Qualche sera fa guardavo un dibattito politico in tv. O almeno, così era stato presentato. I contendenti stavano parlando da più di mezz’ora degli stipendi dei parlamentari. Cioè, di quanto guadagnavano, di quanto avevano dichiarato al Fisco; se era tanto, se era troppo, quanto avrebbero dovuto guadagnare, quanto avevano guadagnato altri. Guardavo molto annoiato. Non era la prima volta. E mi sono chiesto: ma la politica, ora, è questo? Cioè, più precisamente: ma cosa mi interessa sapere di un politico, quanto guadagna, oppure cosa fa di concreto in Parlamento o come sindaco di una città? Ero convinto — sono ancora convinto — che la politica riguardi di più, molto di più, la seconda questione.
Però, accanto alla politica concreta, come effetto collaterale non trascurabile, c’è la questione morale: come ci si comporta, quanto si guadagna, se si ha un conflitto d’interessi. In ogni carriera politica, questo aspetto è importante, bisogna porvi attenzione:ma soltanto in seconda battuta, quando si è apprezzata la concretezza del fare politica. Il moralismo potrebbe essere una formula matematica: la questione morale meno la politica reale. Se la questione morale prende il sopravvento su tutto, ecco che si diventa moralisti.
Perché si è arrivati a questo punto? Senz’altro, la prima risposta istintiva e anche sensata, è quella che diamo tutti: perché la politica in questi anni, i partiti e il sistema, è stata deludente, insufficiente e spesso corrotta.
Il dilemma a questo punto è: bisogna buttare via tutto quello che c’è?
La politica dovrebbe avere più omeno questa funzione in una società: ascoltare la gente, e riformulare in proposte, e poi in leggi, i desideri e le istanze. Perfino le insofferenze e gli sfoghi. Il rapporto degli italiani con la politica è da sempre profondamente emotivo, irrazionale. Si esprime rabbia, estremismo, si ha voglia che tutti vadano a zappare la terra. Se si chiede a un passante che cosa vorrebbe succedesse ai politici, spesso risponde: che vadano tutti in galera. O, se è particolarmente buono: che vadano tutti a casa.
Queste frasi raccontano la temperatura di un Paese. Poi ci sono altre richieste più o meno folli, poi altre più o meno sensate. Ma sempre un discorso politico fatto per strada ha un’emotività fortissima, una irrazionalità più o meno comprensibile. Che cosa fa allora di solito la politica, buona o cattiva che sia? Cerca di interpretare gli umori, soprattutto quelli emotivi e irrazionali, e incanalarli in una ragionevolezza, in una strategia. Da qui (certo, per semplificare) nascono i programmi politici, i progetti economici e culturali, la lotta all’evasione fiscale o l’organizzazione della società. La politica è — dovrebbe essere — la parte pacata e riflessiva del Paese, che però tende l’orecchio ai tumulti emotivi della sua gente. La democrazia consiste nell’incanalamento razionale dell’irrazionalità.
Non sta accadendo questo. Da molto tempo, ma in questi ultimi mesi in modo ancora più netto, visibile.
Se la democrazia è un canale razionale per le richieste anche irrazionali, il populismo consiste nel rinvigorire con intenzione quell’emotività, attraverso altra emotività. La democrazia consiste, per chi è addetto al fuoco, nel tenerlo a bada: cioè, tenere il fuoco sempre acceso ma basso, in modo che serva, ma non faccia danni; il populismo consiste nel soffiare di continuo su quel fuoco. Come si soffia sul fuoco? Si accusa il mondo politico di avere in dispregio la Costituzione e la democrazia, e poi si sostiene con disinvoltura che un presidente della Repubblica debba firmare o non firmare le leggi proposte a seconda di motivazioni politiche (e non può farlo); si dice con altrettanta disinvoltura che un presidente del Consiglio non è legittimato a governare se non si è sottoposto a una prova elettorale (ed è assolutamente legittimato). Queste affermazioni alimentano l’indignazione e la rabbia, perché lavorano sul desiderio di migliorare il mondo, programma vastissimo della gente perbene. Ma non usano il linguaggio della politica.
La politica è razionalità. L’irrazionalità allora si può definire, a ragione, antipolitica. Se uno come Beppe Grillo porta la gente in piazza per gridare vaffanculo a tutti, se urla che destra e sinistra sono uguali e che tutti devono andare a casa e il presidente della Repubblica con loro, non si può dire che lavori sulla razionalità, ma decisamente sulla emotività. E trova terreno fertile. È come se la nazionale di calcio avesse come commissario tecnico uno più facinoroso di quelli che discutono al bar. Il risultato sarebbe che finalmente vedremmo quella squadra che si vagheggia nelle discussioni tra avventori, con quattro punte e tre fantasisti. E forse ci divertiremmo anche un po’. Ma dubito che funzionerebbe.
E allora, l’antipolitica è da considerare la rivoluzione che sta arrivando? In poche parole, l’atmosfera dentro la quale siamo porterà a qualcosa di buono? Grillo e il Movimento 5 stelle sono una novità assoluta?
È una questione importante e seria, la presenza di un nuovo movimento e i consensi che ha e che avrà. Ma arriva da più lontano. Grillo e il suo metodo emotivo non sono una novità. In più, l’antipolitica ha una funzione distruttiva e non costruttiva, e infatti appena ha a che fare con la questione della governabilità, il concetto di pulizia assoluta diventa molto problematico da mettere in atto.
Quando è cominciato tutto questo? Lasciamo perdere «l’Uomo Qualunque», restiamo agli ultimi anni. C’è una linea politica emotivamolto forte che ha attraversato il Paese, dagli ultimi anni della prima Repubblica (che ha contribuito a distruggere, appunto, ma non è stata capace di ricostruire). Comincia con la comparsa di Umberto Bossi e della sua Lega. Il suo linguaggio estremo e sprezzante, antipolitico, appunto; che è riuscito addirittura a mantenere con perseveranza nella sua funzione di ministro. Prosegue con Silvio Berlusconi e lo sprezzo del Parlamento; ma è soprattutto la prima campagna elettorale, quella vincente del 1994, che lo propone come antipolitico per eccellenza: l’opposizione a quello che c’era, l’idea che basti non essere dei politici professionisti per portare cose buone. Infine, attraversa una sinistra minoritaria e urlante come quella di Antonio Di Pietro, che è un grande demolitore e un grande moralizzatore, attraversa anche i rottamatori all’interno del Partito democratico (rottamare vuol dire buttare il vecchio per accogliere il nuovo, ma in qualche modo la parola e le intenzioni sono tutte concentrate sulla voglia e la soddisfazione di buttare il vecchio, e basta) e arriva dritto dritto a Grillo, interprete definitivo e assoluto.
Però: può la politica diventare un oggetto soltanto emotivo e irrazionale? Se pensiamo al passato, vengono in mente Moro, Berlinguer, Craxi, La Malfa, Andreatta, Andreotti — cito in ordine sparso e non esaustivo, buoni e cattivi. Erano tutti lavoratori razionali che cercavano di interpretare gli umori — lo facevano bene o male, in favore del Paese o a proprio favore, ma non si poteva concepire la politica in altro modo.
L’avvento di Grillo sancisce definitivamente che la politica è diventata una formula emotiva esponenziale. Se la gente è insoddisfatta, può esprimere la sua irrazionalità ed emotività attraverso un movimento che accoglie e autorizza lo sfogo, lo rende attivo. Tutti quelli che sono arrabbiati hanno molte ragioni, ma gli arrabbiati devono avere rappresentanti politici meno arrabbiati che rappresentino le loro istanze. Adesso invece hanno rappresentanti politici più arrabbiati di loro. È questo il paradosso che alla fine ha cambiato e sta cambiando il linguaggio, la forma e il contenuto della politica.
Ad esempio, Grillo propone il metodo dei referendum a raffica: è un altro fraintendimento della democrazia; si dovrebbe ricorrere ai referendum soltanto per questioni epocali (il sistema proporzionale o maggioritario?), soprattutto etiche (l’aborto, il divorzio). Per il resto esiste il Parlamento (e con ciò si intende un Parlamento i cui rappresentanti siano votati direttamente dagli elettori; altro concetto elementare e fondante di una democrazia, che è stato tralasciato con disinvoltura). Ma in Italia ormai — e non solo per colpa dell’emotività della gente, sia chiaro — il Parlamento sembra essere il luogo della colpa assoluta, e due sono le cose che ci interessano: quanto guadagnano, e quando andranno tutti a casa (o, alcuni, in galera).
Tra la politica razionale e la politica emotiva (l’antipolitica), la seconda vince sempre. In Italia vince ancora più facilmente, considerato che la politica razionale è scarsa e senza grandi progetti. Eppure non c’è altromodo, per un Paese, che governare con raziocinio. E infatti mentre altri urlano in piazza, alcuni «tecnici» tentano (a volte bene, a volte male) di tenere a bada la crisi e tenere in vita lo Stato.
Cosa può fare la politica contro l’antipolitica? C’è una Costituzione, un sistema democratico che si definisce rappresentativo, e delle leggi. Da tutto ciò si può derogare? Cioè: il fatto che i rappresentanti politici non facciano funzionare bene, non sfruttino a dovere questo sistema, rende davvero distruggibile con disinvoltura il sistema? È questo il bivio davanti al quale si trova il Paese: lavorare per rinnovare e migliorare la vita politica all’interno della forma data, oppure seguire le demolizioni dell’antipolitica.
Bisogna considerare che rimane in Italia una larga fascia di elettori (ancora la maggioranza?) che alla politica razionale crede ancora. Crede ancora nel presidente della Repubblica, nella governabilità, nella democrazia rappresentativa e quindi crede ancora nella composizione diversificata del Parlamento. Sono anch’essi insoddisfatti, o delusi dell’andamento della politica di questi anni, ma non hanno smesso di credere in un miglioramento di fatto della vita politica italiana, e di conseguenza del Paese.
I partiti che aspirano a governare (di sinistra, di centro o di destra — saranno gli elettori a scegliere) non possono e non devono giocare la partita dell’emotività: non è nel loro dna, anzi in qualche modo costituirebbe un paradosso, la politica che si traveste da antipolitica. Un paradosso per nulla convincente e quindi perdente, oltretutto.
Quindi, devono scegliere l’unica strada alternativa possibile, quella del riformismo. Devono scegliere un punto preciso di posizionamento per essere messi a fuoco dall’elettorato italiano. Si posizionino in quel punto dimezzo tra il loro stesso fallimento e l’antipolitica. Chi ne ha il coraggio prenda su di sé la battaglia del grande cambiamento della forma e dei volti della politica italiana, a cominciare dalle proprie file e dai propri programmi. Ma allo stesso tempo — è questo il punto — sfidi Grillo con coraggio: prenda le distanze dal suo estremismo dialettico, dal suo qualunquismo politico. Lo sfidi con eleganza, ma con determinazione: si presenti al Paese come la forza razionale e costruttiva in opposizione all’onda emotiva che in questo momento Grillo rappresenta. Abbia il coraggio, un partito politico che voglia rappresentare gli italiani, di esprimere dissenso verso chi vuole destituire le fondamenta su cui questo Paese è stato costruito — fondamenta malate e piene di umido —, ma che vanno rivitalizzate e non abbattute. Combatta la battaglia della riforma elettorale, politica, istituzionale.
Sia chiaro: gli elettori potrebbero aver voglia di seguire (eseguire) la pulizia totale che chiede il Movimento 5 stelle. Oppure, chissà, potrebbero esprimere insofferenza giustificata per i modelli politici a cui hanno assistito in questi anni, ma poi fidarsi di uno spirito riformistico, se lo giudicanomoderato ma preciso, attivo, realmente propositivo; e con rappresentanti di chiaro valore. I partiti accolgano senza timore la sfida più affascinante dei prossimi mesi: la politica contro l’antipolitica — ognuno dalla sua parte (ovviamente). E chissà che il risultato non sia affatto scontato. Chissà che in questo Paese si possa tornare a fare politica — si possa continuare a fare politica — nel modo e con i mezzi che i grandi fondatori della Repubblica avevano, con intenzioni buone e concrete, immaginato per noi.