martedì 14 maggio 2013

La cucina dei gran sacerdoti. Bisogno primordiale addio, ma a tavola non siamo tutti uguali.

Si parla molto di cibo, oggi. Anche troppo. Ma non temiamo (o non illudiamoci) di essere i primi a farlo. Di cibo, gli uomini hanno sempre parlato molto. Letteralmente e metaforicamente. Da prospettive diverse, per ogni sorta di interessi, accompagnando l’intero percorso del cibo dalla produzione al mercato, dalla cucina alla tavola. Trattati di medicina e di dietetica, di agronomia e di botanica, norme legislative e regolamenti commerciali, libri di cucina e di buone maniere, letteratura d’invenzione e di intrattenimento, non c’è testo (da Omero alla Bibbia, fino ai giorni nostri) che non abbia in qualche modo intercettato uno o più aspetti della cultura alimentare. Ci sono poi le tradizioni orali, le esperienze e i saperi trasmessi — attraverso i gesti, o magari in forme proverbiali — senza neppure ricorrere allo scritto. La ragione di tutto ciò è semplicissima, addirittura banale. Mangiare è la prima e principale necessità del vivere quotidiano. Incarna ed esprime una gamma vastissima di valori materiali e mentali, tra fame e salute, necessità e piacere. Per questo, il discorso sul cibo ha sempre avuto un ruolo centrale nelle attenzioni degli uomini. E allora, perché stupirsi di quanto posto abbia oggi nei media?

Un elemento di novità in effetti esiste, ed è l’esistenza stessa dei media: non il contenuto (che è antico) ma il supporto dell’informazione. I mezzi di comunicazione di massa — giornali, radio, televisione, cinema, internet —hanno impresso un’accelerazione impressionante alla quantità di dati, di notizie, di discorsi che vengono quotidianamente scambiati nel mondo. Tuttavia, rispetto alle forme tradizionali di comunicazione c’è anche diversità nei contenuti.

Anzitutto, c’è il ruolo predominante del business (anch’esso realtà antica, ma mai nelle dimensioni attuali). L’industria del cibo — che non vuol dire l’industria alimentare in senso stretto,ma tutto ciò che ruota attorno alla produzione e alla preparazione degli alimenti, ai sistemi di ristorazione, al turismo gastronomico — ha spostato sul piano professionale molte attività che tradizionalmente appartenevano all’economia domestica. Molta più gente oggi si affida a «specialisti» per soddisfare il bisogno di cibo (e di discorsi sul cibo). La cucina, intesa nel suo senso più ampio (non solo il gesto «finale» del cuocere e condire, ma la filiera completa delle attività di reperimento, trasformazione e allestimento del cibo) non fa più parte delle pratiche e dei saperi collettivi ma è stata in gran parte delegata a una schiera di professionisti, quasi dei «sacerdoti» a cui si chiede di dare risposte a questo bisogno primario della società. E poiché non c’è business senza marketing, la professionalizzazione delle attività di cucina significa che informazione e comunicazione assumono caratteri sempre più decisamente (anche se non sempre esplicitamente) «pubblicitari». Parallelamente cresce l’esercito dei «critici» che insegnano a riconoscere il buono, a orientare i consumatori verso questo o quel prodotto, questo o quel locale, questo o quel cuoco. È il meccanismo tipico della società dei consumi, ampiamente sperimentato nel XX secolo: creare bisogni per vendere.

Quando la merce è il cibo, il bisogno è reale, addirittura primordiale. Ma il marketing alimentare non fa leva sul bisogno fisiologico di cibo, sul soddisfacimento della fame come esigenza primaria dell’organismo. Perno del discorso non è la sostanza del cibo, o della bevanda, ma la circostanza in cui si beve o si mangia qualcosa, per esprimere e rappresentare emozioni individuali e sentimenti collettivi. L’attenzione (lo notava già Roland Barthes in un celebre saggio sulla psico-sociologia dell’alimentazione contemporanea) in questo modo si sposta sul rito, sulla convenzione sociale, sull’occasione. Valori extra-nutrizionali, di natura culturale più che fisiologica.

Lo stesso tema della salute, un tempo percepito come variante fisiologica della nutrizione, tende oggi a declinarsi in questo senso, coinvolgendo (al di là della salute fisica dell’individuo) la «salute» della comunità e dell’ambiente in cui essa vive: è l’appello al consumo «responsabile» che rispetta la natura, non inquina gli spazi di vita, ha a cuore la dignità sociale dei produttori. Atteggiamenti, tutti, che conferiscono uno statuto nuovo al consumatore, in termini di consapevolezza e di conoscenza. Atteggiamenti che ridimensionano l’aspetto elementare della fame e del bisogno fisiologico, spostando il centro di interesse sul contesto «esterno» del consumo.

Ma a chi si rivolgono questi discorsi? Non sfugge a nessuno che la ricerca del buon cibo, della buona osteria e del bravo cuoco resta un fenomeno minoritario (come sempre è accaduto nella storia, ogniqualvolta le considerazioni sulla fame e la sopravvivenza hanno ceduto il posto ai temi del piacere, della salute o del cibo-spettacolo). La maggioranza dei consumatori non è affiliata alla ristretta schiera di intenditori che si avvicinano al cibo con il piacere della scoperta, la curiosità della sperimentazione, una multiforme complessità di prospettive intellettuali. È a questa minoranza di consumatori che si rivolgono le rubriche specializzate di giornali e riviste, certe trasmissioni radiofoniche e televisive, i blog di cucina che attraversano la rete. È a loro che parlano i cuochi-artisti, esibendosi con modalità e intenti non diversi da quelli di un cantante d’opera o di un attore di teatro. Ma i media non si accontentano di questo: la loro vocazione è parlare a tutti. Ecco allora moltiplicarsi giochi, gare, reality show, lezioni di cucina a tutte le ore e per ogni sorta di pubblico, a cavalcare l’onda di una moda che in modi diversi coinvolge tutti. Ciascuno ha diritto al suo spettacolo.

In ogni caso, il cibo rimane — come ai tempi di Omero e della Bibbia — la cosa più facile di cui parlare, perché, nonostante tutto, il tema conserva un livello di normalità e di accessibilità legato alla natura necessaria e quotidiana del gesto. L’esperienza esclusiva nel ristorante di moda e l’apparizione televisiva dello chef di grido sono aspetti diversi di un discorso comune, contrastanti sul piano sociale e culturale così come un tempo potevano esserlo il trattato di agronomia e le pratiche contadine, le regole delmanuale di dietetica e la saggezza dei detti proverbiali. L’identità di classe, il peso delle ideologie, il senso di appartenenza sociale e culturale rimangono forti, e non bastano una tavola e un piatto di minestra per sentirci (e per essere) tutti uguali.

Massimo Montanari - Universitá di Bologna (storia Medievale, storia dell'Alimentazione, dirige il master europeo "Storia e cultura dell'Alimentazione") - Il Club della Lettura - Corriere della Sera 
http://lettura.corriere.it/la-cucina-dei-gran-sacerdoti/


sabato 11 maggio 2013

La lezione di Cucinelli ai futuri manager: la mia ricetta vincente? È quella dei benedettini

Vedere negli occhi del proprio padre la sofferenza dell'umiliazione e, ancora ragazzini, promettere a se stessi che mai, mai più quei lampi umidi di dolore dignitoso si leggeranno negli occhi di un altro essere umano. La storia di Brunello Cucinelli, imprenditore del doppio filo di cashmere partito dall'Umbria alla conquista del mondo, inizia lì: dagli occhi del suo papà quando tornava dalla fabbrica dove aveva lavorato tutto il giorno: "Era stanco – ricorda Cucinelli – ma non si lamentava della fatica, soffriva però per le offese e le umiliazioni personali che subiva. E' stato in quel momento che ho capito che se mai avessi avuto un'azienda mia, nessun dipendente avrebbe dovuto patire quello che ha patito lui".

L'umanesimo di Cucinelli, puntellato su letture che vanno da Dostoevskji a Rousseau, fanno tappa nell'insegnamento di San Benedetto e si fondano su Aristotele e la sua etica, è l'esempio di quel capitalismo buono dimenticato, spesso, dalla globalizzazione selvaggia che ritiene possibile il profitto solo a scapito dell'uomo. "L'essere umano va trattato con dignità dal Bangladesh a Ravenna: in ogni parte del mondo l'uomo deve essere rispettato. Il mio sogno è sempre stato di rendere più umano possibile il lavoro dell'uomo e ho cercato di farlo seguendo una massima benedettina: sii rigoroso ma dolce, esigente ma abile". Il successo di Brunello Cucinelli è la prova che il rigore, non la rigidità, unito all'umanesimo sono le carte vincenti anche in un settore difficile come quello del tessile, dove lui opera. I numeri, del resto gli danno ragione, e contro quelli nemmeno il più sincero seguace di Antistene, può nulla. I breakdown ricavi degli ultimi anni parlano chiaro: nel 2010 sono di 203.599 (migliaia di euro), nel 2011 242.635 (migliaia di euro) e nel 2012, anno nero dell'economia globale, sono ancora saliti a quota 279.321 (migliaia di euro).

Cucinelli, a Bologna per partecipare al Mba lecture organizzato dalla Alma Graduate School, incontro moderato dal professor Massimo Bergami, risponde alla domanda che ogni giovane che si affaccia ad un colloquio di lavoro si pone: qual è la carta vincente per entrare in un'azienda, magari proprio la sua? «Io chiedo che scuola ha fatto, non mi interessa il voto, cerco di capire come immagina il mondo, che sogni ha, cosa vorrebbe dalla vita e soprattutto cerco di capire se è una persona per bene. Se lo è ecco, io lo scelgo».

E se si viene scelti da Brunello Cucinelli si entra a lavorare in un'azienda che conta 1020 dipendenti e 3000 collaboratori, in una struttura al cui interno ci sono due piccoli ristoranti (non mense aziendali), un parco dove trascorrere la pausa pranzo passeggiando e un capo che, tenendo comunque sotto controllo con un occhio i fatturati, con l'altro studia Marco Aurelio e cerca, per quanto umano, di migliorare quella fetta di mondo su cui può incidere.


di 8 maggio 2013 - Il Sole 24 ore - Domenica

venerdì 10 maggio 2013

Cos'è il Personal Branding

Quando mi è stato chiesto di fare un guest post sul Personal Branding mi sono ricordato che qui, su questo blog, non ne avevamo mai parlato.
Ci sono effettivamente blog dedicati esclusivamente a questo argomento e noi lo abbiamo sempre considerato come un argomento un po’ “sottinteso” nel momento in cui si parla di web marketing.
Sia io che Maria Pia e Gianluca, sviluppiamo il nostro personal branding per far crescere poi quello di Webinfermento.

Nel web marketing poi, soprattutto quello odierno, orientato alla costruzione di relazioni tra le persone, grazie anche allo sviluppo dei social, per lo sviluppo di fiducia, non se ne può più fare a meno. Pensiamo che seppur possa sembrare un concetto scontato, ogni azienda piccola e grande di successo nel web ha dietro di sè una persona che si è fatta notare, distinguendosi dalla massa.

Ci sono quelle aziende e quei progetti digitali, che ricordi sia per il nome del brand che della persona che lo ha portato al successo. In quei casi, c’è stata sicuramente un’azione di costruzione di personal branding efficace. Il web marketing si muove sempre più verso il personal branding; i social media ne sono l’esempio più lampante. Puoi diventare esperto della tua nicchia e in alcuni casi anche influenti, ma dovrai seguire un percorso di crescita ben definito per arrivarci. Anche Google, nel suo piccolo, ti spinge a investire nella promozione di te stesso, prima di tutto; basti pensare all’Authorship e all’attribuzione della paternità dei contenuti.

Non ruberò altro tempo alla tua lettura, perché l’intervista che segue saprà spiegare meglio di me quello che è il Personal Branding, come costruirlo e come diventare padroni di se stessi.

Sebastiano Zanolli fa il manager, un manager un po’ atipico, che sceglie un approccio alla professione misto di pragmatismo e di sentimento. Nato nel 1964 a Bassano del Grappa (Vi), dopo la laurea in Economia presso l’Università di Cà Foscari, incontra alcune grandi aziende, tra cui Adidas, nella quale ha ricoperto il ruolo di direttore marketing in Germania, e Diesel, di cui è stato General Manager per la filiale italiana. Per 6 anni è stato Amministratore Delegato di 55DSL srl. Attualmente è Direttore Generale della nuova divisone 55DSL, linea giovane del Gruppo Only The Brave Diesel.
Sebastiano Zanolli: sito web e pagina Facebook


Sebastiano, qual è la tua definizione di Personal Branding?

Il “Personal Branding” è un trasposizione in campo personale dei processi che caratterizzano l’attività di marketing aziendale.

Il “Personal Branding” si potrebbe tradurre in italiano con “creazione e gestione del proprio marchio personale”, ma, come spesso avviene, la traduzione è un po’ pesante e goffa.

Perdonate, userò l’inglese. Abbreviamolo in “P.B.”. Il P.B. è l’idea e l’aspettativa che facciamo venire alla mente di chi sta pensando a noi.

È l’insieme di valori, competenze, visioni, passioni, caratteristiche e ricordi in genere che immediatamente chi ci sta attorno collega alla nostra comparsa fisica
o anche solo virtuale. Anche solo a pensarci.

E’ qualcosa di simile alla USP (Unique Selling Proposition) per un azienda?

Si, è qualcosa che ti rende assolutamente differente e memorabile per il frutto del tuo lavoro

Il P.B. si dedica proprio a questo, ma a livello personale.

Arghhh!… Ho sentito bene un paio di commenti…“Ma come si fa a paragonare un prodotto a delle persone?”, “ma questo Sebastiano è senz’altro un cinico manager che confonde lavoro e vita…”.

Li ho sentiti, e ne scrivo, perché ho avuto di fronte platee per più di 10.000 persone negli ultimi cinque anni e so che statisticamente, una percentuale, progressivamente sempre più sottile,
non riesce ad accettare il fatto che il P.B. sia una pratica che tutti pratichiamo fin da bambini,
in modo spontaneo.

Quello di cui vi sto parlando presenta la stessa differenza che esiste tra l’imparare a camminare e diventare esperti corridori di maratona. Certo, il principio è lo stesso. Ma i risultati no.

E’ per questo che è così importante?

Tutti tentiamo spontaneamente di essere unici. Altrimenti non si spiegherebbero i successi
dei marchi dei prodotti di bellezza e la quantità della loro offerta.

C’è poi chi stabilisce in modo deciso di essere unico, così da ottenere i risultati a cui tiene.
Il P.B. è solo maturità e comprensione che esiste l’esigenza, in una società veloce, velocissima, di lasciare un buon e giusto ricordo di noi e di quello che rappresentiamo.
Soprattutto un ricordo coerente con gli obiettivi che ci prefiggiamo
.

Da dove si deve partire costruire un Personal Branding efficace?
Quanto tempo ci vuole?

Ricordate che le ricerche mostrano come servano meno di 30 secondi
per formarci un’impressione duratura di un nuovo interlocutore, mentre possono servire decine di occasioni ripetute per cambiare una percezione negativa già avuta.

Le ricerche mostrano inoltre come non siano le parole o le azioni in sé a definire il risultato della nostra strategia, ma piuttosto la percezione che ne ha l’interlocutore.

Si tratta dunque di gestire le percezioni di chi entra in contatto con noi, in modo che abbia una corretta comprensione di chi siamo.
Diventeremo poi la prima scelta di questa persona tutte le volte che gli si presenterà un’occasione
che potrebbe legare la situazione a noi.
Questo significa molte cose.
Più opportunità, più occasioni, più possibilità per ampliare i nostri orizzonti. Personali o professionali.

In tutto questo che ruolo gioca la comunicazione personale?

Creare opportunità coerenti con i risultati cercati. Tra i vantaggi del decidere di maneggiare in modo adeguato il proprio personale marchio, c’è quello, non trascurabile, di aumentare la propria sicurezza e le proprie capacità comunicative.
E a pensarci bene non c’è da stupirsi.

Pensate a chi ha abbracciato il P.B. da millenni. Ad esempio gli appartenenti agli ordini religiosi, militari e istituzionali. Di tutto il mondo. Chiarissimo personal branding in termini estetici
(paramenti, indumenti, rituali) e comunicativi (professioni di fede pubbliche, prediche, orazioni).

Avete pochi dubbi quando pensate a dove collocare il Papa, o il Dalai Lama o il generale dell’Arma dei Carabinieri o il ministro delle Finanze.
Nessun dubbio, il processo di P.B. è stato condotto perfettamente e ripetutamente.

Jacques Seguela, uno dei più importanti comunicatori del ’900, artefice delle campagne pubblicitarie di Francois Mitterand, nel suo libro “Hollywood lava più bianco” scrive così:
«L’impero romano cadde per aver creduto che i giochi da stadio sarebbero stati più forti di quelli della chiesa.

Ogni persona usa il proprio istinto per giudicare il prossimo e lo usa in modo immediato.
In un mondo povero di tempo e ricco d’informazioni, andare all’essenza è fondamentale.
Fare in modo che la nostra presenza generi fiducia diventa la chiave di volta dei nostri successi.

Questo fa il P.B.: stimola la fiducia nelle capacità e negli aspetti che voi volete sottolineare.
Risparmierete il vostro e l’altrui tempo se saprete creare il vostro personale marchio.
Ridurrete il vostro e l’altrui stress nel cercare una soluzione mutuamente soddisfacente nel business o nella vita se avrete saputo gestire bene il vostro marchio.
Siete unici, lo sapete.

Concretamente quali sono i passi per costruire il proprio Brand Personale ?

Identificate il Vostro valore personale di brand, cioè ciò che vi rende unici in relazione
alla missione e al futuro che vi siete disegnati e prefissati.

Può essere la simpatia, la correttezza, la perspicacia, una conoscenza di un materia particolare,
qualsiasi caratteristica fisica, psichica, morale… una dote che vi permetta di comunicare
in modo veloce e chiaro ciò che “vi significa”.

“Significare” esprime il concetto del far intendere qualcosa a qualcuno attraverso parole o segni… simboli.

Ecco, trovate i simboli più adatti per far riconoscere il vostro significato “di base”. Il vostro significato ultimo nella vostra esistenza.
La vostra promessa, il vostro destino. Almeno fino a quando non li cambierete.
Se vale per i bastoncini di pesce “dei capitani di domani” che mio figlio non scambierebbe mai per quelli uguali identici ma “sbrandizzati” della Coop, questo vale anche per noi una volta sul mercato.

Lavorateci sopra seriamente. Come si lavora quando il vostro capo vi chiede di elaborare un piano o vi dà un compito in azienda.
Il vostro futuro vale almeno quanto quello dell’azienda per cui lavorate.

Cosa è cambiato, in questi ultimi anni, nell’ambito del Personal Branding, Internet e i social media in che modo hanno influito?

Internet e i social media hanno reso tutto più veloce. E’ necessario raccontare perché facciamo quello che facciamo.
La scrittrice Isabel Allende dice che ognuno è il cantastorie della propria esistenza e che spetta a ciascuno la possibilità di trasformare quella esistenza in una leggenda oppure no.
Questo si fa attraverso ciò che si comunica. In tutti i modi possibili. Circondatevi di gente che vi è amica. Moltiplicate la vostra presenza attraverso ciò che di buono la gente dice di voi.
Non è un concetto banale.
Anzi, è molto probabile che molti non comprendano la profondità del messaggio.
E difatti rimarranno ancorati al palo della propria misantropia. Gli amici vi stimano. La stima provoca un’irresistibile propensione alla condivisione della fonte della stima stessa.
È come quando consigliate il vostro dermatologo a qualcun altro.
Siete i più fenomenali e grandi promotori delle sue capacità.
E senza che vi si chieda nulla.

Circondatevi di amici, veri, e il vostro brand inizierà a brillare come non mai.
Ricordate la formula che crea la fiducia.

Questa formula molto poco teorica, e forse a volte non perfetta, ma molto pratica, dice che:
F = T x Esp.Com. Dove F significa fiducia, T significa tempo, Esp.Com. significa esperienze emotive condivise.

In parole povere, per creare fiducia, o si spende molto tempo con le persone, o si vivono insieme esperienze emotivamente coinvolgenti, o tutte e due le cose.

Pensate al periodo di leva militare o a quello delle esperienze scolastiche.
Le persone dopo anni si ritrovano assieme e sentono ancora fiducia verso individui
con cui avevano perso i contatti. È l’effetto di esperienze profonde condivise.

Ma il grado di fiducia è frutto anche di un altro fenomeno:

F = P.man / P.eff.

Dove F significa sempre fiducia,
P.man sta per promesse mantenute,
e P.eff per promesse effettuate.

Ogni persona che viene in contatto con noi calcola questo indice. Se volete che sia alto, promettete poco e mantenete molto.

Il brand serve a conservare la fiducia, ma non prima di averla costruita. Nel caso in cui non vi sia il tempo per creare fiducia, ricordate che al vostro interlocutore serve comunque un’esperienza,
per quanto immaginata, della relazione con voi.
In parole povere, deve sentire il benessere che proverà a intrattenere dei rapporti con voi.

Questo è quello che caratterizza i fan. Voi ne avete? La vostra azienda ne ha?
Se no, questo si ottiene facendo sentire, vedere, toccare qualcosa che ancora non c’è.

Da questo punto di vista, la capacità narrativa è molto importante.

Sappiate dove andare, o perlomeno ipotizzate di saperlo. Altrimenti andrete a finire in qualche altro posto.

Avere in mente la propria proiezione sul mondo, attuale e futura, è il mezzo per rimanere fedeli
a se stessi e cambiare solo quando è necessario e voluto.

Il P.B. è un modo per essere coerenti e migliorare, in un circolo virtuoso che ci vuole tanto più credibili e capaci di attivare risorse ed energie quanto più capaci di far percepire velocemente la propria intima essenza.

Ascoltate le idee di quanta più gente possibilecirca il vostro progetto, specialmente se vi ammirano già. Essere capaci e avere l’umiltà di ascoltare ed eventualmente adottare spunti non nostri è una grande marcia in più.
Non credete alla storia degli uomini di valore o di successo che non hanno mai dato retta a nessuno.
Hanno ascoltato tutti, e poi hanno usato solo ciò che hanno ritenuto interessante.
Persino Napoleone ascoltava molto.

Sebastiano ci dai 3 consigli che si possano applicare alla attività di Personal Branding?

  1. Create sempre una storia intera da raccontare attorno.
  2. Comportatevi in modo da evitare di dover fingere. Siate trasparenti.
  3. Se ve la sentite, coinvolgete in un dialogo continuo potenziali “clienti” per preparare questi punti.

Siete voi il vostro marchio.

Se ve ne dimenticate, fate il gioco della concorrenza.

Intervista da www.webinfermento.it 

giovedì 9 maggio 2013

Startup e territorio

Con il termine Startup si identifica l'operazione e il periodo durante il quale si avvia un'impresa. Nello Startup possono avvenire operazioni di acquisizione delle risorse tecniche correnti, di definizione delle gerarchie e dei metodi di produzione, di ricerca di personale, ma anche studi di mercato con i quali si cerca di definire le attività e gli indirizzi aziendali. Questa la definizione che fornisce Wikipedia di Startup e fa comprendere il significato di questo termine che sempre più spesso leggiamo e viene citato dai media.

Dietro questo termine molto americano c'è un mondo tutto nuovo. È una delle strade, una grande opportunità per rilanciare il lavoro, l'occupazione e fare innovazione. È un approccio culturale che va alimentato, insegnato, spiegato, diffuso, supportato e utilizzato per contribuire a rilanciare il "sistema Paese" in generale e il nostro territorio territorio in particolare. Quando si parla si Startup si tende a pensare unicamente al settore High-Tech, all'informatica, alle imprese che lavorano in internet. Non è così in realtà o meglio l'informatica è ormai pervasiva in ogni attività che intraprendiamo e la rete ci permette di oltrepassare i confini fisici del territorio in cui nasce l'impresa, la Startup. Quindi  la tecnologia è una componente ormai irrinunciabile per "fare impresa". Ma le Startup possono originarsi dai settori più diversi e a volte mai considerati.

Da qualche tempo anche nel nostro Paese si sta prendendo consapevolezza su questo aspetto tanto è vero che il governo precedente, per mano dell'allora ministro Passera, ha dotato per la prima volta l'Italia di un'Agenda Digitale chiamato, non per nulla, Decreto di Crescita 2.0. Un vero e proprio programma di indirizzo sulle Startup con una proposta di legislazione e di agevolazioni destinate a queste nuove imprese che, sul modello americano, devono essere snelle, rapide nel partire e se non funzionano, anche nel fallire. Si perché il fallimento é contemplato nei paesi più avanzati e non viene vissuto come una vergogna, ma come un tentativo andato male che fornisce esperienza per migliorare nel successivo. Oltreoceano é pieno di imprese di successo i cui titolari provengono da insuccessi iniziali. 
Mi auguro che anche il governo Letta abbia la volontà e il tempo di continuare a lavorare su questo decreto.

Sono un convinto sostenitore e nutro grande passione per il mondo delle Startup. Per questo, oltre alla mia attivitá di lavoro, mi interesso e studio molto sul tema. Sono socio di Italia Startup e anche mentore per Innovami, un Incubatore che si trova a Imola. Ho sviluppato diverse idee sul modo in cui un territorio come il nostro potrebbe diventare una culla per l'innovazione e un esempio in Italia e in Europa attraverso le Startup e  l'Incubatore. Possiamo contribuire a creare lavoro grazie alla nostra storia che ha dimostrato la grande industriosità e la capacità di sviluppare ricerca e innovazione in questa regione.

Proprio in virtù del tessuto imprenditoriale privato e cooperativo esistente ritengo che occorra sviluppare la cultura del "give back". Questo termine sottende ad un concetto che si basa su due punti. Il primo sta nella disponibilità di chi ha avuto successo nel mettersi a disposizione, gratuitamente, per valutare la business-idea delle giovani imprese e una volta  scelte, riversare la propria esperienza sulle stesse. Il secondo punto nell'interesse a finanziare le neo imprese con modalità che possono variare da quella del "business angel" a quella del "Venture Capital". Diffondere questo approccio sarebbe un vantaggio per il territorio perché creerebbe un ciclo virtuoso del valore, creerebbe posti di lavoro e svilupperebbe la capacità di pensare al lavoro in modo innovativo.

Il nostro territorio offre possibilità uniche per la creazione di Startup: dalla Meccanica all'Energia, dall'Information Technology alle Charity Company (imprese dedicate al sociale). Tutte in grado di sviluppare business e ricchezza per il territorio. Un forte e riconosciuto incubatore in grado di far nascere, seguire e far decollare le nuove imprese genera richieste di nuovi spazi abitativi e per ufficio, aumenta i consumi e la richiesta di servizi, induce alla nascita di nuovi nuclei familiari che sono portati a rimanere sul territorio e richiama a sua volta altri capitali. Senza trascurare lo sviluppo di un più forte legame con l'Università.

Il tema è lungo e articolato, porterò altri contributi prossimamente. Ma sottolineo che nulla si ottiene con un lavoro metodico, programmato e concreto. E' una questione di approccio, di cultura, di cambio di mentalità. Un solo esempio illuminante: Israele ha 8 milioni di abitanti, non ha materie prime (come noi), ma questo non gli impedisce di essere la nazione con il numero maggiore di Startup nel mondo di cui un buon 50% è quotato al Nasdaq (la borsa dei titoli tecnologici americana). 

Ma il momento è adesso. Se non ora quando ?

Qualche definizione esplicativa dei termini

Incubatore. L'incubatore aziendale o, in lingua inglese business incubator è un programma progettato per accelerare lo sviluppo di imprese attraverso una serie di risorse di sostegno alle imprese e servizi, sviluppate e orchestrate dall'incubator management ed offerte sia tramite l'incubator che attraverso la sua rete di contatti. Gli incubatori variano nel modo in cui forniscono i loro servizi, nella loro struttura organizzativa, e nel tipo di clienti che servono. Il positivo completamento di un programma di business incubation aumenta la probabilità che una start-up rimanga in attività per il lungo termine: storicamente, l'87% degli incubator graduates continua l'attività.

Business Angel. Un angel investor o business angel si può tradurre in italiano come investitore informale nel capitale di rischio di imprese. L'aggettivo "Informale" contrappone tale figura agli investitori nel capitale di rischio di tipo "formale", ossia coloro che adottano un approccio di analisi formale agli investimenti nell'equity, quali i Fondi Chiusi d'Investimento, più propriamenti i fondi di Venture Capital e Private Equity.
I Business Angel sono ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti che hanno il gusto della sfida imprenditoriale, il desiderio di poter acquisire parte di una società che operi in un business, spesso innovativo, rischioso ma ad alto rendimento atteso, con l'obiettivo di realizzare nel medio termine, 5-7 anni, delle plusvalenze dalla vendita, parziale o totale, della partecipazione iniziale.
I Business Angel sono quindi degli "uomini di impresa", dotati di un buon patrimonio personale ed in grado di fornire all’impresa, sia in fase di start up, sia in fase di sviluppo, preziosi consigli gestionali e conoscenze tecnico-operative, oltre a una consolidata rete di relazioni nel mondo degli affari.

Venture Capital. Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Spesso lo stesso nome è dato ai fondi creati appositamente, mentre i soggetti che effettuano queste operazioni sono detti venture capitalist.
Nella maggioranza dei casi, fondi necessari sono erogati da limited partnership o holding in aziende che per natura della attività e stadio di sviluppo non risultano finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari (come ad esempio le banche). Il venture capital è una categoria del settore del private equity, che raggruppa tutte le categorie di investimenti in società non quotate su un mercato regolamentato.


(Pierangelo Raffini - Twitter @pier61) - Mio articolo su www.leggilanotizia.it

lunedì 6 maggio 2013

SOCIETING ecco l'ultima metamorfosi del mercato che sta cambiando anche la nostra idea di welfare


L'«innovazione sociale» è in un certo senso quello che sta già accadendo: le cose cambiano, la recessione modifica i consumi, si va di più al super-discount, si comprano le scarpe negli outlete di meno nei negozi. O non si comprano per niente, quest'anno. Con la recessione più bici e meno auto, oppure si coordina alla meglio il viaggio con altri, car-pooling. Se diventa sistema brevettato allora è car-sharing.

Qui la pratica ha fatto un salto con un'invenzione, come fu una grande invenzione l'asilo-nido, il kindergarten: intuizione di Robert Owen e Friedrich Froebel di metà Ottocento. Intelligenza sociale applicata al problema delle madri in fabbrica. Si tratta di idee che risolvono problemi e - importante - creano posti di lavoro, e dunque aziende e se possibile anche margini di profitto. La social innovationè anche il gergo di una serie di discipline - dall'economia all'informatica, dal marketing al design alla comunicazione - che cercano di farsi strada nello spazio, vasto e crescente, che c'è fra il crearsi di problemi nella vita collettiva e l'incapacità dello Stato di risolverli.

La raccolta di saggi, in italiano nonostante il titolo, Societing Reloaded,a cura di Adam Arvidsson e Alex Giordano (Egea, pagg. 268, euro 25) propone numerosi autori che si riconoscono dietro questa etichetta, coniata da Giampaolo Fabris, che mescola marketinge sociologia in un proposito di radicale rinnovamento: il progetto intende dare a un tema tradizionalmente nordeuropeo una impronta latina e mediterranea, ispirandosi al pensiero meridiano di Franco Cassano, all'insegna di una visione del consumo improntato ai concetti di «autenticità, dieta, lentezza e misura». L'ago della bussola del societing è orientato verso una situazione ideale, quasi un'utopia: un mondo dove ogni volta che si genera un problema sociale si creano le condizioni perché esso trovi una soluzione non attraverso un intervento pubblico- lo Statoè giunto al limite della sua capacità di azione e di prelievo fiscale - ma attraverso l'intervento delle imprese nel mercato e attraverso l'azione dei consumatori che con le loro decisioni modificano il mercato. Arvidsson e Giordano immaginano un mutamento accelerato sia delle imprese che delle «tribù» dei consumatori, in un processo che coinvolge il volontariato e la sua «imprenditorializzazione». La chiave del societing sta qui.

E non è un caso che l'innovazione sociale abbia le sue più note manifestazioni in aree in cui il welfare ha subito i colpi peggiori (l'Inghilterra post-Thatcher e post-Blair) o non si è neppure presentato in scena a causa della povertà (il Bangladesh del Nobel Mohammed Yunus), mentre ha una vita meno brillante dove lo Stato sociale ha provveduto, fino a poco fa, a far fronte alle emergenze con le sue strutture sanitarie, previdenziali, con la cassa integrazione e tutto il resto. Nasce insomma da uno stato di necessità. È nel Regno Unito che si sono sviluppate le più fiorenti iniziative della social innovation, la Young Foundation, la Nesta, la Skoll, che ha creato con l'Università di Oxford un centro per la formazione di imprenditori sociali.

Questi centri di iniziativa si occupano di tutto lo spettro delle possibili innovazioni. Un esempio: l'invecchiamento della popolazione, con gli stessi avanzamenti della medicina, ha creato situazioni dai costi insostenibili, ha moltiplicato il bisogno di assistenza e creato situazioni di solitudine e isolamento che richiedono una svolta nel modo di concepire le abitazioni, di organizzare i soccorsi, il sostegno quotidiano, le tecnologie adeguate di comunicazione, di monitoraggio, di allarme. E queste svolte hanno bisogno di nuove imprese o di servizi e prodotti nuovi da imprese che si sappiano adattare al nuovo. L'idea di Yunus scaturisce dalla sua filosofia pratica: il microcredito è una charity che diventa business; un atto di benevolenza che diventa un affare e che consente di uscire dalla povertà; l'obiettivo è quello di introdurre l'impresa sociale, «l'anello mancante del capitalismo», l'azienda che non dà dividendi e non ha perdite, anche nella finanza.

Quella che il societing va cercando è la trasformazione di un circolo vizioso prodotto dalla lunga corsa neoliberale - ineguaglianze crescenti, imprese socialmente irresponsabili, bonus stellari ai tagliatori di teste, soluzioni individuali per fuggire dai problemi collettivi, barriere di protezione per ricchi - in un circolo virtuoso: sviluppo delle imprese di innovazione sociale, promozione della creatività e del talento attraverso incubatori, ascolto e rilancio delle spinte al cambiamento che vengono dai consumatori per scelte sostenibili, per l'uscita dall'isolamento, la messa in consorzio delle capacità creative come nella costruzione di software free e open source, ma anche nella produzione di contenuti di sapere gratuiti e resi accessibili a tutti, come nel modello Creative Commons, l'organizzazione non profit di Mountain View, con ramificazioni anche in Italia, che consente una forma di superamento legale e regolato dei diritti d'autore.

Rientrano nella categoria del societing tutte le attività che riconoscono la natura «eminentemente relazionale della creazione del valore», con tutto ciò che esso comporta: il riconoscimento dell'altro, la produzione di beni nei quali la comunità si riconosce. Nell'universo concettuale del societing, l'individuo come l'impresa divengono capaci di «reciprocità», di apertura verso l'altro, di fiducia (Anna Cossetta). Siamo agli antipodi del mondo di Gordon Gekko (quello del film di Oliver Stone Wall Street ), quello in cui «l'avidità funziona, chiarifica, cattura...e salverà l'America». Ma qualcuno chiederà, alzando la testa dalla lettura di questi saggi talentosi: di che cosa stiamo parlando? Di un'aspirazione ideale? Di un bisogno urgente di cambiare rotta?O di una tendenza in atto e cioè di qualche cosa che sta accadendo. La risposta è incerta e forse inevitabilmente e creativamente confusa: un po' l'una e un po' l'altra cosa. Più che la quadratura di un cerchio ci troviamo davanti al compito di ridefinire un poligono sgangherato, quello di economie che attraversano una pesante recessione, aggravano le iniquità, lasciano plaghe immense del pianeta nella povertà e consumano l'ambiente naturale. 

Nella realtà non sta trionfando spontaneamente la «responsabilità sociale»: diminuisce per esempio in Gran Bretagna la quota di prodotto lordo destinata al lavoro, mentre gli stipendi dei manager sono aumentati tra il 2010 e il 2011 del 50 per cento (Barrett Stanboulian), mentre anche dall'Italia agli Stati Uniti le banche premiano con bonus milionari manager che hanno prodotto perdite o collassi. Un referendum in Svizzera - una forma di societing - ha imposto al Parlamento di limitare per legge questi onerosi «prelievi» a beneficio dei manager. Eppure l'idea di un «connubio vincente» fra la logica del successo economicoei bisogni della società (che era nella filosofia di Adriano Olivetti, nume tutelare di questa linea di ricerca) dà segni di vita già nel presente: l'orizzonte del marketing è soggetto a una profonda trasformazione, il consumatore si presenta già come partner e committente dell'azienda, ne condiziona sempre di più le scelte, con le sue scelte.

Le responsabilità sociale che l'azienda si assume incidono sempre di più sull'immagine e sulle sorti della marca-impresa. Non tenerne conto può produrre danni gravi quasi quanto mettere in circolazione un prodotto avvelenato. Le discipline di ricerca che vanno sotto il nome di societing sono in una fase che il biologo E. O. Wilson chiama di consilience, e cioè di confluenza di tanti diversi saperi in modo non del tutto programmato: si confida nel fatto che la eterogeneità possa produrre soluzioni inaspettate e geniali, attraverso improvvisi «cambi di paradigma». E al presente il più duro dei cambi di paradigma è quello che riguarda il salto necessario per uscire dallo schema dello Stato protettore, capace di fornire l'intera dotazione sociale, dalla pensione, al pronto soccorso, dall'assistenza domiciliare alla terapia intensiva fino a cento anni, per tutti e dovunque. Non stupisce che la ricerca sulla innovazione sociale sia meno conosciuta in Italia, dove stiamo ancora spremendo il paradigma della vecchia stagione. 

domenica 5 maggio 2013

Respira

Respira.
Respirare può cambiar la tua vita.
Se ti senti stressato o sovraccarico, respira. Ti calmerà e lascerà andare le tensioni.
Se sei preoccupato da qualcosa che sta per succedere, o qualcosa che è già successo, respira. Ti riporterà al presente.
Se sei scoraggiato o hai perso di vista i tuoi propositi di vita, respira. Ti ricorderà quanto la vita sia preziosa, e che ogni respiro in questa vita è un dono che bisogna apprezzare. Fai tesoro di questo dono.
Se hai troppi compiti da portare a termine, o ti senti disperso durante la tua giornata lavorativa, respira. Ti aiuterà a riportare l’attenzione sui compiti più importanti che necessitano della tua concentrazione.
Se passi del tempo con qualcuno che ami, respira. Ti permetterà di vivere il presente con quella persona, piuttosto che pensare al lavoro o altre cose che devi fare.
Se ti stai allenando, respira. Ti aiuterà ad apprezzare l’esercizio e a svolgerlo nei migliori dei modi.
Se stai facendo le cose con troppa fretta, respira. Ti ricorderà di rallentare, e apprezzare di più la vita.
Quindi respira. E apprezza tutti i momenti di questa vita. Sono troppo pochi e troppo labili per poterli sprecare.