venerdì 29 novembre 2013

In tempi di crisi date la carica alle vostre truppe

Come leader, ciò che dite e come lo dite ha la sua importanza, specialmente quando la vostra azienda affronta una sfida. In tempi come questi, la motivazione non consiste nello spaventare i vostri dipendenti per farli lavorare di più esprimendo minacce o biasimo. Ma ispirandoli a "combattere" assieme, uniti verso l'obiettivo e determinati a riuscire. 
Quando la pressione si fa più intensa, considerate queste strategie:

Ancorate la vostra organizzazione.
Portate la gente a concentrarsi su ciò che devono fare in modo diverso e ciò che è di importanza critica perché la vostra azienda abbia successo. spiegate i cambiamenti che volete vedere e conducete le persone a pensare in che modo possano avere un ruolo nella trasformazione.

Trovate il modo giusto per dire la verità. 
Incoraggiate i dipendenti a parlare in modo franco, senza reprimerli. Usate un linguaggio chiaro. Non lasciate che paure e frustrazioni prendano piede.

Concentratevi sul futuro. 
Spiegate bene che volete sentire delle idee da tutti quanti nell'organizzazione, su come far meglio le cose, che si tratti di processi complessi o di innovazione. Chiarite bene che siete aperti a conversazioni biunivoche.

Tratto da Harward Business Rewiev Italia


domenica 24 novembre 2013

Tom Davis, l'inglese che fa startup in Italia

“Non vi rendete conto che la vostra preparazione è fra le migliori in Europa?”: così il fondatore di Solair spiega perché ha scelto di fare impresa nel nostro Paese, puntando a farne un centro di eccellenza informatica. “Il mio problema? Non riesco a trovare giovani, scappano all’estero”

di Concetta Desando

Tom Davis, CEO di SolairTom Davis, CEO di SolairTom Davis è l’eccezione che conferma la regola. Se molti dei nostri giovani connazionali decidono di fuggire all’estero in cerca di lavoro, di fortuna e di qualcuno capace di valorizzare il loro talento, lui, 39enne di origine inglese, scommette sull’Italia. “Ma non vi rendete conto che la vostra preparazione a livello informatico e ingegneristico è fra le migliori in Europa, se non nel mondo?” ironizza, prima di spiegare chela sua sfida è fare del Belpaese un centro di eccellenza informatica.

Il suo amore per il tricolore inizia per caso: galeotto fu un corso seguito anni fa al Politecnico di Torino. È proprio lì che comincia a conoscere lo spirito imprenditoriale italiano che lo conquista. Inizia a lavorare per una multinazionale italiana, ma viene presto trasferito a Hong Kong, a Singapore e poi in India. “Non ero affatto soddisfatto né dell’offerta di quei mercati né delle competenze del team che mi affiancava”. Così decide di tornare in Italia per fondare una start up: nel 2011 a Casaleggio di Reno, in provincia di Bologna, fonda Solair,  società sviluppatrice di una piattaforma software enterprise rivoluzionaria e di applicazioni web fornite in modalità cloud. La fortuna è dalla sua parte perché, appena nata, la start up vince il Bando della Regione Emilia Romagna  per la “Ricerca, Innovazione e Crescita”, aggiudicandosi un finanziamento di un milione di euro. “La mia difficoltà, in quel periodo, non erano i soldi: il grosso problema è stato trovare ingegneri disposti a lavorare per me perché tutti volevano andare via dall’Italia” continua Tom Davis. Non solo. “Quando sei una start up alla fase iniziale, nessuno crede in te, in primis le banche. Così ho pensato di partire solo con poche persone: quattro ingegneri che hanno creduto fin dall’inizio del progetto e nello spirito di gruppo”. Vincendo la sfida: in due anni la start up vanta un fatturato di tre milioni, è passata da quattro a 32 persone, di cui il 50% donne e al di sotto dei 30 anni, ha aperto filiali in India e in Giappone.

La chiave di questa crescita accelerata è duplice: da un lato l’azienda sta puntando sulla ‘nuvola’ per proporre una piattaforma estremamente intuitiva in modalità ‘SaaS Platform’, sulla quale gli sviluppatori possono facilmente creare le proprie applicazioni SaaS senza dover riscrivere codici o preoccuparsi dell’infrastruttura e del middleware sottostante, il tutto attraverso un’interfaccia user-friendly, basata su un approccio ‘drag and drop’; dall’altro, il giusto mix tra manager con esperienza ventennale nel settore del processo di sviluppo prodotto e della gestione delle informazioni e di giovani laureati che assicurano l’apporto di idee nuove per lo sviluppo di applicazioni cloud altamente innovative, facili da usare e da customizzare in totale autonomia. L’idea di fare dell’Italia un centro di eccellenza informatico punta su due realtà: da una parte Solair Platform che si prefigge di rivoluzionare il mondo software enterprise poiché permette di sviluppare direttamente su cloud, evitando alle aziende i costi di hardware e software. Gli sviluppatori possono partire da Solair Platform per costruire le proprie applicazioni customizzate basate su cloud, senza riscrivere codici. Si tratta di un modello Pay per Use, accessibile da qualsiasi dispositivo (mobile, tablet, notebook) in qualsiasi luogo. Dall’altra parte c’èSolair PLM, sviluppato su Solair Platform, che aiuta le aziende di ogni dimensione a gestire dati, risorse e processi attraverso un sistema gestionale di informazioni basato su cloud di facile utilizzo. La soluzione è disponibile in modalità SaaS (Software as a Service), cioè erogata sotto forma di servizio da infrastrutture remote ed esterne all’azienda: il cliente paga solo per l’effettivo utilizzo del servizio. L’applicazione prevede un insieme di strumenti orientati all’integrazione di tutte le fasi di gestione del ciclo di vita del prodotto, dalla nascita dell’idea allo sviluppo del prototipo, dalla definizione delle risorse necessarie alla realizzazione in serie. Solair PLM si rivolge a piccole e medie imprese del settore manifatturiero, ma anche a realtà come gli studi tecnici o gli stampisti che necessitano di soluzioni altamente personalizzabili.

“L’Italia è ricca di menti eccellenti ma credo che gli italiani abbiano bisogno di riacquistare fiducia nelle loro capacità e nel loro Paese” continua Davis. “E credo anche che abbiano bisogno di allontanarsi dalla mentalità del lavoro fisso e iniziare ad aprirsi all’idea di un mercato del lavoro flessibile. In questo l’Italia deve lavorare ancora molto”.

Pubblicato su EconomyUp

Futuro

Crescere è un verbo che si declina al futuro. Significa guardare avanti, avere una visione. I giovani sono la molla dello sviluppo e della crescita proprio perché pensano più al futuro che a tirare i remi in barca ancorandosi con nostalgia al passato. E allora perché in Italia ci sono così tanti capelli bianchi quando si va alle conferenze e così pochi giovani?


di Federico Marchetti, Fondatore e Amministratore Delegato di YOOX Group

di Federico Marchetti, Fondatore e Amministratore Delegato di YOOX Groupdi Federico Marchetti, Fondatore e Amministratore Delegato di YOOX GroupProvo a fare alcuni ragionamenti semplici semplici. Il futuro è per definizione legato all’età delle persone, ovvero più le persone sono giovani, più in teoria guardano al futuro. Ovviamente c’è sempre qualche eccezione come la mia amica Rosamond Bernier di New York che ha appena compiuto 97 anni in grandissima forma e mi ha scritto che guarda con gioia al traguardo dei 100 anni…

Tornando tra i comuni mortali come noi, i giovani sono la molla dello sviluppo e della crescita proprio perché pensano più al futuro che a tirare i remi in barca ancorandosi con nostalgia al passato. E allora perché in Italia ci sono così tanti capelli bianchi quando si va alle conferenze e così pochi giovani? Perché i giovani devono “auto-invecchiarsi” come aspetto fisico per essere considerati nelle riunioni (ho un paio di amici giovani brillanti che si sono fatti crescere la barba per sembrare più vecchi altrimenti nessuno li ascoltava…)? Perchè in Italia non si parla abbastanza di uno dei problemi principali legati alla crisi che è appunto l’invecchiamento della nostra popolazione? 


Cos’è cambiato rispetto a qualche secolo fa quando i vari geni che sono ancora nei libri di scuola avevano meno di trent’anni, come Leonardo da Vinci per fare solo un esempio?

Articolo di Economyup 


lunedì 18 novembre 2013

I buoni leader conoscono le proprie emozioni

Essere troppo emotivi può creare problemi, ma meno gravi che non trattenere tutti i propri sentimenti. Si possono nascondere le proprie emozioni nel tentativo di mantenere il controllo e apparire forti, ma il farlo diminuisce la capacità di controllo e indebolisce quella di restare in connessione e comunicare con gli altri.

Se il vostro problema è di condividere i vostri veri sentimenti, può esservi d'aiuto sapere che molti spesso non mostrano le proprie emozioni perché non sanno esattamente quali sono i propri sentimenti. Si può reprimere la rabbia e moderare i propri entusiasmi senza nemmeno rendersene conto. Perciò prestate attenzione alle vostre emozioni.

Almeno un paio di volte alla settimana chiedetevi: "Quali sono i miei sentimenti in questo momento?". Scriveteli se potete; tenere un diario aggiornato può aiutarvi a capire i vostri stati d'animo e cosa li fa cambiare. Poi lasciatevi un po' andare: permettete alle vostre emozioni di uscire e agli altri di entrare. Ambedue queste azioni sono cruciali per esercitare una leadership efficace.

Adattato da "Good Leaders Get Emotional", di Doug Sundheim.

domenica 17 novembre 2013

C'è una tecnologia inimitabile: la #CREATIVITÀ

di Nerio Alessandri, fondatore e amministratore delegato di TechnogymC’è una tecnologia unica e inimitabile che si chiama creatività. È facile da esportare ma difficile da copiare. Non ha limiti di applicazione. E farà la differenza nella competizione internazionale. L’Italia ha tutte le carte in regola per cogliere questa opportunità ed essere protagonista: la nostra storia e la nostra cultura ci rendono credibili, dal mens sana in corpore sano dei Romani, al Rinascimento, alle eccellenze del design, della moda e dei food di oggi

Nerio Alessandri, fondatore e amministratore delegato di TechnogymNerio Alessandri, fondatore e amministratore delegato di TechnogymIn uno scenario in cui l’innovazione si muove sempre più velocemente ed in cui il web sta rendendo le informazioni una commodity – disponibili a tutti in maniera facile e veloce – la vera nuova tecnologia che farà la differenza  nella competizione internazionale sarà rappresentata dalla creatività delle persone.

Fino a qualche decennio fa il fattore competitivo su cui si concentravano investimenti, risorse e tecnologie era rappresentato dall’innovazione di prodotto, poi si è passati all’innovazione di processo, poi all’innovazione sui servizi fino ad arrivare all’innovazione sul modello di business.

Un percorso evolutivo che evidenzia un preciso filo conduttore: la tecnologia è sempre più integrata all’esperienza ed allo stile di vita della persona, che finalmente torna al centro. Rimettere l’uomo al centro significa investire in capitale umano ed in qualità della vita per creare le condizioni culturali, sociali ed ambientali necessarie ad essere competitivi - sia come singole aziende, sia come sistema Paese - nella nuova economia della creatività.

Sono molto convinto che l’Italia abbia tutte le carte in regola per cogliere questa opportunità ed essere protagonista; la nostra storia e la nostra cultura ci rendono credibili, dal mens sana in corpore sano dei Romani, al Rinascimento, alle eccellenze del design, della moda e dei food di oggi. Se riusciremo a mettere a sistema le nostre unicità ci possiamo posizionare come primo produttore mondiale di benessere, la benzina della creatività.

Per innovare serve #CORAGGIO

Oscar Farinetti, fondatore e presidente di EatalyOscar Farinetti, fondatore e presidente di EatalyIl coraggio non è soltanto superamento delle paure, forza d'animo, determinazione nell'agire: per come lo vedo io, se non è accompagnato da capacità di analisi, studio attento dello scenario, tenacia e predisposizione al dubbio, non è coraggio. Non c'è coraggio senza rispetto, cioè volontà di vivere in armonia con la natura e con le persone. Non c'è coraggio senza senso di responsabilità, senza amicizia, senza bontà. Non c'è coraggio senza matematica: conoscere i numeri è fondamentale ,perché sono l'indicatore più preciso dello stato delle cose. Non c'è coraggio senza il mix equilibrato di onestà e furbizia, senza orgoglio e senza ottimismo, che vuol dire pensare che tutto si può risolvere e che consiste nel godere di ciò che si ha.

Infine non c'è coraggio senza coscienza: quella musica dell'anima che ti fa distinguere il bene dal male, che ti indica la strada.

È facile imparare a diventare coraggiosi. Il metodo migliore è guardare a storie di coraggio di persone normali che attraverso il coraggio sono diventate speciali. Come spesso avviene, l’esperienza, cioè osservare la vita, può servire più che studiare. E nel caso del coraggio è sicuramente così. Sapete perché? Perché il coraggio è contagioso. Non aspettatevi solo gesti eclatanti e clamorosi. Non aspettatevi solo grinta. In chi è coraggioso c'è leggerezza e armonia, famiglia, impegno, futuro, ma anche passato. C'è l’amore, c’è l’Italia, il mondo, c’è la politica, c’è la speranza. Fatevi contagiare e poi diventate voi stessi contagiosi.

Questa Italia ha bisogno di coraggio.

TAG: Oscar FarinettiManifesto EconomyUp.itCoraggioEataly

venerdì 15 novembre 2013

Personal Branding: le 10 regole per gestire la propria reputazione online


A chi non è mai capitato di cercare su Google o sui social network il nome della persona appena conosciuta al telefono o in riunione per reperire il massimo numero di informazioni? Età, formazione, ruolo, luogo di lavoro o semplicemente per dargli un volto. Il web offre oggi tutte queste “curiosità” su un piatto d’argento e in molti casi reperirle è facile come un click.

Ma cosa succede se i risultati che appaiono nelle prime pagine del motore di ricerca non risultano legati alle proprie esperienze lavorative o formative, ma al contrario a situazioni - come foto o video - non propriamente “professionali” e che rischiano di mettere in imbarazzo? Quanto questo tipo di informazioni possono influire nella ricerca di un lavoro?

In questo contesto entra in gioco il personal branding che consiste nella promozione di se stessi, delle proprie capacità, professionalità e reputazione proprio come se la persona fosse un marchio. La rete rappresenta oggi il primo mezzo di personal branding e gli strumenti messi a disposizione dal mondo online contribuiscono a creare la propria identità digitale, la cosiddetta digital reputation. Scopo del personal branding è quello di renderci visibili, riconoscibili e ben reputati agli occhi di chi cerca il nostro nome sul web.

Per capire nel dettaglio in cosa consiste il personal branding abbiamo parlato con Andrea Barchiesi, “Fondatore e CEO di Reputation Manager”:

Perchè è importante lavorare sul personal branding?

L’immagine online è il nostro primo biglietto da visita; per sapere qualcosa di una persona appena conosciuta la prima cosa che facciamo è digitare il suo nome su Google. Ciò che appare sulla prima pagina di risultati orienta immediatamente la nostra opinione. Se poi i contenuti dovessero avere una valenza negativa o addirittura lesiva, la prima impressione si trasformerebbe in un giudizio. Questo vale naturalmente anche per i contenuti positivi. Un terzo caso è quello in cui nella prima pagina si trovino cose che non c’entrano nulla con noi, in questo modo è come se non esistessimo online. E anche questo potrebbe deporre a nostro sfavore, specie se la ragione del contatto è professionale. Per questo è di fondamentale importanza lavorare innanzitutto su quel primo spazio di incontro, i primi risultati associati al nostro nome sul motore di ricerca. Posizionare il contenuto desiderato proprio lì è un obiettivo non semplice che richiede lavoro e perseveranza e, nei casi più difficili, l’intervento di un professionista.

In quali momenti è importante avere una reputazione online di “buona qualità”?

Innanzitutto quando si è alla ricerca di un lavoro. È di fondamentale importanza verificare, prima di proporsi per un colloquio, che la propria identità digitale risulti adeguata, quindi innanzitutto che non sia compromessa da contenuti sconvenienti. Particolare attenzione va dedicata alle foto e ai video, che sono i primi contenuti ad attirare l’attenzione e anche i primi proposti dal motore di ricerca. La situazione ideale è quella in cui i primi risultati raccontano già qualcosa di noi, di ciò che sappiamo fare e della nostra reputazione in un determinato settore. Per questo è molto importante anche la cura del proprio profilo nei portali specialistici e social network professionali, dove abbiamo la possibilità di pubblicare il nostro curriculum, intervenire in dibattiti pubblici nel nostro settore, stringere relazioni significative e dunque mostrare che abbiamo competenza. Se a questo si aggiunge anche un proprio sito personale, completo e aggiornato nelle informazioni, i punti guadagnati aumentano. 

Come vengono reperite le informazioni su di noi da ipotetici datori di lavoro?

Secondo i risultati dell’indagine Adecco 2013 su “Social Recruiting e Digital Reputation” il 77% dei responsabili HR ha cercato il nome di un candidato attraverso un motore di ricerca e l’88% utilizza almeno un canale online nel proprio lavoro di selezione, i primi tre sono: Facebook, Linkedin e Twitter. Il primo motivo è verificare il cv, il secondo allargare il bacino dei candidati e il terzo è trovare candidati mirati. Infine il 34% dichiara di aver assunto qualcuno utilizzando i social network. Sono numeri significativi e in crescita, che dimostrano quanto la reputazione digitale sia un elemento cruciale per conquistare opportunità di lavoro.

Come è possibile misurare la propria identità digitale?

Esistono diversi tool per monitorare la propria influenza online ma ci siamo accorti che nel panorama italiano mancava uno strumento per monitorare in modo semplice la propria reputazione e identità digitale. Così Reputation Manager ha sviluppato My Reputation ® una piattaforma che permette gratuitamente a chiunque di verificare quanto vale la propria reputazione sul web. Tutto è riassunto attraverso il My Reputation Score, l’indice della reputazione online che esprime la propria presenza sui motori di ricerca, la completezza del proprio profilo e l’attività nei social network. I contenuti online immediatamente associabili al proprio nome a seguito di una ricerca formano l’identità percettiva, fatta di testi, immagini, video. L’identità percettiva è dinamica, cambia nel tempo a seconda dei contenuti che il motore di ricerca ritiene più rilevanti, per questo è molto importante monitorarla costantemente.

Di cosa si occupano realtà come reputation manager?

Il nostro lavoro di “Ingegneria Reputazionale” ruota intorno a tre cardini di un ciclo: Analisi, Strategia e Intervento. Il primo lavoro è quello di analizzare la situazione di partenza, quindi definire preliminarmente punti di forza, debolezza e lacune. Dopo di che si definisce una strategia in base a quelli che sono i desiderata del cliente. A seconda del target cambiano naturalmente anche gli obiettivi: un conto è un privato cittadino che abbia problemi di reputazione personale, un altro un professionista che voglia rafforzare il proprio curriculum digitale e un altro ancora un executive che debba mantenere un profilo autorevole e di spessore. Dopo la definizione della strategia si passa all’intervento vero e proprio, dunque alla pubblicazione di contenuti, apertura di canali e ove è necessario rimozione di contenuti lesivi/diffamatori; in questo ultimo caso è necessario lavorare in sinergia con la parte legale.

Esistono delle regole di massima che può essere utile tenere a mente per non incorrere in errori che potrebbero compromettere la propria reputazione online:

1. Prima di pubblicare su YouTube video di situazioni imbarazzanti (scherzi in spiaggia, battute da osteria, atteggiamenti o situazioni particolari, ecc.) è bene ragionare sul fatto che diventeranno di pubblico dominio. È importante inoltre non firmarli con nome e cognome.

2. Datori di lavoro, selezionatori del personale così come colleghi, docenti e compagni di scuola monitorano sempre i social network. È meglio usare immagini del proprio profilo non toppo ardite.

3. Verificare le impostazioni relative alla privacy dei propri account sui social network? Quando si postano foto o commenti personali è necessario prima pensare a chi è listato tra i propri contatti (solo amici, o anche colleghi, capo ufficio, professori, ecc.). E se le cartelle sono private o pubbliche.

4. Attenzione a inviare proprie foto a persone appena conosciute tramite chat, sms, e-mail: non si sai mai a chi potrebbero essere inviate.

5. Occhio ai TAG! Esseri taggati rende pubbliche ad altri le foto che magari non avresti mai voluto girassero sul web.

6. Prima di farsi fotografare in locali pubblici in situazioni “imbarazzanti” è bene sapere che probabilmente le foto saranno pubblicate sul sito e sulle pagine social del locale e condivise innumerevoli volte.

7. Attenzione alla geolocalizzazione (tag luoghi, check in, ecc.) quando si postano foto o messaggi. Soprattutto se non si vuol far sapere dove ci si trova.

8. Il contatto Facebook è il nuovo numero di telefono, è meglio distribuirlo con parsimonia.

9. Non postare mai le date di partenza e rientro: anche i ladri monitorano il web

10. Attenzione a postare sui social network le immagini di minori


Luca Orioli - Panorama






domenica 10 novembre 2013

Papa Francesco: la dea tangente toglie dignità

Attacco di Papa Francesco alla pratica (diffusa) della corruzione. Durante una Messa celebrata a Santa Marta, Bergoglio - riferisce Radio Vaticana - ha pregato per i tanti giovani che ricevono dai genitori «pane sporco», guadagni frutto di tangenti e corruzione, e hanno fame di dignità perché il lavoro disonesto toglie la dignità. La parabola dell'amministratore disonesto dà lo spunto al Papa per parlare «dello spirito del mondo, della mondanità», di «come agisce questa mondanità e quanto pericolosa sia». E ha aggiunto: «Quando noi pensiamo ai nostri nemici, davvero pensiamo prima al demonio, perché è proprio quello che ci fa male. L'atmosfera, lo stile di vita piace tanto al demonio, è questa la mondanità: vivere secondo i valori - fra virgolette - del mondo. E questo amministratore è un esempio di mondanità. Qualcuno di voi potrà dire: "Ma, questo uomo ha fatto quello che fanno tutti!". Ma tutti, no! Alcuni amministratori, amministratori di aziende, amministratori pubblici; alcuni amministratori del governo... Forse non sono tanti. Ma è un po' quell'atteggiamento della strada più breve, più comoda per guadagnarsi la vita».

Nella parabola - prosegue Radio Vaticana - il padrone loda l'amministratore disonesto per la sua furbizia: «Eh sì, questa è una lode alla tangente! E l'abitudine della tangente è un'abitudine mondana e fortemente peccatrice. È un'abitudine che non viene da Dio: Dio ci ha comandato di portare il pane a casa col nostro lavoro onesto! E quest'uomo, amministratore, lo portava, ma come? Dava da mangiare ai suoi figli pane sporco! E i suoi figli, forse educati in collegi costosi, forse cresciuti in ambienti colti, avevano ricevuto dal loro papà, come pasto, sporcizia, perché il loro papà, portando pane sporco a casa, aveva perso la dignità! E questo è un peccato grave! Perché si incomincia forse con una piccola bustarella, ma è come la droga, eh!». Dunque – afferma il Papa – l'abitudine alle tangenti diventa una dipendenza. Ma se c'è una "furbizia mondana" – prosegue Papa Francesco – c'è anche una «furbizia cristiana, di fare le cose un po' svelte … non con lo spirito del mondo», ma onestamente. È ciò che dice Gesù quando invita ad essere astuti come i serpenti e semplici come colombe: mettere insieme queste due dimensioni – ha sottolineato - «è una grazia dello Spirito Santo», un dono che dobbiamo chiedere.

giovedì 7 novembre 2013

LE 10 LEGGI FONDAMENTALI DEL SOCIAL MEDIA MARKETING


Avere successo con i Social Media e permettere al proprio brand di incrementare e consolidare la propria brand awareness, magari aumentando anche le vendite, è il sogno di tutti i Social Media Manager. Spesso però basta compiere anche un minimo passo falso per distruggere mesi di lavoro sulla costruzione del buon rapporto con i propri fans/followers.

Per non cadere in qualche tranello, ci vengono in aiuto le 10 Leggi del Social Media Marketing, stilate da Susan Gunelius, fondatrice di womenonbusiness.com.
Un vero e proprio decalogo da seguire attentamente per una vincente strategia di Social Media Marketing.

LA LEGGE DELL’ ASCOLTO.

Un buon Social Media Manager deve essere prima di tutto un buon ascoltatore. Ascoltare vuol dire sondare e scandagliare il proprio target e il proprio settore di mercato al punto da immedesimarsi completamente in esso. Significa creare contenuti interessanti che leggano nei gusti e nella mente del nostro pubblico, e che anticipino le esigenze e gli interessi di chi ci legge.

LA LEGGE DEL FOCUS SULL’OBIETTIVO PRIMARIO.

Affinché sia vincente, la nostra strategia di Social Media Marketing deve essere focalizzata su un obiettivo ben preciso. E’ meglio fare una cosa sola ma fatta bene che voler mettere le mani in pasta ovunque con scarsi risultati.

LA LEGGE DELLA QUALITÀ.

E’ meglio avere 1.000 fans che interagiscono ed apprezzano i nostri contenuti piuttosto che averne 10.000 che dopo aver messo il like alla nostra fanpage si dimenticano che esistiamo! Quindi non importa quanto è numeroso il nostro pubblico, quello che conta è che sia di qualità.

LA LEGGE DELLA PAZIENZA.

E’ chiaro che i risultati e i frutti non arrivano subito, pertanto il buon Social Media Manager deve essere dotato di grande pazienza e perseveranza. Deve stare sempre all’erta ed essere pronto a correggere il tiro se necessario, senza mai perdere di vista la strategia per raggiungere l’obiettivo finale.

LA LEGGE DELL’ INCREMENTO.

Avere un pubblico vasto e partecipativo e creare contenuti di qualità che sappiano attrarre ed incuriosire il lettore, ripaga anche dal punto di vista della potenziale probabilità di essere trovati dai motori di ricerca come Google. Infatti se chi ci segue condivide i nostri contenuti sui propri social network, ma anche su blog e siti web, ciò incrementa le nostre possibilità di essere trovati da un pubblico sempre più vasto.

LA LEGGE DELL’INFLUENZA.

E’ fondamentale costruire relazioni con fanpage e profili che nel nostro settore risultino autorevoli ed importanti. In questo modo,se i nostri contenuti lo meritano, potremmo avere la possibilità che costoro li condividano, raggiungendo così un pubblico molto più ampio e sfruttando il processo già spiegato dalla precedente legge dell’incremento.

LA LEGGE DEL VALORE.

Affinché i nostri social network siano seguiti e non abbandonati è fondamentale adottare un buon piano editoriale con contenuti interessanti che creino un valore aggiunto e siano utili per chi li legge. Se passiamo tutto il nostro tempo a promuovere il brand o il nostro prodotto come se i Social Media fossero un mezzo esclusivo per fare pubblicità, è sicuro che il nostro pubblico ben presto si annoierà e smetterà di seguirci. Quando guardiamo la TV ed interrompono il nostro programma preferito per fare pubblicità in effetti cambiamo canale. Con i Social Media è lo stesso, perciò dobbiamo saper dosare bene i contenuti e fare in modo che quello che pubblichiamo non sia esclusivamente di carattere commerciale.

LA LEGGE DEL RICONOSCIMENTO.

La costruzione di una solida rete di relazioni è alla base di una buona strategia di Social Media Marketing. Ecco perché ognuno dei nostri fans/followers deve sentirsi riconosciuto ed accettato dal parte del nostro brand. Ciò significa dare importanza alle sue idee a alle sue opinioni, ascoltare i suoi bisogni e le sue esigenze, insomma in un aggettivo, farlo sentire importante.

LA LEGGE DI DISPONIBILITÀ.

Occorre pubblicare contenuti con costanza ed essere sempre presenti e reperibili con i nostri fans/followers. Non c’è niente di peggio di un Social Media Manager che se ne frega e trascura il proprio pubblico!

LA LEGGE DI RECIPROCITÀ.

Non si fa mai nulla senza aver niente in cambio. Ecco perché se vogliamo che i nostri contenuti siano apprezzati e condivisi, dovremmo fare altrettanto con quelli degli altri! Una parte del tempo del Social Media Manager modello dovrebbe pertanto essere dedicata alla condivisione dei contenuti altrui ( share, retweet ecc.).


domenica 3 novembre 2013

Israele, la terra promessa dell’Hi tech le start-up nascono nella Silicon Wadi

OLTRE CINQUEMILA AZIENDE DELL’INNOVAZIONE, IN CUI LAVORANO 237MILA ADDETTI IN UNA NAZIONE DI MENO DI OTTO MILIONI DI ABITANTI: LA TECNOLOGIA PRODUCE IL 60% DELL’EXPORT E ORA È PARTITO UN NUOVO BOOM GRAZIE AD UN ULTERIORE AFFLUSSO DI CAPITALI


Tel Aviv «P erché mai avremmo bisogno di dialogare con la Silicon Valley?» Omer Shai fa un passo di lato e indica il panorama. La terrazza di Wix, società di cui è responsabile marketing, domina Tel Aviv. I ristoranti del porto subito sotto, i grattacieli in costruzione, la lunga spiaggia affollata anche a ottobre. Quell’atteggiamento tipico, tra audacia e arroganza, qui lo chiamano chutzpah. E Wix, piattaforma che permette a chiunque di creare con facilità il proprio sito web, lo sta traducendo in numeri. A quattro anni dal lancio gli utenti sono 39 milioni, il fatturato, arrivato 60 milioni di dollari, è in crescita del 50% sull’anno scorso. Pochi mesi fa ha rifiutato un’offerta d’acquisto da 200 milioni. Oggi, mentre prepara la quotazione in borsa, vale più del doppio. Ecco uno dei nuovi campioni della Silicon Wadi. 


L’altra valle del silicio, quella che si estende da Haifa, al confine con il Libano, giù fino a Tel Aviv. «Israele ha trasformato le difficoltà in risorse. Sotto attacco, piccolo, isolato, senza ricchezze naturali, ha dovuto essere creativo, fare molto con poco, pensare globale ». Si innova per sopravvivenza, sintetizzano Dan Senor e Saul Singer nel loro libro manifesto, «Startup nation». Doppio senso per spiegare come una «nazione start-up», nata in fondo da non molto, sia diventata «nazione delle start-up»: oltre 5mila aziende hi-tech che impiegano 237mila persone e generano il 60% dell’export.

Un’industria esplosa negli anni ’90, quando un fiume di capitali venne a dare prospettiva di mercato alle ricerche dei laboratori universitari e dell’intelligence militare. Perché in Israele i tre anni di leva obbligatoria sono un’altra scuola, di responsabilità e di tecnologia. «La mia idea nasce durante il servizio in Marina», racconta Ami Daniel, 29 anni, fondatore di Windward. Elaborando i dati dei satelliti commerciali il software traccia la rotta di migliaia di navi, permettendo alle autorità di scovare contrabbando o pesca illegale. «Lo vendiamo ai governi - continua - da quest’anno, il terzo, saremo in attivo». Negli uffici, affacciati sulla vecchia sinagoga di Tel Aviv, i dodici dipendenti raddoppieranno presto. Vengono da tutto il Paese per lavorare in Sderot Rothschild, il viale alberato simbolo del Bauhaus, con edifici in cemento dalla razionalità a tratti brutale. 

Ma soprattutto strada delle start-up, nella città delle start-up. In tutta Italia sono 1300 quelle registrate: a Tel Aviv, un milione e 300mila abitanti (in tutto Israele gli abitanti sono meno di otto milioni), ce ne sono mille. In Israele un terzo dei cittadini ha tra i 18 e i 35 anni e molti dei ragazzi seduti ai tavolini dei bar, aperti tutta la notte, sognano di essere imprenditori. Il rischio di fallire è accettato come parte del gioco. Un ecosistema secondo solo alla Silicon Valley, certificano gli analisti di Startup Genome. Non sorprende, dopo aver sentito il presidente Shimon Peres, 90 anni, parlare con fervore di start-up: «Imparo cose nuove», scherza dal palco del Brain Tech. È lui l’ispiratore di questo convegno, che vuole accreditare il Paese come un centro d’avanguardia per le tecnologie applicate al cervello: «La politica può creare le condizioni, ma sono scienziati e industriali a guidare», dice. I confini tra pubblico e privato in questo stato-comunità, sono sottili, la sintonia più naturale: «Gerusalemme è molto vicina a Tel Aviv», spiega con un’immagine il chief scientist Avi Hasson. Il suo ufficio gestisce la spesa pubblica in ricerca. «Un modello senza colore politico: interveniamo dove il mercato non funziona ». 

Per esempio all’inizio del ciclo di vita di una start-up, quando il rischio fallimento è alto. Alle giovani imprese selezionate dagli incubatori privati viene garantito fino all’85% dei finanziamenti. Ma solo nei primi due anni di vita e senza entrare nel capitale: «Solo se poi fanno profitti ripagano il prestito». Israele dedica alla ricerca il 4,4% del Pil, il massimo tra i Paesi Ocse. Eccellenze come il Technion, il politecnico di Haifa, hanno uffici incaricati di accompagnare i brevetti verso uno sbocco industriale. Oltre l’80% degli investimenti viene però da privati. Molti colossi, non solo americani, hanno aperto centri di sviluppo in riva al Mediterraneo, da Intel a Ibm a Microsoft. Pochi giorni fa Facebook ha acquistato per 120 milioni di dollari Onavo, startup di analisi dei dati per dispositivi mobili: sarà il suo primo avamposto nel Paese. Ma è sulla disponibilità di capitali che la relazione speciale tra Israele e Stati Uniti ha l’impatto maggiore. Nel terzo trimestre del 2013 le aziende hi-tech locali hanno raccolto 660 milioni di dollari, il massimo da un decennio. Tre quarti arrivano dall’estero, soprattutto dai fondi venture capital a stelle e strisce, come Sequoia e Index. Eppure, avvertono gli esperti di Startup Genome, l’espansione minaccia di rallentare: «Tel Aviv produce start-up ad alta tecnologia che vengono vendute giovani, ma di rado riescono a crescere e generare utili». 

Qui si pianta il seme, coltivatori esperti lo fanno fruttare su mercati più grandi, all’estero: alla lunga il modello rischia di risucchiare via talenti e profitti. Per questo l’acquisizione del navigatore Waze da parte di Google è stata salutata come una svolta: il miliardo di dollari pagato è cifra da grande azienda. E così i valori di Wix o di Conduit, società che sviluppa barre di ricerca, stimata oltre il miliardo e mezzo. Aiutare le start-up israeliane a creare modelli di business più solidi è anche la missione di Google Campus, uno spazio aperto alle giovani imprese che la società californiana ha inaugurato nel centro di ricerca di Tel Aviv. «In otto mesi ne abbiamo formate 85», dice il direttore Yossi Matias, capo del team che ha inventato il completamento automatico della ricerca. «L’obiettivo per noi non è acquisirle ma far crescere l’ecosistema, restituire qualcosa alla comunità ». Per un cambio di passo però neppure i migliori informatici bastano. Se qualcosa manca, tra gli startupper di Tel Aviv, è la varietà: poche donne, nessun cittadino arabo, quasi tutti ingegneri. Avere un visto lavorativo è difficile e l’impennata degli affitti non aiuta. Al Dld, conferenza digitale organizzata dal guru degli investitori Yossi Vardi, la priorità è chiara: «Attrarre talenti». Sono state invitate 13 startup straniere, tra cui l’italiana Atooma, per incontrare gli investitori locali e assaggiare la vita in città. 

Mentre il municipio, con il progetto Tel Aviv Global, cerca di renderla ancora più magnetica: wi-fi libero, enfasi su bar e locali notturni, la vecchia biblioteca trasformata in spazio di coworking, con vista sulla città vecchia di Jaffa. Si discute anche di un nuovo più flessibile regime di visti, riservato a giovani imprenditori. «Cosa dobbiamo imparare? Il senso di una missione collettiva », commenta il fondatore di Tiscali, Renato Soru, tra i relatori del Dld. Seduto a un bar con Yossi Vardi disegna su un tovagliolo il profilo dell’Italia, mostrandogli con un pallino la posizione di Cagliari. Oggi Tel Aviv è una capitale dell’innovazione. La sfida è rimanerlo. Le start-up ospitate nella Library, una vecchia biblioteca che il comune di Tel Aviv ha trasformato in spazio di “coworking” per giovani imprenditori.

Filippo Santelli - Affari & Finanza - Repubblica

venerdì 1 novembre 2013

L'origine della festa di Ognissanti

Le origini della Festa di Ognissanti o di Tutti i Santi, che cade il 1° novembre di ogni anno, sono lontanissime e si possono rintracciare al tempo dell’antica cultura delle popolazioni celtiche. I processi storici e culturali che hanno portato questo giorno ad avere un’importanza assoluta nel mondo cattolico, sono molti, ma in alcuni testi appaiono controversi e discordanti. 

Tutto sembrerebbe risalire alla cultura celtica la cui tradizione divideva l’anno solare in due periodi: quello in cui c’era la nascita e il rigoglio della natura e quello in cui la natura entrava in letargo passando un periodo di quiescenza. I giorni di inizio di questi due periodi venivano festeggiati, il primo, durante il mese di maggio (quello della vita, e quindi della rinascita della natura) e il secondo a metà autunno (quello della morte, e della quiete della natura). Questi due giorni venivano chiamati rispettivamente Beltane e Samhain. 

Nello stesso periodo storico, presso i romani si festeggiava un giorno simile, per significato al Samhain: la festa in onore di Pomona, dove si salutava la fine del periodo agricolo produttivo e si ringraziava la terra per i doni ricevuti. Quando Cesare conquisto la Gallia, le due feste pagane, celtica e romana, si integrarono e i giorni per il festeggiamento cadevano, a secondo delle zone, in un periodo che si collocava tra la fine del mese di ottobre e i primi giorni di novembre. Solo in seguito i festeggiamenti caddero in un solo giorno e precisamente tra la notte del 31 ottobre e il primo novembre. Questa notte veniva chiamata Nos Galan-Gaeaf, cioè notte delle calende d’inverno, ed era il momento di maggior contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Con l’affermarsi del cristianesimo, al significato di questa festa, prettamente agricola e pagana, se ne sovrappose un altro prettamente spirituale e religioso. Nel significato religioso si voleva commemorare il mondo dell’aldilà o il mondo della morte il cui significato viene fatto risalire proprio al Samhain dei Celti. 

Nel VII secolo, con l’avvento al soglio pontificio di Papa Bonifacio IV si tentò di andare oltre e cambiare la festa pagana in festa cristiana dandone così un significato puramente religioso. Per togliere ogni residuo di paganesimo, l’idea originale fu quella di abolire la festa pagana, decisione però che avrebbe scatenato le ire del popolo ancora molto ancorato alle antiche tradizioni. Si optò quindi per la compensazione e il giorno di festa religioso venne chiamato Tutti i Santi, giorno in cui poter onorare i santi e che cadeva il giorno 13 del mese di maggio. La conseguenza di questa decisione fu quella di avere due feste affiancate, una pagana e una cristiana. Circa due secoli più tardi, e più precisamente nell’835, Papa Gregorio IV fece coincidere la data della festa cristiana con quella pagana per diminuire ancor di più il peso dell’antico culto pre cristiano. 

Il giorno della festa di Tutti i Santi cadeva quindi il 1° novembre di ogni anno in coincidenza del giorno successivo alla notte delle calende d’inverno. Ma anche questo non bastò a sradicare il culto pagano, cosicché la chiesa introdusse nel X secolo una nuova festa, quella dedicata ai morti, che cadeva il 2 novembre. Durante i festeggiamenti del 2 novembre, dove venivano ricordate le anime degli estinti, i loro cari si mascheravano da angeli e diavoli e, come nella tradizione celtica, accendevano grandi fuochi. Nel 1475 la festività di Ognissanti venne resa obbligatoria in tutta la Chiesa d’occidente da Sisto IV ma il culto pagano, in special modo quello celtico, nonostante un lungo periodo di quasi totale dimenticanza, è sempre sopravvissuto nella cultura dei popoli europei fino ai giorni nostri. Infatti la notte di Nos Galan-Gaeaf dell’antica cultura celtica viene rievocata, soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, nella notte di Halloween il cui significato è proprio vigilia di Ognissanti o di Tutti i Santi (All Hallows = Tutti i Santi + eve = Vigilia).

Un nuovo patto: gli Stati Uniti d'Europa

Jacques Coeuer, l’eroe del bellissimo L’uomo dei sogni di Jean-Christophe Rufin, è un figlio di artigiani che diventa l’uomo più potente di Francia. Inventa la finanza moderna, ma — anziché farne strumento fine a se stesso, di accumulo — la usa come leva per creare lavoro. Testimone di un passaggio d’epoca, dal Medioevo al Rinascimento, sceglie l’apertura e lo scambio contro una società europea immobile che ancora interpretava il rapporto con l’altro come crociata e chiusura. Al pari di Coeuer anche noi viviamo un’epoca «liminare», in bilico tra privilegio e progresso, tra passato e cambiamento. La parabola della crisi, in Europa e dell’Europa, bene sintetizza questa transizione.

Una transizione segnata da una prima cesura. È il whatever it takes di Mario Draghi. È il 25 luglio 2012. In una conferenza stampa destinata a farsi spartiacque della storia europea, l’ex governatore della Banca d’Italia rassicura il mondo e imercati: la Bce farà tutto il necessario per salvare l’euro. Tre parole per scongiurare il default degli Stati a rischio. Tre parole per «scrivere» il prologo della svolta.

Dai primissimi segnali di crisi a quella conferenza stampa è trascorso circa un quinquennio. Nelle stesso periodo si sono susseguiti 27 Consigli europei: quasi tutti infruttuosi. Fino al whatever it takes dinanzi al collasso dell’equilibrio tra finanza ed economia reale sono parsi saltare i convincimenti degli economisti e i cardini stessi dell’economia di mercato.

Nel frattempo l’onda, lontano,montava. Lametafora, benché abusata, racconta efficacemente quanto sarebbe avvenuto di lì a non molto. Urto devastante, smarrimento, inadeguatezza nella gestione dell’emergenza. Alla maniera dei cataclismi l’impatto in Europa è stato più forte laddove i sistemi erano più deboli. Di fronte a tutto questo abbiamo all’inizio contemplato le macerie. Come in attesa che il peggio passasse. Oppure come quando — e prendo in prestito le parole di Edmondo Berselli — ci si aspetta che «dal mare riaffiorino, roteando lentamente, i relitti di un naufragio».

Col tempo saremo forse in grado di capirlomeglio, questo naufragio. Le analisi, del resto, si moltiplicano. Massimo Gaggi ha illustrato, ad esempio, qui sulla «Lettura», le sfumature del dibattito pubblico americano sull’erosione del ceto medio, sul moltiplicarsi delle disuguaglianze, sul legame tra crisi, globalizzazione, tecnocrazia. Si chiede, Gaggi — ed è l’interrogativo centrale chemi ha indotto a scrivere questo intervento — quali siano i margini d’azione della politica. Semplicemente pregare che arrivi la ripresa, come rimprovera ai governi l’economista Stephen King, oppure «sporcarsi le mani», immergersi nella complessità di fenomeni epocali, assumere una volta per tutte la consapevolezza — per dirla con Tony Judt—che le disuguaglianze sono «corrosive»?

È vero: la disuguaglianza sgretola la società perché la fa marcire al proprio interno. E, come sostiene Vittorio Emanuele Parsi nel suo saggio sulla fine dell’uguaglianza, essa ha effetti devastanti sulla convivenza civile, minando alla base sia la democrazia sia ilmercato. Per questo l’ultima cosa che deve fare la politica, in Italia e in Europa, è rimuovere la realtà e rifugiarsi nelle scorciatoie, magari rispolverando antinomie ormai insufficienti come quella tra Stato e mercato. Non è più in discussione la preminenza dell’uno sull’altro. In discussione c’è la costruzione di un nuovo «canone» che dai relitti del naufragio della crisi sia in grado di recuperare l’unico pezzo davvero insostituibile — il nesso tra democrazia rappresentativa, economia di mercato, welfare — per renderlo compatibile con la trasformazione in atto nel mondo: con la rivoluzione tecnologica, con l’emersione di nuovi protagonisti dell’economia globale, con l’invecchiamento della popolazione.

A dispetto di tante ottime ricognizioni, da noi l’eco di questo dibattito globale arriva attenuata. Per le responsabilità — innegabili — della politica e per i limiti di tutto il sistema della rappresentanza. Ci tormentiamo, dividendoci, con la presunta contesa tra «princìpi» e «interessi», dimenticando che essi — come ci ha ricordato qualche tempo fa Eugenio Scalfari — viaggiano insieme. Perché i primi, senza ancoraggio alla realtà, sono velleità utopiche, mentre i secondi, in mancanza del senso di una missione condivisa, perpetuano il privilegio ed esasperano la polarizzazione della ricchezza.

Per quanto mi riguarda, non posso che ripetere e cercare di dimostrare con i fatti che l’unica strada per conciliare «valori» e «interessi» è costruire un «ponte» tra l’Italia della crisi e quella del dopo-crisi. Anche noi, come Coeuer e come l’Europa, siamo in una dimensione apparentemente scardinata tra passato e futuro: viviamo oggi gli strascichi (e le macerie) di un terremoto generatosi anni fa, e dunque nel passato, ma non viviamo ancora, e soprattutto non percepiamo, gli effetti di un processo già iniziato, l’uscita dalla crisi, destinato a manifestarsi compiutamente solo nel futuro prossimo.

Questo ponte deve essere solido e costruito con serietà, mattone su mattone. Questo ponte poggia su due piloni: la «stabilità» e la «comunità». La stabilità come cambiamento essa stessa, perfino come una rivoluzione in una democrazia, quale quella italiana, endemicamente incline alla provvisorietà e all’incertezza; valore in sé e condizione indispensabile per programmare gli interventi necessari a modernizzare il Paese, liberandosi finalmente dall’ossessione del consenso immediato, che impedisce qualsiasi cambiamento strutturale. E la comunità come risposta a una società frantumata e divisa tra pochi privilegiati e una sottoclasse fatta di persone lasciate sole e di «rassegnati» di tutte le età.

Il punto è che il nostro non è uno «Stato fallito», ma certo è uno «Stato fragile», da maneggiare con cura, alle prese con l’eredità di un debito pesantissimo, reduce da una crisi di fiducia prima di tutto in se stesso e poi suimercati internazionali, segnato da ferite molto profonde, ancora aperte, nella vita dei cittadini e anche nella propria cultura politica.

Un Paese incerto dove, a dispetto della retorica, le grandi riforme da fare qui e subito sono tanto facili da declamare a parole quanto complesse e faticose da attuare nei fatti. Un Paese dove sugli squilibri storici (sociali, geografici, tra generazioni) si sono sedimentate nuove e dilaganti forme di vulnerabilità e disagio. E il disagio, se inascoltato o malinteso, si trasforma in indignazione, l’indignazione in rabbia, la rabbia in conflitto sociale.

È questa l’equazione che Grillo e Casaleggio hanno intuito meglio e prima di tutti, precursori di una singolare miscela di populismo e illusioni da democrazia diretta. Una miscela che senza la duplice crisi, economica e politica, non sarebbe stata pensabile ma che trova oggi sorprendenti «gemellaggi» nelmondo. Cosa sarebbe stato lo shutdown brandito dal Tea Party negli Stati Uniti e fortunatamente superato se non un gigantesco, drammatico, V-day nella variante americana? Il trionfo della logica del conflitto su quella dell’interesse nazionale, la fine della comunità vissuta come insieme di persone unite da valori, interessi, storia, istituzioni.

È l’inverso di quella che, a mio parere, dovrebbe invece essere la prima lezione della crisi: il rifiuto delmetodo del conflitto e il recupero della «relazione» così come emerge da una lettura dell’Enciclica Caritas in Veritatefondata sull’homo relatus. La nostra comunità non può più concedersi il lusso di lasciare qualcuno indietro. E ciò non per un nostalgico afflato di egualitarismo omologante ma per necessità, direi per convenienza: per essere più forte e competitiva, per non pagare ancora il prezzo delle disuguaglianze che si allargano e divengono sempre più incolmabili, disegnando il profilo di una società bloccata, immobile, senza equità né speranza. Diseguaglianze che, come racconta Gaggi, rischiano di travolgere il cuore stesso dell’Occidente, quel ceto medio protagonista, in passato, di decenni di progresso ininterrotto e che oggi, per paradosso, proprio del progresso tecnologico rischia di pagare il conto più salato.

A ben vedere, c’è, in questa accezione di comunità e di relazione, anche molto del senso del whatever it takes di Draghi, nonché la sfida più ambiziosa che attende l’Ue nei prossimi mesi. Anche nell’Europa del dopo-crisi nessuno può rimanere indietro: vale per gli Stati membri in difficoltà, vale per le disuguaglianze tra Paesi e dentro i Paesi. Solo se l’Europa è realmente unita e solidale anche su questo può, richiamando le parole del capo dello Stato Napolitano almeeting di Rimini, evitare di finire «sommersa» dalle trasformazioni della contemporaneità. E solo così si può richiedere conmaggiore credibilità alle persone e agli Stati di rispettare le regole, di condividere le responsabilità, di essere aperti al confronto e alla competizione. Solo così, tornando a un’altra complessa transizione, si può passare dall’austerità alla crescita e anche, più in prospettiva, da un modello di welfare esemplare ma non più sostenibile a un paradigma di redistribuzione della ricchezza e del benessere nuovo anche se ancora da definire.

È l’Europa democratica da costruire. A partire dal completamento, effettivo senza più esitazioni, delle unioni bancaria, fiscale, economica, politica. Per farcela dobbiamo condurre una battaglia, appunto, politica: cedere — e far cedere — sovranità nazionale, per essere parte di una nuova sovranità sovranazionale, europea. Questa battaglia si vince democraticamente: dobbiamo persuadere i cittadini europei che dare vita all’unione politica non è avere nuovi vincoli, ma, al contrario, produrre politiche uniformi per il sostegno all’occupazione o dare possibilità di impiego e riconoscimento dei talenti oggi dispersi e frustrati. Gli europei, sì. Fare l’Europa è oggi «fare gli europei» e colmare così la distanza enorme tra l’europeismo convinto di intellettuali e politici e la vita reale dei cittadini. Significa battere i populismi con l’Europa «popolare», cioè col consenso dei popoli. Significa trovare risposte di governo. Per questo dobbiamo portare, come stiamo facendo, anche a livello europeo alcune priorità che ci siamo dati, in questi mesi, per il nostro Paese: lavoro, welfare, istruzione, ambiente, innovazione, agenda digitale.

Ci impegneremo su questo e lo faremo vivendo il semestre di Presidenza italiano dell’Unione come l’occasione per guidare il percorso verso il cambiamento. Lo furono, permotivi diversi, i semestri del 1985, col Consiglio di Milano che pose le basi per l’Atto Unico Europeo, e quello del 1990 che, con il Consiglio di Roma, spianò la strada aMaastricht. Oggi, se possibile, la posta in palio è ancor più alta. È l’opportunità, unica, di dare corpo e sostanza — magari con lo stesso spirito di Coeuer e fors’anche con la stessa leggerezza — al più grande progetto politico delle nostre generazioni: gli Stati Uniti d’Europa.

Enrico Letta