Immaginate di avere fame, di non avere un quattrino e di non poter chiedere un prestito. Immaginate, in altre parole, di essere in una città sconosciuta a caccia di cibo. All'elemosina c'è un'alternativa più dignitosa, mostruosamente ovvia, sorprendentemente rivoluzionaria: andare al supermercato.
O meglio, andate nel retro del negozio a scoprire, fra i cassonetti dell'immondizia, i tesori di una silenziosa tragedia quotidiana. Tonnellate di prodotti alimentari assolutamente commestibili sono gettate via, ogni sera, in tutto il mondo occidentale. Nel pomeriggio di un giorno qualsiasi in uno dei tanti Waitrose - catena up market britannica - nella campagna del Sussex, non troppo lontano da Brighton, abbiamo fatto la spesa fra i rifiuti per almeno 100 euro mettendo in fila: tre confezioni di formaggio cheddar organico grattugiato, un ananas, fette di tacchino bio, una confezione di panna, quattro pizze, due sandwich con humus, un pacco di pan carrè, due chili di carote, due di zucchine, uno di cavolfiori, mezzo chilo di salsicce, verdure tagliate e confezionate, un pollo satay, mezzo chilo di carne trita, un salamino italiano e due mazzi di gladioli non ancora fioriti. Tutto perfettamente confezionato, scaduto da 24 ore oppure in scadenza quel giorno stesso o nei mesi a venire. Tutto commestibile, eccezion fatta per la carne trita di inquietante pallore. L'ananas era perfetto, gusto intenso, sapore allappante. Provato per credere.
«Non è andata molto bene. Questa è una spesa mediocre. Da Spitafield, a Londra, sono tornato a casa con 25 cesti di mango delizioso. Il cassonetto aiuta la maturazione». Tristram Stuart, 32 anni, una laurea a Cambridge, militante Freegan, ovvero divoratore di quanto è gettato via, per scelta ecologista e non politico-ideologica, si concede a farmi da guida nel mondo della spazzatura. Setacciamo insieme il pattume sotto gli occhi del tutto disinteressati dei passanti, che vanno a comperare quello che domani Tristram raccoglierà gratis.
Affonda fino ai gomiti, si fa largo, scava e, reperto alla mano, commenta. «Prendiamo questo salame italiano. È stato distrutto un pezzo di foresta amazzonica per far crescere la soya, importata in Europa e usata per sfamare i maiali, poi macellati, lavorati, insaccati, messi in vendita. E buttati via». Tristram ama le immagini forti e, sicuramente, le esemplificazioni, ma siede su un vulcano di dati complessi e di grande impatto messi in ordine in anni di lavoro per dare a una sensazione diffusa - quella dello spreco alimentare - la certezza dello scandalo planetario.
Da un terzo a metà del cibo dell'Occidente, sostiene, è gettato via nella lunga filiera che muove dalla produzione per finire nelle dispense dei consumatori. Che le arance in Sicilia e i pomodori in Spagna siano sempre distrutti è noto; che le patate deformi o le mele nane siano spesso eliminate è fatto quasi risaputo; che i supermercati mandino agli inceneritori migliaia di tonnellate di alimenti pronti per la tavola, molto meno.
Waste-Uncovering the global food scandal è la summa del grande lavoro di Tristram Stuart che analizza tutta la catena alimentare in buona parte del mondo. Un atto d'accusa che vagamente echeggia, nell'approccio globale, Super Size me, la vita a forza di McDonalds del regista Morgan Spurlock. «Mi hanno chiesto di fare un film, ho contatti con documentaristi, vedremo». Per ora si accontenta del libro e di una gloria nata per caso.
In principio fu Gudrun, formosa e insaziabile scrofa della qualità Gloucester Old Spot. «Avevo 15 anni - ricorda Tristram - e volevo nutrire il mio maiale con avanzi alimentari. Oggi è vietato da una legge europea scandalosa. È stata varata per far fronte all'afta, ma peggiora tutto, costringendo a produrre alimenti per i maiali quando si potrebbero allevare molto meglio con gli scarti». E continua: «Torniamo a Gudrun e alla sua fame. Per accontentarla e per far nascere maialini organici (Tristram li mangia, non li contempla perché Freegan non significa Vegan, ovvero vegetariano estremo, ndr) ho cominciato a raccogliere gli avanzi della mensa scolastica, degli agricoltori che buttavano le patate malformate, dei panettieri che si liberavano del pane poco lievitato».
Grazie all'amore di Gudrun, Tristram ha sviluppato l'occhio clinico per quel che resta. Utilissimo a Cambridge quando non c'erano più maiali da sfamare, ma lo stomaco di un giovanotto da riempire. Il suo. «Negli anni del liceo avevo capito che molti rifiuti sono in realtà commestibili. Da allora rummaging the bins è diventato normale per me. Non lo faccio per contestare la società capitalista come molti Freegan, né per risparmiare, a parte forse quando studiavo, ma per passione ecologica. Il cassonetto migliore per me è quello vuoto».
In realtà è un po' una fissazione che la moglie Alice, giovane scrittrice di successo, sembra accettare, più che favorire. Ma non disdegna, apparentemente. «Quanto spendo per mangiare? Dipende da quello che voglio, se non lo trovo lo compro. Ma mi creda, si trova tutto. Me lo ha insegnato Spider».
Se Gudrun è stata la scoperta, il clochard Spider, con una tela di ragno tatuata in faccia, è stata l'illuminazione: «Ci siamo incontrati nel supermercato Sainsbury's: quando gli ho fatto presente che non volevo prendere cibo utile ai mendicanti, lui mi ha risposto "Hey mate..., ma tu non capisci. Se tutti gli homeless del paese dovessero venire a sfamarsi qui ci sarebbe ancora molto cibo per te"». Era vero, e non solo in quel Sainsbury's o da Sainsbury's in quanto tale. È per tutti così. La verità è che i manager dei supermercati in quegli anni non erano affatto interessati al cibo che si buttava via. E oggi? «La situazione è un po' migliorata, ma nel mio libro porto l'esempio di una recentissima spesa di successo, non come quella mediocre fatta insieme. In un Waitrose ho trovato: 28 pasti pronti - da chicken tikka a lasagne - 83 yogurt, 16 paste, sei meloni, 223 frutti vari, 23 brioche, una torta al cioccolato, sei pacchi di patate, 18 forme di pane.
Quello del pane è un dramma. I produttori dei panini di Marks & Spencer eliminano le due croste e le prime fette dopo le croste di ogni pane a cassetta. Migliaia di pezzi ogni giorno».
Il caso britannico, sul quale il libro si diffonde maggiormente, non deve fuorviare: è una realtà che si moltiplica, per ragioni quasi analoghe, ben oltre i confini del Regno. Per Tristram Stuart accade ovunque, anche in Italia. «Nelle sole abitazioni del Regno Unito il governo ha calcolato che si getta via un quarto del cibo acquistato. Cibo vero, non bucce di banana o avanzi non commestibili. Sono 5,4 milioni di tonnellate all'anno. Si parla di una media di 112 chili a persona. In America 96 anche se, calcolato con un metodo diverso che ridurrebbe, qualora applicato al Regno Unito, lo spreco britannico a 70 chili. In Italia ho ipotizzato 73 chili, ma sulla base di quanto è stato recuperato dalle pattumiere di un campione di case in alcune aree del nord del paese. È difficile dire, in questo caso, quanto cibo fosse davvero commestibile, resta un'indicazione. Quando studiavo a Firenze battevo i supermercati con lo stesso successo di Londra».
Sulle ragioni dello spreco Tristram Stuart mette in fila varie motivazioni: «Limitandoci a considerare i supermercati, pesano una serie di fattori. Nessuno vuole vedere scaffali semivuoti e l'abbondanza della merce è considerata dai manager essenziale; è più semplice eliminare piuttosto che pianificare il riciclaggio; è più economico per un supermercato avere più cibo ed eventualmente gettarlo piuttosto che non averne; è opinabile la capacità di programmazione dei quantitativi necessari». E prosegue: «Un elemento che contribuisce parecchio allo spreco sono le offerte "prendi tre, paghi due": compri ciò che non ti serve e finisce che il consumatore cestina l'eccedenza. Se acquistassi una cosa a prezzo ridotto sarebbe molto meglio. In Inghilterra ogni anno, finiscono in discarica 480 milioni di yogurt mai aperti».
Resta da capire perché al macero e non a favore dei meno abbienti, degli anziani bisognosi, del mondo delle charity. FareShare, l'unica organizzazione britannica che si occupa di recuperare gli scarti dei supermercati ponendosi in concorrenza diretta con le discariche, ritiene che il motivo principale sia, come dice la portavoce Maria Olsen, «la difficoltà da parte della grande distribuzione di integrare politiche del genere nel proprio modello di business».
Come dire: è più semplice buttare via, senza curarsi di quanto si appesantisce l'ecoinsostenibilità del sistema. «Se le mie raccomandazioni - aggiunge Stuart - fossero accolte si recupererebbe un terzo della produzione alimentare del pianeta». Qualcuno lo ascolta se è vero che Sainsbury's ha portato a 6.600 le tonnellate di cibo che riesce a dirottare ai più bisognosi. L'inizio di un nuovo corso? La strada è lunga e, prima dei supermercati, incrocia la produzione, l'industria e le cattive abitudini dei consumatori.
Tristram fa la sua parte da quindici anni. Per amore di Gudrun e, per la cronaca, senza mai essersi preso neppure un legittimo mal di pancia.
leonardo.maisano@ilsole24ore.com