giovedì 27 dicembre 2007

I tre pilastri della Terza Rivoluzione Industriale

La creazione di un regime a energia rinnovabile, in parte immagazzinata sotto forma di idrogeno, e distribuita tramite reti intergrid intelligenti, spalanca le porte a una Terza Rivoluzione Industriale, che dovrebbe avere un potente effetto moltiplicatore economico nel XXI secolo quanto quello che ebbe la convergenza di stampa e motore a vapore alimentato a carbone nel XIX secolo, o quello della convergenza di forme elettriche di comunicazione e motore a combustione interna e petrolio nel XX.
Le forme di energia rinnovabile - solare, eolica, a idrogeno, geotermica, delle onde oceaniche e delle biomasse - costituiscono il primo dei tre pilastri della Terza Rivoluzione Industriale. Se da un lato queste forme di energia agli esordi oggi rappresentano ancora una piccola percentuale del mix energetico globale, esse dall'altro sono in rapida crescita grazie ai governi che fissano obiettivi e scadenze per una loro massiccia immissione nel mercato e grazie ai costi in costante calo che li rendono sempre più competitivi.
L'introduzione del pilastro delle energie rinnovabili della Terza Rivoluzione Industriale esige la contemporanea introduzione di un secondo pilastro: per massimizzare l'energia rinnovabile e ridurre al minimo i costi sarà necessario sviluppare metodi e sistemi di immagazzinamento che facilitino la conversione delle fonti intermittenti di queste fonti energetiche in asset affidabili. Batterie, pompe idrauliche differenziate, altri dispositivi possono fornire una capacità di immagazzinamento soltanto limitata. Esiste però un dispositivo di immagazzinamento assai disponibile e che può risultare relativamente efficiente. L'idrogeno è lo strumento universale che "immagazzina" tutte le forme di energia rinnovabile, garantendo che una fornitura stabile e affidabile è sempre disponibile e possibile per generare elettricità e, cosa altrettanto importante, è facilmente trasportabile. L'idrogeno è l'elemento più leggero e più abbondante dell'Universo e quando è utilizzato come fonte energetica gli unici sottoprodotti a cui dà luogo sono acqua pulita e calore. Il punto importante sul quale dobbiamo soffermarci è che una società che si basa sull'energia rinnovabile è possibile nella misura in cui parte di quell'energia può essere immagazzinata sotto forma di idrogeno. Questo perché le energie rinnovabili sono intermittenti: il sole non splende sempre, così come il vento non soffia sempre, l'acqua non scorre sempre se c'è siccità, e i raccolti agricoli possono variare per una molteplicità di fattori. Quando le energie rinnovabili non sono disponibili, non si può generare elettricità e le attività economiche rischiano di subire una frenata e fermarsi. Ma se l'elettricità generata allorché l'energia rinnovabile è abbondante, può essere utilizzata per estrarre idrogeno dall'acqua, che potrà essere conservato per essere utilizzato in seguito, a quel punto la società disporrà di un rifornimento continuo di energia elettrica. L'idrogeno può essere estratto anche dalle biomasse e immagazzinato nello stesso modo.
Il terzo pilastro, la riconfigurazione della rete elettrica europea, similmente a quella di Internet, e in grado di permettere ad aziende e proprietari di casa di produrre l'energia che serve loro e di condividerla con gli altri, soltanto adesso è in corso di collaudo da parte di varie società elettriche europee. L'intergrid intelligente, la rete elettrica interconnessa, è formata da tre componenti di importanza fondamentale. Le minigrid permettono a proprietari di casa, piccole e medie aziende (Sme) e imprese economiche su larga scala di produrre energia rinnovabile a livello locale - tramite pannelli solari, vento, piccole centrali eoliche, scorie animali e dell'agricoltura, spazzatura e così via - e di utilizzarla per le loro stesse necessità energetiche senza collegarsi alla rete elettrica generale. La fase successiva della tecnologia delle reti intelligenti consistente nell'inserire dispositivi, sensori e chip, in tutto il sistema della rete, collegando ogni singola apparecchiatura elettrica. Il software a quel punto consente all'intera rete elettrica di sapere con esattezza quanta energia sia utilizzata in ogni momento e in qualsiasi punto della griglia. Questa interconnettività può essere utilizzata per re-indirizzare e deviare gli usi e i flussi energetici durante i picchi d'uso e nelle interruzioni d'uso, e perfino di adeguarsi ai cambiamenti di prezzo dell'elettricità da un momento a un altro. In futuro, queste reti intelligenti potranno essere ulteriormente connesse per adeguarsi istantaneamente ai cambiamenti meteorologici dando alla rete elettrica la possibilità di adeguare il flusso dell'elettricità di continuo, sia in funzione delle condizioni meteorologiche sia della domanda dei consumatori.
La Terza Rivoluzione Industriale richiederà una riconfigurazione completa dei settori dei trasporti, delle costruzioni e dell'elettricità, creerà nuovi prodotti e servizi, favorirà lo sviluppo di nuove aziende e darà vita a milioni di nuovi posti di lavoro. La chiave per "la sicurezza energetica" dell'Ue risiede nell'abilità di produrre energia ed elettricità localmente e regionalmente, da fonti prontamente disponibili di energia rinnovabile, nella capacità di immagazzinarne una parte sotto forma di idrogeno e altre tecnologie di immagazzinamento per sostituire e supportare l'energia della rete elettrica e dei trasporti, e nella possibilità di condividere l'energia supplementare ovunque tramite una rete intelligente che colleghi ogni comunità europea. L'Italia può condividere con il Regno Unito il suo surplus di energia solare, il Regno Unito può fare altrettanto con il Portogallo con la sua energia eolica in eccesso, il Portogallo a sua volta può condividere la sua abbondante produzione di energia idroelettrica con la Slovenia, e la Slovenia può condividere le sue abbondanti scorie forestali con la Polonia, che può condividere le sue biomasse agricole con la Norvegia... e così via.

I combustibili fossili e l'energia nucleare sono per loro stessa natura energie d'élite, che rappresentano il vecchio approccio centralizzato dall'alto verso il basso per la gestione delle risorse, così tipico del XIX e del XX secolo. Poiché possono essere reperiti soltanto in alcuni luoghi, il carbone, il petrolio, il gas naturale e l'uranio hanno spesso richiesto ingenti investimenti militari per essere messi in sicurezza e altrettanto ingenti investimenti di capitale per lavorarli e commercializzarli. Le fonti di energia rinnovabile, invece, sono distribuite ovunque sulla Terra.
La Terza Rivoluzione Industriale rende possibile una capillare ridistribuzione del potere, con conseguenze positive e di vasta portata per la società. L'odierna distribuzione centralizzata e dall'alto verso il basso di energia diverrà sempre più obsoleta. Nella nuova èra le aziende, i comuni, i proprietari di casa potranno diventare produttori tanto quanto consumatori della loro stessa energia, la cosiddetta "generazione distribuita". Addirittura, le automobili stesse saranno "stazioni energetiche su ruote". Se soltanto il 25% degli automobilisti usasse il proprio veicolo come impianto elettrico per rivendere energia alla rete principale intergrid , si potrebbero eliminare tutte le centrali elettriche dell'Unione Europea. In futuro, le società elettriche e le aziende di servizio pubblico sempre più diverranno bundler di energia distribuita, aggregando e raccogliendo l'energia rinnovabile generata localmente e regionalmente dalle aziende e dai proprietari di casa, immagazzinando quell'energia sotto forma di idrogeno e altri supporti di immagazzinamento energetico e distribuendo l'energia per mezzo di reti elettriche intelligenti in tutto il continente europeo. L'avvento simultaneo delle tecnologie della comunicazione distribuita e delle energie rinnovabili distribuite tramite un accesso aperto, una rete elettrica intelligente equivale a dire "potere al popolo". La domanda cruciale che ogni nazione deve porsi è dove intende collocarsi da qui a dieci anni: nelle energie e nelle industrie al tramonto della seconda rivoluzione industriale o nelle energie e nelle industrie in via di sviluppo della Terza Rivoluzione Industriale. Sarà proprio questa Terza Rivoluzione Industriale, infatti, la partita conclusiva in grado di traghettare il mondo fuori da un panorama energetico obsoleto che si basa sul carbone e sull'uranio e farlo entrare nel futuro non inquinante e sostenibile dell'umanità.
Alcuni passaggi tratti dall'articolo di Jeremy Rifkin (Traduzione di Anna Bissanti) pubblicato il 1 dicembre 2007 - la Repubblica R2 L'AMBIENTE

mercoledì 26 dicembre 2007

Quel viaggio a Londra... insieme ad un caro amico: Franco Bizzi

"Londra, my love. Una passione nata a scuola" di Franco Bizzi. Tratto da “Imolians”.
La mia passione per Londra inizia dalle scuole medie: ero alle Valsalva, la mia insegnante di inglese si chiamava Aves Dall’Oglio, il nostro libro s’intitolava “Passport to Britain” e riportava in ogni capitolo la descrizione di un quartiere di Londra.Quando mia madre per la prima volta mi portò a visitare questa città avevo 12 anni e volli visitare uno ad uno tutti i luoghi descritti da quel libro.
A 14 anni (1975) tornai a Londra con il mio amico Pierangelo Raffini: era il primo viaggio senza genitori fuori dall’Italia; inutile dire che ci divertimmo un mondo, specialmente visitando i magazzini Harrods e Hamley’s, il più famoso negozio di giocattoli di Londra.
Poi, i casi della vita mi tennero lontano da Londra fino a 8 anni fa, quando decisi di lasciare il mio lavoro alla Benetton per raggiungere Ana Rosa, che ora è mia moglie, a Londra. Ana Rosa, che avevo conosciuto durante la mia permanenza a Tokyo, é originaria di San Sebastian in Spagna e lavora alla Shell da 9 anni. Inizialmente affittammo un appartamentino a Chelsea, poi decidemmo di comperarne uno nella zona di South Kensington. Da casa nostra vediamo tutti i principali monumenti di Londra, da Westminster Abbey alla nuova Gherkin Tower e, naturalmente, l’ormai famoso “Eye of London”, la ruota costruita per celebrare il nuovo millennio.Dopo un paio d’anni come export manager alla Mathmos, azienda inglese nel settore illuminazione, sono passato alla Tisettanta, azienda italiana leader nei mobili di design: sono responsabile della filiale inglese. In questi anni la filiale si è ingrandita, tanto che occupa ora sette persone ed abbiamo aperto un nuovo show-room nel quartiere di Mayfair, a pochi passi dall’Ambasciata italiana.In quanto vicino di casa, l’ambasciatore italiano a Londra, Giancarlo Aragona, ha dimostrato più volte la sua simpatia, invitandomi a ricevimenti pubblici all’Ambasciata: immagino che apprezzi il nostro sforzo per promuovere il "made in Italy" in un mercato importante come quello inglese.Nella vita privata Ana Rosa ed io ci siamo goduti quello che Londra offre quanto a teatri, ristoranti, locali, musei e tante altre cose. Nel 2001 ci siamo sposati in una chiesa vicino a Hyde Park, una giornata memorabile grazie soprattutto alla presenza dei miei familiari e degli amici imolesi. Dopo di che sono arrivati prima Arianna (5 anni) e poi Oliver (2 anni). Arianna va già a scuola, in una scuola cattolica vicino a casa, molto rinomata: é sorprendente notare la composizione della sua classe, dove in realtà gli inglesi sono in minoranza rispetto a francesi, spagnoli e, soprattutto, italiani.A Imola torno sempre volentieri a trovare la mia famiglia e gli amici di sempre e a cercare di godermi quella vita tranquilla che la nostra città offre. Nonostante la mia passione per Londra, ci sono cose a Imola irripetibili qui in Inghilterra, come l’abitudine della colazione o dell’aperitivo nei bar del centro o la possibilità di farsi un giro in mountain bike con gli amici sulle nostre meravigliose colline romagnole.Per finire, colgo l’occasione per ricordare mio padre, Giancarlo Bizzi, recentemente scomparso, un uomo che ha dato tanto alla nostra città, in particolare negli anni in cui sorgeva la nuova sede dell’Associazione commercianti (ora Ascom), ristrutturata quando lui ne era presidente.Tanti saluti da Londra.

Franco Bizzi

martedì 25 dicembre 2007

Poesia d'amore


Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.
Nazim Hikmet - Poesie d'amore

lunedì 24 dicembre 2007

Omaggio a mio Padre


Scrivo per me.

A fine anno voglio cristallizzare i miei pensieri, le mie riflessioni, le valutazioni che spesso faccio con mio Padre. Un tributo, seppur piccolo, che la vita non mi ha dato l’occasione di fargli di persona quando era ancora con me. Non ce ne fu il tempo, purtroppo

Confesso di avere provato una grande emozione il giorno in cui ho ricevuto, in ottobre del 2105, l'incarico di Assessore allo Sviluppo Economico del Comune di Imola. Avrei voluto fosse lì con me... spero che mi abbia visto...

Quando ripenso a lui lo associo sempre a questa frase: “Una vita per il Partito”; si è sempre impegnato fin da giovane, con convinzione, per il Partito Socialista Italiano, era uno che partecipava, che credeva in ciò che faceva. E ne era orgoglioso. In casa mia si “respirava” l’aria del Socialismo, anche mia madre lo era, ma è sempre stata più tiepida, meno coinvolta, anzi a volte si chiedeva se amasse più Lei o il Partito…

Ma anche un uomo che ha dedicato tanto lavoro per il Comune di Imola, per decenni all'Ufficio Anagrafe dove andavo a trovarlo da bambino, poi all'ufficio Scuola e poi a quello dello Sport e tanto impegno anche alla Camera del Lavoro come sindacalista.

Mio Padre. Alfiero Raffini, detto Pompeo o “e mòr ed Castelderì” (il moro di Castel del Rio, comune del Circondario imolese), soprannomi che in Romagna sono normali, come mia nonna Domenica, chiamata Gianina.
Mio Padre dicevo. Una fortissima devozione all’Idea Socialista e una passione per lo sport, l’atletica in particolare, forse perché non aveva mai avuto la possibilità di praticarlo causa la sua “forzata” menomazione.

Il Destino si è accanito su di lui, figlio di lavoratori della terra sotto padrone, molta miseria e il 25 luglio 1944 a Valsalva (BO), nel terreno che cala a destra subito dopo la seconda curva di questa frazione di pochissime anime, mentre lavorava la terra dei Pifferi, con mio nonno Angelo, ecco alcuni caccia americani che in quel periodo cercavano di tagliare le vie di comunicazioni (fossero cavi, ponti, strade) ai tedeschi ancora posizionati a cavallo della “Linea Gotica” sul confine tosco-romagnolo.

Mitragliano e sganciano bombe leggere, come in tutte le guerre non si guarda troppo ai civili. Una esplode a pochi passi da loro, a mio Padre che ha 14 anni viene tranciato di netto il braccio un po’ sopra il gomito e viene inondato di schegge per tutto il corpo. Al nonno Angelo arrivano schegge grosse come ciotoli da fiume e una di queste penetra nella vescica provocando infezione e dissanguamento. Una camionetta tedesca (non ho mai saputo come mai tanta generosità, ma forse c’erano anche soldati tedeschi feriti) li porta all’ospedale a Imola. Con i mezzi di allora c’è poco da fare. Mio padre sopravvive, ma il braccio che comunque hanno raccolto seppur lacerato, non riescono a riattaccarlo. Mio nonno muore nel tragitto.

A 14 anni così rimane senza un braccio e senza il padre. Pensandoci mi sembrava che avesse già dato il suo contributo, ma non era così. Il 25 gennaio del 1989 all'alba, dopo tre anni di sofferenze e un mese dopo il suo pensionamento, un tumore osseo-polmonare ce lo porta definitivamente via.

Quando penso a mio Padre mi coglie sempre una commozione profonda. Perché non ho avuto tempo di conoscerlo a fondo come avrei potuto fare negli anni a venire. Nella malattia mi sono reso conto che c’era tanto ancora da sapere di lui.

Un uomo che avevo sempre visto austero. Mai un complimento, una carezza, un bacio. Qualsiasi cosa chiedessi era sempre un no, continue triangolazioni per i permessi con mia madre. Mai una volta che sia venuto a vedermi, lui che amava così lo sport, in una gara delle numerose discipline che ho praticato a livello agonistico. Tutto “dunpezzo” come lo erano tanti Romagnoli del passato. Mai mostrato un’emozione con me, mai un gesto di felicità.
Un senso del rigore tremendo, della disciplina, dell’etica e del dovere quasi monacali, da combattente, quando ci ripenso.

Il timore che mi incuteva la sua figura, la sua presenza. Anche solo un suo sguardo o una sua frase: “non ti muovere finché non torno”. Ero capace di rimanere fermo in quel posto per ore, finché non interveniva mia madre. Mi ricordò la mamma che un giorno mi sorprese, a 5 anni, che stavo pregando perché mio padre morisse… solo per far comprendere il livello di soggezione che provavo.

Ricordo ancora nitidamente l’unica volta che ho passato un pomeriggio solo con lui al cinema a vedere “Un maggiolino tutto matto”, la mia felicità, il mio orgoglio di averlo accanto, solo io e lui.
Il suo senso del dovere e l’attaccamento agli Ideali. Lui dipendente comunale che aveva iniziato a svolgere un lavoro "extra" di qualche ora nel pomeriggio, per aumentare un poco il reddito dopo aver fatto il mutuo per la casa. Durò poco. Non riusciva a essere tranquillo con quel “doppio lavoro”, non era giusto, non era coerente con le Idee Socialiste, di giustizia, di equità, di trasparenza. Lo lasciò pochi mesi dopo.
Anche nel periodo in cui fece il vice-sindaco di Borgo Tossignano, tutto il reddito percepito in quel ruolo fu dato al Partito Socialista. Credeva in ciò che faceva. Da questo punto di vista sono contento che non abbia visto la dissoluzione del PSI. Ne avrebbe sofferto tremendamente.
Ma mio Padre, insieme a mia Madre, hanno contribuito a infondermi certi principi di giustizia, di libertà, di amore per il dovere, la passione per le cose, del donare senza attendersi nulla in cambio. Con il tempo queste cose sono affiorate sempre di più nella mia personalità, le porto dentro, ne sono felice e li ringrazio sempre per questo.

Quando iniziò la sua malattia fu come se una lama penetrasse lentamente nel mio cuore. Scoprire che mio Padre era anche altro, un uomo con delle emozioni, delle paure e una Amore per me mai professato. Un uomo che piangeva in mia presenza, lui così austero, che voleva vivere, che si rendeva conto che se ne stava andando, ma che voleva “credere” a quanto gli dicevo, mentendo e scherzando sul suo stato di salute.

Ero giovane, ma dovevo sostenere mia madre in forte stato di depressione, mio fratello che era un ragazzino… e lui.
Gli ho dedicato del tempo, tutto quello che ho potuto, ma non è stato abbastanza, avrei voluto averne ancora. Non sono riuscito a conoscerlo totalmente, a fargli domande, avere risposte, confrontarmi con lui, comprendere meglio lui e così anche me stesso.

domenica 23 dicembre 2007

Natale in Romagna

La cultura romagnola affonda le sue radici in un singolare intreccio di ritualità pagana e fede cristiana. Il 25 dicembre, un tempo scelto per festeggiare la Nascita del Sole dopo il solstizio invernale dava l’avvio al ciclo di 12 giorni dedicati a pratiche propiziatorie e divinatorie. Fin dai tempi più remoti infatti si conoscono tradizioni collegate alla rinascita del sole che, dopo essere apparso nei giorni precedenti nel punto del massimo declino, nella sua fase più debole per luce e calore, dal 22 al 24 dicembre sembra fermarsi in cielo (solstitium significa sole fermo) per riprendere subito dopo il suo cammino verso l'alto, ogni giorno di più, fino al solstizio d'estate dove invece si verifica il fenomeno inverso.
A questa festività è legato anche il rito del ceppo natalizio, ceppo che doveva essere preferibilmente di quercia, un legno propiziatorio, e doveva bruciare nelle case appunto per 12 giorni consecutivi, fino a Capodanno e da come bruciava si presagiva come sarebbe stato l'anno futuro. Il ceppo natalizio ai nostri giorni ormai si è trasformato nelle luci e nelle candele che addobbano case, alberi e strade.

Alla vigilia di Natale in Romagna, se non si digiunava, si cenava con il pesce. Solitamente baccalà in umido e arrosto e, per chi viveva nella “bassa” c'era anche l'anguilla. Si cucinava in umido col prezzemolo e sulla brace dove bisognava girarla sempre, e ungerla con l'olio.
Si aspettava la messa giocando a carte e mangiando marö aròst (marroni arrosto), le brustoline oppure i lupini salati (qualcuno ricorda leggermente bagnati con il vino).
Il pane, per quei giorni, era di quello buono. Bianco, profumato e abbondante perché “se mancava a Natale voleva dire che mancava tutto l'anno”. Il Pane è associato sempre al vino Sanzvës e Albêna (Sangiovese e Albana), dalla botte più buona, conservata per la festa chi aveva la possibilità oppure con “più tagli” di acqua perché comunque il vino non poteva mancare in Romagna. E alla vigilia si faceva anche il vin brulè, il Sangiovese condito con zucchero, cannella, chiodi di garofano e scorza di limone. Il paiolo veniva messo a bollire per tempo così si poteva bere dopo la messa, per scaldarsi un po', perché alla funzione si andava a piedi o, per chi l'aveva, con la bicicletta. Magari mettendo una pagina di giornale sotto i vestiti, per proteggersi dall'aria.

Nelle famiglie poi era d’obbligo indossare un indumento nuovo, nella notte o nel giorno del 25 dicembre. Ricordo bene che anche mia madre mi faceva sempre indossare un qualsiasi capo nuovo, anche delle calze, il giorno di Natale e io mantengo questo uso ancora oggi, proprio come rito propiziatorio che come allora era interpretato come il segno del rinnovamento del tempo. L’ingresso del nuovo anno, proiettava l’antica società contadina verso la stagione peggiore, quella più dura e fredda, caratterizzata da scorte alimentare già pesantemente intaccate nel corso dei mesi precedenti ma anche da segnali di ripresa.

Nelle campagne romagnole la “vigilia” era molto sentita, molti adulti affrancati dal lavoro nei campi, digiunavano, mentre ai bambini era concesso mangiare qualcosa, ma senza esagerare. Intanto le “arzdòre” preparavano la tavola. La notte di Natale era una notte magica, di mistero e di fede, non di regali come oggi. Quelli erano destinati al giorno dell’Epifania.
Tutto ruotava attorno alle mura della cucina, era la dimora dello Spirito del Natale, oggi disperso nelle cittadelle dello shopping. Erano quelli momenti in cui odori e sapori si spargevano nell'aria solo in quei giorni, contribuendo a renderli speciali anche per quelli che con la fede proprio non andavan d'accordo. E nella Romagna anarchica, socialista e repubblicana erano in tanti.

Ma da cosa era composto il pranzo di Natale ? Non poteva mancare il brodo di cappone o manzo per i caplétt (i cappelletti) che, come i garganelli nascono rigorosamente in brodo, e poi il cotechino con il purè ed eventualmente quelle verdure lessate, usate per insaporire il brodo. Come dolce l'uva passita “che porta bene” e, dove c’era “abbondanza” anche latte alla portoghese o brulè.
Nelle famiglie più povere se non si potevano fare i cappelletti si rimediava in qualche modo un po' di manzo per fare il brodo per i tajadlìn (tagliatelline di sfoglia sottilissima). I cappelletti solitamente erano realizzati con con ripieno a base di ricotta, formaggio secco grattato, uova e noce moscata. In casa dei “signori” si potevano trovare con lo stesso ripieno cui veniva però aggiunto carne di vitello, maiale (lonza e mortadella) e tacchino rosolato al burro facendoli così assomigliare di più, nel contenuto non nella forma, ai tortellini emiliani.
I passadê (passatelli) di solito, erano riservati per il cenone di Capodanno.

Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna e sulla rivita "Civilità della Tavola" dell' Accademia Italiana della Cucina.

sabato 22 dicembre 2007

Il sapore del Natale nelle campagne della Romagna

«Non avevo nè albero nè presepe, l'unico dono era mangiare bene il giorno di Natale» (Luisa, classe 1909). Il modo migliore per rivivere quei Natali così lontani dal consumismo è quello di chiedere a chi, nei primi del '900 era bambino. «Nostro padre, prima del Natale, andava al mercato e vendeva una gallina del suo pollaio per comperare il baccalà per la Vigilia, dei mandarini e delle arachidi: i nostri regali di Natale da dividere in parti uguali, così non litigavamo». Il cibo, dunque, era il vero regalo. Cibo «esotico» come gli agrumi e la frutta secca.

Nelle campagne romagnole la Vigilia era molto sentita: molti grandi, affrancati dal lavoro nei campi, digiunavano, mentre ai bambini era concesso mangiare qualcosa, ma senza esagerare. Intanto le «arzdòre» preparavano la tavola, mentre nel camino si bruciava il ceppo di legna benedetta dal parroco: un bel pezzo che bruciasse fino a Capodanno. Le donne più anziane lo percuotevano per predire il futuro dalle scintille. Notte magica, di Mistero, di Fede. Era anche la notte per tramandarsi, oralmente, formule magiche e riti propiziatori, in gran segreto: da suocera a nuora, da madre a figlia.

Tutto ruotava attorno alle mura della cucina. Era la dimora dello Spirito del Natale, oggi disperso nelle cittadelle dello shopping. Attorno ai bei fianchi delle donne di allora, al tepore del camino e della famiglia si sono fermati i ricordi più vivi dei bimbi del tempo, che non conoscevano Babbo Natale «Perché una volta veniva solo la Befana e se non eri buono portava davvero il carbone». Odori e sapori che si spargevano nell'aria solo in quei giorni, contribuendo a renderli speciali anche per quelli che con i preti proprio non andavan d'accordo.

Erano tanti, nella Romagna anarchica, socialista e repubblicana. Il brodo di cappone o manzo per i caplétt (i cappelletti), il cotechino con il purè e l'uva passita «che porta bene». E se non c'erano i cappelletti bastava un po' di manzo per fare il brodo per i tajadlìn («tagliatellini» ricavati da una sottile sfoglia). I passadê, di solito, si tenevano per il Capodanno, cotti nel brodo di gallina. Dei cappelletti ce n'erano due versioni: una più «light» con ripieno a base di ricotta, formaggio secco «grattato», uova e noce moscata; ed una da «gran signori» con lo stesso ripieno «rinforzato» da carne di vitello (filetto), maiale (lonza e mortadella) e tacchino rosolato al burro (fonte: «sabato sera» del 26 dicembre 1964).

La vigilia di Natale se non si digiunava si cenava con il pesce: baccalà in umido e arrosto e, per chi viveva nella «Bassa» c'era anche l'anguilla: «La si appendeva al soffitto della cucina per farla asciugare. Metà anguilla si cucinava in umido col prezzemolo, metà sulla brace. Bisognava girarla sempre, e ungerla con l'olio, con una penna d'oca».

Qualcuno aspettava la messa giocando a carte e mangiando marö aròst o le brustoline oppure, ancora, i lupini salati (magari leggermente bagnati con il vino). Il pane, poi, era quello buono. Bianco, profumato e abbondante «Che se mancava a Natale voleva dire che mancava tutto l'anno». Pane e vino: per completare la simbologia della Comunione: Senzvës e Albêna, dalla botte più buona, conservata per la festa. E anche il vin brulè: il buon Sangiovese condito con zucchero, cannella, chiodi di garofano e scorza di limone: «Mettevamo a bollire il paiolo per tempo, così potevamo bere dopo la messa», per scaldarsi un po', perché alla funzione si andava a piedi o, per chi l'aveva, con la bicicletta. Magari mettendo una pagina di giornale sotto i vestiti, per proteggersi dall'aria. Poco elegante, forse, ma tanto era il giorno dopo che si «rinnovava» un capo di vestiario perché, si dice ancora oggi, porta fortuna.

Chi aveva le bestie, quella notte le trattava da regine. Forse in ossequio alla tradizione del presepe inventato da San Francesco, o forse per superstizione: qualcuno diceva che la notte di Natale gli animali parlassero fra loro, e allora era meglio farle mangiare abbondantemente «Così parlavano bene del padrone». Dopo la bella mangiata si tiravano fuori i mazzi di carte e si finiva il vino.


E quando era tempo di andare a dormire, con la pancia almeno per quel giorno piena, nei letti riscaldati dagli scaldini (il prete e la suora) si ricordava così l'arrivo di Gesù ai bambini:

Scólta, Scólta, Rosafiòr
l'è nassù nostar Signòr
l'è nassù in Betelèm
sin fra un bò e un asinèl
senza fassa né fraiòl
da fascè Gesù d'amòr
(Ninna Nanna faentina)

venerdì 21 dicembre 2007

21 dicembre: inizia il Solstizio invernale

La festa ha origini molto antiche. Fin dai tempi più remoti infatti si conoscono tradizioni collegate alla rinascita del sole che, dopo essere apparso nei giorni precedenti nel punto del massimo declino, nella sua fase più debole per luce e calore, dal 22 al 24 dicembre sembra fermarsi in cielo ( solstitiu(m) significa sole fermo) per riprendere subito dopo il suo cammino verso l'alto, ogni giorno di più, fino al solstizio d'estate dove invece si verifica il fenomeno inverso. Yule è una festività solare e cade nel primo giorno d'inverno. Yule è conosciuta anche come la notte del Solstizio Invernale. Questo periodo, caratterizzato dalle feste dedicate al dio sole, veniva già festeggiato dagli antichi Egizi e nell'antica Roma, con i Saturnali.

La celebrazione del solstizio d'inverno si diffuse rapidamente in tutta Europa e nacque così nelle campagne la festività di Yule, legata alla celebrazione del sole e della madre terra che si prepara, riscaldata dai primi raggi, alla futura semina. Con il rito del ceppo di Yule si perpetua ogni anno, oltre alla tradizione di stringersi tutti attorno al fuoco, anche questa antica e ripetuta battaglia.
Da tutto questo e dalle pratiche che seguono, è facile arrivare alla conclusione ed alla comprensione del perchè la chiesa cristiana avesse scelto questo periodo per festeggiare la natività del Cristo e perchè avesse fatto sue anche queste celebrazioni inglobandole gran parte nei suoi festeggiamenti.
Insomma tra il IV° e il V° secolo la Chiesa romana, preoccupata dalla straordinaria diffusione dei culti solari e soprattutto dal mithraismo, che con la sua morale e spiritualità, non dissimile dal cristianesimo, poteva frenare se non arrestare la diffusione del vangelo, pensò di celebrare nello stesso giorno del Natale del Sole (Sole Invictus) il Natale del Cristo, come vero Sole.
Troppo radicata era la festa del solstizio invernale, troppo sentiti i festeggiamenti e le antiche tradizioni legati alla rinascita del dio sole e al risveglio della terra da parte dei popoli, per non sovrapporsi ad esse, con la speranza di sradicarle dalla mente delle genti. Il Cristo viene comunque associato al Sole come simbolo di luce vivificante e quindi entrambe le festività possono fondersi tranquillamente tra loro senza contrasti.
In realtà la data della nascita di Cristo è sconosciuta. Non se ne conosce esattamente l'anno, anche se sulla base di avvenimenti storicamente accertati (censimento indetto dall'imperatore Augusto nel 4 a.c., data della morte di Re Erode che si attesta nel 4 a.c.) si ipotizza che possa essere avvenuta in un lasso di tempo che va dal 4 a.c. al 7 a.c., tanto meno se ne conosce il mese. Neppure i Vangeli lo segnalano con precisione, ma Luca allude a circostanze che fanno pensare ad un periodo diverso da quello invernale (le greggi erano al pascolo intorno alla grotta della natività e questo non poteva avvenire d'inverno, perché i pastori ebrei partivano per i pascoli con la prima luna piena di primavera, tornando in autunno) e comunque solo nel IV° secolo si consolida la tradizione di festeggiare la Natività il 25 dicembre, mentre fino ad allora si era festeggiata in diverse date, il 28 marzo, il 18 aprile o il 29 maggio, più accettabili storicamente, e il 6 gennaio (Epifania significava l'apparizione del Cristo). Il 25 dicembre è dunque una data convenzionale, scelta in ragione di passaggi ciclici stagionali e frutto d'un processo sincretico.
E questa sovrapposizione operata dal Cristianesimo sulle tradizioni popolari preesistenti non riguardò solo il Natale, ma anche altre ricorrenze pagane. Per fare pochi esempi: la festa di San Giorgio ha rimpiazzato l'antichissima festività della "Parilia"; i festeggiamenti di San Giovanni Battista hanno sostituito la festa dell'acqua, che era celebrata a mezz'estate; la festività dell'Assunzione della Vergine ha preso il posto delle celebrazioni di Diana; Samhain è diventata la festa di Ognissanti e via di seguito.
Anche al giorno del riposo settimanale (primo giorno della settimana - festa di stato introdotta da Costantino nel 321) che si chiamava "giorno del sole" (dies solis) fu cambiato il nome in Domenica= giorno del Signore. Ma nei paesi anglosassoni perennemente rimase il nome che Wulfrida l'ariano (creatore della lingua tedesca) aveva introdotto e mutuato dal latino: in inglese infatti rimase Sun-day e in tedesco Son-tag.
E' da queste origini che risale la tradizione del ceppo natalizio, ceppo che doveva essere preferibilmente di quercia, un legno propiziatorio, e doveva bruciare nelle case per 12 giorni consecutivi: da come bruciava si presagiva come sarebbe stato l'anno futuro. Il ceppo natalizio ai nostri giorni si è trasformato nelle luci e nelle candele che addobbano case, alberi e strade. Il Solstizio d'Inverno è il passaggio dalle Tenebre alla Luce, è da questo giorno che il sole resta progressivamente sempre più a lungo nel cielo allungando così le nostre giornate. Le porte Sostiziali sono controllate dai due Giovanni; il Battista al solstizio estivo e l'Evangelista a quello invernale. Il solstizio stesso è chiamato "la porta", un tempo custodita dal guardiano Giano Bifronte (con l'avvento del cristianesimo il romano Giano dai due volti ha ceduto il posto ai due Giovanni) che sono il simbolo di una contemporanea esistenza di due dimensioni, che durante i solstizi si congiungono e le porte sono aperte ed è permesso il varco. Nelle tradizioni e ritualità della festa del Sole troviamo anche molte altre cose in comune con il cristianesimo che certamente quest'ultimo mutuò dalle prime. Vi sono riti e feste, sussistenti ormai solo per consuetudine nel mondo moderno, che si possono paragonare a quei grandi massi che il movimento delle morene di antichi ghiacciai ha trasportato dalla vastità del mondo delle vette giù, fin verso le pianure. Tali sono, ad esempio, le ricorrenze che come Natale ed anno nuovo rivestono oggi prevalentemente il carattere di una festa familiare borghese, mentre esse sono ritrovabili già nella preistoria e in molti popoli con un ben diverso sfondo, compenetrate da un significato cosmico e universale. Di solito, passa inosservato il fatto che la data del Natale non è convenzionale e dovuto solo ad una particolare tradizione religiosa, ma è determinata da una situazione astronomica precisa: è la data del solstizio d’inverno. E proprio il significato che nelle origini ebbe questo solstizio andò a definire, attraverso un adeguato simbolismo, la festa corrispondente. Si tratta, tuttavia, di un significato che ebbe forte rilievo soprattutto in quei progenitori delle razze indoeuropee, la cui patria originaria si trovava nelle regioni settentrionali e nei quali, in ogni caso, non si era cancellato il ricordo delle ultime fasi del periodo glaciale. In una natura minacciata del gelo eterno l’esperienza del corso della luce del sole nell’anno doveva avere un’importanza particolare, e proprio il punto del solstizio d’inverno rivestiva un significato drammatico che lo distinguerà da tutti gli altri punti del corso annuale del sole. Infatti, nel solstizio d’inverno, il sole, essendo giunto nel suo punto più basso dell’eclittica, la luce sembra spegnersi, abbandonare le terre, scendere nell’abisso, mentre ecco che invece essa di nuovo si riprende, si rialza e risplende, quasi come in una rinascita. Un tale punto valse, perciò, nei primordi, come quello della nascita o della rinascita di una divinità solare. Nel simbolismo primordiale il segno del sole come “Vita”, “Luce delle Terre”, è anche il segno dell’Uomo. E come nel suo corso annuale il sol e muore e rinasce, così anche l’Uomo ha il suo “anno”, muore e risorge. Questo stesso significato fu suggerito, nelle origini, dal solstizio d’inverno, a conferirgli il carattere di un “mistero”. In esso la forza solare discende nella “Terra”, nelle “Acque”, nel “Monte” (ciò in cui, nel punto più basso del suo corso, il sole sembra immergersi), per ritrovare nuova vita. Nel suo rialzarsi, il suo segno si confonde con quello de “l’Albero” che sorge (“l’Albero della Vita” la cui radice è nell’abisso), sia “dell’Uomo cosmico” con le “braccia alzate”, simbolo di resurrezione. Con ciò prende anche inizio un nuovo ciclo, “l’anno nuovo”, la “nuova luce”. Per questo, la data in questione sembra aver coinciso anche con quella dell’inizio dell’anno nuovo (del capodanno).

È da notare che anche Roma antica conobbe un “natale solare”: proprio nella stessa data, ripresa successivamente dal cristianesimo, del 24-25 dicembre essa celebrò il Natalis Invicti, o Natalis Solis Invicti (natale del Sole invincibile). In ciò si fece valere l’influenza dell’antica tradizione iranica, da tramite avendo fatto il mithracismo, la religione cara ai legionari romani, che per un certo periodo si disputò col cristianesimo il dominio spirituale dell’Occidente. E qui si hanno interessanti implicazioni, estendendosi fino ad una concezione mistica della vittoria e dell’imperium. Come invincibile vale il sole, per il suo ricorrente trionfare sulle tenebre. E tale invincibilità, nell’antico Iran, fu trasferita ad una forza dall’alto, al cosiddetto “hvareno”. Proprio al sole e ad altre entità celesti, questo “hvareno” scenderebbe sui sovrani e sui capi, rendendoli parimenti invincibili e facendo si che i loro soggetti in essi vedessero uomini che erano più che semplici mortali. Ed anche questa particolare concezione prese piede nella Roma imperiale, tanto che sulle sue monete, spesso ci si riferisce al “sole invincibile”, e che gli attributi della forza mistica di vittoria sopra accennata si confusero non di rado con quelli dell’Imperatore.
Tornando al “natale solare” delle origini, si potrebbero rilevare particolari corrispondenze in ciò che ne è sopravvissuto come vestigia, nelle consuetudini della festa moderna. Fra l’altro un’eco offuscata è lo stesso uso popolare di accendere sul tradizionale albero delle luci nella notte di Natale. L’albero, come abbiamo visto, valeva infatti come un simbolo della resurrezione della Luce, di là della minaccia delle notte. Anche i doni che il Natale porta ai bambini costituiscono un’eco remota, un residuo morenico: l’idea primordiale era il dono di luce e di vita che il Sole nuovo, Il “Figlio”, dà agli uomini. Dono da intendersi sia in senso materiale che in senso spirituale.

domenica 16 dicembre 2007

A modo mio: Omaggio a Raul Gardini

Al genio della mia città, che alita di Occidente nelle campagne e dalle cupole dei pini, mentre risuona d'Oriente sulla battigia per poi svanire negli occhi dei mosaici e riapparire in quelli tenaci della gente.
Ravenna, 13 settembre 1991
... Le sfide le ho sempre fatte con me stesso. Non sono uno sbandieratore. Sono un convinto assertore delle mie opinioni, ma non mi sono mai accalorato per dire che avevo fatto questo o quello, mi sono sempre accalorato per dire che avrei fatto la tal cosa. Quello che ho già raggiunto, tutto sommato, lo considero un atto dovuto verso me stesso. Questo è uno dei motivi per cui mi siedo volentieri con la gente e la gente si siede volentieri con me, senza tante presentazioni e cerimonie...
... Sto molto attento a non commettere errori di percorso madornali. Soprattutto, non mi precludo mai la strada del ritorno. Cerco sempre di avere lo scenario del possibile, ma anche quello dell'impossibile. Non mi taglio i ponti alle spalle...
... Nella vita è importante non prendersi mai troppo sul serio. Le cose vanno prese sul serio, ma se stessi no, perché finisce che si diventa pomposi...
... Personalmente sono dell'idea che la vita debba essere vissuta fino in fondo e non per finta. Anche se talvolta c'è da farsi venire il mal di stomaco...
Frasi tratte dal libro intervista "A modo mio" a cura di Cesare Peruzzi, Arnoldo Mondadori Editore, Ottobre 1991

giovedì 13 dicembre 2007

Un fagotto con il torrone alle ragazze per Santa Lucia

"Il quattro Santa Barbara beata, il sei San Nicolò che vien per via, il sette Sant'Ambrogio di Milano, e l'otto Concezion Santa Maria; il dodici convien che digiuniamo, il tredici ne vien Santa Lucia, il ventun San Tomè la Chiesa canta, il venticinque abbiam la Festa Santa" (Carloni - 1946).
In questa filastrocca vengono elencati i Santi e le ricorrenze che si festeggiano dal 4 dicembre a Natale.Di queste giornate la più popolare è quella del 13 dicembre, Santa Lucia (appunto "e piò curt ch'u si sia" ), ma anche le altre erano importanti per il mondo agricolo di tanti anni or sono per i "segni" che presagivano il futuro dal punto di vista meteorologico ed economico.
Il culto di questa Santa è particolarmente vivo in Romagna soprattutto a Forlì (probabilmente ancora oggi la Fiera più ricca), già se ne trovano le tracce attorno all`anno mille anche se cominciò a diffondersi in modo profondo e ampio, solo nel sedicesimo secolo.
Secondo la tradizione, ancora in uso fino all’inizio della seconda guerra mondiale, i ragazzi regalavano alle belle ragazza un fagotto con un po’ di torrone. Da qui anche l’importanza che riveste il “Re” torrone (assolutamente artigianale.

Ma tutta la Romagna è percorsa da questa festa che porta il nome di Lucia che, secondo le fonti agiografiche era una fanciulla di Siracusa che venne martirizzata nel 304 sotto Diocleziano, a causa della sua professione di fede cristiana. La letteratura evangelica vuole che la giovane, per scansare le insistenti proposte di un nobile, si fosse estirpata gli occhi e glieli avesse inviati in dono come segno di integrità e rifiuto. Questo il motivo principale per cui la Santa è protettrice della vista, ma oltre al detto più godereccio solitamente pronunciato in dialetto “Se Santa Lucia ti mantiene la vista, la fame non ti manca”, forse non tutti sanno che a Santa Lucia è anche legato il tema della luce più in generale. Non dimentichiamo che, nella tradizione rurale e prima della riforma del calendario attuata da Papa Gregorio XIII (1582), il solstizio d’inverno cadeva il 13 dicembre, per cui questo era il giorno più breve dell’anno. Per i contadini apriva la stagione del riposo. È per questo che Santa Lucia veniva salutata con feste solenni. Secondo le credenze popolari, la notte che prepara il 13 dicembre è notte di prodigi, di streghe e di fate. E di previsioni meteorologiche per i successivi mesi dell'anno. Una festa quindi che aveva profondissime radici nella tradizione romana prima e celtica successivamente, così radicate nel popolo, come altre, per cui la Chiesa fu costretta ad “adattare” date importanti del suo calendario per “coprire” definitivamente questi riti ancestrali.
Oggi rimangono soprattutto le Fiere che, come nel passato, in questo giorno sono organizzate nei principali paesi della Romagna. Allora rappresentavano veri e propri momenti di festa e d’incontro in un mondo molto diverso da ora, dove vedersi (e rivedersi) non era frequente e parecchie persone si accollavano viaggi anche di ore a piedi dalle campagne o dalle zone appenniniche per raggiungere il paese e partecipare ad rito che significava, in fondo, appartenenza a tradizioni e ad un sentire comune.
Fiere che legavano la ritualità della festa religiosa al commercio. Dai primi del 1800 le piazze cittadine si animano di mercanti, di compagnie teatrali girovaghe, saltimbanchi giocolieri, burattinai, cantastorie, poeti estemporanei, venditori di loverie e giochi.
Tante volte c’era già la neve, a differenza di oggi, ma il centro si riempiva di vita. Una singolare usanza era quella delle contrattazioni che terminavano con una stretta di mano tra compratore, venditore e mediatore e con una “colazione” in osteria a base di trippa, piada e Sangiovese. Le osterie erano a quei tempi numerose (individuate anche per mestieri e status) e le persone, avendo camminato per ore prima di raggiungere il paese, occupavano i grandi tavoli sia per consumare i “mangiari” (come si diceva un tempo) dell’osteria o solo per accompagnare con il vino (sempre “nero” naturalmente) il cibo che si erano portati da casa (l’osteria vera infatti nasce in primis per la mescita del vino).
Ma quali erano i “mangiari” di questo giorno? Nelle osterie si trovavano zuppe a base di verdura, ceci o fagioli, la piadina fritta o cotta nello strutto con la pancetta cotta nelle grandi graticole poste sugli enormi camini che si trovavano all’interno. I formaggi erano ricotta o reviggiolo e il maiale la faceva da padrone con la gota (un salume particolare ottenuto con la guancia del maiale), i ciccioli, il cotechino, la salciccia matta, le costole, la coppa ed altro ancora.
Non per niente inizia in questo periodo "la Masadura porc", la preparazione di carni di maiale.
I dolci proposti erano il castagnaccio, il sanguinaccio (che anche io ho sempre trovato buonissimo anche se oggi quando parli di questo dolce fatto con sangue di maiale molti inorridiscono), le caldarroste e naturalmente… il buonissimo torrone artigianale.

Era questa una giornata di festa, di incontri, di affari, di qualche spesa e, per buona parte della popolazione della nostra terra, uno dei rari momenti in cui si cercava di non pensare alle difficoltà che la vita imponeva loro.

Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato sul Sabato Sera Bassa Romagna del 8 dicembre 2007 e su Civiltà dell Tavola (Accademia Italiana della Cucina) del dicembre 2008

mercoledì 12 dicembre 2007

Il ricatto delle corporazioni

Siamo un paese sotto ricatto delle corporazioni. Camionisti, farmacisti, tassisti, uomini-radar, notai ed altre associazioni "corporative" o elitarie che intervengono sulla "catena del valore" nella società o nella produzione, non ha esitazioni ad applicare forme di protesta anche estreme.
Il valore o meno delle richieste che vengono presentate dalla corporazione di turno si infrangono davanti alle enormi difficoltà che provocano al resto della comunità, che siano una città o un paese intero. Le "minoranze strategiche" (come le definisce giustamente Edmondo Berselli su Repubblica) sono in grado di far "grippare" ogni attività e di ogni infrastruttura.
In assenza di risposte ferme da parte delle Istituzioni, le corporazioni sanno che qualche forma di risultato la possono portare a casa, purtroppo a volte spalleggiati dalla forza politica di turno che si erge a protettrice (elettorale).
Ritengo che un paese che vuole svecchiarsi, modernizzarsi, che si colloca tra i primi 6 dei paesi industriali nel mondo, non può tollerare e permettersi queste cose. E quando mi viene citata la Francia come esempio di dura applicazione della protesta rispondo che è vero, ma è anche vero che sono casi assolutamente eccezionali e dove lo Stato comunque non tollera gli abusi. In nessun paese evoluto si accade di essere continuamente bersagliati da queste forme di protesta e/o di sciopero.
Intervenire con risolutezza è difficile, me ne rendo conto, perchè si vanno a toccare serbatoi elettorali diretti o conseguenti alle proteste, ma penso fermamente che il cittadino, la maggior parte dei cittadini plaudirebbe ad una presa di posizione ferma e ad una convinta attività risolutoria su quelle categorie che ritengono di poter imporre il proprio volere fregandosene del fatto che viviamo in Europa e tutto sta cambiando.

martedì 11 dicembre 2007

La società italiana nell'ultimo rapporto del Censis

"Una mucillagine di massa delusa da politica e istituzioni"
Un rapporto desolante e preoccupante quello esposto dal Censis sulla società italiana, nell'ultimo rapporto 2007 che descrive "...una realtà che diventa ogni giorno una poltiglia di massa; impastata di pulsioni, emozioni, esperienze e, di conseguenza, particolarmente indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa; che inclina pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio, creato e supportato da un intelletto anonimo, di nessuno, tanto che non se ne possono neppure decifrare le responsabilità; che in modo più o meno cosciente inverte i processi-simbolo che ci hanno reso orientati allo sviluppo e spegne quindi il “vitale”, quasi fosse un resto arcaico in una società che non accetta più tensioni e diversità di destino sociale..."
E ancora "...Al termine poltiglia di massa si può (con eleganza minore) sostituire il termine più impressivo di "mucillagine", quasi un insieme inconcludente di "elementi individuali e di ritagli personali" tenuti insieme da un sociale di bassa lega, e senza alcuna funzione di coesione da parte delle istituzioni. E’ noto che la frammentazione progressiva di tutte le forme di coesione e appartenenza collettiva ha creato una molecolarità che è stata una forza di sviluppo economico e imprenditoriale. Ma noi stessi che di quella molecolarità siamo stati cantori abbiamo potuto e dovuto constatare che essa sta creando dei "coriandoli", i quali stanno insieme (meglio sarebbe dire "accanto") per pura inerzia, per appagato imborghesimento, per paura di non tornare indietro, magari mitridatizzata da una sempre più generalizzata volgarità plebea.
La caratteristica fondamentale dei “ritagli umani” senza identità è la dispersione del sé, nello spazio e nel tempo collettivo. Nello spazio, per la vittoria irresistibile dalla soggettività esasperante in ogni comportamento, senza attenzione al momento della relazione e della convivenza. Nel tempo, per il declino irresistibile dell’attenzione su un tema, un problema, un fenomeno (Carlo Emilio Gadda riteneva dispersiva un’attenzione radiofonica di 12 minuti, cosa direbbe oggi che siamo scesi forse intorno ai due?). Con i ritagli non si costruisce un tessuto sociale: così abbiamo, sul piano individuale, bolle di aspirazioni senza scopo e senza mordente e, sul piano sociale, deboli connessioni, smorte forme di aggregazione e inanimati simulacri dei processi di coesione che furono.

In questa situazione strutturale non può sorprendere quella sensazione di continua inclinazione al peggio che attraversa quotidianamente l’opinione degli italiani, indotta e supportata anche da contenuti e toni della comunicazione di massa.
Dovunque si giri il guardo - sembra pensare l’italiano medio – facciamo esperienza e conoscenza del peggio: nella politica come nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità urbana come in quella organizzata, nella dipendenza da droga e alcool come nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie come nello smaltimento dei rifiuti, nella ronda dei veti che bloccano lo sviluppo infrastrutturale come nella bassa qualità dei programmi televisivi. E’ abituale allora ricavarne che viviamo una disarmante esperienza del peggio. Settore per settore "nulla ci è risparmiato", tant’è che vincono sull’antropologia collettiva i fattori regressivi, anche se non avvertiti in modo sempre cosciente:
- vince una diffusa povertà psicologica, perché la dispersione del sé rende labile l’approccio individuale a ogni fenomeno sociale e a ogni relazione interpersonale;
- vincono quindi le pulsioni in genere frammentanti e non le passioni, tendenzialmente unificanti; e tanto meno, vincono gli atteggiamenti razionali, come è possibile constatare guardando in controluce le vicende meno esaltanti degli ultimi tempi;
- se vincono le pulsioni, tracima senza argine la rincorsa alle presenze, quasi a far coincidere la pulsione, anche la più stralunata, di presenza con l’unica esistenza desiderabile;
- la coazione alla presenza porta a quel primato dell’emozione esternata dell’esperienza che diventa piece mediatica, dell’insistenza febbrile, della riproposizione anche drammatizzata che, sotto sotto, produce sciupìo, in un masochismo ansiogeno. Così al rito della vuota presenza consuma le radici stesse dell’esistenza;
- l’incessante attività comunicativa, giuocata sulla comune strategia di rispecchiare emozioni e drammatizzazioni del proprio pubblico, induce a una monotonia dei messaggi e del linguaggio e restringe la pluralità dei codici comunicativi. Il mondo diventa null’altro che la sua rappresentazione: ci si adatta a vivere in un nirvana virtuale ma fragoroso (forse per dimenticare noia e sonnolenza)...".
Il Censis indica anche chi è in grado di rilanciare l'Italia: "... Se vale lo schema, le offerte innovative devono supportare l’avventura personale e promuovere l’ampliamento degli scambi relazionali. E’ un’offerta, va sottolineato subito, che può venire solo dalle nuove minoranze attive:
- la minoranza che fa ricerca scientifica e innovazione tecnica è orientata all’avventura dell’uomo e alla sua potenzialità biologica;
- la minoranza che, nella scia della minoranza industriale oggi rampante, fa avventura personale e sviluppo delle relazioni internazionali (si pensi ai giovani che studiano o lavorano all’estero, ai professionisti orientati ad esplorare nuovi mercati, agli operatori turistici di ogni tipo, ecc.);
- la minoranza che ha compiuto un’opzione comunitaria, cioè ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita;
- la minoranza che vive il rapporto con l’immigrazione come un rapporto capace di evolvere in termini di integrazione e coesione sociale;
- la minoranza che si ostina a credere in una esperienza religiosa insieme attenta alla persona e alla complessità dello sviluppo ai vari livelli;
- e le tante minoranze che hanno scelto l’appartenenza a strutture collettive (gruppi, movimenti, associazioni, sindacati, ecc.) come forma di nuova coesione sociale e di ricerca di senso della vita.

Sembra, e forse lo è, un’indicazione segnata da una logica minimalista, lontana dalla nobile consistenza degli obiettivi di sistema che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Ma è bene ricordare che oggi abbiamo il problema di innescare processi di lenta ma profonda evoluzione: solo le minoranze possono trovare la base solida da cui partire, possono fare innesco di nuovi processi sociali sfuggendo alla tentazione del breve termine e quella di diventare la maggioranza che fa e governa il sistema.
Del resto, nel giuoco di chi offre cosa, le offerte minoritarie sopra elencate hanno un’incisività di gran lunga superiore a quelle correnti nel dibattito politico attuale, dove ci si rinfaccia difetti senza sentire l’obbligo d’offerta alternativa o siamo a offerte senza mordente, inerti nella dinamica dell’opinione pubblica. Chi crede oggi, sic et simpliciter, nel rilancio dell’azione per il Mezzogiorno, nel rafforzamento delle funzioni e dei poteri europei, nelle battaglie per una più o meno rivoluzionaria giustizia sociale, eccetera? Bisogna andare al resistente, magari piccolo, fondo di rifiuto dell’inclinazione al peggio, da cui può iniziare un faticoso percorso di nuova costruzione, dove la persona e gli scambi relazionali hanno peso strategico. Occorrono altre minoranze capaci di incidere sulla consuetudine regressiva. La minoranza industriale oggi più dinamica e vitale non ce la fa a trainare tutti, visto che è comunque concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono, fra l’altro, scatenare effetto imitativo in un mercato non ricchissimo come il nostro. E la pur indubbia ripresa rischia di essere malata, se non innesca comportamenti più diffusi di avventura personale e di scambio relazionale; e se non si immette fiducia nel futuro, in un’ulteriore fase del nostro sviluppo. Solo le varie minoranze indicate possono sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno.
Ma quelle energie avranno pur bisogno di un "collettore collettivo" e di una riconcentrazione di alleanze. La risposta più abituale guarda all’azione politica e alla sua tradizionale funzione di mobilitazione sociale. Ma il suo stato non lascia molte speranze: vecchi e nuovi potenziali schieramenti non hanno forza di mordente unitario; la verticalizzazione della leadership ha dimostrato che non crea soluzioni inadeguate; la classe dirigente scossa, dall’attuale ventata di antipolitica, dimostra una esagerata coesione alla presenza, specialmente mediatica. Non può venire da lì il ruolo di collettore di energie e di riconcentrazione di alleanze sociopolitiche.
Anche perché, con più oggettività, la politica è fatta di "opinione larga" (le piazze, anche quelle mediatiche, sono le arene obbligate) mentre oggi il rilancio dell’offerta passa per una "coscienza stretta", cioè di culture capaci di incidere sulla inerzia maggioritaria che appiattisce al peggio e di sviluppare codici semiotici anche un po’ faziosi, se necessario, ma mirati a perseguire obiettivi precisi, volutamente non rivolti al consenso della "opinione larga".
Di cosa è pieno lo spazio e la durata? A questa domanda, che impegna tutti coloro che interpretano la deriva della nostra evoluzione storica, si può rispondere (ancora e sempre) che lo spazio e la durata "sono pieni del possibile", solo che si cominci semplicemente a pensare. Non rimuginando l’esistente impigriti nel presente, ma immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi; e confrontandosi con i processi che oggi fanno relazione collettiva e sviluppo storico. Sfida faticosa, che le citate diverse minoranze dovranno verosimilmente gestire da sole. Ma sfida desiderabile, per continuare a crescere forse anche con un po’ di divertimento; sfida realistica, perché non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di mettersi nel solco di modernità che pervade tutti i paesi avanzati (e che considerano oggi moderni i processi che noi consideriamo regressivi, dal mix etnico alla patrimonializzazione, dal calo demografico all’appiattimento del ceto medio); ma specialmente sfide necessarie, assolutamente necessarie per allontanare da noi un’inclinazione al peggio che oggi ci fa rasentare l’ignominia intellettuale e un insanabile noia."
Concluderei con "Muoviamoci..."

sabato 8 dicembre 2007

Il Silenzio

Interpreto il silenzio in una duplice veste, da una parte lo trovo necessario perchè mi aiuta a capire, ad approfondire, mi guida, da una "forma" adeguata a ciò che sento e vedo, dall'altra ho sempre avvertito il desiderio vitale di "creare" il silenzio, di pesare le parole in modo che ciò che emerge e ciò che rimane sia ben compreso.
La comunicazione intesa non come atto istintivo, ma come azione mirata, pensata e soppesata a lungo. Penso che se non si possiede la dimensione del silenzio, manchi la dimensione della profondità, che ci siano difficoltà a rimanere ben saldi in piedi, quasi che vengano a mancarti le radici. Se non dò profondità a me stesso non la dò nemmeno alle mie azioni. Tutto mi pare diventi più superficiale.
Il silenzio alla fine rende la parola più bella, più viva, penetrante, veramente in grado di comunicare .
Quindi adoro il silenzio perchè mi permette di comprendere, di assaporare, di gustare, di trovare le parole più giuste per far prendere forma alle mie riflessioni, alle mie emozioni, ai miei sentimenti, alle mie idee.
E poi... c'è molto più spazio per gli altri quando si tace.

giovedì 6 dicembre 2007

Il Denaro

La dottrina sociale della chiesa cattolica ha sempre sostenuto che l'equa distribuzione dei beni è prioritaria, ma che il profitto nella giusta misura è legittimo e necessario.

Il denaro non è disonesto in se stesso, ma più di ogni altra cosa può chiudere l'uomo in un cieco egoismo.

Benedetto XVI

mercoledì 5 dicembre 2007

La Libertà individuale

La vera libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica ed indipendenza. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature.

F.D. Roosvelt

sabato 1 dicembre 2007

La Betancourt è viva

2017 giorni !
Tanti sono i giorni passati da l'ex candidata presidenziale franco-colombiana (rapita nel 2002) nelle mani dei guerriglieri delle FARC. Nel video ritrovato in mano a 3 guerriglieri appare molto provata, ma viva !
La Bentacourt è una donna che seguivo nel suo iter politico e che ho sempre ammirato per la passione profusa per i suoi ideali e per la volontà di fare qualcosa per il suo paese, afflitto da corruzione, mancanza di vera libertà e da una "guerra di guerriglia" mascherata da ideali di libertà, ma che viene mantenuta e alimentata sempre (purtroppo) dal "solito" profittevole mercato del narco-traffico.
Madre di 2 bambini, 12 anni fa Ingrid Betancourt mise da parte la sua vita tranquilla di madre espatriata per ritornare nel suo paese e lottare. Il suo paese, la Colombia, era sul limite del crollo, prosciugata da anni di guerra civile. Oppressa dai guerriglieri marxisti, i paramilitari, i cartelli della droga e i politici corrotti, poche persone osano alzarsi ed offrire un’altra visione alla popolazione colombiana. Ingrid Betancourt lo fece ! Condannò la corruzione, la violenza, lottò per le aree economiche disagiate e per la povertà. Lavorò per il Ministero della Finanza cercando di cambiare le cose dall'interno, ma non ottenendo risultati, decise di presentarsi come candidata. Fu prima eletta alla Casa dei Rappresentanti nel 1994 poi al Senato nel 1998. Successivamente creò il partito "Ossigeno" e decise di correre per la Presidenza nelle elezioni di maggio 2002 . Ma il 23 Febbraio sulla strada per San Vincente, Ingrid e Clara Rojas, che dirigeva la sua campagna, furono rapite dalle FARC (Le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia).
Ingrid e la sua campagna contro la corruzione sono l'incubo di quelli che stanno rovinando la Colombia alle spalle dei colombiani. Il sequestro di persona è un'industria in Colombia. Oggi Ingrid non potrebbe essere viva, se non fosse per la sua fama fuori dal suo paese. 3.000 persone sono tenute attualmente in ostaggio in Colombia, fra le quali molti parlamentari.
Questa donna coraggiosa e determinata, che ha sacrificato tutto ciò che aveva per il suo paese, merita la nostra attenzione, come le migliaia di persone attualmente sequestrate.

In crisi l’economia del falso e dell’apparire ora si cerca l’autenticità

DI GIAMPAOLO FABRIS


C’è un trend nei consumi che sta imprevedibilmente sviluppandosi: la richiesta di autenticità. Imprevedibilmente, perché in una società che si avvia alla post modernità, dove la finzione, la simulazione, la iperrealtà (la simulazione che diviene più attraente e credibile della realtà stessa) l’autenticità pareva davvero estranea. Ma nella post modernità dove il superamento del principio di non contraddizione, il sincretismo, l’ossimoro rappresentano le cifre più significative dovremo abituarci a vedere coesistere, anche nello stesso soggetto, comportamenti, atteggiamenti, valori che eravamo adusi a considerare contraddittori.E’ probabile che un malinteso passaggio all’economia delle esperienze, dopo quella dei bisogni e dei desideri, sia stato il detonatore nel far esplodere questo bisogno di autenticità. Esperienze sempre più spettacolari o di puro entertainment a riflettere ed enfatizzare caratteristiche ed identità dei beni. Che relegano il consumatore ad un anacronistico ruolo di passività.Autenticità che riveste molte possibili declinazioni. Anzitutto come disinteresse, rifiuto per le falsificazioni, per prodotti clonati o taroccati. Le stesse merci che, in un tempo vicino, parevano attrattive perché mantenevano le sembianze del vero ad un prezzo incredibilmente ridotto ed erano oggetto di gratificanti contrattazioni, divengono inaccettabili presenze. Adatte semmai ai più giovani, per la loro dimensione ludica, o rivolte a segmenti di popolazione che hanno anche optato per la falsificazione della propria identità come regola di vita. Una presa di distanza che non discende tanto da considerazioni legate alla qualità, alla illegalità ma che assume, soprattutto, una dimensione etica : il desiderio di essere veramente se stessi. Di potersi esprimere, anche nei consumi, privilegiando scelte di marche e prodotti coerenti con i valori di autenticità a cui soggettivamente si cerca di ispirarsi.E’ un passaggio epocale: da una società di status symbol a scelte di prodotto che siano veritieri segnali della propria identità. Ma anche transizione dalla società della massificazione, della omologazione, della accettazione degli standard medi – la testa, nella metafora di Anderson nella Lunga Coda – ad una dove si può, forse si deve, essere davvero se stessi. 

La richiesta di autenticità va divenendo un driver importante nel mondo delle merci: rifiutate quelle identificabili come false e considerate più seduttive quelle percepite come più autentiche. False sono le merci che hanno perso contatto con la loro matrice originaria, con i valori d’uso; false le produzioni dove la naturalità è inquinata dall’artificiale; false le marche che si distaccano dalla loro heritage culturale per sfruttare lo spazio che ormai occupano nell’immaginario semiotico. La strada verso la ipersignificazione, la pervasività e la ubiquità, l’overpromising che molte marche stanno perseguendo stride con la nuova richiesta di trasparenza, integrità, semplicità, purezza. La stessa valorizzazione dell’apparenza, del look, non entra in conflitto, questa volta, con la richiesta di autenticità. Apparenza quindi che non contrasti con i contenuti, che non sia deputata a far apparire un oggetto, o una persona, diversa da ciò che è. Autenticità è anche rispetto e richiesta di coerenza con il genius loci: produzioni autoctone, tipiche che riflettano le caratteristiche del territorio di cui sono espressione.Non vi è fondamentalismo in questa richiesta: l’individuo consumatore è consapevole di dover indossare più maschere nella vita di relazione e di essere talvolta costretto a scelte che non riflettono la sua più autentica personalità. Ma la costruzione e l’interpretazione delle maschere non può costituire la meta della propria vita. Quando le luci del grande palcoscenico sociale si attenuano dietro le maschere non c’è il vuoto ma emerge quella parte del sé che si va costruendo consapevolmente. La cui ricerca va divenendo, smentendo le previsioni di una società condannata alla spersonalizzazione, una meta esistenziale di grande portata.