domenica 31 gennaio 2010

Come giudicare un agriturismo

Vivere un’esperienza in un agriturismo significa normalmente poter gustare piatti della tradizione del territorio in un ambiente informale, ma accogliente, affrontando una spesa moderata. L’ agriturismo inteso come “turismo in campagna” nasce in Francia nella forma di “alloggi rurali” e nella vicina Germania con formule più simili a quelle odierne (alloggio, prima colazione, mezza pensione o pensione completa). In Italia si cominciò a parlarne dall’inizio degli anni ’70 e la Toscana è un po’ “la madre” di questo fenomeno, attualmente in continua espansione. Ma oggi rispondono tutti pienamente alla missione originale ? Focalizzando l’attenzione sul nostro territorio, gli agriturismi sono molto numerosi e teoricamente dovrebbero rispettare le caratteristiche di effettiva adesione ai parametri che ogni legge regionale impone agli esercizi di questo tipo. Con il rischio di apparire un po’ prosaico un agriturismo dovrebbe restituirci il cuore antico delle tradizioni, l'amore e la cura della natura fatti vivere in forme rispettose e moderne attraverso una organizzazione vivace ed intelligente che offra oltre ad una cucina semplice, ma curata, anche servizi di alloggio affiancando anche strutture per diverse pratiche sportive e di escursione. In questi luoghi in particolare, il denominatore comune deve essere il senso dell'accoglienza e dell'ospitalità, naturale frutto di secoli di storia entrata a far parte del codice genetico della nostra terra. Chi va in un agriturismo “vero” dovrebbe sentire di non essere solo un cliente: questa dovrebbe essere la prima e la più importante personalizzazione dell'accoglienza.

Quando vado in un agriturismo mi aspetto dal luogo, dalla cucina, dalla gestione, percezioni che muovano i miei sentimenti e ricerco sensazioni: l’arricchimento della mia esperienza di conoscenze sempre nuove, riappropriarmi contemporaneamente di una dimensione del tempo che la vita quotidiana allontana, il desiderio di incontrare passione per ciò che si fa e si propone. Chi decide di aprire un agriturismo, lo fa giustamente perché spera di fare “business”, ma dovrebbe essere motivato altresì per una ricerca e un’attenzione per la natura, per la memoria, cosciente di fornire un servizio turistico a “valore aggiunto” consapevole e con una certa valenza sociale, permettendo un approccio anche dal basso. Il trinomio di un agriturismo dovrebbe essere: terra, tradizione e territorio. Pur attenendoci al dato di fatto sopra enunciato, che gli agriturismi sono vissuti nella maggioranza dei casi come occasioni per recarsi in ristoranti dalla cucina territoriale a costi più “abbordabili”, l’ impressione che ne traggo è che proprio già da questo punto, assolutamente non trascurabile, molte di queste strutture disattendano quel principio di semplicità unita all’economicità, grazie a legislazioni fiscali regionali particolarmente vantaggiose. Dal momento in cui si pagano cifre dai 26-28 euro a crescere per la cucina, l’agriturismo cessa di essere un luogo “interessante” ed una valida alternativa ad un altro ristorante. Questa è una mia piccola “battaglia”: pagare più di 50 mila lire in un agriturismo mi sembra eccessivo e, nonostante la crisi, non vedo segnali troppo positivi. Non intendo generalizzare e nemmeno colpevolizzare la “categoria”, il mio vuole essere un richiamo a mantenere sempre alta l’attenzione sulla “mission” per cui sono nati e contemporaneamente un invito a tutti i frequentatori/clienti a riflettere sull’effettivo rapporto prezzo-servizio, valutando con attenzione l’offerta e la qualità. Nel mio girovagare tra gli agriturismi del territorio ho raccolto esperienze negative e positive. Ne cito alcune a titolo di esempio per capire il metro di valutazione. Mi è capitato di trovare luoghi che non contemplavano la piadina, che qui è come dire non avere l’aria, e vedermi offrire del pane molto comune, dozzinale, segnale di una colpevole disattenzione, oppure vedermi servire minestre che gridavano vendetta, ricche solo di quantità senza passione e cura nel condimento; fiamminghe di carne “suolata” o molto scadenti nella cottura, come potrei citare anche servizi al tavolo svogliato, quasi irritante . Agriturismo non significa cucina umile nei contenuti e nel trattamento, ma anzi attenzione per le cose semplici che sono le cose, alla fine, migliori, quelle che si apprezzano sempre. Ho così trovato in altri luoghi cura anche nel tovagliato con tessuti semplici, ma lindi come nei pranzi della domenica quando la famiglia si ritrovava numerosamente riunita, attenzione alla tavola con proposizione delle pietanze accompagnate dall’orgoglio di presentare il frutto del proprio lavoro, illustrazione sulla propria produzione, proposizione di confetture e altri alimenti prodotti e presentati con cura. In questi casi, come amo ripetere continuamente, il nostro viaggio gastronomico ci appaga in tutti i sensi e ci lascia “un ricordo” dentro anche a distanza di tempo.

Pierangelo Raffini - Pubblicato sul Sabato Sera del 30 gennaio 2010

venerdì 29 gennaio 2010

Il tempo

Capita spesso pensando al tempo che abbiamo, di pensare alla morte. Soprattutto crescendo e passando dalla giovinezza all'età adulta. In piena lucidità, o ai limiti della pazzia, comprendiamo la vanità delle imprese compiute o da compiere, l'impossibilità di condurre a termine quelle che ci siamo sempre immaginate e rinviate. Una leggera angoscia si impadronisce di noi, l'angoscia della fine... un impensabile vuoto del tempo. Inevitabile la domanda: quanto ci resta ?
Io non ho mai avuto queste paure per fortuna. Anche se la vita l'ho presa sempre troppo, forse, sul serio. Vive meglio chi riesce a pensare alla vita come un gioco. Pensando però che il nostro avversario sia proprio il tempo, cercando di essere abili, sapendo però che alla fine vincerà sempre lui. Come certi giochi on line. 
Qualcuno potrà chiedersi, ma ci si può divertire sapendo in partenza che si è destinati a perdere ? I bambini forse non giocano a carte con gli adulti, sapendo di perdere, ma divertendosi comunque ?
Io capisco che non si riesce a sopportare l'inesorabilità del tempo se non si ha, in modo esplicito o implicito, il mito della morte. La cultura occidentale non ha forse elaborato miti sulla morte per rendere più sopportabile e sensato il trascorrere del tempo e l'arrivo della fine ?

E allora ? Allora se pensiamo che il tempo sia poco, cerchiamo di non sprecarlo, ma di impegnarlo, di goderlo, di assaporarlo. Seneca riflettè parecchio sul valore del tempo e si rese conto che per essere soddisfatti occorre chiedersi cosa fare, facendo delle scelte e non fare tanto per fare. Differenziare, ancora una volta, tra quantità e qualità.

giovedì 28 gennaio 2010

La fetta del disonore

Massimo Gramellini - BUONGIORNO - La Stampa

Cosa stiamo diventando? A Lemmer, in Olanda, una commessa di McDonald’s è stata licenziata per aver integrato l’hamburger di una collega, regolarmente pagato, con una fettina di formaggio. Ma in tal modo, ha spiegato la multinazionale con assoluta serietà, il panino cambiava status, rientrando nella categoria, più costosa, dei cheeseburger. Il giudice, di sicuro un vecchio arnese del garantismo, ha sostenuto che il corpo del reato - la sottiletta - non fosse paragonabile al danno inferto alla lavoratrice - il licenziamento. Se la sciagurata avesse spruzzato sopra il panino anche un po’ di ketchup, l’avrebbero giustiziata nella friggitoria delle patatine? La ladra di formaggio ha vinto la causa, ma non ha riavuto il posto. Solo 4.500 euro, equivalenti a cinque mesi di stipendio. L’altro ieri avevamo appreso che un altro marchio del consumismo globale, Carrefour, stava disciplinando le pause-pipì per il personale. Una per turno e i prostatici si aggiustino con i pannoloni. Chissà se la norma varrà anche per le evacuazioni dei capi. E chissà se i manager di McDonald’s pagano i loro hamburger fino all'ultimo cent, ammesso che non si concedano di meglio a spese dell’azienda.
Quand’ero ragazzo imperavano il permissivismo e l’egualitarismo: il lavoratore era sacro sempre e comunque, non si licenziavano neanche i disonesti e gli ignavi. Adesso stiamo tornando a uno sfruttamento che, con le dovute proporzioni, ricorda certe pagine di Dickens. Così il pendolo della storia continua a oscillare, senza mai fermarsi dove dovrebbe: nel giusto mezzo. 

domenica 24 gennaio 2010

Tagliatella e Sangiovese per una festa planetaria


Abbinamento “reale” tra la tagliatella bolognese al ragù e il Sangiovese di Romagna. Questi due prodotti sono stati protagonisti per alcuni giorni, dal 16 al 18 gennaio, in tutto il mondo, in oltre mille ristoranti di 70 paesi nei cinque continenti. L’evento è nato da un’idea del Gruppo Virtuale Cuochi Italiani che dal 2001, utilizzando la tecnologia messa a disposizione dall’avvento di internet, ha lanciato eventi analoghi dedicati alla cotoletta alla milanese e gli spaghetti all’amatriciana. Il gruppo (su Facebook è denominato con la sigla acronima GVCI) ha un suo sito www.gvci.org , riunisce oltre mille chef italiani in tutto il mondo e si definisce la “prima e unica organizzazione spontanea di cuochi italiani nel mondo”. La proposta per la manifestazione ha incontrato anche il favore delle istituzioni locali, tra cui l’APT regionale e la camera di commercio, per la duplice importanza che essa riveste. Se da un lato infatti si promuovo due eccellenze del territorio emiliano romagnolo, dall’altra si sottolinea (e si aiuta a promuoverne la conoscenza) l’importanza del prodotto “DOC”, non falsificato. E’ quindi un contributo contro la contraffazione dei prodotti italiani di qualità che sono continuamente sotto attacco nel mondo, come tutti possono rilevare sui media, e sottraggono fatturati importanti e lavoro al “made in Italy”. Non per nulla la Coldiretti rileva come il termine “bolognese” sia quello più usurpato della cucina italiana e a tutti sarà capitato, in qualsiasi parte del globo, di incappare in un menù in cui si riportano i “famosi” spaghetti alla bolognese. Forse non tutti lo sanno, ma la ricetta e le “misure” ufficiali della tagliatella furono depositate ufficialmente presso la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Bologna già nel lontano, oramai, 16 aprile 1972 dall’Accademia Italiana della Cucina (oggi Istituzione Culturale) insieme alla Confraternita del Tortellino. Le misure della “vera Tagliatella di Bologna” sono: quando cotta deve misurare 8 millimetri di larghezza (pari alla 12.270° parte della Torre degli Asinelli), cruda sui 7 millimetri circa, mentre lo spessore deve essere compreso tra i 6 e gli 8 decimi di millimetro. Il 17 gennaio tra l’altro era di calendario Sant’Antonio, il patrono dei salumieri e dei macellai, oltre ad essere il primo giorno di Carnevale. Partendo da New York, passando per Hong Kong, San Paolo, Tokyo, Melbourne, Caracas e altre centinaia di grandi città, oltre a quelle italiane, si è consumato questo inno alla tagliatella in cui era d’obbligo per gli chef proporla con il “suo” ragù. Su questo punto si sono scatenate parecchie polemiche, alcune un po’ accademiche su quali sono i veri ingredienti del ragù bolognese, i tempi di cottura e i “segreti” (uso o meno degli odori, del latte, della conserva, ecc.), altre un po’ più feroci, come quella della rivista mensile “Degusta” che ha definito la manifestazione un vero e proprio “autogol” per come è stata organizzata (troppo ad uso commerciale) e per non aver coinvolto i numerosi esperti che vanta la città sui temi della gastronomia e dell’alimentazione. La speranza è che tutti abbiano cercato di utilizzare almeno degli ingredienti che assomigliassero il più possibile a quelli corretti. A questo punto sorgerà spontanea la domanda, ma qual è la ricetta più attendibile ? Per la risposta mi affido a quanto racconta l’Alessandra Spisni (quella della “Prova del Cuoco”) nel libro “Cucinare alla bolognese” (Ed. Pendragon - Bologna): preparare il condimento al ragù di carne rosolando 1 cucchiaio di lardo con 60 g di cipolla, 25 g di carota e 20 g di sedano; aggiungere poi 300 g di carne di manzo e 2 cucchiai di passata di pomodoro; regolare di sale e pepe; tuffare le tagliatelle in acqua bollente salata e muoverle rapidamente con il forchettone; appena vengono a galla, scolarle e riporle nella zuppiera, infine unire il ragù assieme a qualche cucchiaio d’acqua calda che mantiene la giusta umidità. In un paese come l’Italia però dove la cucina è territoriale, zonale, di paese…, come si dice “ambasciator non porta pena”. Ognuno si orienti come crede. Bene ha fatto poi l’Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna, proponendo l’abbinamento della Tagliatella con un buon bicchiere di Sangiovese di Romagna, a sostenere l’evento in virtù del suo alto profilo e della sua finalità di diffondere la cultura enogastronomica italiana. Le caratteristiche e la struttura di questo vino, “padre” di tutti i vini rossi più importanti del nostro Paese, ne fanno certamente il prodotto ideale per accompagnare la pasta tirata al matterello condita con i ragù di carne.

Pierangelo Raffini - Pubblicato sul Sabato Sera del 23gennaio 2010

La cura del bullo

Sul Lago di Garda abita una ragazza dello Sri Lanka, venuta in Italia per guadagnare i seimila euro che servono a pagare le cure del fratellino malato di tumore. Lavando i pavimenti di giorno, facendo la badante di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte, in un anno la ragazza riesce a mettere da parte la cifra agognata. Si accinge a mandare il vaglia a casa, ma non resiste alla tentazione di telefonare alla mamma per anticiparle la grande notizia. Entra in una cabina (la ragazza non ha il telefonino), tenendo a tracolla la borsa con i seimila euro. Quando quattro ragazzetti gliela strappano, lei lancia un urlo nella cornetta e la madre, dall’altra parte del mondo, vive il suo dramma in diretta.

I carabinieri identificano subito i rapinatori: li conoscono già. Sono adolescenti della zona, molto ricchi e molto annoiati, che cercano di scuotere l’abulia delle proprie esistenze con gesti che procurino scariche violente di adrenalina: per esempio rubare soldi a chi ne ha bisogno per andarli a spendere in cose di cui loro non hanno alcun bisogno. Vengono acciuffati mentre stanno finendo di dilapidare il bottino in un negozio di oggetti griffati. Lo scontro fra bene e male è così lampante che per mettere tutto a tacere, anche la coscienza, i genitori dei bulletti rifondono i seimila euro. «Sono i nostri figli, cosa possiamo fare?», si giustificano. Un’idea l’avrei. Vivere come la ragazza per un anno: lavando i pavimenti di giorno, facendo i badanti di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte. Magari funziona.
 
Massimo Gramellini - Buongiorno - La Stampa

mercoledì 20 gennaio 2010

Ristorante Osteria La Baita

Un locale dove Tradizione e Innovazione si incontrano in piatti generosi, di sapore e di sapere. Solo pizzicheria prima, aprì nei primi anni '80, La Baita è evoluta in ristorante/osteria da molti anni oramai, ma nel tempo non ha perso le caratteristiche che la distinguono: qualità, ricerca, genuinità e un sano rapporto con il prezzo. Robertone (lui vuole essere chiamato così) è l'oste che vi aspettate: nel fisico, nel sapere e nel suo essere un ottimo anfitrione. Tutto il personale è dotato di grande disponibilità e simpatia. Parlo di osteria, ma siamo nella nobiltà della categoria con 1800 etichette circa in carta, dai grandi vini bianchi e rossi italiani ed esteri allo champagne, dagli spumanti alle grandi etichette del rhum, che ti circondano attorno ai tavoloni di legno di un tempo. Già all'ingresso comprendi di essere nel posto giusto, accolto da un bancone traboccante di gastronomie di tutte le parti del Paese, con prodotti di vera eccellenza. Per non parlare dei profumi che ti avvolgono. Il locale ha tre sale più una corte interna in cui è possibile gustare tutti i piatti e i prodotti della tradizione, con puntate interessanti sul pesce. Il menù è composto da una parte di piatti che vengono cambiati con una buona frequenza, seguendo anche le stagioni, e da una parte più consolidata in cui si possono trovare decine di insaccati e formaggi, sottoli, sottaceti e ciccioli, solo per far comprendere la carta. Un'idea dei piatti che si possono gustare li fornisco da quelli assaporati in un'ultima "incursione": uova strapazzate con la pancetta, "curzul" al ragù di troia mora, passatello asciutto in brodo di fagioli borlotti, cacciatora di faraona con patate fritte nel grasso di maiale e piccole pesche al caffè con mascarpone e al rosolio con crema bicolore. Il mio giudizio: un locale da mettere in rubrica e frequentare con una buona assiduità.

Ristorante Osteria La Baita - Via Naviglio, 25/C - Faenza (Ra) - Tel. 0546 21584 - Chiuso domenica e lunedì

19 gennaio 1910 - 19 gennaio 2010: Centenario di ANDREA COSTA

“Il Pubblico ministero cercando di suscitare contro di noi il fanatismo e la paura, si rivolgeva alle vostre cattive passioni; io mi rivolgo ai vostri sentimenti di equità e di giustizia. Egli costrettovi, parlava come un profeta di guai e di sventure; io mi rivolgo ai vostri sentimenti di equità e di giustizia. Egli, costrettovi, parlava come un profeta di guai e di sventure parla ad una moltitudine superstiziosa ed ignorante; io parlo come Uomo a uomini. Noi vogliamo lo svolgimento pieno e completo di tutti gli istinti, di tutte le facoltà, di tutte le passioni umane; noi vogliamo l’umanamento dell’uomo: donde si deduce che non già l’emancipazione della classe operaia solamente, quella per la quale ci adoperiamo, ma la emancipazione intera e completa di tutto il genere umano; perché se le classi operaie debbono emanciparsi dalla miseria, le classi privilegiate debbono emanciparsi da miserie alle volte più gravi di quelle del proletariato, da profonde miserie morali…”.

Andrea Costa alle Assisi di Bologna in un atto di fede e di coraggio al cospetto della borghesia che lo trattava come un malfattore, rivolto ai giudici gridava forte la sua fede.



« Considerate la condizione d'ora degli operai è paragonatele a quella d'allora; vedete quanto industriarsi è affannarsi insolito di legislatori intorno al lavoro! Quanti diritti riconosciuti al popolo! Quanti doveri assunti o almeno confessati dallo Stato! Tutto questo progresso si deve, per gran parte, a quel nostro compagno di scuola. Benedetto! »


(dal discorso commemorativo di Andrea Costa, pronunciato da Giovanni Pascoli all'Università di Bologna, nel 1910)

lunedì 18 gennaio 2010

I conflitti

Occorre imparare a gestire i conflitti che dovrebbero essere un momento di crescita e un occasione di arricchimento per entrambe le parti. Cerco quindi di evitare di farne delle questioni personali, focalizzandomi sul problema, non sulle persone. A cui cerco di dimostrare sempre il massimo rispetto. E' difficile, sia per me che per l'altro non entrare nel personale, ma è essenziale. I manuali insegnano che l'obiettivo non è vincere, ma con-vincere. Quando si vince perchè si ha avuto ragione ti accorgi che hai perso, di fatto, la relazione. E i danni sono più consistenti e duraturi. La vittoria è effimera.
Cerco anche di non ragionare mai con chi è travolto dalle emozioni, dalle passioni, perchè è inutile, è certamente poco ricettivo. Lo sforzo più grande da compiere, che ci offre la chiave per con-vincere è riuscire ad entrare nel sistema di pensiero del nostro interlocutore, comprenderlo almeno in parte. Spesso serve a disarmarlo e a renderlo disponibile al dialogo. Anche se una sola ricetta non esiste.

venerdì 15 gennaio 2010

Sperimentare, assumersi dei rischi

Mi sforzo continuamente di sperimentare, in modo selettivo, cose nuove per forzare il naturale stato d'animo a mantenere le abitudini. Allo stesso modo non mi sono mai sottratto a scelte che, per la maggioranza delle persone, potevano risultare "rischiose" in qualche modo. Questi atteggiamenti fanno uscire dalla routine, che ammazza, e ti fanno sentire vivo, vitale. In certi momenti forse compio atti o faccio cose un pò banali, forse sciocche, ma che non ho mai fatto perchè un pò frenato dall'educazione ricevuta: tutto aiuta a liberarsi da quella paura di sbagliare che ci inculcano fin dalla più tenera età. Vome ho già scritto.
Cerco di decidere io quello che veramente voglio e se, quindi, è giusto od ingiusto per me. Senza lasciarmi condizionare da quello che fanno gli altri. Mi focalizzo su me stesso, mai sulle altre persone. La gara è su di me e basta.
Tra l'altro aborro la noia e ho deciso molto tempo fa che non deve far parte della mia vita. E così è. Cerco di utilizzare l'energia che sento in me continuamente e riesco ad essere stanco solo quando lo decido io. Nella maggioranza dei casi della mia vita. Parlo dell'energia per fare cose, leggere, organizzare, incontrare persone, trattare, scrivere ed altre mille attività quotidiane. Naturalmente quando si compiono sforzi fisici, nel lavoro o nello sport, non rho questo potere "assoluto" e l'età gioca un suo ruolo...

mercoledì 13 gennaio 2010

Sfruttare il proprio talento

Dio dona a tutti alcuni talenti, ognuno di noi corre due rischi a riguardo: sprecarli perchè non si è in grado di "farli rendere"; sprecarli perché si sta nel posto sbagliato.
E' importante saper dirigere innanzi tutto se stessi, saper quindi identificare dove e come far fruttare al meglio i propri talenti.
Qualche volta significa ricominciare daccapo, qualche altra volta significa rischiare, altre volte significa attendere...

martedì 12 gennaio 2010

Le buone abitudini

"Scarpe bone, bel vestito, vito sano, vin sincero, bele case, svaghi onesti, la fameia, i tosi, i veci, fede in Dio, mutuo rispeto, pace e bona volontà. 
Lavorar con atension, con impegno, in dignità.
Buon guadagno e cuor contento, vita agiata, ma el risparmio che xe sempre necessario per formar la proprietà.
Sempre usar moderasion, toleranti co la zente, boni amissi solidali ne la gioia e nel dolor.
Andar drio per la so strada, no far ciacole per niente, no badarghe ai fanfaroni, ai busiari, ai mestatori.
Sempre pronti ai so doveri, far valere i so diritti, e difender tuti uniti Patria, Vita e Libertà."

Da un discorso di Gaetano Marzotto del 28 agosto 1954 in occasione di una festa con le maestranze della SFAI riportato nel libro "Volare alto" di Matteo Marzotto

lunedì 11 gennaio 2010

Il dolore degli uomini

«Volevamo braccia, sono arrivati uomini», sospirò trent’anni fa lo scrittore svizzero Max Frisch spiegando perché troppi connazionali fossero così ostili agli immigrati italiani contro cui avevano scatenato tre referendum. Ostilità antica. Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno. Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo. E altri gendarmi e altri treni avevano sottratto i nostri nonni, tre anni prima, ad Aigues Mortes, alla furia assassina dei francesi che accusavano i nostri, a stragrande maggioranza «padani», di rubare loro il lavoro.

L’abbiamo già vissuta questa storia, dall’altra parte. Basti ricordare, come fa Sandro Rinauro ne «Il cammino della speranza», che secondo il Ministero del Lavoro francese «alla fine del 1948 dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, ben il 95% era irregolare o clandestino». Come «irregolari» sono stati almeno quattro milioni di nostri emigrati. C’è chi dirà: erano altri tempi e andavano dove c’erano posto e lavoro per tutti! Falso. Perfino l’immenso Canada, spiega Eugenio Balzan sul «Corriere» nel 1901, era pieno di disoccupati e a migliaia i nostri «s’aggiravano in pieno inverno per Montréal stendendo le mani ai passanti». Tutto dimenticato, tutto rimosso. Basti leggere certi commenti, così ferocemente asettici, di questi giorni. «Chi non lavora, sciò!» Anche quelli che erano a Rosarno dopo aver perso per primi il lavoro nelle fabbriche del Nord consentendo un’elasticità altrimenti più complicata e cercano di sopravvivere in attesa della ripresa? Sciò! Anche quelli che fanno lavori che i nostri ragazzi si rifiutano di fare? Sciò! Anche quelli che lavorano in nero per un euro l’ora? Sciò!

Mai come stavolta è chiaro come l’abbinamento clandestino = spacciatore è spesso un’indecente forzatura. A parte il fatto che moltissimi a Rosarno avevano il permesso di soggiorno, c’è un solo spacciatore al mondo disposto a lavorare dall’alba alla notte per 18 euro, ad accatastarsi al gelo senza acqua e luce tra l’immondizia, a contendere gli avanzi ai topi? Dice il rapporto Onu 2009 che chi lascia l’Africa per tentare la sorte in Occidente vede in media «un incremento pari a 15 volte nel reddito » e «una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile» dei figli. Questo è il punto. Certo, non possiamo accogliere tutti. Ma proprio per questo, davanti al dolore di tanti uomini, ci vuole misura nell’usare le parole. Anche la parola «legalità». Tanto più che, ricordava ieri mattina «La Gazzetta del Sud», l’Inps scheda come «braccianti agricoli metà dei disoccupati della Piana». Un andazzo comune a tutto il Sud: 26 falsi braccianti agricoli smascherati nel 2008 in Veneto, 146 in Lombardia, 26 mila in Campania, 14 mila in Sicilia, 16 mila in Puglia, 10 mila in Calabria. Dove secondo i giudici antimafia buona parte delle false cooperative agricole che poi magari usano i neri in nero sono legate alla ’ndrangheta. Dio sa come il nostro Paese abbia bisogno di rispetto della legge: ma quali sono le priorità della tolleranza zero?

Gian Antonio Stella - Editoriale - 11 gennaio 2010 - Corriere della Sera

Paura di sbagliare

E' la cosa più difficile a mio parere. Liberarsi dal timore di sbagliare, di fare un errore. Viviamo in una società che alimenta fin da piccoli questa paura. Contrariamente al mondo anglosassone in cui un fallimento non è la fine della tua vita, ma l'opportunità di rinascere. Henry Ford non fallì forse quattro volte prima di fondare un impero automobilistico ? Lo stesso Lincoln ebbe una vita lastricata di insuccessi, fallimenti e bocciature, prima di diventare presidente degli Stati Uniti. Ma senza scomodare illustri esempi, ciò che serve sono tenacia e determinazione nel proprio agire. Non esiste il fallimento. Non riuscire in qualche cosa, in un'azione, in un'impresa, non significa fallire come persona, ma più semplicemente non essere riusciti in quella particolare cosa, aver scoperto di non essere portati per quella scelta, non aver imboccato la propria strada in un determinato momento o ancora non aver scelto i tempi giusti.
Non si può essere perfetti in tutti i campi, riuscire in tutto. In alcuni si può dare veramente il meglio di se, ma in altri occorre accettare di fare le cose al meglio delle proprie possibilità. E' sufficiente. Cercare la perfezione in tutto è impossibile, non è un dono dato agli esseri umani. Anche chi cercasse di sostenere il contrario a sua volta non sarà certamente perfetto in tutto.
Il segreto sta nel tentare, nel provare e riprovare. Un fallimento può essere una lezione, un incentivo al lavoro e alla ricerca o all'individuazione della propria strada.

sabato 9 gennaio 2010

E' il lavoro che fa la Costituzione


di Valerio Onida - Il Sole 24ore



La proposta del ministro Brunetta, di "ritoccare" l'articolo 1 della Costituzione eliminando il riferimento alla Repubblica «fondata sul lavoro», può essere considerata come un semplice diversivo o una provocazione, nel gran parlare che si fa di "riforme", spesso senza adeguata attenzione al merito degli argomenti; oppure potrebbe essere un preannuncio pericoloso di messa in discussione dell'impianto fondamentale stesso della Costituzione.
Più che ricordare per l'ennesima volta l'origine della formula in questione, nata in assemblea costituente per rispondere alla proposta di parte comunista intesa a proclamare una Repubblica «di lavoratori», occorre rifarsi al significato sostanziale del disposto costituzionale. Fu il grande costituzionalista e costituente (democristiano) Costantino Mortati a identificare per primo il "principio lavorista" fra i principi fondamentali della Costituzione, accanto al principio democratico, a quello personalista e a quello pluralista. Ma il fondamento "lavorista" della Costituzione non significa affatto che il lavoro sia considerato in essa come il valore supremo: tale, semmai, è la persona umana, i cui «diritti inviolabili» la Costituzione riconosce e garantisce, insieme richiedendo l'adempimento dei «doveri inderogabili» di solidarietà (articolo 2).

Il lavoro nella Costituzione è visto come strumento di realizzazione della personalità. Valore che informa l'ordinamento implicando, come scriveva ancora Mortati, che «il titolo commisurativo del valore sociale del cittadino sia desunto dalle sue capacità, non già da posizioni sociali acquisite senza merito del soggetto che ne beneficia», e costituiscano perciò un privilegio. Per questo il lavoro è oggetto di un diritto di tutti i cittadini, da rendere effettivo promuovendone le condizioni, e di un dovere, quello di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (articolo 4). Per questo è oggetto di «tutela», in «tutte sue forme e applicazioni» (articolo 35).
In questo senso, la Repubblica è genuinamente «democratica», perché delinea un tipo di stato fondato sul riconoscimento della «pari dignità sociale» di ogni persona e sul dovere della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (articolo 3). È il tipo di stato frutto di quei principi del costituzionalismo che, affermatisi la prima volta con le rivoluzioni liberali della fine del Settecento, ne hanno segnato la storia e l'evoluzione. In questa evoluzione sono confluiti, integrandola e arricchendola, fenomeni e correnti sociali di grande portata: la lotta per l'allargamento del suffragio, il movimento dei lavoratori e la lotta allo sfruttamento economico dei più deboli, l'affermazione, accanto ai diritti civili e politici, dei diritti "sociali", di cui quelli del lavoro sono grande parte.

Smettiamola dunque di guardare in termini provinciali alla nostra vicenda costituzionale, presentandola solo come frutto di un "compromesso" fra ideologie e forze liberali, marxiste e cattolico-democratiche, o, più rozzamente, fra democristiani e comunisti; e di immaginare che una Costituzione democratica debba limitarsi a sancire il divieto per lo stato (uno "stato minimo") di interferire indebitamente nella sfera delle libertà civili individuali. Il costituzionalismo, nella cui grande corrente la Carta del 1948 ha inserito a pieno titolo l'Italia, è altra cosa. È l'eguaglianza fra gli esseri umani proclamata come prima «verità di per sé evidente» dalla rivoluzione americana. È la triade rivoluzionaria francese «libertà, eguaglianza, fraternità».

Sono i diritti individuali della Dichiarazione francese del 1789 al pari dei «principi politici, economici e sociali» enunciati nel preambolo della Costituzione francese del 1946 e riaffermati nel preambolo di quella gollista del 1958. Sono le "quattro libertà" - tra cui la «libertà dal bisogno» - che il presidente Roosevelt voleva vedere affermate «ovunque nel mondo». Sono i diritti umani oggetto della Dichiarazione universale dell'Onu e delle grandi convenzioni internazionali (New York 1966) che hanno cercato di darvi attuazione, e in cui accanto ai «diritti civili e politici», figurano a pari titolo i «diritti economici, sociali e culturali».

Molte Costituzioni, nel loro primo articolo o in uno dei primi, usano indicare i caratteri essenziali dello stato cui intendono dare vita. Per la Costituzione francese del 1958 la Francia è una Repubblica «indivisibile, laica, democratica e sociale» (articolo 1). Per la Costituzione tedesca del 1949 la Repubblica federale di Germania è uno Stato «federale, democratico e sociale» (articolo 20). Per la Costituzione spagnola del 1978 la Spagna si costituisce come «stato sociale e democratico di diritto che propugna come valori superiori del suo ordinamento giuridico la libertà, la giustizia, l'uguaglianza e il pluralismo politico» (articolo 1). Ora, che cos'è uno "stato sociale" se non uno stato che assume fra i suoi compiti anche il riconoscimento e la promozione dei diritti (e dei doveri) del lavoro?

La Repubblica italiana «fondata sul lavoro» è dunque solo un'altra formula per indicare la qualifica di "stato sociale" o "democratico-sociale", che appartiene non solo a noi, ma all'intera storia e all'irrinunciabile essenza del costituzionalismo universale.

Volare alto


Sono un appassionato di autobiografie. In Italia, diversamente dagli Stati Uniti non ce ne sono molte e l'annuncio di quella di Matteo Marzotto mi ha incuriosito e interessato. So che è facile dire questo, ma sono un ammiratore di Matteo per il suo modo di essere, così "stiloso" e attento alla sua immagine, ma anche concreto e attento ai problemi della società e del Paese. Con tutte le differenze del caso incarna il mio modo di essere e, dopo aver letto il libro, dico anche il mio modo di vedere le cose.
Il libro mi è piaciuto molto soprattutto nei capitoli Vivere e Lavorare oltre all'Introduzione, quest'ultima una fotografia esatta del mio pensiero. Sono sempre assetato e curioso della visione della vita e del metodo applicato nel lavoro delle persone che, in qualche modo, si possono definire di successo nei loro campi. Ci sono sempre spunti e particolari che ti possono aiutare o far riflettere sulla tua vita e su ciò che fai. Non nascondo che avrei gradito un maggiore approfondimento sulla parte del lavoro, sul modo in cui si organizza, come gestisce i problemi, ecc., ma in fondo il sotto titolo recita "quel che ho imparato fin qui dalla vita". Vista l'età ha ulteriori opportunità per scrivere di questo.
Un libro che si legge bene, volentieri e che consiglio. In tutti i casi date un piccolo, ma sempre importante, contributo alla ricerca sulla Fibrosi Cistica. Infatti i diritti d'autore del libro saranno interamente devoluti alla Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica. Anche questo è un modo per far capire che il mondo molte volte si muove per luoghi comuni e la società è portata a giudicare le persone senza conoscerle fino in fondo. Il fatto di tenere alla propria persona, avere passioni, voler continuamente mettersi alla prova e cercare di "volare alto", non è sinonimo di superficialità, arroganza o presuntuosità.

venerdì 8 gennaio 2010

I nostri pensieri

Gli stati d'animo sono la reazione che ognuno sceglie di avere. Bisogna conquistarsi la propria libertà personale lavorando sulla propria mente, sui propri pensieri. Si ha facoltà di pensare qualsiasi cosa si decida di lasciare accedere alla propria mente. I nostri pensieri generano le nostre emozioni e sta in noi tenerceli così, cambiarli o comunicarli. Il nostro stato d'animo è creato dai nostri pensieri, non tanto dalle cose, dai fatti o dalle persone che ci circondano. Attraverso l'apprendimento di un diverso modo di pensare si acquisisce la vera libertà e, di conseguenza, una vera felicità. Cambiando i nostri pensieri diventiamo responsabili anche di ciò che proviamo. Non lasciamoci sopraffarre dai pensieri negativi.
Tutto questo richiede un lungo e continuo lavoro interiore. Una dura lotta contro la nostra parte di "luna nera". Significa rendere stimolante e da assaporare qualsiasi esperienza, anche quando ti annoi o non hai molto da fare. Fai lavorare la mente in modo positivo e divertente. Allenati. Se si usa il cervello e lo si fa lavorare su questo, piano piano ci si accorge che si perde la brutta abitudine di adirarsi per le cose, anche piccole, che non vanno.
Ma tutto è in mano a noi e solo noi possiamo migliorare la nostra situazione e renderci felici. Non dimentichiamolo mai. E' nostra responsabilità assumere il controllo dei propri pensieri, imparando a sentire ed agire in base a ciò che vogliamo veramente.
Quando indichiamo con il dito indice qualcuno o qualcosa che riteniamo responsabili per il nostro stato d'animo o per la nostra esistenza, ricordiamo invece che quel dito è in realtà rivolto verso di noi. Ognuno è padrone di se stesso. E' scomodo, ma è così.

giovedì 7 gennaio 2010

Consapevolezza ed equilibrio

Mi ha sempre attratto la figura di "guerriero spirituale", fin da ragazzo, e ho sempre cercato di raggiungere questo stato interiore anche se ero  e sono consapevole che tutto questo richiede concentrazione e fatica. Raggiungere però la piena consapevolezza di tutto ciò che si fa, forse è legato anche al procedere dell'età, mi pare sia più semplice negli ultimi anni. Mi accorgo di essere più attento nel cogliere le mie emozioni, le mie sensazioni senza per forza identificarmi con esse. Riesco sempre più spesso ad osservare, astenendomi da giudizi affrettati, lasciandomi altresì guidare dal mio istinto interiore, dalla parte più essenziale di me, dai miei Valori. Inoltre cerco di non farmi più sopraffarre dallo stress negativo, perchè ha effetti gravi su di me. Penso su tutti invero. Perdo la capacità di valutazione e del "buon senso", divento più lento nelle decisioni, rischio che i pensieri negativi mi sovrastino a scapito dei rapporti e dei risultati nella sfera lavorativa e personale.
Quindi passo dopo passo, ogni giorno, cerco di compiere quel cammino di preparazione fisica e spirituale rivolto a migliorare il mio carattere. Questo mi permette di aumentare le situazioni in cui riesco ad evitare gli scontri, lasciando quest'ultima possibilità solamente ai momenti in cui tutte le altre alternative siano risultate vane. L'obiettivo è sempre la ricerca di un equilibrio, ma in alcuni casi non ci si può sottrarre alla lotta. E a quel punto occorre essere altrettanto lucidi e decisi.

mercoledì 6 gennaio 2010

La perseveranza

Niente al mondo può sostituire la perseveranza. Nemmeno il talento: non c'è cosa più frequente degli uomini di talento falliti.
Neanche il genio: il mondo è pieno di derelitti istruiti. Solo la perseveranza e la determinazione sono onnipotenti. L'espressione "andare avanti" è quella che ha risolto e sempre risolverà i problemi del genere umano.

C. Coolidge (Presidente USA 1923-1929)

martedì 5 gennaio 2010

Conoscere il proprio scopo

Se si vuole cambiare è importante liberarsi delle vecchie convinzioni, sentirsi bene con se stessi e convincersi che la vita non è perfetta, non è tutta in rosa e si incontreranno delle avversità. La vita va affrontata con metodo, convinzione ed è importante essere chiari con se stessi e con gli altri in tutti i suoi momenti.
Un modo è quello di chiedere chiaramente le cose ed in modo preciso, senza esitazioni. Si è più rispettati e solitamente i vili non hanno il coraggio di affrontarti. Chiedere con sincerità, nel momento anche del bisogno, della necessità, in modo anche creativo a volte per distinguersi. Ma non bisogna mollare mai.
Cerco continuamente di identificare il mio scopo con le mie capacità naturali, di essere determinato, di non farmi distrarre da cose superflue e nemmeno influenzare da altri (la cosa più difficile penso). Mi sforzo di conservare un atteggiamento umile e di impedire che la parte di "luna nera", che ognuno di noi possiede, possa prendere il sopravvento lentamente, sulle buone intenzioni. C'è stato un tempo che la velocità, la ricerca del risultato ad ogni costo, "l'ansia da primato", il desiderio del possesso, avevano sopraffatto la mia anima, il mio spirito. Ad un certo punto, una determinata situazione mi ha fatto comprendere molte cose e attraverso la riflessione, ma anche un forte dolore interiore, ho iniziato un nuovo percorso, diverso.
Oggi sento che la mia qualità di vita è certamente migliorata. Conosco i miei desideri e le ragioni che mi muovono ad essi. Lavoro per scoprire meglio le mie qualità ed perfezionarle. Lavoro duramente, in modo diverso da un tempo, direi più intelligente. Provo più emozioni, che governo a volte per non ottenebrare la ragione, ho sviluppato enormememente la pazienza perchè è uno scudo che mi evita molti errori e lo scopo per cui faccio le cose mi è chiaro.

lunedì 4 gennaio 2010

Il futuro

Per i paurosi il futuro resterà sconosciuto, per i deboli sarà irragiungibile, per gli incoscienti offrirà nuove opportunità.

E' Morale tutto questo ? Milano butta via ogni giorno 180 quintali di pane

E SAPPIAMO SOLO DI MILANO...

I fornai: nessuno lo vuole, neanche i proprietari dei canili. Distribuirlo o grattugiarlo non conviene


MILANO— Soffocati da una montagna di pane. Bocconcini, sfilatini, michette. Poi arabi, tartarughe, francesini, baguette, ciabatte, filoncini, coppie, crostini e rosette. Fino alla nausea, fino a non poterne più. Al punto da gettare tutto nel sacco nero dopo aver soddisfatto l’ennesimo sfizio. È questa la fine del pane a Milano. I fornai della Madonnina stimano in 5.250 i quintali buttati al mese in città, poco meno di 180 al giorno. Come dire: ogni milanese rovescia nella spazzatura quattro etti di pane al mese. Ipotizzando livelli di spreco uguali nel resto del Paese, in Italia sarebbero 24.230 le tonnellate di pane che ogni trenta giorni finiscono nella spazzatura. Alla faccia della crisi. E del miliardo di persone che, secondo la Fao, soffrono la fame nel mondo. «Bando ai falsi moralismi. Il nostro sistema di produzione, distribuzione e consumo rende inevitabili gli sprechi di molti altri prodotti deperibili. Pensiamo alle enormi quantità di pomodori o arance che vengono distrutte», fa riflettere Sandro Castaldo, ordinario di Marketing all’università Bocconi di Milano. Ma torniamo nelle panetterie milanesi. «Il problema del pane buttato si aggrava di giorno in giorno perché i consumatori sono sempre più esigenti.

MILLE VARIETÀ- Quando ho cominciato a fare questo mestiere, trent’anni fa, lavoravamo quattro tipi di paste. Adesso le varietà si sono moltiplicate all’infinito. E se non hai sempre l’assortimento completo e caldo, perdi clienti», racconta Stefano Fugazza, a capo dei panificatori dell’Unione artigiani di Milano, aderente alla Claai. «Con questo modo di lavorare l’invenduto aumenta a dismisura», tira le somme Fugazza. «In media resta sugli scaffali il dieci per cento del pane prodotto. Difficile scendere sotto questa percentuale », fa il punto Gaetano Pergamo, direttore del settore alimentare di Confesercenti. La Claai stima tra i tre e sette chili il pane invenduto ogni giorno in ciascuna delle 500 panetterie milanesi. Il che vuol dire che si arriva anche a 750 quintali di pane buttato al mese in città. Buttato? Ma non si potrebbe distribuire a famiglie in difficoltà, associazioni di volontariato? «Macché — risponde Fugazza —. Il nostro pane a fine serata non interessa più nessuno. Lo abbiamo proposto persino ai canili, ma andrebbe integrato con altri alimenti, e così la preparazione del cibo costerebbe troppo in termini di manodopera». Il pane avanzato non può nemmeno essere rivenduto grattugiato il giorno dopo perché ci sono regole rigide da rispettare: controllo del grado di umidità, confezioni, etichettature. Insomma, non ne vale la pena. Le grandi associazioni del volontariato spiegano così il paradosso del pane buttato. «Attrezzarsi con un furgoncino per andare a raccogliere ogni sera quel che resta ai panettieri comporterebbe uno sforzo e un costo considerevoli», fa notare Pier Maria Ferrario, a capo di Pane Quotidiano, associazione che a Milano garantisce pasti a 660 mila persone l’anno. «I 2.000 quintali di pane che abbiamo distribuito nel 2009 ci sono stati garantiti da Panem, un grande marchio della distribuzione industriale». Naturalmente il problema riguarda anche i supermercati.

MANGIMI - La scena si ripete di frequente a ridosso della chiusura: grandi sacchi neri vengono riempiti con il pane avanzato. Interpellate, molte insegne tra le più note glissano. «Risolviamo il problema cercando di produrre esattamente quello che va consumato — assicurano alla Coop —. Un accurato monitoraggio dei consumi consente di ridurre gli sprechi». Altri grandi marchi (che, però, preferiscono non essere citati) puntano sulla cessione del pane a produttori di mangimi. Una strada, questa, per nulla scontata. «Il fatto è che non si possono mescolare diversi tipi di pane perché i mangimi devono mantenere determinati valori nutrizionali — spiega Antonio Marinoni, presidente dei panificatori milanesi aderenti a Confcommercio —. E così, in teoria, prima del conferimento ai consorzi bisognerebbe dividere il pane comune da quello all’olio, e così via separando». Sempre Marinoni fa notare un secondo aspetto del problema: gli sprechi delle famiglie.

L'INDAGINE - «Come ogni anno abbiamo condotto un’indagine insieme con Amsa, la società che gestisce i rifiuti a Milano — racconta il presidente dell’associazione —. Abbiamo analizzato il contenuto di un campione di sacchi della spazzatura raccolti in città. Bene, ogni giorno a Milano si buttano tra i 130 e i 150 quintali di pane». Che poi vuol dire 4.500 quintali al mese da aggiungere ai 750 di cui si liberano ogni sera le panetterie. «Le stime sono realistiche. Anche se non è detto che il resto d’Italia sprechi quanto a Milano», fa notare Sandro Castaldo dell’università Bocconi. «Detto questo, il problema resta — aggiunge il professore —. E le soluzioni finora sperimentate sono solo parziali ». L’unica arma in mano oggi alla distribuzione è sviluppare sistemi di previsione della domanda talmente accurati da ridurre al minimo gli sprechi. C’è anche chi utilizza semilavorati (baguette congelate, per esempio) da infornare man mano che entrano i clienti. «Ma la vera soluzione sarebbe abbassare i prezzi di vendita del pane dopo le sei del pomeriggio—conclude con una proposta Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo —. Così i negozi ridurrebbero l’invenduto. E le famiglie avrebbero una strada per risparmiare».

Rita Querzé

domenica 3 gennaio 2010

Applicare un metodo per raggiungere gli obiettivi

Nel tempo mi sono convinto che sono due le cose che ti permettono di diventare "più saggio" e quindi affrontare con metodo la tua vita: leggere i libri e le persone che incontri.
Normalmente leggo molto, direi moltissimo rispetto alle medie nazionali, e soprattutto al mattino appena sveglio cerco di leggere cose stimolanti per almeno mezz'ora. E' il momento più proficuo per "assorbire" e riflettere. Siamo freschi e non abbiamo residui di pensiero come può capitarci invece la sera. Soprattutto evito di leggere o sentire qualsiasi notizia negativa, ripeto, per almeno 30/40 minuti.
Radio o telegiornali quindi ascoltateli più tardi, magari in auto mentre vi spostate.
Ritengo che un continuo perfezionamento passi attraverso l'acquisizione di alcune informazioni tutti i giorni, in modo che le possa sedimentare, pensare, lavorare e farle mie eventualmente, modificarle se necessario oppure approfondirle.

La conoscenza permette di incrementare il proprio "potere" e ciò ha la facoltà di attirare le opportunità.
Inoltre, nel tempo, ho imparato a fidarmi sempre di più del mio intuito. Più di vent'anni di attività commerciale mi hanno aiutato certamente. L'istinto, quel "qualcosa di viscerale" che si possiede mi aiuta e mi guida a prendere decisioni bilanciandole con quelle del Cuore. In particolar modo nel lavoro i risultati si ottengono quando si valutano con attenzione i rschi che si assumono e si pianificano le azioni. Tradotto vuol dire: studio, riflessione, applicazione, insomma duro lavoro per avere successo. Mettendo da parte la paura perchè normalmente ciò che desideri si trova dall'altra parte...

Ho imparato anche a perdonare me stesso. Non è stato facile. Ho sempre preteso elevati standard per me stesso e tutte le volte che ottenevo qualcosa che mi ero prefissato, pensavo già all'obiettivo successivo senza riuscire a godermi l'attimo. Quando sbagliavo non riuscivo a capacitarmene. I miei sensi di colpa mi dilaniavano. Ci ho lavorato sopra e sono riuscito a superare questo atteggiamento. Le persone sbagliano normalmente, a tutti i livelli. Attraverso gli errori si può migliorare cercando di analizzarli ed evitarli nel proseguio. Ma si faranno altri errori. E' inevitabile. Ma nella vita ho capito che l'importante non è tanto quanti errori fai, ma quante cose riesci a far bene. Il segreto è questo. Contrarsi sulle cose che sai fare e pensare al futuro. Il passato è storia e non si può più cambiarlo; le decisioni prese allora furono frutte delle informazioni che si possedevano in quel momento.
Sono un convinto fautore del fatto che ponendosi degli obiettivi "si può fare", perchè la vita è fatta di cicli e ricicli e le cose non durano per sempre. Durante la nostra esistenza passano tanti "treni", tante occasioni. Se siamo motivati, preparati e abbiamo metodo, su uno si sale certamente.

sabato 2 gennaio 2010

La magia di un "abito su misura"


Sono consapevole che non tutte le persone hanno necessità di un abito nella loro vita e che per altri non è così importante la qualità dello stesso, perchè vivono un pò come un'imposizione dover portarlo magari tutti i giorni. Ma a chi ama vestirsi, e per la maggioranza della settimana si mette l'abito, vorrei consigliare assolutamente l'esperienza di un abito sartoriale. Costa di più di uno "pret-à-porter", ma vale... una vita, lo assicuro. Oggi, con una certa proliferazione del "su misura" anche da parte dei brand più noti, si trovano comunque tanti bravi sarti anche in città importanti (Bologna, Milano) o di provincia (Forlì), che ti realizzano ottimi capi, di taglio sapiente, senza essere molto più cari di uno acquistato in negozio. Vi assicuro però che la differenza è abissale. Nei tessuti, nella confezione e nella durata. Personalmente possiedo abiti di sartoria che ormai hanno vent'anni ai quali ho fatto stringere i pantaloni, amo ormai solo 19 cm con risvolto 4,5 cm, ma che per taglio e qualità del tessuto sfido a conferirgli quell'anzianità. Quindi si può dire senza paura di cadere in luoghi comuni, che l'abito sartoriale è un investimento.
Un abito pre-confezionato, non dona quelle sensazioni e quel piacere che, diversamente, offre uno "su misura": le asole fatte a mano che si possono aprire, l'impuntatura, i revers nella misura che ti piacciono, magari "a lancia", il taschino all'interno di una tasca del pantalone per le monete (in modo che non si senta ad ogni passo quella suoneria oltre al cellulare...), i bottoni per le bretelle alla "Brooks Brothers", nel "tre pezzi" il panciotto che cade con esattezza, la giacca morbida senza parti "incollate" che danno nel tempo quei rigonfiamenti indecorosi, le maniche un pò più corti per far risaltare i gemelli della camicia (se si usano), la scelta dello spacco (senza, all'inglese, a sacco) nella giacca e l'altezza giusta per non sembrare che sia qualche numero in più o che "ti sia stata buttata addosso". Tanti particolari che fanno la differenza insomma e che rendono unico il vostro capo sartoriale. Per sempre.
Capisco che non tutti sono in grado di apprezzare o comprendere il gusto, la soddisfazione, le sensazioni, insomma la "quint'essenza" che trasmette indossare un capo sartoriale creato per voi. Ed è un peccato. Naturalmente rispetto queste posizioni e neppure ho la presunzione di essere compreso fino in fondo. Ma a chi normalmente utilizza questo capo per lavoro e non ha ancora avuto il piacere, o il coraggio, di vivere questa esperienza, consiglio di farlo. Non se ne pentiranno. Mi raccomando però di prendere qualche informazione prima di scegliere il sarto. Come dicevo all'inizio, da un paio di anni la "moda" del "su misura" ha contagiato anche i brand più prestigiosi e su quest'onda la sartoria è ritornata con parecchi attori. Non tutti all'altezza. Quindi informarsi, magari fare una visita, valutare le realizzazioni e informarsi anche sul prezzo. A volte il valore dell'abito (sia che il prezzo risulti basso o alto) non corrisponde a quanto richiesto e, soprattutto, alle nostre aspettative.


Tutte le immagini sono tratte da The Sartorialist

venerdì 1 gennaio 2010

2010: concentriamoci sulla nostra vita !


La vita è dura ! Un bel modo per iniziare questo 2010, ma è importante non dimenticarcene mai per non andare incontro a cocenti delusioni. Il mondo non farà nessuno sforzo per assicurarci la felicità e la serenità. Dobbiamo conquistarcela.
Ogni cosa ha un prezzo e possiamo pensare di ottenerla solo applicandoci con pazienza, sacrificio, a volte sofferenza e tanta fatica. Già la fatica. Ho sempre giudicato la fatica salutare, ma non solo. La fatica è una buona abitudine, rafforza la nostra autostima, tempra il carattere, ci fa sentire bene con noi stessi, aiuta ad affrontare la vita appunto, ci permette di confrontarci e ci aiuta a realizzare le nostre potenzialità.
Chi ha capacità di lavorare e sopportare la fatica più a lungo, aggiungendo forza di volontà, perseveranza, buone abitudini, applicazione costante e determinata, normalmente ha successo nella vita. Sia essa professionale, privata, sportiva. Alla base di tutto il segreto sta nella forte autodisciplina che si è in grado di sviluppare. La mancanza di autodisciplina la vita diventa caos e incertezza. Rifletteteci. Se si fanno le cose solo quando si hanno voglia di farle, o sei ricco o è un passatempo, se non metti davanti a te il lavoro e le rinunce in primis, poi la soddisfazione e il piacere, non riuscirai mai veramente nella vita. Non c'è premio senza sforzo.
La differenza tra le persone di successo e le altre, ne sono convinto, sta nelle cose appena descritte. Non ci sono scorciatoie, non ci sono alternative. Quando parlo di successo definisco qualcosa che non è ascrivibile tanto alla voce soldi, potere e lusso. Anzi. Il successo è quello che ti fa sentire bene dentro, che ti porta ad avvertire che gli altri hanno voglia di stare con te, che in qualche modo li ispiri o vogliono conoscere la tua opinione, che hai Amore che ti circonda, positività, serenità. Successo per me vuol dire questo e tante altre cose per cui ti senti bene nel mondo e utile per gli altri. E lo strumento più potente che io credo occorra,  per raggiungere gli obiettivi, le mete, è una fortissima autodisciplina. L'autodisciplina permette che determinati eventi accadano o meno. Il Fato (come lo intendevano gli antichi) ha un ruolo nella vita di ognuno di noi, ma allo stesso tempo "ognuno di noi è artefice del suo Destino" (come diceva Appio Claudio). Oserei dire che l'autodisciplina è il segreto della felicità, perchè ci permette di applicare quotidianamente le buone abitudini. Le buone abitudini consentono di affrontare con metodo gli obiettivi che ci poniamo nella vita. Oppure all'inizio di un anno nuovo. Come questo.

Ognuno di noi o molti di noi si sono posti o si porranno degli obiettivi in questi giorni. E' bene ricordare che ogni obiettivo va affrontato per gradi, con grande determinazione e convincimento interiore. Non ci si può nascondere dietro falsi alibi: l'umore giusto, il tempo necessario, ...
Rimanere concentrati sugli obiettivi e sulle attività che dobbiamo intreprendere per raggiungerli. Applicarsi e svolgere fino in fondo attività dopo attività, lasciando ognuna di esse solo dopo che si è terminata. Così si evitano anche le ansie, sintomo di incompletezza delle cose nella vita.
Inoltre è importante dichiarare i propri obiettivi, questo permette di mettere alla prova quanto si è rispettosi degli accordi e dei propositi fatti prima con se stessi e poi con gli altri. Ci costringe ad essere affidabili e, se siamo coerenti e li manteniamo, accresce notevolemente la propria autostima permettendoci altresì di conoscere meglio noi stessi. La probabilità di riuscita di ciò che ci poniamo di fare è proporzionale proprio alla fiducia che nutriamo in noi stessi. Metteteci passione e desiderio in ciò che intraprendete, aiutano a trovare dentro di sè gli stimoli giusti per l'azione.
Infine rammentate sempre che: un obiettivo è un sogno con una scadenza !