Nella storia del mondo abbondano invece le prove che il modo migliore per ridurre il deficit non è l'austerità, ma una rapida crescita economica che generi reddito pubblico con il quale colmare il deficit. Dopo la seconda guerra mondiale, gli enormi deficit europei sono in gran parte spariti grazie a un veloce sviluppo; è successo qualcosa di simile durante gli otto anni della presidenza Clinton, iniziata con un deficit enorme e conclusasi senza, e in Svezia tra il 1994 e il 1998. Oggi la situazione è diversa, perché in aggiunta alla recessione la disciplina dell'austerità viene imposta per ridurre il deficit a molti paesi con un tasso di crescita zero o negativo. Creare sempre più disoccupazione laddove c'è una capacità produttiva inutilizzata è una strategia bizzarra, e non basta ai padroni della politica europea dire che non si aspettavano forti cali di produzione e alti e crescenti tassi di disoccupazione. Perché mai non se l'aspettavano? Da quale idea dell'economia si fanno guidare? Di sicuro la qualità intellettuale del loro pensiero è un motivo di infelicità. Non si tratta soltanto di avere un'etica solidale, ma anche un'epistemologia decente.
Dire che in caso di recessione la politica dell'austerità rischia di essere contro-produttiva può sembrare una critica sostanzialmente "keynesiana".
John Maynard Keynes ha sostenuto in modo convincente che durante un eccesso di capacità produttiva dovuto alla scarsa domanda del mercato, tagliare la spesa pubblica rallenta l'economia e accresce la disoccupazione invece di diminuirla. Gli va riconosciuto il grande merito di aver fatto capire questo punto fondamentale ai responsabili politici di ogni tendenza. Sarebbe sensato avvalerci delle buone ragioni di Keynes, ormai fanno ormai parte del pensiero economico comune (anche se sono ignote ai leader europei), ma per quanto riguarda la totale inadeguatezza dell'austerità in Europa, ce ne sono altre.
Dobbiamo andare oltre Keynes e chiederci a che cosa serva la spesa pubblica, oltre a rafforzare la domanda del mercato, qualunque ne sia il contenuto. Il risentimento – l'infelicità – di tanti europei per i tagli feroci ai servizi pubblici e per l'austerità indiscriminata non si basa soltanto e neppure primariamente su un ragionamento keynesiano. Fatto altrettanto importante, se non di più, quella resistenza esprime un'opinione costruttiva interessante dal punto di vista sia politico che economico. Parla di giustizia sociale, di ridurre l'ingiustizia invece di aumentarla. I servizi pubblici sono apprezzati per ciò che forniscono in concreto alle persone, soprattutto alle più vulnerabili, e in Europa sono stati ottenuti con decenni di lotta. Tagliarli spietatamente significa rinnegare l'impegno sociale degli anni Quaranta che ha portato alla previdenza e alla sanità pubblica in un periodo di cambiamento radicale. Questo continente ne è stato il pioniere, ha dato una lezione di responsabilità sociale poi imparata nel resto del mondo, dal Sud-est asiatico all'America latina.
Keynes parlò pochissimo di disuguaglianza economica; sugli orrori della povertà e delle privazioni fu di una reticenza straordinaria. Non lo interessavano granché le esternalità e l'ambiente, trascurò del tutto "l'economia del benessere" di cui si occupava invece il suo rivale e antagonista A.C. Pigou. Come ho scritto sulla New York Review of Books - persino Bismarck nell'Ottocento si interessò di sicurezza e di giustizia sociale più di quanto avrebbe fatto Keynes. Gli amici keynesiani mi accusarono di irriverenza (anche quelli della Banca d'Italia), di aver insultato Keynes e vollero farmi ritrattare. Dimenticavano che, sebbene fosse un leader conservatore, Bismarck aveva molto da dire sull'importanza dei servizi sociali.
Per finire, vorrei accennare alla riforma economica di cui molti paesi europei, e non solo la Grecia o l'Italia, hanno senz'altro un gran bisogno. Uno degli aspetti peggiori dell'austerità è stato di rendere questa riforma impraticabile confondendo due programmi: l'austerità dei tagli spietati e la riforma di una cattiva amministrazione (evasione fiscale diffusa, favori concessi da funzionari pubblici per lucro personale e anche insostenibili convenzioni sull'età pensionabile). I requisiti della presunta disciplina finanziaria li hanno amalgamati, sebbene qualunque analisi della giustizia sociale porti a politiche distinte per ciascun programma.
L'amalgama è il frutto di una confusione intellettuale che porta al disastro politico perché collega un bisogno forte e sensato a una follia intempestiva, e nelle campagne politiche unisce gli oppositori dell'austerità a quelli delle riforme indispensabili. L'Europa deve cambiare ora. Nessun paese scaccerà da solo la potente illusione di cui i leader politici sembrano prigionieri, né la Grecia, né il Portogallo e nemmeno l'Italia, eppure bisognerà trovare una voce collettiva per porre fine a tanta miseria e a tanta infelicità.
Chiedo scusa, mi sono dilungato sull'economia mentre volevate sentir parlare di felicità. Mi dispiace, a mia difesa però va detto che per arrivare a un'Europa felice, dobbiamo prima discutere di molte cose infelici. Avrei preferito che non fosse così.
Sole 24 ore - Domenica
mercoledì 30 gennaio 2013
domenica 20 gennaio 2013
Contro l'abuso della questione morale
L’alternativa all’abuso della «questione morale» nella politica non deve essere per forza un cinico ritorno alla vulgata machiavellica, quella secondo la quale non si avrebbe nulla da eccepire sui mezzi, anche spregevoli, per raggiungere un fine. Può essere invece un invito alla modestia per chi coltiva l’insana tentazione di farsi fustigatore degli altrui costumi, e di salire su un pulpito, anziché rimuovere le cause materiali, terrene, della corruzione e del malaffare.
Sulla contemplazione della propria diversità morale si costruiscono infatti fragili piedistalli, e anche reputazioni usurpate. Ma l’abuso della «questione morale» produce in ogni caso risultati disastrosi, cancella la politica come possibile rimozione di problemi e assegna alla lotta politica compiti impropri. La politica non dovrebbe avere la missione di sradicare dal cuore degli uomini la predisposizione al ladrocinio, ma di creare le condizioni perché i ladri siano neutralizzati e costretti a condurre una vita difficile. Forse Machiavelli era troppo cinico, ma Savonarola ha creato disastri ben maggiori.
Siamo nel pieno di una campagna elettorale in cui i partiti devono difendersi dagli effetti di una pessima nomea, peraltro egregiamente conquistata sul campo dopo decenni di ostinata cattiva gestione della cosa pubblica. La nomea di associazioni dedite al saccheggio delle risorse pubbliche, veicoli di corruzione, collettori di tangenti, terra di pascolo per clientele e gruppi affaristici che attraverso la politica si procurano i mezzi per un arricchimento smisurato. È fondata questa nomea o è soltanto il frutto di una propaganda demagogica, o «qualunquista», come si diceva un tempo? È, purtroppo, una nomea più che fondata. Assistere allo spettacolo di consiglieri regionali che scialano in cene pantagrueliche i soldi pubblici degli italiani intascati con appositi regolamenti autopromozionali, oppure vedere in ogni parte d’Italia dilagare, a destra e a sinistra, nel Nord e nel Sud, le ruberie consumate ai danni della sanità italiana, tutto questo rende comprensibilmente sospetto l’appello a non abusare della «questione morale» durante e dopo la campagna elettorale in corso, pena l’accusa di voler minimizzare le colpe di chi fa politica per arricchirsi. Tuttavia bisognerebbe insistere: meglio accantonarla, la «questione morale». E non solo per la ragione trivialmente fattuale, eppure difficilmente confutabile, che nessuno degli schieramenti oggi in competizione può rivendicare una purezza cristallina che ne legittimi le pretese di supremazia etica. Ma perché la «questione morale» perpetua un equivoco e concentra l’attenzione sui comportamenti etici e non piuttosto sulle istituzioni e sulle leggi che dovrebbero impedire una deriva «immorale» nel governo dello Stato.
La «questione morale» è entrata prepotentemente nel lessico politico italiano, all’inizio degli anni Ottanta, con il leader del Pci Enrico Berlinguer. Oggi è molto diffusa la tentazione di idealizzare nostalgicamente il passato e fare di Berlinguer un santino. Ma non è mancanza di rispetto per un protagonista giustamente molto amato e stimato della vita politica italiana constatare che l’abuso berlingueriano della «questione morale» fu il frutto di un errore politico e di una distorsione culturale (lo diceva anche Miriam Mafai in Dimenticare Berlinguer: solo che purtroppo è stato dimenticato non Berlinguer, ma proprio quel fondamentale libro della Mafai). L’errore politico (allora blandamente contrastato dall’ala migliorista del Pci, con Giorgio Napolitano) fu quello di voler uscire dall’impasse del compromesso storico sconfitto con un’accentuazione del settarismo, con la sopravvalutazione della «diversità» e con un attacco furioso al socialismo craxiano, accusato di aver corrotto il Psi in una deplorevole e peccaminosa «mutazione genetica» della tradizione socialista di matrice «frontista»,molto poco conflittuale con il Pci. La distorsione culturale fu invece quella di stabilire una insuperabile barriera antropologica tra il mondo comunista, magnificato come moralmente superiore, eticamente integro, e il resto del mondo politico, confinato nel recinto infetto della corruttela e del malaffare solo per il fatto di «non» essere comunista e di non credere nei valori che il comunismo stava storicamente incarnando. Ma mentre l’errore politico è stato riassorbito dai tempi lunghi della storia, l’errore culturale invece ha dispiegato i suoi effetti negativi nel corso dei decenni, tanto da proiettare la sua ombra sulla sinistra italiana, in forme e con parole nuove, sino ai nostri giorni.
L’etica e le macerie
Nel corso degli anni Novanta, durante l’intero arco della Seconda Repubblica, il progressivo abbandono del marxismo ha infatti dato alla dimensione eticizzante una risonanza tutta nuova in una sinistra ex comunista che ha rischiato di essere travolta dalle macerie del Muro di Berlino. Il pertinace rifiuto di confluire, sin dalla scelta del nome del nuovo partito, in unmodello culturale di tipo socialista o socialdemocratico classico ha spinto la cultura lasciata orfana dalla scomparsa del Pci ad abbracciare una cultura di tipo giacobino e «azionista», con tutte le approssimazioni che questa definizione comporta, ma comunque fondata anch’essa su un’idea di due Italie irriducibilmente contrapposte lungo una frontiera di tipo «morale»: l’Italia dei pochi, degli spiriti magni, delle minoranze illuminate, l’Italia civile immersa in un’Italia maggioritaria, ma corrotta nel profondo, volgare, plebea, maleducata, avida, arraffona. Contro quell’Italia materialista, incapace di raggiungere la purezza etica delle minoranze intransigenti e combattive, si scagliarono Giovanni Amendola, censore dell’Italia che «non ci piace», e poi Piero Gobetti, che detestava a tal punto il riformismo socialista e quello «popolare» di don Sturzo (i «partiti del ventre») da intonare l’«elogio della ghigliottina» come estremo rimedio per raddrizzare il legno storto del popolo italiano. E la ghigliottina stava arrivando, portata sui carri che trasportavano le camicie nere nella marcia su Roma che avrebbe gettato l’Italia nella dittatura, facendo dello stesso Gobetti un martire della libertà conculcata.
Forse ricordare Gobetti e Giovanni Amendola riporta troppo indietro nel tempo. Ma la ripresa post-berlingueriana della «questione morale», intesa come ossessiva e autocelebrativa riproposizione di una chiave manichea di lettura delle cose italiane, ha avuto proprio questo sfondo culturale in cui crescere. Incrociandosi con la «rivoluzione giudiziaria» che ha seppellito una buona parte della Prima Repubblica e segnatamente i partiti che storicamente sono stati antagonisti alla sinistra comunista, l’enfasi sulla «questione morale» è infatti diventata il codice di una sinistra che, pur nella sconfitta, ha continuato a viversi come la parte «migliore» della società italiana. «Migliore» in senso morale, e agitando la «questione morale» in modo improprio e anche strumentale. Ma allora, come giustificare, sulla base di una presunta diversità-superiorità morale e antropologica, la scoperta di casi di malaffare anche nella casa della sinistra, dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla Lombardia, dalla Liguria alla Sicilia? Semplicemente non giustificandola, ovvero immergendola in una nebbia ideologica molto autoconsolatoria. E infatti si è voluto recintare quei fenomeni moralmente riprovevoli come casi isolati, pecore nere, episodi deplorevoli, ma non tali da inficiare la complessiva alterità della propria parte rispetto al sistema corrotto dell’Italia, anzi dell’«altra» Italia, «alle vongole», vorace e cleptomane. Il che non solo non soddisfa un criterio minimo di equanimità e di pari indignazione per fenomeni che purtroppo hanno coinvolto ambedue i lati della geografia politica italiana (assieme al Centro, ovviamente). Ma oscura e rende incomprensibili le ragioni, politiche, istituzionali ed economiche, di una rete di corruzione tanto diffusa.
A cominciare da una sempre negata, ma decisiva sul piano degli effetti corruttivi sulla gestione della cosa pubblica, dilatazione dell’ambito dell’intermediazione politica nella sfera degli affari e della vita economica dell’Italia, a livello centrale e soprattutto negli enti locali, dove il traffico degli appalti dominati dalla politica è tanto più intenso e pervasivo quanto più è largo il confine delle scelte economiche costrette a dipendere da scelte di natura esclusivamente politica. L’abuso della «questione morale» offusca il fatto che lo Stato occupa ancora, in tutte le sue articolazioni, uno spazio asfissiante nella vita sociale ed economica di tantissimi cittadini. Quando occorre rivolgersi alla «politica» per ottenere un appalto, ricevere un permesso, strappare un’autorizzazione, partecipare a una gara pubblica con una ragionevole possibilità di vincerla, incassare un finanziamento pubblico, conquistare un posto di lavoro, vuol dire che troppo spesso i cittadini si informano su chi vince le competizioni elettorali per capire da che parte andare e quale colore indossare. Si apre uno spazio di discrezionalità politica su ambiti della vita e del lavoro che altrove sono regolati da criteri di merito e di trasparenza e che nessuna bandiera sulla «questione morale» sarà capace di cancellare. Invece di chiedere la ritirata dello Stato da sfere che non gli sono proprie, si continua a pensare che la «buona politica» sia solo un problema di rettitudine personale che attiene alla moralità e non al funzionamento della cosa pubblica.
Mercato e regole
La cultura media italiana è ancora incline a bollare come biecamente e selvaggiamente «liberista» la proposta di ridurre il raggio d’azione della politica e di lasciare la società libera di svolgere le proprie attività senza dover fare anticamera con i politici di turno, assessori prepotenti, sindaci arroganti, consiglieri regionali disattenti ed esosi. C’è ancora l’idea, molto diffusa tra i più convinti vessilliferi della «questione morale», che il mercato sia il luogo dell’immoralità e dell’avidità e che dunque ogni proposta di restituire al mercato ciò che è stato usurpato dall’intermediazione politica non possa che aggravare i termini di un’urgente «questione morale». Mentre è il mercato regolato dalle leggi, ma non asfissiato da una politica avida e intrusiva, a diminuire l’occasione per i partiti di ottenere qualcosa in cambio di autorizzazioni e appalti che non dovrebbero essere concessioni magnanime di un potere pubblico, questo sì sregolato e invadente, ma diritti. Diritti dei singoli. Diritti dei cittadini. Diritti degli imprenditori che non devono essere costretti a chiedere favori. Questa è la vera «questione morale»: considerare del tutto ovvio che sia elargito come un favore ciò che un cittadino dovrebbe e potrebbe esercitare come un diritto. Machiavelli e il suo cinismo politico non c’entrano. C’entra la pretesa di una politica che pretende di dettare un’agenda morale, anziché riconoscere l’immoralità della propria illimitatezza e onnipotenza. Per diventare finalmente un Paese normale, come si aspetta, vanamente, da decenni.
Pierluigi Battista - La Lettura de Il Corriere della Sera
Sulla contemplazione della propria diversità morale si costruiscono infatti fragili piedistalli, e anche reputazioni usurpate. Ma l’abuso della «questione morale» produce in ogni caso risultati disastrosi, cancella la politica come possibile rimozione di problemi e assegna alla lotta politica compiti impropri. La politica non dovrebbe avere la missione di sradicare dal cuore degli uomini la predisposizione al ladrocinio, ma di creare le condizioni perché i ladri siano neutralizzati e costretti a condurre una vita difficile. Forse Machiavelli era troppo cinico, ma Savonarola ha creato disastri ben maggiori.
Siamo nel pieno di una campagna elettorale in cui i partiti devono difendersi dagli effetti di una pessima nomea, peraltro egregiamente conquistata sul campo dopo decenni di ostinata cattiva gestione della cosa pubblica. La nomea di associazioni dedite al saccheggio delle risorse pubbliche, veicoli di corruzione, collettori di tangenti, terra di pascolo per clientele e gruppi affaristici che attraverso la politica si procurano i mezzi per un arricchimento smisurato. È fondata questa nomea o è soltanto il frutto di una propaganda demagogica, o «qualunquista», come si diceva un tempo? È, purtroppo, una nomea più che fondata. Assistere allo spettacolo di consiglieri regionali che scialano in cene pantagrueliche i soldi pubblici degli italiani intascati con appositi regolamenti autopromozionali, oppure vedere in ogni parte d’Italia dilagare, a destra e a sinistra, nel Nord e nel Sud, le ruberie consumate ai danni della sanità italiana, tutto questo rende comprensibilmente sospetto l’appello a non abusare della «questione morale» durante e dopo la campagna elettorale in corso, pena l’accusa di voler minimizzare le colpe di chi fa politica per arricchirsi. Tuttavia bisognerebbe insistere: meglio accantonarla, la «questione morale». E non solo per la ragione trivialmente fattuale, eppure difficilmente confutabile, che nessuno degli schieramenti oggi in competizione può rivendicare una purezza cristallina che ne legittimi le pretese di supremazia etica. Ma perché la «questione morale» perpetua un equivoco e concentra l’attenzione sui comportamenti etici e non piuttosto sulle istituzioni e sulle leggi che dovrebbero impedire una deriva «immorale» nel governo dello Stato.
La «questione morale» è entrata prepotentemente nel lessico politico italiano, all’inizio degli anni Ottanta, con il leader del Pci Enrico Berlinguer. Oggi è molto diffusa la tentazione di idealizzare nostalgicamente il passato e fare di Berlinguer un santino. Ma non è mancanza di rispetto per un protagonista giustamente molto amato e stimato della vita politica italiana constatare che l’abuso berlingueriano della «questione morale» fu il frutto di un errore politico e di una distorsione culturale (lo diceva anche Miriam Mafai in Dimenticare Berlinguer: solo che purtroppo è stato dimenticato non Berlinguer, ma proprio quel fondamentale libro della Mafai). L’errore politico (allora blandamente contrastato dall’ala migliorista del Pci, con Giorgio Napolitano) fu quello di voler uscire dall’impasse del compromesso storico sconfitto con un’accentuazione del settarismo, con la sopravvalutazione della «diversità» e con un attacco furioso al socialismo craxiano, accusato di aver corrotto il Psi in una deplorevole e peccaminosa «mutazione genetica» della tradizione socialista di matrice «frontista»,molto poco conflittuale con il Pci. La distorsione culturale fu invece quella di stabilire una insuperabile barriera antropologica tra il mondo comunista, magnificato come moralmente superiore, eticamente integro, e il resto del mondo politico, confinato nel recinto infetto della corruttela e del malaffare solo per il fatto di «non» essere comunista e di non credere nei valori che il comunismo stava storicamente incarnando. Ma mentre l’errore politico è stato riassorbito dai tempi lunghi della storia, l’errore culturale invece ha dispiegato i suoi effetti negativi nel corso dei decenni, tanto da proiettare la sua ombra sulla sinistra italiana, in forme e con parole nuove, sino ai nostri giorni.
L’etica e le macerie
Nel corso degli anni Novanta, durante l’intero arco della Seconda Repubblica, il progressivo abbandono del marxismo ha infatti dato alla dimensione eticizzante una risonanza tutta nuova in una sinistra ex comunista che ha rischiato di essere travolta dalle macerie del Muro di Berlino. Il pertinace rifiuto di confluire, sin dalla scelta del nome del nuovo partito, in unmodello culturale di tipo socialista o socialdemocratico classico ha spinto la cultura lasciata orfana dalla scomparsa del Pci ad abbracciare una cultura di tipo giacobino e «azionista», con tutte le approssimazioni che questa definizione comporta, ma comunque fondata anch’essa su un’idea di due Italie irriducibilmente contrapposte lungo una frontiera di tipo «morale»: l’Italia dei pochi, degli spiriti magni, delle minoranze illuminate, l’Italia civile immersa in un’Italia maggioritaria, ma corrotta nel profondo, volgare, plebea, maleducata, avida, arraffona. Contro quell’Italia materialista, incapace di raggiungere la purezza etica delle minoranze intransigenti e combattive, si scagliarono Giovanni Amendola, censore dell’Italia che «non ci piace», e poi Piero Gobetti, che detestava a tal punto il riformismo socialista e quello «popolare» di don Sturzo (i «partiti del ventre») da intonare l’«elogio della ghigliottina» come estremo rimedio per raddrizzare il legno storto del popolo italiano. E la ghigliottina stava arrivando, portata sui carri che trasportavano le camicie nere nella marcia su Roma che avrebbe gettato l’Italia nella dittatura, facendo dello stesso Gobetti un martire della libertà conculcata.
Forse ricordare Gobetti e Giovanni Amendola riporta troppo indietro nel tempo. Ma la ripresa post-berlingueriana della «questione morale», intesa come ossessiva e autocelebrativa riproposizione di una chiave manichea di lettura delle cose italiane, ha avuto proprio questo sfondo culturale in cui crescere. Incrociandosi con la «rivoluzione giudiziaria» che ha seppellito una buona parte della Prima Repubblica e segnatamente i partiti che storicamente sono stati antagonisti alla sinistra comunista, l’enfasi sulla «questione morale» è infatti diventata il codice di una sinistra che, pur nella sconfitta, ha continuato a viversi come la parte «migliore» della società italiana. «Migliore» in senso morale, e agitando la «questione morale» in modo improprio e anche strumentale. Ma allora, come giustificare, sulla base di una presunta diversità-superiorità morale e antropologica, la scoperta di casi di malaffare anche nella casa della sinistra, dalla Campania alla Puglia, dalla Calabria alla Lombardia, dalla Liguria alla Sicilia? Semplicemente non giustificandola, ovvero immergendola in una nebbia ideologica molto autoconsolatoria. E infatti si è voluto recintare quei fenomeni moralmente riprovevoli come casi isolati, pecore nere, episodi deplorevoli, ma non tali da inficiare la complessiva alterità della propria parte rispetto al sistema corrotto dell’Italia, anzi dell’«altra» Italia, «alle vongole», vorace e cleptomane. Il che non solo non soddisfa un criterio minimo di equanimità e di pari indignazione per fenomeni che purtroppo hanno coinvolto ambedue i lati della geografia politica italiana (assieme al Centro, ovviamente). Ma oscura e rende incomprensibili le ragioni, politiche, istituzionali ed economiche, di una rete di corruzione tanto diffusa.
A cominciare da una sempre negata, ma decisiva sul piano degli effetti corruttivi sulla gestione della cosa pubblica, dilatazione dell’ambito dell’intermediazione politica nella sfera degli affari e della vita economica dell’Italia, a livello centrale e soprattutto negli enti locali, dove il traffico degli appalti dominati dalla politica è tanto più intenso e pervasivo quanto più è largo il confine delle scelte economiche costrette a dipendere da scelte di natura esclusivamente politica. L’abuso della «questione morale» offusca il fatto che lo Stato occupa ancora, in tutte le sue articolazioni, uno spazio asfissiante nella vita sociale ed economica di tantissimi cittadini. Quando occorre rivolgersi alla «politica» per ottenere un appalto, ricevere un permesso, strappare un’autorizzazione, partecipare a una gara pubblica con una ragionevole possibilità di vincerla, incassare un finanziamento pubblico, conquistare un posto di lavoro, vuol dire che troppo spesso i cittadini si informano su chi vince le competizioni elettorali per capire da che parte andare e quale colore indossare. Si apre uno spazio di discrezionalità politica su ambiti della vita e del lavoro che altrove sono regolati da criteri di merito e di trasparenza e che nessuna bandiera sulla «questione morale» sarà capace di cancellare. Invece di chiedere la ritirata dello Stato da sfere che non gli sono proprie, si continua a pensare che la «buona politica» sia solo un problema di rettitudine personale che attiene alla moralità e non al funzionamento della cosa pubblica.
Mercato e regole
La cultura media italiana è ancora incline a bollare come biecamente e selvaggiamente «liberista» la proposta di ridurre il raggio d’azione della politica e di lasciare la società libera di svolgere le proprie attività senza dover fare anticamera con i politici di turno, assessori prepotenti, sindaci arroganti, consiglieri regionali disattenti ed esosi. C’è ancora l’idea, molto diffusa tra i più convinti vessilliferi della «questione morale», che il mercato sia il luogo dell’immoralità e dell’avidità e che dunque ogni proposta di restituire al mercato ciò che è stato usurpato dall’intermediazione politica non possa che aggravare i termini di un’urgente «questione morale». Mentre è il mercato regolato dalle leggi, ma non asfissiato da una politica avida e intrusiva, a diminuire l’occasione per i partiti di ottenere qualcosa in cambio di autorizzazioni e appalti che non dovrebbero essere concessioni magnanime di un potere pubblico, questo sì sregolato e invadente, ma diritti. Diritti dei singoli. Diritti dei cittadini. Diritti degli imprenditori che non devono essere costretti a chiedere favori. Questa è la vera «questione morale»: considerare del tutto ovvio che sia elargito come un favore ciò che un cittadino dovrebbe e potrebbe esercitare come un diritto. Machiavelli e il suo cinismo politico non c’entrano. C’entra la pretesa di una politica che pretende di dettare un’agenda morale, anziché riconoscere l’immoralità della propria illimitatezza e onnipotenza. Per diventare finalmente un Paese normale, come si aspetta, vanamente, da decenni.
Pierluigi Battista - La Lettura de Il Corriere della Sera
venerdì 18 gennaio 2013
La bella Italia che non seduce gli italiani
E così, dopo aver visitato la Roma dei Papi e il mondo esoterico di Leonardo, nel nuovo thriller di Dan Brown si passeggia tra le strade di Firenze e le pagine infernali di Dante. Dan Brown non sarà un maestro di stile, ma è un’autorità indiscussa in materia di fatturato. Se ogni volta mette l’Italia sullo sfondo dei suoi polpettoni è perché sa che l’Italia fa vendere in tutto il mondo. Non l’Italia di oggi, naturalmente, mediocre sobborgo d’Occidente come tanti altri. L’Italia del passato: le città d’arte del Rinascimento e l’Antica Roma. Gli unici due momenti della storia in cui siamo stati la locomotiva dell’umanità.
E a questo punto, ossessiva, scatta la solita domanda: perché? Perché, se l’Italia fa vendere, a guadagnarci devono essere sempre gli altri? Perché i miti del passato italiano affascinano gli scrittori e i registi stranieri, ma non i nostri?
Al di là delle letture dantesche di Benigni, che sono un’eccezione magnifica ma non esportabile, perché l’Inferno ispira romanzi a Dan Brown e non a Sandro Veronesi (cito lui in quanto bravo e pure toscano), tantomeno al sottoscritto che al massimo potrebbe narrare le imprese di Pulici e Cavour? Perché i telefilm sui Borgia li fanno gli anglosassoni e non un pronipote di Machiavelli? Perché le gesta del Gladiatore sono state narrate da Ridley Scott e non dall’epico Tornatore? Persino lo scrittore-archeologo Valerio Massimo Manfredi, nonostante qualche incursione sporadica nella romanità, preferisce mettere al centro delle proprie saghe i greci Alessandro e Ulisse. Se la tomba dell’eroe di Russell Crowe, scoperta tre anni fa lungo la Flaminia, si trasformerà in un’attrattiva turistica sarà per merito delle associazioni straniere che stanno raccogliendo i fondi necessari al restauro, nel disinteresse impotente del ministero della Cultura, che in Italia dovrebbe contare quanto quello del petrolio in Arabia Saudita, mentre l’opinione comune lo considera una poltrona di serie B.
Ma questo rifiuto pervicace di dare al mondo l’immagine dell’Italia che piace al mondo non riguarda solo gli artisti e i politici. Investe tutti noi. Un bravo psicanalista ci troverebbe materiale per i suoi studi. Sul lettino si dovrebbe sdraiare una nazione intera che si rifiuta orgogliosamente di essere come la vogliono gli altri e desidera invece con tutte le sue forze conformarsi al modello globale, condannandosi alla marginalità. Per quale ragione il passato che affascina e stimola la curiosità e l’ammirazione di turisti cinesi e best-selleristi americani ci risuona così pigro e indifferente? Perché rifiutiamo di essere il gigantesco museo a cielo aperto, arricchito da ristoranti e negozi a tema, che il mondo vorrebbe che fossimo? Forse è presbiopia esistenziale.
L’antica Roma e il Rinascimento, incanti da esplorare per chi vive al di là dell’Oceano, per noi che ci abitiamo in mezzo si riducono a scenari scontati: le piazze del Bernini sono garage e il Colosseo uno spartitraffico. O è la scuola che, facendone oggetto di studio anziché di svago, ci ha reso noioso ciò che dovrebbe essere glorioso. Ma forse la presbiopia e la scuola c’entrano relativamente: siamo noi che, per una sorta di imbarazzo difficile da spiegare, ci ostiniamo a fuggire dai cliché - sole, ruderi, arte e buona tavola – a cui il mondo vuole inchiodarci per poterci amare e invidiare.
L’Italia capitale universale della bellezza e del piacere è l’unico Paese che può scampare al destino periferico che attende, dopo duemila anni di protagonismo, la stanca Europa. Ma per farlo dovrebbe finalmente accettare di essere la memoria di se stessa. Serve una riconversione psicologica, premessa di quella industriale. Serve un sogno antico e grande, mentre qui si continua a parlare soltanto di spread.
Massimo Gramellini - Buongiorno da La Stampa
E a questo punto, ossessiva, scatta la solita domanda: perché? Perché, se l’Italia fa vendere, a guadagnarci devono essere sempre gli altri? Perché i miti del passato italiano affascinano gli scrittori e i registi stranieri, ma non i nostri?
Al di là delle letture dantesche di Benigni, che sono un’eccezione magnifica ma non esportabile, perché l’Inferno ispira romanzi a Dan Brown e non a Sandro Veronesi (cito lui in quanto bravo e pure toscano), tantomeno al sottoscritto che al massimo potrebbe narrare le imprese di Pulici e Cavour? Perché i telefilm sui Borgia li fanno gli anglosassoni e non un pronipote di Machiavelli? Perché le gesta del Gladiatore sono state narrate da Ridley Scott e non dall’epico Tornatore? Persino lo scrittore-archeologo Valerio Massimo Manfredi, nonostante qualche incursione sporadica nella romanità, preferisce mettere al centro delle proprie saghe i greci Alessandro e Ulisse. Se la tomba dell’eroe di Russell Crowe, scoperta tre anni fa lungo la Flaminia, si trasformerà in un’attrattiva turistica sarà per merito delle associazioni straniere che stanno raccogliendo i fondi necessari al restauro, nel disinteresse impotente del ministero della Cultura, che in Italia dovrebbe contare quanto quello del petrolio in Arabia Saudita, mentre l’opinione comune lo considera una poltrona di serie B.
Ma questo rifiuto pervicace di dare al mondo l’immagine dell’Italia che piace al mondo non riguarda solo gli artisti e i politici. Investe tutti noi. Un bravo psicanalista ci troverebbe materiale per i suoi studi. Sul lettino si dovrebbe sdraiare una nazione intera che si rifiuta orgogliosamente di essere come la vogliono gli altri e desidera invece con tutte le sue forze conformarsi al modello globale, condannandosi alla marginalità. Per quale ragione il passato che affascina e stimola la curiosità e l’ammirazione di turisti cinesi e best-selleristi americani ci risuona così pigro e indifferente? Perché rifiutiamo di essere il gigantesco museo a cielo aperto, arricchito da ristoranti e negozi a tema, che il mondo vorrebbe che fossimo? Forse è presbiopia esistenziale.
L’antica Roma e il Rinascimento, incanti da esplorare per chi vive al di là dell’Oceano, per noi che ci abitiamo in mezzo si riducono a scenari scontati: le piazze del Bernini sono garage e il Colosseo uno spartitraffico. O è la scuola che, facendone oggetto di studio anziché di svago, ci ha reso noioso ciò che dovrebbe essere glorioso. Ma forse la presbiopia e la scuola c’entrano relativamente: siamo noi che, per una sorta di imbarazzo difficile da spiegare, ci ostiniamo a fuggire dai cliché - sole, ruderi, arte e buona tavola – a cui il mondo vuole inchiodarci per poterci amare e invidiare.
L’Italia capitale universale della bellezza e del piacere è l’unico Paese che può scampare al destino periferico che attende, dopo duemila anni di protagonismo, la stanca Europa. Ma per farlo dovrebbe finalmente accettare di essere la memoria di se stessa. Serve una riconversione psicologica, premessa di quella industriale. Serve un sogno antico e grande, mentre qui si continua a parlare soltanto di spread.
Massimo Gramellini - Buongiorno da La Stampa
sabato 12 gennaio 2013
Elogio morale della precisione
Oggi la sciatteria é un vizio che non ci possiamo permettere.
«Nei corsi di scrittura, il punto su cui tornavo più spesso era la precisione. La letteratura quale linguaggio definitivo per circoscrivere una materia mobile e multicolore come il “sentire” (…). Per contagio ho finito per amare la precisione non specificamente letteraria, come quella della manualistica dedicata alle costruzioni navali (con definizioni tecniche stranianti dell’acqua e delle imbarcazioni), all’arte militare, al gioco degli scacchi, alle ricette alcoliche (…). E ne raccomando la lettura come propedeutica alla prosa».
La libreria di casa è un giacimento di serendipity, si trovano le cose che non si stanno cercando. Negli ultimi giorni dell’anno è sbucato Prima persona, da cui è tratta la citazione iniziale. Un volume che ci permette di ricordare Giuseppe Pontiggia — uomo e scrittore delizioso — nel decennale della scomparsa; e consente all’autore di portarci un regalo, a distanza di tempo.
Un regalo vero, un viatico per questo anno strano che comincia: l’amore per la precisione. Precisione non è solo elenchi,ma è anche elenchi: dalle genealogie della Bibbia alle navi dell’Iliade ai cetacei di Melville, che hanno bloccatomolti (ma non Achab, né Ismaele) nella rotta verbale verso Moby Dick. La scrittura è il luogo dell’esattezza. Il marchio di fabbrica del cattivo scrittore è la confusione (che l’interessato, ovviamente, considera arte). Ma la questione non è solo letteraria o culturale. La precisione diventerà lo spartiacque tra chi prova e chi tenta; tra chi costruisce e chi accumula. In ultima analisi, tra chi riesce e chi fallisce.
Precisione non è pignoleria. La precisione ha uno scopo, la pignoleria nessuno. I pignoli sono manieristi; le donne e gli uomini precisi sono romantici. Sanno che il caso entra dappertutto, ma niente esce solo per caso. Perché Hugo Cabret resta un film speciale, e ci porta a dimenticare il fastidio del cinema che si cita addosso? Perché il ragazzino protagonista unisce tecnica e incoscienza, ama i meccanismi e i sogni, sistema i congegni e aggiusta la vita: sua e degli altri.
Italo Calvino dedica alla «Esattezza» la terza delle sue Lezioni americane (preparate per l’università di Harvard nel 1985, pubblicate nel 1988). Parte da Giacomo Leopardi, e ricorda che, quando definisce il concetto di «vago», il poeta dell’Infinito era preciso («Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite», Zibaldone, 25 settembre 1821). Calvino, nella stessa lezione, cita anche Roland Barthes e Robert Musil, due tra gli scrittori che più hanno coltivato la precisione. L’uomo senza qualità un talento ce l’aveva di sicuro: decrittare la vita intorno a lui. Voi direte: perché tutto questo dovrebbe importarci? In questo incerto e insolito 2013 — dopo ventisei anni tornano quattro cifre diverse tra loro — non dovremmo occuparci invece del lavoro che non c’è, soprattutto per i più giovani? Non dovremmo pensare alla politica, tentata da catastrofici ritorni al passato? La precisione — obietterà qualcuno — è un dolce di lusso, meglio pensare al pane quotidiano. Be’, si sbaglia: la precisione è la farina, senza la quale non si ottiene né pane né dolci.
In un mercato del lavoro che offre sempre meno e chiede sempre di più non c’è spazio per il «più o meno». E invece la tentazione del pressapochismo è fortissima: consente infatti di sperimentare frettolosamente molte cose, sperando che almeno una vada bene. Se dalle vite private passiamo alla vita pubblica, lo spettacolo è ancora più malinconico. Un breve elenco delle sciatterie italiane occuperebbe l’intero primo numero 2013 de «la Lettura», e rovinerebbe l’umore di tutti noi. Eppure non c’è dubbio. È la mancanza di esattezza — delle norme, delle procedure, dell’amministrazione, della giustizia, delle carriere — che ha spinto l’Italia a scivolare verso il basso. Senza rumore, perché il declino si può oliare, come una carrucola.
Alla precisione — e all’imprecisione — ci si abitua da giovani: non è mai troppo presto per imboccare il sentiero della faciloneria. L’inesattezza è una compagna gentile, che ci sussurra di non fare sforzi. Cercare, preparare, disporre, controllare, ricordare, mantenere le promesse costa fatica. Eppure l’umanità si divide tra quelli che fanno (bene) ciò che dicono; e gli altri, che annunciano inutilmente e promettono invano.
I propositi spesso sono generici; ma si possono precisare, prima di presentarli in società. Ai ragazzi che si avvicinano dopo un incontro pubblico e dicono: «Devo chiederle una cosa…», rispondo: «Scrivimi», e passo l’email personale. Si fanno vivi in due su dieci. È una selezione naturale e utile. Chi scrive, infatti, ha quasi sempre qualcosa da proporre o da chiedere. Anna ha inviato una brillante autocritica generazionale al blog Solferino28; Filippo scriverà il suo libro; Maria Elena lavora su Tacito e Twitter; Martina combinerà architettura e scrittura; Elettra ha organizzato un insolito incontro in Bocconi; Greta è diventata giornalista; Hermes e Diana ci proveranno. Ognuno di loro ha un’idea precisa, non una vaga aspirazione; presenta una proposta, non soltanto generica disponibilità. Quei ragazzi — e ho citato solo vicende degli ultimi due mesi — hanno capito «la forza dei legami deboli» (copyright Mark S. Granovetter). Più femmine che maschi: credo non sia un caso.
Usare i propri contatti non è una cosa cattiva: i ragazzi devono farlo. Non in modo cinico; in modo preciso. Devono capire che le prime impressioni — sì, anche un’email — contano. Devono imparare a rendersi rilevanti e interessanti; decidere cosa vogliono; poi chiederlo, in maniera sintetica. Tutto ciò non vuol dire diventar vecchi anzitempo; significa non buttare i dieci anni più importanti della propria vita. Molti, in America e in Europa, sostengono che «i trent’anni sono i nuovi vent’anni». È una colossale sciocchezza. Peggio: è un’istigazione alla rassegnazione. I vent’anni contano, eccome. E vanno trattati con delicatezza e precisione.
In The Defining Decade (2012), dedicato proprio ai ventenni, la terapeuta Meg Jay spiega che l’esattezza dei comportamenti non è solo un modo soddisfacente di vivere con gli altri; è anche la condizione di ogni avanzamento personale e professionale. L’autrice ricorda la tattica del giovane Benjamin Franklin (uno dei grandi strateghi americani della quotidianità): se aveva bisogno di conoscere qualcuno, il futuro firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza chiedeva un piccolo, semplice favore. Era convinto, infatti, che a molti non dispiacesse sentirsi buoni. Meg Ray lo ricorda ai ragazzi di oggi: it’s good to be good. Non tutti voglio imbrogliarvi, là fuori.
Mi ha colpito la conversazione tra Stefano Soatto, padovano, 44 anni, professore di Robotica alla Ucla (University of California Los Angeles), e Rossella Tercatin, 24 anni, autrice di una intervista per «Pagine Ebraiche» a Judea Pearl, vincitore del Turing Award 2012 (considerato il Nobel dell’informatica), pioniere dell’analisi causale. Scrive di lui Soatto: «Un ingegnere elettronico della Rca diventato un pilastro della Computer Science, uno dei riformatori di Artificial Intelligence, uno dei caposaldi di Machine Learning, fino ad arrivare ai fondamenti della statistica». L’ho conosciuto, qualche anno fa, proprio grazie a Soatto: un personaggio di un’intelligenza folgorante e di un’umanità disarmante.
Nell’intervista — originale, documentata e scrupolosa — Rossella commette però un piccolo errore: descrive Stanford come «una università Ivy League». Soatto le ha scritto: «Ti mando un paio di commenti; scusa se mi permetto di farteli, ma visto che sei giovane e giornalista, rappresenti un nodo importante del futuro del tuo Paese. Stanford non è una Ivy League. Ciò non vuol dire che non sia un’ottima università, ma quando uno scrive è importante verificare la correttezza di tutte le affermazioni, anche se apparentemente banali o prive di conseguenze. Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è difficile immaginare quali ripercussioni possa avere a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al ciclo giornalistico accelerato (senza revisione editoriale), ai blog, social media etc. Ma molti giovani qui negli Usa lo stanno imparando sulla propria pelle, quando gli uffici di ammissione all’università oppure i potenziali datori di lavoro vanno a cercare le tracce che uno ha lasciato. Paradossalmente, oggi è più facile commettere errori, ed è più difficile cancellarli».
Pignoleria? No, esattezza motivata e finalizzata. Una piccola lezione utile per tutti, ma indispensabile per noi italiani. Chi ce l’ha fatta, fateci caso, ha saputo unire brillantezza e precisione. La prima è congenita; la seconda va coltivata. Pochi di noi dovranno preoccuparsi della propria intuizione, dell’intelligenza emotiva o della capacità di pensiero associativo; quasi tutti, invece, dobbiamo badare alla nostra costanza e affidabilità. Esiste un sospetto metodico di superficialità verso noi italiani: lamentarsi non serve, bisogna smentire con i fatti. Orari, appuntamenti, note-spese, interventi in riunione, consegne, scadenze: se un tedesco se ne scorda, è distratto; se ce ne dimentichiamo noi, pensano che siamo sciatti.
La precisione non è solo una sana consuetudine lavorativa; è anche un atteggiamento verso le persone e le cose. Prendiamo l’ironia: non può essere generica. Per funzionare, deve essere esatta: solo così ci aiuterà a sorridere delle imperfezioni del mondo, soprattutto di quelle che non possiamo correggere. L’ironia è chirurgia verbale. Non può essere imprecisa, altrimenti rischia di uccidere ciò che vuol salvare.
Lella Costa — autrice nel 2000 con Gabriele Vacis del monologo Precise Parole (tutto torna) — ha appena pubblicato Come una specie di sorriso. Scrive: «Non sempre l’ironia fa ridere, anzi. Spostare lo sguardo, cambiare il punto di vista, illuminare la realtà da una prospettiva diversa, affermare dignità e superiorità sul destino richiedono rigore, disincanto, consapevolezza, lucidità implacabile e obiettività assoluta». È così. L’ironia è precisa: ecco perché funziona bene su Twitter che, come ho scritto più volte, considero una forma di igiene mentale quotidiana. Giulia @CraftyKitteh — 30 anni,milanese, «antropologa fotografa, sognatrice e appassionata di crochet/uncinetto» — ha letto la mia definizione e ne ha proposto una migliore: «Twitter? Un filo intermentale.
Twitter @beppesevergnini
Beppe Severgnini
«Nei corsi di scrittura, il punto su cui tornavo più spesso era la precisione. La letteratura quale linguaggio definitivo per circoscrivere una materia mobile e multicolore come il “sentire” (…). Per contagio ho finito per amare la precisione non specificamente letteraria, come quella della manualistica dedicata alle costruzioni navali (con definizioni tecniche stranianti dell’acqua e delle imbarcazioni), all’arte militare, al gioco degli scacchi, alle ricette alcoliche (…). E ne raccomando la lettura come propedeutica alla prosa».
La libreria di casa è un giacimento di serendipity, si trovano le cose che non si stanno cercando. Negli ultimi giorni dell’anno è sbucato Prima persona, da cui è tratta la citazione iniziale. Un volume che ci permette di ricordare Giuseppe Pontiggia — uomo e scrittore delizioso — nel decennale della scomparsa; e consente all’autore di portarci un regalo, a distanza di tempo.
Un regalo vero, un viatico per questo anno strano che comincia: l’amore per la precisione. Precisione non è solo elenchi,ma è anche elenchi: dalle genealogie della Bibbia alle navi dell’Iliade ai cetacei di Melville, che hanno bloccatomolti (ma non Achab, né Ismaele) nella rotta verbale verso Moby Dick. La scrittura è il luogo dell’esattezza. Il marchio di fabbrica del cattivo scrittore è la confusione (che l’interessato, ovviamente, considera arte). Ma la questione non è solo letteraria o culturale. La precisione diventerà lo spartiacque tra chi prova e chi tenta; tra chi costruisce e chi accumula. In ultima analisi, tra chi riesce e chi fallisce.
Precisione non è pignoleria. La precisione ha uno scopo, la pignoleria nessuno. I pignoli sono manieristi; le donne e gli uomini precisi sono romantici. Sanno che il caso entra dappertutto, ma niente esce solo per caso. Perché Hugo Cabret resta un film speciale, e ci porta a dimenticare il fastidio del cinema che si cita addosso? Perché il ragazzino protagonista unisce tecnica e incoscienza, ama i meccanismi e i sogni, sistema i congegni e aggiusta la vita: sua e degli altri.
Italo Calvino dedica alla «Esattezza» la terza delle sue Lezioni americane (preparate per l’università di Harvard nel 1985, pubblicate nel 1988). Parte da Giacomo Leopardi, e ricorda che, quando definisce il concetto di «vago», il poeta dell’Infinito era preciso («Le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite», Zibaldone, 25 settembre 1821). Calvino, nella stessa lezione, cita anche Roland Barthes e Robert Musil, due tra gli scrittori che più hanno coltivato la precisione. L’uomo senza qualità un talento ce l’aveva di sicuro: decrittare la vita intorno a lui. Voi direte: perché tutto questo dovrebbe importarci? In questo incerto e insolito 2013 — dopo ventisei anni tornano quattro cifre diverse tra loro — non dovremmo occuparci invece del lavoro che non c’è, soprattutto per i più giovani? Non dovremmo pensare alla politica, tentata da catastrofici ritorni al passato? La precisione — obietterà qualcuno — è un dolce di lusso, meglio pensare al pane quotidiano. Be’, si sbaglia: la precisione è la farina, senza la quale non si ottiene né pane né dolci.
In un mercato del lavoro che offre sempre meno e chiede sempre di più non c’è spazio per il «più o meno». E invece la tentazione del pressapochismo è fortissima: consente infatti di sperimentare frettolosamente molte cose, sperando che almeno una vada bene. Se dalle vite private passiamo alla vita pubblica, lo spettacolo è ancora più malinconico. Un breve elenco delle sciatterie italiane occuperebbe l’intero primo numero 2013 de «la Lettura», e rovinerebbe l’umore di tutti noi. Eppure non c’è dubbio. È la mancanza di esattezza — delle norme, delle procedure, dell’amministrazione, della giustizia, delle carriere — che ha spinto l’Italia a scivolare verso il basso. Senza rumore, perché il declino si può oliare, come una carrucola.
Alla precisione — e all’imprecisione — ci si abitua da giovani: non è mai troppo presto per imboccare il sentiero della faciloneria. L’inesattezza è una compagna gentile, che ci sussurra di non fare sforzi. Cercare, preparare, disporre, controllare, ricordare, mantenere le promesse costa fatica. Eppure l’umanità si divide tra quelli che fanno (bene) ciò che dicono; e gli altri, che annunciano inutilmente e promettono invano.
I propositi spesso sono generici; ma si possono precisare, prima di presentarli in società. Ai ragazzi che si avvicinano dopo un incontro pubblico e dicono: «Devo chiederle una cosa…», rispondo: «Scrivimi», e passo l’email personale. Si fanno vivi in due su dieci. È una selezione naturale e utile. Chi scrive, infatti, ha quasi sempre qualcosa da proporre o da chiedere. Anna ha inviato una brillante autocritica generazionale al blog Solferino28; Filippo scriverà il suo libro; Maria Elena lavora su Tacito e Twitter; Martina combinerà architettura e scrittura; Elettra ha organizzato un insolito incontro in Bocconi; Greta è diventata giornalista; Hermes e Diana ci proveranno. Ognuno di loro ha un’idea precisa, non una vaga aspirazione; presenta una proposta, non soltanto generica disponibilità. Quei ragazzi — e ho citato solo vicende degli ultimi due mesi — hanno capito «la forza dei legami deboli» (copyright Mark S. Granovetter). Più femmine che maschi: credo non sia un caso.
Usare i propri contatti non è una cosa cattiva: i ragazzi devono farlo. Non in modo cinico; in modo preciso. Devono capire che le prime impressioni — sì, anche un’email — contano. Devono imparare a rendersi rilevanti e interessanti; decidere cosa vogliono; poi chiederlo, in maniera sintetica. Tutto ciò non vuol dire diventar vecchi anzitempo; significa non buttare i dieci anni più importanti della propria vita. Molti, in America e in Europa, sostengono che «i trent’anni sono i nuovi vent’anni». È una colossale sciocchezza. Peggio: è un’istigazione alla rassegnazione. I vent’anni contano, eccome. E vanno trattati con delicatezza e precisione.
In The Defining Decade (2012), dedicato proprio ai ventenni, la terapeuta Meg Jay spiega che l’esattezza dei comportamenti non è solo un modo soddisfacente di vivere con gli altri; è anche la condizione di ogni avanzamento personale e professionale. L’autrice ricorda la tattica del giovane Benjamin Franklin (uno dei grandi strateghi americani della quotidianità): se aveva bisogno di conoscere qualcuno, il futuro firmatario della Dichiarazione d’Indipendenza chiedeva un piccolo, semplice favore. Era convinto, infatti, che a molti non dispiacesse sentirsi buoni. Meg Ray lo ricorda ai ragazzi di oggi: it’s good to be good. Non tutti voglio imbrogliarvi, là fuori.
Mi ha colpito la conversazione tra Stefano Soatto, padovano, 44 anni, professore di Robotica alla Ucla (University of California Los Angeles), e Rossella Tercatin, 24 anni, autrice di una intervista per «Pagine Ebraiche» a Judea Pearl, vincitore del Turing Award 2012 (considerato il Nobel dell’informatica), pioniere dell’analisi causale. Scrive di lui Soatto: «Un ingegnere elettronico della Rca diventato un pilastro della Computer Science, uno dei riformatori di Artificial Intelligence, uno dei caposaldi di Machine Learning, fino ad arrivare ai fondamenti della statistica». L’ho conosciuto, qualche anno fa, proprio grazie a Soatto: un personaggio di un’intelligenza folgorante e di un’umanità disarmante.
Nell’intervista — originale, documentata e scrupolosa — Rossella commette però un piccolo errore: descrive Stanford come «una università Ivy League». Soatto le ha scritto: «Ti mando un paio di commenti; scusa se mi permetto di farteli, ma visto che sei giovane e giornalista, rappresenti un nodo importante del futuro del tuo Paese. Stanford non è una Ivy League. Ciò non vuol dire che non sia un’ottima università, ma quando uno scrive è importante verificare la correttezza di tutte le affermazioni, anche se apparentemente banali o prive di conseguenze. Quando una cosa è scritta, è scritta per sempre, ed è difficile immaginare quali ripercussioni possa avere a distanza di anni. Purtroppo questo concetto si sta perdendo con l’abitudine all’imprecisione dovuta al ciclo giornalistico accelerato (senza revisione editoriale), ai blog, social media etc. Ma molti giovani qui negli Usa lo stanno imparando sulla propria pelle, quando gli uffici di ammissione all’università oppure i potenziali datori di lavoro vanno a cercare le tracce che uno ha lasciato. Paradossalmente, oggi è più facile commettere errori, ed è più difficile cancellarli».
Pignoleria? No, esattezza motivata e finalizzata. Una piccola lezione utile per tutti, ma indispensabile per noi italiani. Chi ce l’ha fatta, fateci caso, ha saputo unire brillantezza e precisione. La prima è congenita; la seconda va coltivata. Pochi di noi dovranno preoccuparsi della propria intuizione, dell’intelligenza emotiva o della capacità di pensiero associativo; quasi tutti, invece, dobbiamo badare alla nostra costanza e affidabilità. Esiste un sospetto metodico di superficialità verso noi italiani: lamentarsi non serve, bisogna smentire con i fatti. Orari, appuntamenti, note-spese, interventi in riunione, consegne, scadenze: se un tedesco se ne scorda, è distratto; se ce ne dimentichiamo noi, pensano che siamo sciatti.
La precisione non è solo una sana consuetudine lavorativa; è anche un atteggiamento verso le persone e le cose. Prendiamo l’ironia: non può essere generica. Per funzionare, deve essere esatta: solo così ci aiuterà a sorridere delle imperfezioni del mondo, soprattutto di quelle che non possiamo correggere. L’ironia è chirurgia verbale. Non può essere imprecisa, altrimenti rischia di uccidere ciò che vuol salvare.
Lella Costa — autrice nel 2000 con Gabriele Vacis del monologo Precise Parole (tutto torna) — ha appena pubblicato Come una specie di sorriso. Scrive: «Non sempre l’ironia fa ridere, anzi. Spostare lo sguardo, cambiare il punto di vista, illuminare la realtà da una prospettiva diversa, affermare dignità e superiorità sul destino richiedono rigore, disincanto, consapevolezza, lucidità implacabile e obiettività assoluta». È così. L’ironia è precisa: ecco perché funziona bene su Twitter che, come ho scritto più volte, considero una forma di igiene mentale quotidiana. Giulia @CraftyKitteh — 30 anni,milanese, «antropologa fotografa, sognatrice e appassionata di crochet/uncinetto» — ha letto la mia definizione e ne ha proposto una migliore: «Twitter? Un filo intermentale.
Twitter @beppesevergnini
Beppe Severgnini
mercoledì 2 gennaio 2013
Incomincia adesso !
Fino a che uno non si compromette, c’è esitazione, possibilità di tornare indietro e sempre inefficacia.
Rispetto a ogni atto di iniziativa (e creazione) c’è solo una verità elementare, l’ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani.
Nel momento in cui uno si compromette definitivamente, anche la provvidenza si muove.
Ogni sorta di cose accade per aiutare, cose che altrimenti non sarebbero mai accadute.
Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione, facendo sorgere a nostro favore ogni tipo di incidenti imprevedibili, incontri e assistenza materiale, che nessuno avrebbe sognato potessero venire in questo modo.
Tutto quello che puoi fare, o sognare di poter fare, incomincialo.
Il coraggio ha in sé genio, potere e magia.
Incomincia adesso.
Johann Wolfgang Goethe
Più che la meta del tuo viaggio importa lo spirito con cui l’hai raggiunta
Animum debes mutare, non caelum.
Devi cambiare d’animo, non di cielo.
Vai di qua e di là per scuotere il peso che ti sta addosso e che diventa ancor più fastidioso in conseguenza della tua stessa agitazione.
Analogamente su una nave i pesi ben stabili premono di meno, mentre i carichi che si spostano, rollando in modo diseguale, mandano più rapidamente a fondo quella parte su cui essi gravano.
Qualunque cosa tu faccia, la fai contro di te e con lo stesso movimento ti arrechi un danno: infatti stai scuotendo un ammalato. Ma quando ti sarai liberato da questo male, qualsiasi cambiamento di località diverrà un piacere. Ti releghino pure nelle terre più lontane; ebbene, in qualsivoglia cantuccio di terra barbara in cui ti troverai per forza ad abitare, quella sede, quale che sia, ti sarà ospitale.
Più che la meta del tuo viaggio importa lo spirito con cui l’hai raggiunta, e pertanto non dobbiamo subordinare il nostro animo ad alcun luogo. Bisogna vivere con questa convinzione: “Non sono nato per un solo cantuccio di terra, la mia patria è l’universo intero”.
Se questo concetto ti fosse trasparente, non ti meraviglieresti di non trovare alcun conforto nella varietà delle regioni in cui di bel nuovo ti rechi per la noia delle precedenti. Infatti ti sarebbe piaciuta la prima in cui saresti capitato, e poi anche di volta in volta avresti gradito le successive, se avessi considerato ciascuna come interamente tua.
Seneca a Lucilio
Devi cambiare d’animo, non di cielo.
Vai di qua e di là per scuotere il peso che ti sta addosso e che diventa ancor più fastidioso in conseguenza della tua stessa agitazione.
Analogamente su una nave i pesi ben stabili premono di meno, mentre i carichi che si spostano, rollando in modo diseguale, mandano più rapidamente a fondo quella parte su cui essi gravano.
Qualunque cosa tu faccia, la fai contro di te e con lo stesso movimento ti arrechi un danno: infatti stai scuotendo un ammalato. Ma quando ti sarai liberato da questo male, qualsiasi cambiamento di località diverrà un piacere. Ti releghino pure nelle terre più lontane; ebbene, in qualsivoglia cantuccio di terra barbara in cui ti troverai per forza ad abitare, quella sede, quale che sia, ti sarà ospitale.
Più che la meta del tuo viaggio importa lo spirito con cui l’hai raggiunta, e pertanto non dobbiamo subordinare il nostro animo ad alcun luogo. Bisogna vivere con questa convinzione: “Non sono nato per un solo cantuccio di terra, la mia patria è l’universo intero”.
Se questo concetto ti fosse trasparente, non ti meraviglieresti di non trovare alcun conforto nella varietà delle regioni in cui di bel nuovo ti rechi per la noia delle precedenti. Infatti ti sarebbe piaciuta la prima in cui saresti capitato, e poi anche di volta in volta avresti gradito le successive, se avessi considerato ciascuna come interamente tua.
Seneca a Lucilio
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