mercoledì 30 giugno 2010

Il possesso

Nella vita non possiamo afferrare e possedere ogni cosa, dobbiamo lasciare e rinunciare a innumerevoli altre. Diversamente, volendo tutto possedere, si trasforma la propria linea di vita in una superficie fatua.

lunedì 28 giugno 2010

La mente, il pensiero

Quando riusciamo a dominare la nostra paura o la nostra stanchezza, il nostro cervello attiva altre risorse che sospendono l'impulso di agire per esaminare la situazione anche da altri punti di vista. La mente focalizza, a questo punto, un obiettivo desiderabile e ci spinge ad operare delle scelte consapevoli per raggiungerlo.
Diventa dunque importante esercitare il proprio pensiero strategico tutti i giorni. Controllare la paura perchè le persone spaventate, spaventano gli altri.
Imparare a calmarsi quando si è agitati, a riposarsi quando si è stanchi, ricordando che quando si è stanchi si diventa nervosi facilmente.

domenica 27 giugno 2010

Al tramonto un giorno di fine giugno

Tornare a casa al tramonto in una giornata di fine giugno è un'esperienza che ti riempie di felicità. Seppure capiti centinaia di volte durante una vita, solo in alcuni momenti si riesce a coglierne tutta la pienezza e il significato. Succede in quelle serate in cui il sole si intreccia con le nuvole striate generando un colore che riempe l'anima, gli odori della campagna, l'erba appena tagliata, quell'aria più frizzantina dopo una calda giornata, quel taglio di luce creato dal sole al Nadir,,, ogni cosa contribuisce a farti cogliere la potenza della vita, la bellezza di ciò che ti circonda. In queste serate anche il mondo appare migliore...

I pericoli per la Democrazia: potere per il potere

In Italia le leggi ad personam e gli strappi continui del governo Berlusconi sembrano svuotare di senso la Costituzione. Eppure le istituzioni non vengono formalmente toccate e gli italiani continuano a votare ogni anno. La sovranità appartiene al popolo: ma possiamo smettere di essere una democrazia senza neppure accorgercene?

"Lei mi chiede se la democrazia può essere svuotata dall'interno, senza un cambiamento formale delle regole. E la mia risposta è: sì", afferma Gustavo Zagrebelsky, docente di Diritto costituzionale a Torino, già presidente della Consulta, che da anni dedica appassionati interventi a questo tema. "Gli ultimi decenni, non solo in Italia, ci consegnano un paradosso. Storicamente la democrazia è stata l'aspirazione di chi voleva essere incluso: l'obiettivo degli esclusi dal potere per accedere al potere. Oggi, invece, nessuno si proclama più democratico di chi è già al potere. E accusa gli altri, coloro che gli si oppongono, di essere anti-democratici. Chi un tempo chiedeva più democrazia oggi è disincantato e ciò si manifesta in molti modi, dall'astensionismo a quell'atteggiamento, "tanto sono tutti uguali!", che esprime un grave distacco dalla democrazia. Mentre chi è al potere rivendica per sé la democrazia".

Perché questo capovolgimento?

"Perché la democrazia possiede una caratteristica meravigliosa, dal punto di vista dei governanti. Prima delle rivoluzioni liberali il re non governava in nome suo ma in nome di Dio. La legittimazione del suo potere era trascendente. Con la secolarizzazione della politica, il potere è stato reso del tutto immanente e chi governa ha dovuto trovare una nuova forma di legittimazione. Chi governa, in democrazia deve giurare di farlo in nome del popolo. Una volta si sarebbe detto: "Non lo faccio per amore mio, ma per amore di Dio". Oggi la formula è stata corretta dai governanti: ciò che essi fanno, lo fanno "per amore del popolo". Anche le leggi ad personam sono proposte e sostenute in nome di interessi generali, non del proprio: la "governabilità", la privacy dei cittadini, la rapidità della giustizia, ecc. Non sono io che lo voglio. Sono i cittadini che lo chiedono. Proclamarsi democratici conviene".

Come si può definire questo nuovo sistema se la regola della democrazia si è invertita?

"La scienza costituzionale e politologica meno ingenua ha preso atto che le difficoltà odierne della democrazia non sono più interpretabili semplicemente alla stregua di "promesse non mantenute", secondo una celebre espressione di Norberto Bobbio: non mantenute ma che rientrano pur sempre nell'orizzonte del possibile, secondo le categorie classiche della democrazia. Bobbio, concludeva la sua analisi amara con un "ciononostante": cioè, malgrado tutto le difficoltà non contraddicono il paradigma, che resta sempre nell'ambito del possibile. Oggi stanno mutando proprio i paradigmi. C'è chi come Colin Crouch parla di post-democrazia, l'esule serbo Predrag Matvejevic ha coniato la parola "democratura", che è la contrazione di democrazia e dittatura. Sono sintomi di un fenomeno nuovo: la convivenza di forme democratiche e sostanze non democratiche. Ovunque, le democrazie sono esposte a tendenze oligarchiche: concentrazione dei poteri, insofferenza verso i controlli, nascondimento del potere reale e rappresentazione pubblica di un potere fasullo. In democrazia, il potere ha bisogno di esibirsi in pubblico, trasformandola in "teatrocrazia". Con i veri autori che, come in una rappresentazione teatrale, restano dietro le quinte".

L'Italia di Berlusconi è un laboratorio?

"La particolarità italiana è che questa tendenza politica si è innestata su una concentrazione di potere economico e mediatico che l'espressione "conflitto di interessi" non registra. Proporrei di cambiarla con "sommatoria di interessi" che convergono in una concentrazione personale che nessuna democrazia effettiva potrebbe tollerare. L'Italia di oggi è un sistema oligarchico accentuatamente personalizzato. Non c'è solo Berlusconi. Sarebbe un errore non considerare che attorno a lui si è formato un sistema d'interessi, di gruppi di potere che per ora lo sorreggono ma lo limitano anche. Ma tutto dietro le quinte".
Fatichiamo a usare parole come dittatura e regime, si rischia di banalizzarle. Ma si può fare un paragone tra l'Italia berlusconiana e altri recenti sistemi autoritari? Lo stesso Berlusconi ha evocato la sua somiglianza con Mussolini...

"Rispetto al fascismo ci sono differenze enormi. Non c'è, per fortuna, l'uso della violenza contro gli avversari politici, non c'è il mito della razza né la grandeur nazionalista, non ci sono una politica estera espansionistica e l'idea della guerra come strumento di politica interna. E soprattutto non si vede un progetto, paragonabile non dico per contenuto, ma nemmeno per organicità, a quelli dei regimi quali quelli che lei ha evocato dal passato".

Eppure del berlusconismo si dice che è una visione del mondo. Qual è la sua ideologia?

"Nell'insieme, il berlusconismo a me pare un cortocircuito tra mezzi e fini. Il potere per il potere, il mezzo che diventa un fine. Non c'è un progetto diverso da quello di restare sempre con le vele spiegate al vento, cioè sempre al potere. Il rapporto tra consenso e politiche si è corrotto. Non si cerca consenso per un progetto, ma il progetto è avere consenso. I sondaggi hanno fatto irruzione nella politica. Non è un fatto marginale, ma è un mutamento d'essenza. Sono lo strumento di chi, come una banderuola al vento, cerca di stare comunque nella corrente. Sarebbero il segreto del potere in eterno, se poi non ci fosse la dura replica dei fatti e dei problemi, come quelli che nascono da una crisi economica e sociale, che chiedono ai governanti non di seguire i sondaggi ma di produrre politiche".

Siamo al punto: possiamo smettere di essere una democrazia senza accorgercene?

"La democrazia è un sistema molto accogliente, tollerante. Le sue procedure possono essere, e sono state utilizzate perfino per fini anti-democratici, come sappiamo dalla storia recente. Nelle società complesse, con apparati pubblici smisurati, il colpo di mano, il colpo di Stato, il golpe non sono più ipotizzabili. Creerebbero caos e il caos fa paura. Sono diventati strumenti della archeologia politica. Oggi la conquista del potere si fa dall'interno".

Come sta reagendo la società civile: gli intellettuali, le forze sociali, le categorie economiche?

"Una società democratica è quella in cui ci sia una tendenziale uguaglianza. Il contrario di quella in cui, diceva Rousseau, c'è chi è così povero da essere costretto a vendersi e chi è così ricco da potersi permettere di comprarlo. Una società democratica è quella in cui la cittadinanza è attiva: cittadini istruiti e informati. Se la società non è democratica, le procedure smettono di produrre democrazia. Più che la casta o la cricca, a preoccupare ci sono i giri di potere in cui bisogna entrare per sentirsi inclusi: protezione in cambio di servigi. Oggi, per difendere la democrazia, è urgente l'istruzione pubblica, contro l'incretinimento di massa. La scuola è trattata come un'appendice, i figli della classe dirigente che vanno a studiare all'estero sono la prova del tradimento che i governanti si assumono, su questo punto, davanti al loro Paese".

Perché un potere che si concepisce senza limiti attacca istituzioni di controllo come magistratura e stampa e risparmia l'opposizione politica?

"Perché, in fondo, anche l'opposizione, volente o nolente, è coinvolta nella stessa logica della maggioranza. Ci sono metodi che, una volta adottati da qualcuno, diventano omnipervasivi. Per esempio, fare politica consultando i sondaggi, significa correre tutti nella stessa direzione. Sono semmai i poteri di controllo quelli che possono andare contro corrente. Per questo, sono quelli più attaccati".

Come finirà la legge sulle intercettazioni?

"Chi può dirlo? Però, la mobilitazione in corso contro questo disegno di legge dimostra che si sta muovendo qualcosa di profondo. Il diritto non è fatto di "parole messe per iscritto", quali che siano. Esistono principi che stanno ben prima dei pezzi di carta scritti da chiunque, sia anche una maggioranza parlamentare".

Qual è il principio in gioco, in questo caso?

"La trasparenza del potere. Un potere avvolto nel segreto è un potere totalmente anti-democratico. Solo Dio nasconde il suo volto: ma non direi che Dio possa essere assunto come esempio di democrazia".
 
di Marco Damilano

venerdì 25 giugno 2010

Il sapere non è un dono, ma una faticosa conquista

Insegnare vuol dire sedurre. Il docente deve trasmetterci la passione.

«C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda. Tutto pullula di commenti; di autori, c’è grande penuria»: adesso più che mai le parole di Montaigne, nella splendida e ormai storica traduzione di Fausta Garavini, suonano di grande attualità. Proprio in questi ultimi anni, a causa di una serie di insensate e sciagurate riforme, i classici della filosofia e della letteratura occupano un posto sempre più marginale nelle scuole e nelle università. Gli studenti percorrono le tappe della loro carriera nutrendosi di manuali, commenti, antologie, bignamini di ogni genere. Sentono parlare e leggono notizie di oggetti, i classici, di cui, nei casi migliori, conoscono solo qualche pagina presente nei numerosi «florilegi» che hanno invaso il mercato dell’editoria scolastica e universitaria.

Purtroppo questa tendenza non nasce dal nulla. Al contrario: diventa espressione di una società sempre più stregata dal mercato e dalle sue leggi. La scuola e le università sono state equiparate alle aziende. I presidi e i rettori, spogliati dei loro panni abituali di professori, vestono gli abiti di manager. Spetta a loro far tornare i conti, rendere competitive le imprese di cui sono a capo. Innanzitutto il «profitto»: bisogna rispettare i tempi nei parametri previsti dai nuovi protocolli ministeriali.

Ma allora che fare? Invitare gli studenti a lavorare di più per compiere il loro itinerario nei tempi e nei modi migliori? Oppure ridurre le difficoltà per rendere più agevole il raggiungimento del traguardo? Questi anni di applicazione della riforma hanno ormai rivelato con chiarezza che è stata la scelta della semplificazione, per non dire della banalizzazione, a dettare legge negli atenei. Fatta salva qualche piccola isola, ormai la pedagogia edonistica ha incancrenito i gangli vitali dell’insegnamento. Pensare di inserire la lettura integrale dei «Saggi» di Montaigne o di qualche dialogo di Platone potrebbe essere considerato come una seria minaccia alla prosperità dell’azienda e l’incauto professore potrebbe finire anche sotto «processo».

Eppure, come ricorda George Steiner, sembra impossibile concepire qualsiasi forma di insegnamento senza i classici. L’incontro tra un docente e un discente presuppone sempre un «testo» da cui partire. Senza questo contatto diretto sarà difficile che gli studenti possano amare la filosofia o la letteratura e, nello stesso tempo, sarà molto improbabile che i professori possano esprimere al meglio le loro qualità per stimolare passione e entusiasmo nei loro allievi. Si finirà per spezzare definitivamente quel filo che aveva tenuto assieme la parola scritta e la vita, quel circolo che ha consentito a giovani lettori di imparare dai classici ad ascoltare la voce dell’umanità e, poi col tempo, dalla vita a comprendere meglio i libri di cui ci si è nutriti. Gli assaggi di brani selezionati non bastano. Un’antologia non avrà mai la forza di suscitare reazioni che solo la lettura integrale di un’opera può provocare.

E all’interno del processo di avvicinamento ai classici, anche il professore può svolgere un ruolo importantissimo. Basta leggere le biografie o le autobiografie di grandi studiosi per trovare quasi sempre un riferimento a un docente che durante gli studi liceali o universitari è stato decisivo per orientare gli interessi verso questa o quella disciplina. Ognuno di noi ha potuto sperimentare quanto l’inclinazione per una specifica materia sia stata, molto spesso, determinata dal fascino e dall’abilità dell’insegnante.

Le lezioni tenute da alcuni grandi maestri nei saloni di Palazzo Serra di Cassano a Napoli testimoniano l’importanza dell’insegnamento nella trasmissione del sapere. Migliaia di giovani—nel corso dei decenni in cui Gerardo Marotta ha trasformato la sede storica dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in una palestra per formare le nuove generazioni —hanno avuto l’opportunità e il privilegio di ascoltare direttamente la parola di studiosi straordinari come Hans George Gadamer, Giovanni Pugliese Carratelli, Paul Ricoeur, Jean Starobinski, Eugenio Garin e tanti altri invitati di fama internazionale. La serie di dvd proposta dal «Corriere della Sera» permette oggi a un pubblico più vasto di rivivere momenti eccezionali di un’esperienza straordinaria. E, soprattutto, consente ai più giovani di incontrare alcuni grandi maestri che purtroppo ci hanno lasciato.

Attraverso molti di questi dvd è possibile capire che l’insegnamento implica sempre una forma di seduzione. Si tratta, infatti, di un’attività che non può essere considerata un «mestiere», ma che nelle sue forme più nobili e più autentiche presuppone una vera e propria vocazione. «Una lezione di cattiva qualità — ammonisce George Steiner—è quasi letteralmente un assassinio e, metaforicamente, un peccato». L’incontro autentico tra un maestro e un allievo non può prescindere dalla passione e dall’amore. «Non si impara a conoscere — ricorda Max Scheler citando le parole da lui attribuite a Goethe — se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore, anzi la passione».

Oggi purtroppo le aziende dell’istruzione, più attente alla quantitas che alla qualitas, chiedono ben altro ai loro docenti. Il processo di burocratizzazione che ha pervaso scuole e università prevede per prima cosa la partecipazione attiva alla cosiddetta vita amministrativa. Lo studio e la ricerca sembrano un lusso da negoziare con le autorità accademiche. Quel fenomeno che aveva tenuto assieme, fino a non molti anni fa, insegnamento e lavoro scientifico nelle università italiane appare sempre più un miracolo improbabile.

Non è impossibile immaginare che le stesse biblioteche — quei «granai pubblici », come ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di «ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire » — finiranno, a poco a poco, per trasformarsi in polverosi musei. All’interno di questo contesto sarà difficile immaginare un docente che insegni con amore e passione e studenti pronti a lasciarsi infiammare. «La gente —annotava Rilke—(con l’aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità e dalla facilità nella più facile china; ma è chiaro che noi ci dobbiamo tenere al difficile ». Il sapere, come ricordava Giordano Bruno e come ricordano tanti classici della filosofia e della letteratura, non è un dono ma una faticosa conquista.

Nuccio Ordine
 
"... In un momento storico sempre più segnato dal prevalere dell'apparenza sulla sostanza, dell'egoismo sull'altruismo, dell'interesse personale su quello universale, della xenofobia sulla solidarietà, rileggere le pagine di Giordano Bruno potrebbe essere molto utile, soprattutto nelle scuole e negli atenei, per riflettere sui grandi valori universali. E, soprattutto, per capire la rozza deriva dei localismi: rivendicare le proprie radici (Bruno firmava le sue opere con il toponimo di Nolano) non significa rinchiudersi in un ristretto perimetro rinunciando alla vitale esperienza europea..."
 

giovedì 24 giugno 2010

L'intelligenza emotiva

Cosa si intende per intelligenza emotiva ? Tante cose. Una prima è avere consapevolezza di sè, capacità di riconoscere e comprendere i propri stati d'animo, le emozioni, le pulsioni. Possedere autocontrollo sugli impulsi e gli stati d'animo dirompenti, riuscire a sospendere un giudizio riflettendo a lungo prima di agire. Un approccio alla vita privo di riflessione sull'esistenza stessa, non ha valore. Grande motivazione per il proprio lavoro, una passione che va al di là del semplice prestigio sociale o dei possibili vantaggi economici. Empatia: viviamo ormai in una società dove l'empatia è fondamentale, la capacità di comprendere il comportamento emotivo degli altri è un grande "asset" personale. Attitudini sociali per gestire con abilità i rapporti interpersonali e creare reti di lavoro, cogliere gli spazi di un terreno comune su cui costruire il dialogo e il rapporto con gli altri. Possedere infine una certa "indifferenza" alle cose come il denaro, ogni attaccamento eccessivo alle cose annebbia la nostra visione e la nostra intelligenza.
Infine ogni mattina e ogni sera è importante richiamare alla mente gli eventi della giornata o delle giornate precedenti, le opportunità, le sfide, le sconfitte e le vittorie che si sono susseguite, riflettendo su come si è reagito, l'atteggiamento avuto e le scelte che sono state fatte. Riavvolgere il "film" della giornata, concentrarsi su di esso, aiuta a capire se ci siamo allontanati o avvicinati ai nostri obiettivi, al modo di essere che abbiamo scelto. Aiuta a crescere.

domenica 20 giugno 2010

Sulla Democrazia

La Democrazia è un regime difficile, ha bisogno come tutti gli altri regimi, di una pedagogia, di un'Etica conforme alla propria natura. In Italia, putroppo, oggi l'educazione civica è merce rara, è stata abbandonata alla spontainetà, ma non è sufficiente.
Le democrazie sono erose quotidianamente al loro interno. In ogni forma di governo ufficiale, dietro alle sue regole formali, partiti, elezioni, attività legislativa, si nasconde un nucleo di potere segreto con i suoi riti formalizzati sconosciuti ai più: il potere oligarchico. Il vero nemico della Democrazia è l'oligarchia. La creazione di centri di potere invisibili che erodono i poteri fondamentali. Ad esempio i poteri finanziari oggi globalizzati. Sono difficili da collocare, come possiamo ancora vedere oggi, in uno spazio fisico, definito e capire come e da chi viene gestito. La Democrazia dovrebbe essere lo strumento degli esclusi da quel potere, la sede delle Istituzioni che fungono da bilanciamento.
La Democrazia vede i cittadini come capaci di agire da sè, al contrario della demagogia che vede invece il popolo "agito", cioè il popolo inerte che viene messo in moto. Nel potere demagogico, ad esempio i sondaggi, il popolo viene invitato solo ad esprimere un parere postivo o negativo. E' un tipico potere che procede dall'alto. Non è Democrazia. In Democrazia inoltre i partiti, che sono parte fondamentale di essa, non dovrebbero destrutturarsi come accade spesso oggi, perchè si passa normalmente dalla fedeltà alle idee alla fedeltà alla persona rischiando di diventare pertinenze personali.

martedì 15 giugno 2010

Economisti egoisti

Riprendo questo interessante articolo di Luigi Zingales sull'Etica, aggiungendo che le considerazioni esposte sarebbero da applicare a tutte le professioni e alle nuove generazioni, se speriamo in un Paese migliore in futuro. 

Ad Harvard esistono corsi di etica. Ma è necessario che sia un bene condiviso da tutti.

Molte scienze sociali nacquero separandosi dall'etica. La scienza politica fu creata da Machiavelli che distinse l'analisi politica da quella morale. Allo stesso modo Adam Smith, filosofo morale, fondò la scienza economia. Ma se l'analisi economica, come analisi del comportamento degli agenti economici, deve essere amorale (ovvero non influenzata da considerazioni morali), la pratica e l'insegnamento dell'economia non debbono esserlo, come non lo debbono essere la pratica e l'insegnamento di qualsiasi altra scienza. L'analisi di come funziona una cellula umana e di come possa essere modificata non deve essere influenzata da considerazioni morali, ma la decisione se modificare tale cellula non può non essere influenzata da considerazioni morali.

Purtroppo noi economisti siamo i primi responsabili di questa confusione tra aspetto positivo della scienza (lo studio di come si comportano gli agenti economici) e l'analisi normativa (su come dovrebbero comportarsi). Ci difendiamo dietro il pretesto che la nostra è solo un'analisi positiva, dimenticandoci (o fingendo di dimenticarci) che il modo in cui presentiamo questa analisi trasmette in maniera sottile dei giudizi di valore e quindi si trasforma spesso in analisi normativa. La scienza economica, per esempio, assume che gli individui massimizzino la propria utilità individuale. Da un punto di vista metodologico questa ipotesi si è dimostrata utile per produrre modelli che hanno validità predittiva. Ma in nessun modo questa ipotesi deve essere considerata una norma di comportamento da seguire. Non a caso quando una persona massimizza solo la propria utilità personale viene considerata egoista e subisce la condanna morale di colleghi ed amici. Non è quindi un comportamento che vogliamo insegnare ai nostri figli ed allievi. Ciononostante degli studi sperimentali fatti all'Università di Cornell dimostrano che non solo gli economisti tendono ad essere egoisti, ma diventano maggiormente egoisti dopo aver seguito i corsi di economia. Forse anche per questo motivo l'idea che l'etica debba essere parte dell'insegnamento nelle business school sta sempre più prendendo piede. Alla Harvard Business School non solo esistono dei corsi di etica, ma gli studenti sono anche invitati a prestare un giuramento, che vorrebbe essere quello che il giuramento di Ippocrate è per i medici. Il testo del giuramento del buon manager, però, afferma tutti valori assoluti, non riconoscendo gli inevitabili trade-off presenti nelle decisioni. I neo manager promettono di salvaguardare l'interesse degli "azionisti, lavoratori, clienti, e la comunità in cui lavorano". Significa forse che i neo manager si impegnano a non aumentare mai i prezzi dei propri prodotti e non licenziare mai dei dipendenti?

Invece che dei corsi dedicati all'etica sarebbe necessario introdurre delle norme etiche nei normali corsi di business. Innanzitutto agli studenti dovrebbe essere insegnata quella che molto pomposamente si chiama "business ethic", ma che altro non è che una visione di lungo periodo. Come il pescatore sa che non può prosperare a lungo vendendo pesce avariato, così tutti gli operatori di mercato intelligenti sanno che nulla vale di più della propria reputazione. Comportamenti opportunistici possono produrre profitti di breve periodo, ma non pagano nel lungo periodo. Si tratta di banalità, che però vengono spesso dimenticate anche dalle migliori aziende: basta leggere le e-mail di Fabrice Tourre, dipendente di Goldman Sachs, che si vantava con la fidanzata di vendere bidoni ai clienti.

La business ethic non basta. Bisogna insegnare agli studenti anche il senso civico. Precipitarsi all'uscita di un cinema in fiamme, scavalcando tutti, è una scelta "razionale" dal punto di vista individuale, ma dannosa dal punto di vista sociale: nella ressa meno persone riescono a salvarsi. La visione di lungo periodo qui non basta. Primo, se muoio il lungo periodo non esiste. Secondo, è un evento sufficientemente raro che la probabilità che mi ritrovi nella stessa situazione con le stesse persone è pressoché nulla. Per sostenere queste norme che migliorano il vivere civile è necessaria una sanzione sociale. L'esploratore Nobile che si salvò prima del suo equipaggio fu tormentato per tutta la vita dalla reputazione del codardo. Questa sanzione, però, esiste solo nella misura in cui questo valore è condiviso dalla maggioranza della popolazione. Di qui la necessità di farne un valore insegnato a scuola. Nella speranza che poi rimanga per il resto della vita.

giovedì 10 giugno 2010

Cambiare uscendo dalle proprie "trappole"

Uscire dalle proprie "trappole", come si definiscono gli schemi mentali abituali, le abitudini, inconscie e tutto il resto, non è semplice. In ognuno di noi c'è una parte che desidera essere felice e appagata. Cambiare comporta il risveglio della parte sana e la capacità di darle credito e speranza. Viene naturale a ognuno di noi opporsi al cambiamento, soprattutto se questo è profondo. Si ottengono risultati solo se si è veramente convinti e consapevoli. Di norma vogliamo evitare la sofferenza in generale e quindi tanti buoni propositi finiscono presto in un nulla di fatto o in un generico rimando ad altri momenti. Un pò come quando si decide di stare a dieta. Occorre essere sorretti da una volontà ferrea. In più non c'è una ricetta uguale per tutti, ognuno deve scoprire la propria strada e percorrerla incessantemente.

Cambiare significa anche scoprire che persona si desidera essere e pensare a cosa si vuole veramente dalla vita, se si hanno obiettivi e interessi veri. Importante quindi avere chiara la direzione da seguire prima di procedere. Questo ci permetterà di guardare oltre alle nostre trappole e immaginare cosa ci porterà finalmente a sentirci felici, appagati e realizzati. Per raggiungere lo scopo, trovare la "rotta", è necessario scoprire le proprie inclinazioni naturali: relazioni, interessi, attività, tutto ciò che ci fa sentire realizzati. Ci aiuta in questo porre molta attenzione alle proprie emozioni e sensazioni. Scoprire insomma veramente chi siamo e cosa ci rende felici, riflettendo con se stessi e interrogando la propria anima. Meditare alle relazioni che vogliamo avere, alle persone che vogliamo frequentare, quanta libertà e autonomia intendiamo conquistarci nella vita. L'autonomia è indispensabile per dedicarsi alle proprie inclinazioni naturali. Comporta lo sviluppo di un preciso senso di identità, sono le vostre radici, vi caratterizza e vi rende unici. E' questa l'importanza di essere veramente se stessi, liberandosi dalle servitù psicologiche e di comodità mentale. Quando ci sente uomini liberi si accresce di conseguenza la propria autostima che è l'altra parte fondamentale per perseguire il cambiamento. 

A quel punto si è pronti per analizzare serenamente i propri punti di debolezza e quelli di forza, cercando di evitare i primi e concentrandosi sugli ultimi, coltivandoli. Ci si avvia in tal modo al cambiamento, si superano così le proprie trappole mentali, ci si scopre liberi da condizionamenti esprimendo, finalmente, tutto noi stessi. Grazie a questa capacità di affermazione di sè stessi è possibile poi seguire le proprie inclinazioni naturali e gustarsi appieno la vita.

mercoledì 9 giugno 2010

Chiesa e Capitalismo

Ho letto con molto interesse questo libretto e l'ho trovato ricoo di spunti e riflessioni. Trovando un'ottima recensione sul Corriere della Sera, che rispecchia il mio pensiero, a cura del bravo Claudio Magris, la riporto di seguito.

I limiti (e i pregi) del capitalismo: proposte per correggere i difetti
Nuove regole e mentalità contro la speculazione selvaggia.
 
Nella Famiglia Moskat di Singer, un personaggio crede nel capitalismo, perché lo considera fondato su leggi di natura e sulla stessa natura umana. È facile obiettare che esso è una realtà storica, mutevole e transeunte come ogni altra; non per questo è meno «naturale», in quanto la Natura è l’incessante nascere e perire di tutte le cose, continenti che emergono, specie che si estinguono, imperi che dominano e si dissolvono, società che decadono, in tempi ora lunghi ora brevi. D’altronde la natura e la vita—e dunque pure un sistema economico — non vanno assecondati in ogni loro manifestazione: cerchiamo di combattere i terremoti, gli tsunami, le malattie e ciò che le provoca, la fame e le condizioni politiche e sociali che ne sono causa.

I DISASTRI DEL CAPITALISMO L’odierna crisi economica mondiale, che tamponata da una parte riesplode da un’altra come le fognature intasate fanno saltare ora l’uno ora l’altro tombino, non induce a contestare ideologicamente il capitalismo, ma a cercar di capire il perché di questi suoi disastri e come porvi rimedio. Nel suo saggio Chiesa e capitalismo—non un’endiadi né una contrapposizione, ma un dialogo alla ricerca di correttivi a quei disastri—Giovanni Bazoli sottolinea come all’espansione capitalista sia legato il progresso del tenore di vita di tante persone e regioni del mondo, mettendo altresì in evidenza la cresciuta diseguaglianza fra chi vive dignitosamente e gli innumerevoli dannati della terra. Cercare di correggere i difetti di un sistema non significa misconoscere i suoi pregi e tantomeno dichiararlo «fallito», nemmeno quando un suo determinato assetto storico appare inadeguato alla nuova realtà. C’è un diffuso compiacimento di dichiarare il fallimento di un movimento (politico, sociale o economico) quando la sua fase progressiva appare conclusa o declinante. Tutti, alla fine, perdono. Anche Luigi XIV, alla fine del suo regno, lascia una Francia spossata, pure Napoleone viene sconfitto a Waterloo ed esiliato. Dobbiamo considerare perdenti e fallimentari la politica del Re Sole o l’impero napoleonico che col suo codice ha propagato i diritti civili in quasi tutta Europa? Oggi c’è chi si sciacqua la bocca col fallimento —o l’eclissi—del socialismo, dimenticando, con un piccino risentimento ideologico, ciò che ha fatto e ciò che significa il socialismo nella sua storia, che cosa saremmo senza le sue conquiste, oggi premessa pure della possibilità di rivederle.

CHE FARE? Ma Bazoli si sofferma soprattutto sui mali prodotti da un capitalismo allegramente selvaggio, che si è nutrito e gonfiato di bolle d’aria più che di economia reale e rischia la rovina, perseguendo con miope avidità un profitto immediato, che alla fine si rivela controproducente per tutti. Anche il capitalismo pone dunque alla sua classe dirigente la domanda che a suo tempo il comunismo poneva alla propria: Che fare? Così s’intitola infatti il saggio di Lenin del 1902, derivato da un romanzo di Cernyševskij. Bazoli invoca sostanzialmente due cose: nuove regole e una trasformazione della mentalità di imprenditori e operatori economici. Il suo cattolicesimo lo induce a porre un forte accento sull’autorinnovamento spirituale e sull’impegno personale; il cristianesimo è essenzialmente «metanoia», radicale rinascita a nuova vita che comprende tutto l’uomo, in tutti gli ambiti della sua esistenza e dunque pure in quello del suo operare economico. Ma in questo caso la situazione è particolarmente complicata. Il singolo individuo può scegliere un modo più saggio e più umano, e alla lunga più soddisfacente, di condurre la propria vita e dunque pure i suoi affari, anche accettando un minore profitto immediato in cambio di prospettive più sicure e tranquille; per quel che lo riguarda personalmente, può fare questa scelta anche se gli altri si comportano diversamente. Ma se un imprenditore — dal cui guadagno dipende pure quello dei suoi dipendenti —opera in una situazione in cui domina una brada corsa al guadagno immediato anche a costo di pericolosi squilibri, difficilmente può permettersi di restare anche solo per un breve periodo indietro, col rischio di danneggiare irreparabilmente la sua azienda e coloro che da essa traggono lavoro e sostentamento.

VOLATA SELVAGGIA È come se in un cinema tutti si alzassero in piedi: è una stupidaggine, ma non si può restare seduti, se si vuole vedere il film. La frenetica assurdità di alzarsi in piedi al cinema è del resto un simbolo di tutto il nostro vivere e operare. Anche nella promozione culturale la necessità di apparire, di mettersi in mostra e di «partecipare» è di per sé una calamità—rovina la vita e i suoi piaceri legati all’ozio e alla libertà zingaresca, costringe a usare quasi tutto il tempo per parlare di ciò che si è e che si è già fatto, ostacolando l’invenzione e la ricerca di esperienze nuove. Ma questa calamità è inevitabile, perché un artista che resta seduto mentre tutti si alzano non solo non vede, ma, cosa ben peggiore, non viene visto. Il profitto selvaggio e immediato, perseguito con vantaggio a breve e svantaggio a lungo termine, non caratterizza solo il campo specificamente economico, ma impera in tutti gli altri e in particolare in quello, anch’esso economico, che è la produzione e il consumo culturale. Ormai la volata è così selvaggia, disordinata e spudorata, che è difficile sopravvivere, almeno provvisoriamente, senza stare al suo passo. È difficile saltar giù dal treno in corsa, specie per chi in tal modo ne trascinerebbe altri, anche se si sa che prima o dopo il treno deraglierà disastrosamente per tutti.

QUALI REGOLE? È dunque arduo affidarsi a quel pur auspicabile cambiamento di mentalità, di cultura e di etica per correggere la legge della jungla sempre più e sempre più dissennatamente sfrenata. Inoltre la crisi che investe—sembra alle radici—la nostra realtà economica, con tutte le conseguenze sociali e politiche immaginabili, rischia di rendere patetiche o almeno nobilmente astratte e retoriche le discussioni sul rinnovamento morale e spirituale. Restano, allora, le regole, quei meccanismi generali e freddi necessari alla società civile affinché ognuno, rispettandoli e venendone tutelato, possa vivere serenamente la sua calda vita, come la chiamava Saba. È un problema sempre più assillante, come hanno mostrato la recente discussione fra Guido Rossi e Giulio Tremonti sul libro di Michele Salvati e tanti dibattiti e interventi che continuano a susseguirsi. Ma quali regole, precisamente? E garantite da quale forza in grado di farle veramente rispettare? Le regole devono avere una loro almeno relativa stabilità e come possono fronteggiare i vertiginosi cambiamenti della crisi, come notava di recente sul «Sole 24 Ore» Giuliano Amato a proposito dell’atteggiamento europeo, mutato così rapidamente, nei confronti dei mercati finanziari? Un ignorante di economia come me, quando legge che occorrono misure di austerità, ma che un Premio Nobel dell’economia come Stiglitz, già consigliere di Clinton e ai vertici della Banca mondiale, le ritiene un disastro, ha l’impressione di una nave senza nocchiere in gran tempesta.

DOMANDE A parte tutto questo, il nuovo capitalismo, che così spesso si è sciacquato la bocca con la «deregulation », può accettare, senza incepparsi con rovina di tutti, regole forti e neutrali ossia limiti alla sua espansione, oppure è già andato troppo oltre per potersi fermare o anche per poter moderare la velocità della sua spirale? Può correggersi al fine di offrire delle possibilità a tutti, affinché non accada, come nella parabola evangelica degli operai della vigna, che alcuni, anzi molti non abbiano nessuna opportunità? Nella parabola evangelica, sottolinea Bazoli, gli operai che arrivano all’ultima ora vengono pagati come gli altri operai che hanno lavorato l’intera giornata, perché prima di quell’ora nessuno aveva dato loro la possibilità di lavorare. Ma come fa un imprenditore, anche il più onesto, a comportarsi da giusto come il Signore? Domande, domande, domande, diceva Brecht.

martedì 8 giugno 2010

L'Uomo Politico - parte due

Ascoltare la gente, capirla, motivarla, rispondendo ai loro bisogni e aspirazioni. Non essere restio a condividere le opinioni, penetrando così le proprie idee e migliorandole. Circondarsi di persone più intelligenti, ma che siano complentari al suo modo di essere e al suo pensiero, pensare e agire con intelligenza e coerenza rispetto agli obiettivi prefissati e dichiarati.
Essere integri, dedicando ogni giorno tempo all'analisi e alla riflessione, ritirarsi ogni tanto "sulla montagna" per periodi di intensa meditazione e riflessione. Essere aperti al cambiamento dentro di se e verso il mondo esterno con la curiosità per il nuovo e l'innovazione. Avere quel buon grado di empatia e sensibilità nel cogliere i sentimenti, gli umori, le storie e gli avvenimenti intorno a se. Sviluppare flessibilità nel presentare i propri temi essenziali, le proprie idee, i propri programmi con profonda dedizione alla causa, ma con grande modestia rispetto al ruolo. Ci sono cose che persistono nel tempo. E' importante perseverare nel duro lavoro, essere leali e possedere grande senso di responsabilità. La gente segue gli uomini che hanno coraggio e passione in ciò che fanno e la loro adesione ad una causa sarà tanto più forte e di difficile abbandono, tanto più sarà connotata emotivamente.

domenica 6 giugno 2010

Chi evade fa male anche a te: digli di smettere

Chi evade le tasse mette le mani nelle tue tasche. Occorre farlo smettere. Lo stesso vale per chi quel comportamento permette, avendo invece i poteri tecnici e il dovere politico per fermarlo. Tanto più che i danni provocati dall'evasione sono ben più ampi di quelli contabilizzabili come minori entrate nel bilancio pubblico. L'evasione fiscale, infatti, sintetizza e aggrava mali italiani antichi e nuovi. Mali economici, sociali, istituzionali, civili.
Tra i mali economici, l'evasione produce aliquote più elevate e per questa via contribuisce a diminuire il dinamismo dell'economia italiana. Aliquote più alte, infatti, penalizzano le imprese che crescono, si internazionalizzano e si dotano di un patrimonio adeguato (in ciò l'evasione favorisce il nanismo aziendale). Sottraggono potere d'acquisto alle famiglie dei lavoratori di quelle imprese, i più produttivi, che così si ritrovano sottopagati, con misere retribuzioni nette, giacché il costo del loro lavoro è il doppio di quanto si portino a casa. Scoraggiano gli investimenti, anche dall'estero. L'evasione è quindi nemica della produttività e della competitività.

Tra i mali sociali spicca il premio alla scorrettezza anziché al merito: non è un caso che in Italia la quota di reddito evaso è massima nelle regioni con più basso capitale sociale. Inoltre, l'evasione impedisce di calibrare gli interventi di welfare a favore dei più deboli, interventi che spesso finiscono per beneficiare chi non assolve ai doveri di cittadino (altro furto odioso); basta pensare alle tasse universitarie o alle graduatorie per i posti all'asilo nido, stabilite in base al reddito dichiarato. Tra i mali istituzionali esaltati dall'evasione c'è l'inefficienza della burocrazia: solo una macchina amministrativa ben organizzata e guidata può individuare gli evasori senza perseguitare stoltamente i contribuenti onesti. Tra i mali civili c'è un rapporto cittadino-stato che, da entrambi i lati, è improntato alla diffidenza, se non all'aperta inimicizia; e ci sono un individualismo esasperato e una sfiducia nel prossimo che si traducono in opportunismo a scapito del vantaggio collettivo, cioè di tutti e quindi di ciascuno.
Estirpare l'evasione, o almeno ricondurla ai livelli fisiologici degli altri paesi, significa curare quei mali e guarirne. Così inquadrata l'impresa appare lunga. Troppo rispetto all'urgenza di rilanciare la crescita. Eppure nessuno può più eluderla, così come non è più tollerabile la corruzione.


La crisi catalizza cambiamenti strutturali, perché le enormi difficoltà costringono a prendere coscienza e sbarazzarsi degli ostacoli, ideologici o di bassa bottega, che si frappongono alla modernizzazione. E coagula nuove maggioranze. In questo contesto, i risultati arrivano molto rapidamente, addirittura con un rovesciamento della relazione causa-effetto: la riduzione dell'evasione passa attraverso le sanzioni certe ai comportamenti degli evasori e perciò conduce alla rimozione di quegli ostacoli, anziché esserne il frutto.
Lo fa con una forza e una velocità ben maggiori di quelli ottenibili con le pur sacrosante esortazioni morali che andavano di moda un tre anni fa (dopo molto meno). «Pagare le tasse è bellissimo», affermò l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. «Non pagare le tasse è un peccato grave, è rubare», l'aveva preceduto il vescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte. Settimo: non evadere.

Il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha ripreso il filo spezzato della condanna etica al mancato pagamento delle imposte, associandolo alla criminalità. E ha voluto dare un importante contributo a formare l'opposizione politica contro l'evasione, additando i suoi protagonisti come responsabili della "macelleria sociale", cioè dei tagli al welfare, e dell'accumulo dell'enorme debito pubblico.
La lotta all'evasione non può, però, portare all'aumento della pressione fiscale. Non deve servire a ridurre il deficit pubblico e piegare il debito (come invece accade con la finanziaria appena varata). Il risanamento dei conti pubblici, per non avvilire ancora una volta le enormi potenzialità di sviluppo dell'Italia, può far perno solo sulla riduzione della spesa.

Se vuole rilanciare la crescita, anche attraverso la maggior fiducia che viene dalla percezione dell'equità e dal rinnovo del contratto sociale che lega i cittadini all'interno di uno stato e li fa sentire comunità, la diminuzione dell'evasione deve risolversi in una restituzione. Via riduzione delle aliquote sui lavoratori e sulle imprese che le imposte le pagano.
Facciamo due conti, aiutati da alcune analisi condotte da Alessandro Fontana e Lorena Scaperrotta del Centro studi Confindustria e di prossima pubblicazione. Se consideriamo il Pil al netto del sommerso, cioè di quella parte dell'economia che viola gli obblighi fiscali e che quindi non dà il suo contributo al bilancio pubblico (pur godendo dei servizi pubblici: terzo furto), la pressione fiscale media effettiva calcolata sui dati 2009 è del 51,8%, contro il 43,2% ufficiale ma solo apparente perché viene dall'aritmetica divisione tra gli incassi tributari e contributivi e il Pil. Sconfiggere l'evasione senza abbattere le tasse per chi le paga vorrebbe dire avere una fiscalità svedese con servizi pubblici greci.

C'è chi ritiene che in realtà siamo tutti avvantaggiati dall'evasione, perché questa direttamente e indirettamente tiene più bassi i prezzi dei beni che acquistiamo. Perciò nemmeno se fosse accompagnata dall'abbattimento delle aliquote la sconfitta dell'evasione si risolverebbe in un miglioramento per gli onesti perché farebbe lievitare il costo della vita.
Ammesso, e per nulla concesso che ciò accada (la traslazione delle maggiori tasse pagate dipende da condizioni che non paiono far parte della realtà), comunque «l'eliminazione dell'evasione-più aliquote minori» farebbe cadere la distorsione nelle scelte dei contribuenti, livellando il terreno competitivo tra imprese tartassate ed evasori e rimettendo nel bilancio delle famiglie fiscalmente corrette il maltolto.
Di quanto potrebbero essere diminuite le aliquote? In media di quasi il 17 per cento. Ciò significa che a un lavoratore con una retribuzione-tipo resterebbero in busta paga quasi 1.300 euro in più all'anno, quasi una mensilità; mentre il costo per l'impresa di quello stesso lavoratore, tenuto conto anche dell'Irap, diminuirebbe di oltre 1.600 euro l'anno.
Con tutte le positive conseguenze in termini di potere d'acquisto, competitività, occupazione. Senza contare che anche le aliquote Iva e le accise, come tutte le altre imposte, potrebbero essere abbassate del 17% e ciò porterebbe una proporzionale diminuzione del costo della vita.
Una famiglia standard italiana (marito e moglie che lavorano e un figlio) risparmierebbe quasi settemila euro l'anno di pagamenti a vario titolo al fisco, incluse le imposte indirette. Perciò, anche se gli evasori cercassero di rifarsi sui loro clienti, aumentando i prezzi, l'effetto netto per i tartassati difficilmente potrebbe risultare nullo.
L'evasione è un gioco a somma negativa. Una furbizia perdente. Vincerla conviene all'economia e ai cittadini italiani. A lungo andare, perfino a chi la pratica. Le misure della finanziaria non sono che un primo timido passo.

di Luca Paolazzi

Grande FRANCESCA ! Orgogliosa di essere Italiana !

Trionfo tricolore al Roland Garros, Francesca Schiavone entra nella storia. Per la prima volta una tennista italiana vince una gara del Grande Slam.
Anche Napolitano le telefona.

PARIGI - Francesca Schiavone è entrata nella storia. Sconfiggendo per due set a zero l'australiana Samantha Stosur (6-4 7-6 con tie break finito 7-2) la tennista milanese diventa la prima italiana a vincere una gara del Grande Slam. Incontenibile la sua gioia alla fine del tie break, quando l'errore della sua avversaria le consegnava la vittoria: Francesca si è accasciata a terra incurante della terra rossa che si appiccicava al completino immacolato. Grandi lacrime. E poi grandi sorrisi. Sul podio ha cantato dall'inizio alla fine l'inno di Mameli. E il suo sorriso ha contagiato tutti nel campo centrale del mitico impianto parigino, dove un tifo da curva sud - molti suoi fan indossavano una maglietta nera con la scritta: «Schiavo, nothing is impossible», nulla è impossibile - ha accompagnato la sua impresa. Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che si trovava a Torino per una serie di viaggi in vista delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia, informato della vittoria ha voluto telefonare alla tennista per complimentarsi di persona con lei.

È dunque la prima volta che una italiana vince al Roland Garros. Le nostre tenniste, fino a questo momento, non erano andate oltre la semifinale e per quel risultato bisogna tornare indietro nel tempo fino al 1954. L'italiana ha dominato l'intera gara (guarda la cronaca via sms dell'inviata del Corriere della Sera), anche se in alcuni momenti la Stosur si è fatta insidiosa riuscendo anche ad andare in vantaggio nel secondo set. Francesca Schiavone avrebbe potuto demoralizzarsi e perdere la concentrazione. Non è stato così. Ha ripreso il controllo della situazione, è andata al pareggio ed è arrivata al tie break finale che l'azzurra ha nettamente dominato.

«Mi sento una vera campionessa, mi sento fantastica» ha commentato a caldo la tennista milanese. «Devo dire qualcosa... non ho preparato niente... Ho visto tutte le finali di questo torneo», ha detto con grande emozione dopo aver ricevuto il trofeo dalle mani di Mary Pierce, ex fuoriclasse franco-canadese. L'azzurra non ha tralasciato di rendere omaggio all'avversaria di oggi: «Samantha è una grande atleta, una grande persona», ha detto in inglese prima di parlare direttamente alla 26enne di Brisbane: «Meriti di essere qui la prossima volta, sei ancora molto giovane». In italiano, si è poi rivolta al suo entourage e ai suoi tifosi: «Penso che senza il vostro supporto non sarei quello che sono e non avrei fatto quello che ho fatto. Siete nel mio cuore». Con la vittoria di Parigi, Francesca Schiavone stabilisce un altro record per il tennis femminile italiano. Da lunedì infatti, quando sarà stilata la nuova classifica mondiale, la tennista azzurra occuperà la sesta posizione, un record per le giocatrici italiane.

Grande l'entusiasmo del presidente del Coni, Gianni Petrucci: «Oggi Francesca Schiavone entra di diritto nella storia dello sport italiano. Il successo al Roland Garros la incorona nel gotha del tennis mondiale». «Francesca ci ha regalato emozioni indescrivibili - ha detto ancora Petrucci -, è stata brava durante tutto il match e per questo voglio manifestarle i sentimenti di orgoglio e di sincera riconoscenza dell'intero sport italiano per il raggiungimento di un traguardo costruito con serietà, talento e abnegazione. La Schiavone rappresenta l'emblema della crescita e della forza del nostro movimento femminile e merita questo successo perchè ha dimostrato di credere nelle sue qualità, a testimonianza anche della lungimirante programmazione della Federazione che ora può giustamente celebrare questo trionfo, 34 anni dopo quello di Panatta, e 50 anni dopo quelli di Pietrangeli». Petrucci ha poi sottolineato che «nessun risultato nella vita si ottiene senza sacrificio. E poi, per noi italiani, vincere in terra francese dà sempre un gusto particolare alle nostre vittorie: basti pensare ai tanti epici risultati dello sport azzurro ottenuti in Francia, come l'Italia di Pozzo nel '38, i Tour de France di Coppi e Bartali e i due europei dell'Italbasket, per citare alcuni significativi esempi».

Sul nostro essere

Solo con l'esperienza impariamo ciò che vogliamo e ciò che posiamo, fino a quel momento siamo senza carattere e spesso siamo buttati con duri colpi all'esterno della nostra vita.

Indagando continuamente sulle nostre forze e sulle debolezza noi possiamo educarci, modificarci, cercando di utilizzare al meglio le nostre spiccate attitudini naturali, utilizzandole sempre dove esse servano, valgano e siano comprese. Evitando quelle di cui abbiamo scarsa attitudine non ci lasceremo tentare da cose in cui non riusciamo. Ognuno di noi è la manifestazione della propria volontà. Non bisogna mai abbandonare la riflessione su chi siamo e ciò che veramente vogliamo. Diversamente ci capiterà spesso di essere in continua contraddizione nella vita e, di conseguenza, esprimeremo una volontà fine a se stessa, vuota, priva di una visione.

Qunado si perde qualcosa o si prova un dolore il nostro umore, dopo i primi momenti, non risulta poi molto differente da quello di prima. Gli uomini hanno una grande capacità di assorbire e cicatrizzare le ferite anche dell'animo. Ma anche ogni stato di gioia, in cui ci sentiamo esplodere dentro, non dura molto. Noi vorremmo trattenerlo il più a lungo possibile, ma il nostro spirito si abitua all'ampliamento dei nostri desideri e si assuefà velocemente al possesso corrispondente. Altresì accade quando una grande preoccupazione che ci angoscia ci viene tolta dal cuore con esito positivo. La maggioranza degli uomini la sostituisce subito con un'altra che esisteva anche prima, magari non così importante da poter penetrare con preoccupazione nella coscienza perchè non trovava più spazio. Imparare a meditare su questi stati d'animo può servire a divenire un poco più saggi e cercare di assaporare più a lungo le gioie o l'evoluzioni di eventi positivi.

giovedì 3 giugno 2010

Quando si invecchia

Nessuno si invecchia unicamente per essere vissuto un certo numero di anni, la gente invecchia perchè abbandona i propri ideali.

Samuel Ullman