIO FAROLFI
«Quattro anni con Olivetti» è il titolo del volume appena pubblicato e curato da Antonio Castronuovo e Mauro Casadio Farolfi (Editrice La Mandragora, Imola), che raccoglie gli atti dei convegni organizzati dal 2004 al 2007 dall’associazione Città dell’Uomo e dedicati al pensiero del grande industriale Adriano Olivetti. Il libro si completa con le interviste di alcune figure di spicco dell’imprenditoria (e del mondo cooperativo): Ludovico Acerbis, Alberto Alessi, Benito Benati, Federica Ghetti, Marino Golinelli, Adolfo Guzzini, Enrico Loccioni, Marco Roveda, Stefano Venturi, Romano Volta.

lunedì 1 febbraio 2010

Gossip La chiacchiera primordiale che dà un aiuto ai manager

Repubblica — 11 gennaio 2010 pagina 27 sezione: CRONACA

ANCHE quando eravamo primitivi eravamo pettegoli. Per fortuna: non saremmo arrivati fin qui. Il gossip lega,è primordiale, universale. Ci ha reso molto umani, esseri sociali, persino simpatici (almeno in senso etimologico: sentiamo). Il chiacchiericcio ci ha evoluti, ha rimesso un po' in ordine le cose, ha favorito le relazioni. Il pettegolezzo ci emoziona, pure nella più razionale delle situazioni: puntando in Borsa. Tendiamo a condannarle, sbagliato. Ciance e dicerie spiegano molto di come siamo fatti, lo sostengono due nuove ricerche di studiosi italiani che verranno presentate domani a Roma al seminario "Le virtù del pettegolezzo" presso l' Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr. Si parlerà dell' importanza della reputazione e dei rumors nel sistema sociale ed economico, specie in questa società e in questo mercato così pieni di brusii, informazioni e internettiani blah blah blah. Ma lo sai che, si dice che, pare che. Pure un banchiere, un manager, uno che investe in Borsa non ne è immune. Uno studio del gruppo di ricerca GECS dell' Università di Brescia tra il 2007 e il 2009, dimostra l' estrema sensibilità degli attori economici rispetto a reputazione e gossip, anche quando le varie voci non hanno alcuna conseguenza sui risultati materiali. Spiega Flaminio Squazzoni, del dipartimento di Studi Sociali dell' Università di Brescia, che «questa sensibilità sembra addirittura provenire da elementi pre-cognitivi, non razionali, cioè da fattori emotivi che gli individui attivano in modo reattivo, probabilmente legati all' importanza che il giudizio dei simili ha esercitato sin dal Paleolitico sul successo individuale nell' evoluzione di lungo periodo delle società umane». Il gossip ci precede, anticipa la nostra maturità: in alcuni recenti esperimenti condotti su bambini in età pre-socializzazione, dunque prima di essere influenzati dalle norme sociali, i piccoli si sono dimostrati molto attenti alla reputazione e al giudizio altrui. Una specie di sensibilità innata. Una specie di forza che supera l' oggettività. Anche quella del mercato: nella complessità e asimmetrie delle informazioni che circolano, nell' incertezza, gli economisti si fanno fortemente influenzare "dalla pancia": i bisbigli permettono apprendimento, scambio, collaborazione. Nel rischio, nel rumore di fondo, scaturisce la scelta giusta. Altro che maldicenze. Il gossip è una forma di comunicazione che garantisce un certo grado di ordine sociale. «Dal punto di vista dell' evoluzione biologica e culturale, le società umane si sono allargate nella storia in tempi e dimensioni nettamente superiori rispetto ad altre specie vicine». Spiega Rosaria Conte, ricercatrice dell' Ist del Cnr, che «le condizioni per questa crescita sono l' intensificazione dei rapporti di scambio e cooperazione e il controllo di comportamenti negativi, come la truffa e l' inganno ( cheating ). Tutto ciò si rende possibile attraverso la costruzione di una particolare forma di conoscenza sociale: la reputazione». Dietro la quale, sia buona o cattiva, c' è appunto il gossip: «Riportando un' opinione non a titolo personale, bensì attribuendola al pensiero diffuso, la fonte evita di assumersi la responsabilità di quanto dice: dunque si sottrae a eventuali rappresaglie e faide». Il pettegolezzo è insomma un' arma pacifista e socializzante, sebbene ipocrita. «Gli esseri umani sono così riusciti a controllare l' inganno, aumentando allo stesso tempo la dimensione dei gruppi sociali». La letteratura scientifica, seguendo aspetti evoluzionistici ed etologici del pettegolezzo, racconta che la reputazione è fra le istituzioni sociali primordiali quella più universale. E l' arte della diceria tra le più intelligenti della specie umana, se l' individuo paga la collettività ci guadagna. In coesione, in ampiezza, in resistenza. Si dice si dice, e il resto sono solo parole.

ALESSANDRA RETICO