Almeno il prossimo 1 gennaio facciamone a meno. Perché mai noi italiani dovremmo iniziare il nuovo anno ascoltando orchestre e direttori suonare la Marcia di Radetzky mentre battiamo allegri le mani?
Perché cominciare il 2011, e le celebrazioni per i 150 anni della nostra identità nazionale, rendendo omaggio a Josef Radetzky, il feldmaresciallo austriaco che nella battaglia di Curtatone massacrò centinaia di studenti toscani venuti a combattere per l'indipendenza? Che a Custoza umiliò il re Carlo Alberto, poi assediò e vinse per fame e colera la Repubblica veneziana del 1849 e, nominato Governatore generale del Lombardo Veneto, fece eseguire mille condanne a morte di patrioti e diede l'ordine di bastonare in pubblico e di saccheggiare le case e i palazzi di chi era sospettato di aver simpatizzato con i primi moti del Risorgimento?
Come se i francesi celebrassero Bismarck, o i polacchi Stalin.
Johann Strauss padre battezzò la sua più celebre marcetta il 31 agosto 1848, in un caffè all'aperto di Vienna per festeggiare «la Gran vittoria, con allegorica e simbolica rappresentazione e luminarie eccezionali, in onore dei nostri coraggiosi soldati in Italia». La Radetzky-Marsch gli è venuta bene: sbruffona e orecchiabile, perfetta per una sfilata di allegre truppe vittoriose, ammiccante verso il pubblico.
Da professionista e protagonista della vita musicale del tempo, Strauss ha compiuto il lavoro per il quale era stato pagato.
Ma non creda di avere il monopolio del genere. Un secolo dopo, Nino Rota ha saputo far meglio. Per la scena finale di 8½ di Federico Fellini, ha creato una musica che ci rappresenta alla perfezione: tutti in cerchio a correre intorno al nulla, uniti in una danza senza inizio e senza fine. L'ha scritta nel 1963, ma sembra oggi e forse anche domani: quei personaggi che girano a vuoto siamo noi. Smarriti, ma almeno pacifici, perfino allegri. E appena il direttore d'orchestra darà il cenno, partirà benissimo il battito cadenzato delle mani.
Radetzky quest'anno resta consegnato in caserma, a meditare sui suoi misfatti.
SANDRO CAPPELLETTO
martedì 28 dicembre 2010
Un mondo che è scomparso: eppure sono solo gli anni ottanta e novanta.
Erano i simboli del progresso tecnologico quotidiano. In dieci anni Internet e il cellulare li hanno rottamati
Hai ancora un videoregistratore, un’enciclopedia in 20 volumi, i tomi cartacei delle Pagine Gialle? Sinceramente: da quanto tempo non li usi? Verrebbe voglia di buttarli giù dalla finestra, si fosse meno civilizzati. Verrebbe anche voglia di cercare i colpevoli, andando subito a parare nei soliti sospetti, in primis Steve Jobs e Mark Zuckerberg. Le celebrazioni per il decennio che si chiude venerdì prossimo comportano anche quest’esercizio di pulizia mentale: la rassegna delle cose che non servono più, oggetti che magari ci sono costati un sacco di soldi, e dei luoghi che non abbiamo più ragione di frequentare. I negozi di dischi, per esempio; e fra un po’, tragedia, pure le librerie, se attaccano i trend in arrivo dagli Stati Uniti.
Ci ha provato con sadica minuzia il sito Business Insider, subito rimbalzato dal collettore di notizie Huffington Post. E ci è riuscito così bene da suscitare, fino al momento in cui scriviamo, 1396 commenti, tra il nostalgico e l’imbestialito. Non è semplice assistere all’uscita di scena dei feticci che ci hanno accompagnato. Tra chi ha voluto dire la sua c’è anche chi rimpiange le cabine del telefono. E chi segnala che, sì, è vero, il fax non servirebbe più a niente. Se non fosse che è l’unico mezzo per trasmettere una firma. Cosa che all’e-mail ancora non riesce. I cd, certo: ammazzati da iTunes. I videoregistratori soppiantati dai servizi on-demand e dallo streaming; e bisogna dire ciao ciao per sempre anche alle ultime, superstiti cassette Vhs.
Volano nei grandi pascoli dei cieli merceologici anche le agende di carta, sempre che non si sia divorati dall’ansia di perdere tutto per un blackout, e sembra ieri quando la filofax ad anelli rigonfia di contatti era lo status symbol più prezioso per il rampante Anni Ottanta (il rolodex da scrivania, feticcio newyorkese, da noi invece non ha mai attecchito granché). Finite le contorsioni in macchina per ripiegare come si deve la cartina stradale, niente più visite al negozio per far sviluppare le foto delle vacanze, silenziato per sempre il «buzzz» del modem che, appena dieci anni fa, ci faceva sognare perché segnalava che stavamo per entrare «in rete». Di lì, non siamo praticamente più usciti: anche se allora dovevamo farlo stando alla scrivania e ora è tutto in uno scatolino che ci portiamo appresso.
A rischio, grave, cose di cui mai avremmo pensato di poter fare a meno, come le conversazioni al telefono, gli orologi da polso, i francobolli, perfino l’odiosa radiosveglia che, già in agonia, si tentò di umanizzare con suoni orientaleggianti, felpatamente New Age. Quanto alle lettere scritte a mano, bisognerà farsene una ragione. È vero che si segnalano, in controtendenza, certi seguitissimi corsi di calligrafia, ma par di capire che i nuovi Abelardo ed Eloisa al massimo twitteranno. Commenta un post dalla Scandinavia: «Mia zia ci ha sempre incoraggiato a scrivere con la penna senza pensare ai futuri sviluppi tecnologici, ma l’altro giorno mi ha confessato di essersi sbagliata.
La posta su carta è morta». E i venditori di enciclopedie porta-a-porta, tipo Carlo Verdone in «Acqua e sapone»? Tutti finiti a lavorare in un call center: oggi basta un’occhiata a Wikipedia e ti togli qualsiasi dubbio. I Quindici, Conoscere, quei volumi colorati da stanza dei ragazzi sono diventati teneramente obsoleti come il Mago Zurlì. Ma è il caso del fax a suscitare un deciso risentimento, per la brevità della sua permanenza tecnologica nella nostra vita. Quando si materializzò negli uffici, primi Anni Ottanta, sembrò un manufatto alla Star Trek connesso al mistero della telecinesi. Oggi è un pezzo di ferraglia ingombrante e polveroso, se ce l’hai lo nascondi, peggio ancora se è incorporato a quell’altro cimelio garibaldino che è il telefono fisso.
Restano infine, nella lista di Business Insider, un paio di concetti astratti che suscitano qualche osservazione vertiginosa. Pare sia finito il senso del ricordare, perché tanto qualsiasi cosa te la ritrovi sul Web, dal numero di telefono del dentista al cognome del compagno di banco in quinta ginnasio: opportunità interessante per i boomers senescenti. Sembra però che si sia dileguata anche ogni differenziazione fra vita privata e vita professionale, perché se sei connesso lo sei indifferentemente, per il capo come per gli amici: e il cellulare intelligente, bombardandoti di mail, non fa distinzioni. È il progresso, bellezza, e non ci puoi fare niente.
EGLE SANTOLINI - La Stampa
domenica 26 dicembre 2010
Come l’Italia è diventata fragile
Pil in discesa, evasori in aumento e una società sempre più cattiva
Il futuro non è più quello di una volta,
si può veder scritto in grossi caratteri
neri vicino alla Triennale di
Milano. Marco Revelli ha adoperato
quelle parole, quasi una dedica, (esattamente
un apoftegma) sotto il titolo di Poveri, noi, il
suo nuovo amaro libro (Einaudi, pp. 127, € 10)
che si propone di tentare di far capire qual è,
esibendo numeri e prove, la situazione di una
società, la nostra, che in pochi decenni si è quasi
disfatta. È la narrazione di un «Paese fragile,
che non ammette di esserlo». Fragile moralmente,
politicamente, umanamente. Un’Italia in grave
crisi ai suoi vertici e alla sua base sociale dove
trovano sempre più nutrimento «le frustrazioni
e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali
e i fallimenti materiali». Dove, scrive sempre
Revelli, l’indurimento del carattere, l’intolleranza
per le debolezze dei deboli e il simmetrico eccesso
di tolleranza per i vizi dei potenti, il diffondersi
dell’invidia come sentimento collettivo, il
fastidio per gli eterni «inferiori» e l’emulazione
dei nuovi «signori» sono diventati i segni diffusi
del vivere.
Marco Revelli racconta nel suo libro il micidiale
impasto della crisi antropologica di questi anni
che copre non soltanto la stagione berlusconiana,
la maggior responsabile della caduta di
sostanza e di stile della società dal 1994 al tempo
presente, ma racconta anche quel che accadde
dagli anni 80 del Novecento, la sconfitta operaia
alla Fiat, fino a oggi.
Che cosa è successo in un Paese come il nostro
a stravolgere e a inquinare, non certo in modo
assoluto, un costume di vita e di pensiero?
Sembra che troppo spesso persino la pietà della
lezione cristiana sia stata dimenticata e che anche
le fonti della Rivoluzione francese come
l’uguaglianza e la fraternità siano state cancellate.
Senza dimenticare la Carta costituzionale del
1948—i Principi fondamentali—ricca di aperture
sociali e di regole ben definite, di cui i governanti
di oggi farebbero volentieri carta straccia.
Marco Revelli, professore di Scienza della politica
all’Università del Piemonte Orientale, autore
di saggi sul Novecento, le ideologie, il lavoro,
lo smarrimento politico, in Poveri, noi fa una radiografia
senza sconti o ipocrisie dell’eterna
transizione italiana, dalla fine delmodello industriale
della grande fabbrica al primo decennio
del nuovo secolo. E analizza, ragionandoci sopra,
con l’aiuto di una ricca bibliografia e degli
strumenti dell’Istat, dell’Ocse, di Bankitalia, dell’Eurostat,
della Cies (la Commissione povertà),
della Caritas, dell’Ires Cgil e di altri centri di ricerca,
qual è la condizione umana del nostro
tempo. Dei singoli, delle classi sociali, dei giovani,
eterni precari, e dei loro padri che portano
da soli sulle spalle il peso della famiglia operaia
e anche piccolo-medio borghese. Revelli studia
con rigore la povertà dei lavoratori dell’industria,
il declassamento dei ceti medi e la distanza
diventata abissale tra élite e popolo minuto.
I numeri non sono aridi, rappresentano uomini
in carne e ossa, puntelli non smentibili nel
clima della finta positività oggi di moda.
Qualche dato. L’Italia ha perso, dal 1998, 18
punti nella classifica europea del Prodotto interno
lordo. Nel 2009 quasi 8 milioni di persone
sono in condizioni di «povertà relativa», i poveri
in senso assoluto superano i tre milioni. Nel
Sud si concentra il 70 per cento delle famiglie
povere, nonostante vi risieda un terzo della popolazione
nazionale. Il livello delle retribuzioni
italiane è al ventitreesimo posto su trenta Paesi
presi in esame. Lo spostamento della ricchezza
prodotta, dai salari ai profitti, ha toccato in Italia
8 punti percentuali sul Pil, una cifra enorme, 120
miliardi di euro passati dai deboli ai forti. Quattro milioni
di persone arrivano faticosamente alla
fine del mese, tre milioni e mezzo sono in difficoltà
per le spese della vita
quotidiana, gli impoveriti. Sei
milioni sono censiti come «vulnerabili
». Le cause della crisi
domestica sono molteplici: la
disoccupazione, la diminuzione
delle entrate, i mutui per la
casa, la scuola dei figli e anche
il consumismo dissipatore.
Tutto questo accade in un
Paese dove circola un milione
di auto di lusso, di valore superiore
ai 50 mila euro, e dove
prendono il mare 94 mila barche
sopra i 10 metri. I contribuenti
che denunziano redditi
superiori ai 150.000 euro sono
soltanto 149.000. Le dichiarazioni
dei redditi di imprenditori,
albergatori, ristoratori e di
altre categorie, sono miserevoli.
Marco Revelli prende in esame
anche le ragioni della cattiveria,
del rancore, del desiderio
di vendetta di fasce sociali
spuntate come i boletus satanas
(tra i funghi più velenosi) a
turbare quella pace condivisa
di cui si fa un gran blaterare. Il
pogrom di Ponticelli, vicino a Napoli, l’odio per
gli zingari di Opera, nel Milanese, l’ordinanza
dell’ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, di
far sparire le mani tese dalle porte delle chiese e
i questuanti dal centro della città, i provvedimenti
di destra e di sinistra contro gli accattoni,
al Nord come al Sud, l’ordinanza antisbandati
del Comune veneto di Cittadella, il premio promesso
ai vigili di Adro (Brescia) per ogni clandestino
individuato, l’intolleranza di numerosi sindaci
del Triveneto, soprattutto, nei confronti dei
più deboli, extracomunitari, senza diritti, di cui
hanno avuto e hanno ancora bisogno.
Un prezioso libro, questo di Marco Revelli,
per conoscere e per comprenderemeglio la realtà.
Il «che fare» spetta ai politici. Poveri, noi. Poveri
noi!
venerdì 24 dicembre 2010
Il consumismo offende il senso del Natale
Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. Lo «celebrano» anche uomini di altre religioni. Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v’è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po’ meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita. Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. Essi sono un segno di poca lealtà con se stessi e con gli altri. Infatti diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l’affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così. La prima lettera espone bene questo stato di cose.
Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora. Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l’ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima. È come un dirsi reciprocamente «ce la faremo», pur sapendo tutti che non è vero. Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso come i Magi. Tutti sono chiamati a partecipare all’esperienza dei pastori a cui fu detto: «Vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,10). Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti con costosi regali. Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle. Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. Il bambino Gesù è l’immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre. Il Natale guarda alla Pasqua e il presepio contiene allusioni alla morte e risurrezione di Gesù. Esse erano presenti nella riflessione dei Padri. Così, ad esempio, il tema del legno della croce veniva ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l’agnello immolato. Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il Figlio morto. La liturgia ambrosiana si esprime così: «L’Altissimo viene tra i piccoli, si china sui poveri e salva». Dunque, il senso del Natale ci riporta al centro della nostra redenzione e ci procura una gioia che non avrà mai fine. Un simile atteggiamento positivo può convivere anche con grandi dolori e penosi distacchi. So bene che questi sentimenti di dolore sono i segni di grandi ferite, che si riaprono soprattutto in questi giorni. Quando si vede a tavola un posto vuoto, riemerge il mistero del Crocefisso con le sue piaghe. Ci sarebbe ancora da trattare di come il presepio può essere contemplato anche da non credenti e da atei. Io penso che questo fascino derivi dall’atmosfera profondamente umana che in esso si respira. Una umanità che sa guardare anche al lato invisibile della realtà e si compendia nella preghiera.
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» . Buon Natale a tutti
Carlo Maria Martini - in “Corriere della Sera”
mercoledì 22 dicembre 2010
Accademia Italiana dell\'Auto-ID
L'attività dell'Accademia dell'Auto-Identificazione Automatica
Accademia Italiana dell\'Auto-ID
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Viviamo la crisi che fu dell'Impero Romano
Benedetto XVI: senza il consenso morale anche oggi è in gioco il futuro del mondo La citazione Per descrivere la situazione attuale, il Pontefice cita le parole di Ildegarda, una santa del XII secolo
CITTÀ DEL VATICANO - «Excita, Domine, potentiam tuam, et veni». La voce del Papa è sommessa ma il tono è solenne, «è in gioco il futuro del mondo», alza lo sguardo a cardinali e monsignori: e ripete quella preghiera di Avvento, «Ridesta, Signore, la tua potenza e vieni» che fu probabilmente formulata, spiega, «nel periodo del tramonto dell'Impero Romano». Allora come oggi si «disfaceva» quel «consenso morale» senza il quale «le strutture giuridiche e politiche non funzionano».
Nel discorso natalizio alla Curia romana, Benedetto XVI ripercorre l'anno e parla per primo del male interno, la «dimensione per noi inimmaginabile» degli abusi su minori commessi da sacerdoti, l'«umiliazione» per lo scandalo dal quale «siamo stati sconvolti» e che ha «coperto di polvere il volto della Chiesa». Quindi allarga lo sguardo «ai fondamenti ideologici» la «perversione» dell'etica perfino «nell'ambito della teologia cattolica», l'idea diffusa per cui «niente sarebbe in se stesso bene o male»: «Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all'uomo e anche al bambino» e «al contesto del nostro tempo» e torna a denunciare la pornografia, il turismo sessuale, «la devastazione psicologica dei bambini» ridotti a merce, quel «commercio dei corpi e delle anime» che l'Apocalisse «annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo»; denuncia «la dittatura di mammona che perverte l'uomo» e trova espressione nella droga «che con forza crescente stende i suoi tentacoli di polipo intorno all'intero globo terrestre»; invoca i leader politici e religiosi «perché fermino la cristianofobia» e le persecuzioni dei fedeli in Paesi come il Medio Oriente, dove sulle «voci troppo deboli» della ragione prevalgono «avidità di lucro ed accecamento ideologico».
Tutti «spaventosi segni dei tempi», tempi difficili nei quali vacillano «le basi essenziali e permanenti dell'agire morale» ed è «in pericolo» il consenso di fondo sulla «grande tradizione razionale dell'ethos cristiano». Ecco il parallelo con il crollo dell'Impero Romano: «Il disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando. Frequenti cataclismi naturali aumentavano ancora questa esperienza di insicurezza. Non si vedeva alcuna forza che potesse porre un freno a tale declino. Tanto più insistente era l'invocazione della potenza propria di Dio».
Anche oggi, dice Benedetto XVI, «il mondo con tutte le sue nuove speranze e possibilità è, al tempo stesso, angustiato dall'impressione che il consenso morale si stia dissolvendo». Come rivolgendosi al mondo laico, cita Alexis de Tocqueville: «Aveva osservato che in America la democrazia era diventata possibile e aveva funzionato perché esisteva un consenso morale di base che, andando al di là delle singole denominazioni, univa tutti».
Ma il Papa guarda anzitutto all'interno. Evoca una visione di Sant'Ildegarda di Bingen XII secolo, il volto della Chiesa «coperto di polvere», le scarpe «infangate», il vestito «strappato» per colpa dei sacerdoti, «come lei l'ha visto ed espresso, l'abbiamo vissuto in quest'anno». L'«umiliazione» dei crimini pedofili è «un'esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento», sillaba: «Dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l'ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell'intero nostro modo di configurare l'essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere». Ma se «siamo consapevoli» della «nostra responsabilità», dice, «non possiamo tacere circa il contesto del nostro tempo».
Il consenso etico che si dissolve. E, per contro, l'esempio di tanti sacerdoti, la «capacità di verità dell'uomo» mostrata dal cardinale Newman. Come capitò ai discepoli di Gesù, «anche in noi tanto spesso la fede dorme», sospira il Papa: «PreghiamoLo di svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca e di ridare alla fede il potere di spostare i monti - di dare l'ordine giusto alle cose del mondo».
Gian Guido Vecchi - Corriere della Sera
martedì 21 dicembre 2010
La definizione di successo che condivido
Ridere spesso e di gusto, ottenere il rispetto delle persone intelligenti e l'affetto dei bambini. Prestare orecchio elle lodi dei critici sinceri e sopportare i tradimenti di falsi amici. Apprezzare la bellezza, scorgere negli altri gli aspetti positivi, lasciare il mondo un poco migliore: si tratti di un bambino guarito, di un'aiuola o del riscatto di una condizione sociale. Sapere che anche una sola esistenza è stata più lieta per il fatto che tu sei esistito.
Ecco questo è avere successo.
Ralph Waldo Emerson
lunedì 20 dicembre 2010
FELICITA': La svolta di mezza età. Si è felici solo dopo i 46 anni
Il benessere emotivo è una curva a U: con la piena maturità diventa stabile
La vita comincia a 46 anni. È quella l'età del più profondo scontento: poi si risale. A questa conclusione giunge The Economist, e ci dedica la copertina del numero doppio di Natale. Qualche malizioso sospetterà che 46 anni sia l'età media dei lettori del settimanale. Se soffrono di paturnie prenatalizie, sappiano che in futuro andrà meglio. Ma non è così. L'ossessione di quantificare la felicità è diventata la nuova ansia del mondo: i bravi giornalisti - soprattutto se hanno un'età tra i quaranta e i cinquanta - non possono non accorgersene. Ormai non si parla solo di GDP (Gross Domestic Product, prodotto interno lordo) ma anche di GNH (Gross National Happiness, felicità lorda nazionale). Ha cominciato il Buthan, Sarkozy in Francia e Cameron in Gran Bretagna si sono detti interessati (Berlusconi no: al momento, per lui, più della felicità conta la fiducia). Una serie di studi recenti indica che il benessere emotivo è una curva a U. Si parte bene, da giovani. Si scende in fretta. Poi si comincia a risalire, fino ad arrivare a una stabilità che somiglia molto alla serenità. Quando avviene l'inversione? Lo abbiamo detto. A 46 anni.
NADIR VARIABILE - I lettori quarantacinquenni, quindi, si consolino: manca poco. I lettori ventenni, d'altro canto, non si preoccupino: c'è tempo. I lettori anziani, infine, si rallegrino: non c'è mai stato periodo migliore per invecchiare. Partendo dalla battuta di Maurice Chevalier («La vecchiaia non è così male, se consideriamo l'alternativa»), l'Economist sfodera una serie di informazioni interessanti, come lo studio di David Blanchflower di Dartmouth College, che ha studiato i dati provenienti da 72 Paesi del mondo. Il nadir - il punto più basso - del benessere personale cambia da nazione a nazione. Per gli svizzeri è 35 anni, per gli ucraini 62. Ma la media è - ripetiamolo ancora - 46 anni. Qualcuno potrà obiettare: c'è bisogno di uno studio americano per sapere che tra i quaranta e i cinquanta arriva la midlife crisis? La crisi di mezza età per cui ogni uomo (maschio) si butta in qualcosa di strano: un investimento rischioso, una segretaria procace, un'auto veloce o un hobby ossessivo. Una donna al suo fianco deve assistere allo spettacolo (di solito mentre si occupa di genitori cocciuti e figli adolescenti scatenati).
VALORE ALLE COSE - Portando una scarica di opinioni accademiche a sostegno della propria tesi, l'Economist indica alcuni elementi - diversi dai progressi della medicina - che rendono la terza parte dell'esistenza degna d'essere vissuta. «Quando i giovani guardano agli anziani pensano che è terrificante sapere di essere vicini alla fine della vita», scrive il settimanale. Ma le persone anziane hanno imparato una cosa importante: dare valore alle cose che contano. Sono meno ambiziose e più tolleranti. Dice Laura Carstensen, professore di psicologia a Stanford: «I giovani vanno ai cocktail sperando di incontrare qualcuno che gli tornerà utile. Gli anziani ci vanno se ne hanno voglia». Di solito, non ce l'hanno. E questo è saggio, conclude l'accademica: «Perché nessuno ha veramente voglia di andare ai cocktail».
WHO E BEATLES - Pete Townsend degli Who - nel 1965, quando aveva vent'anni - cantava: «Things they do look awful cold/Hope I die before I get old» (le cose che fanno sembrano squallide parecchio/ spero di morire prima di diventar vecchio). I Beatles, due anni dopo, rispondevano: «When I get older losing my hair/Many years from now/Will you still be sending me the Valentine/Birthday greetings, bottle of wine» (quando divento vecchio e perdo i capelli/tra molti anni/mi manderai ancora un biglietto per San Valentino/gli auguri per il compleanno/una bottiglia di vino). Molto tempo dopo, con il conforto dell'Economist, possiamo dirlo: «When I'm sixty-four» batte «My generation». E 64 - se ci pensate - è il contrario di 46.
di BEPPE SEVERGNINI
Etica
“…. La grandezza del lavoro è all’interno dell’uomo…… Il lavoro ha come caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza ….. e il suo valore etico rimane direttamente legato al fatto che chi lo compie è una persona ……”
Giovanni Paolo II - Enciclica Laborem Exercens
sabato 18 dicembre 2010
“«Efficienza e qualità» La scuola statale batte quella privata”
«Sistema migliore ma con meno risorse»
ROMA— È una buona notizia per la scuola statale. E arriva dal rapporto Ocse Pisa, lo studio internazionale che dà i voti ai 15enni di una sessantina di Paesi del mondo. Nelle pagelle assegnate pochi giorni fa agli studenti del nostro Paese quelli delle scuole statali sono andati meglio degli altri. In particolare nella prova di lettura e comprensione del testo, con i test fatti nell’aprile del 2009, quasi due anni fa. Tra le tante tabelle ce n’è una che divide i risultati in due grandi gruppi: gli studenti delle «public school» hanno preso 38 punti in più rispetto a quelli delle «private school» . Una differenza del 7,9%. In quasi tutti gli altri Paesi accade il contrario. Dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Spagna, gli studenti delle scuole statali raggiungono risultati peggiori. «L’Italia— dice Francesca Borgonovi, analista dell’Ocse e tra gli autori del rapporto— è quasi l’unico Paese in cui le scuole statali vanno decisamente meglio di quelle private» . Nel nostro stesso gruppo ci sono, ad esempio, Tunisia e Indonesia. Il confronto internazionale, però, non è semplice. L’Ocse considera «public school» quelle che sono direttamente gestite dallo Stato o dagli enti locali. Mentre nella categoria «private school» mette sia
quelle private vere e proprie sia quelle che, anche se private, ricevono comunque fondi pubblici. Delle 1.097 scuole italiane che hanno partecipato ai test quasi tutte (il 94,7%) sono statali, il 3,3%sono paritarie, cioè non statali ma gestite comunque dal pubblico per mano di province e comuni. Mentre solo l’ 1,7%sono private. Anche a voler andare in profondità, le statali raggiungono risultati migliori sia delle paritarie sia di quelle private, che fanno segnare un ritardo molto più marcato. «Questi dati— dice ancora l’analista dell’Ocse Francesca Borgonovi— ci dicono che le scuole pubbliche sono più efficienti nonostante abbiano studenti più “difficili”, dato il loro livello socio economico più basso, e anche maggiori problemi di risorse» . Ma perché differenze del genere? Come in tutte le indagini a campione molto dipende dalle singole scuole che entrano nella lista dei partecipanti. È possibile che sui risultati delle private pesino i cosiddetti diplomifici, che negli altri Paesi sono molto più rari. Da noi il titolo di studio ha lo stesso valore legale a prescindere dall’istituto che lo ha rilasciato. In altri Paesi il valore dipende dal nome della scuola frequentata. È anche questa differenza che consente di sopravvivere ai «diplo
mifici» privati, scuole dove non conta la qualità dell’insegnamento, dove magari si fanno due anni in uno, ma che alla fine consegnano comunque il pezzo di carta. Diverso il caso delle scuole paritarie, cioè pubbliche ma non statali. Altre indagini — come quelle dell’Invalsi — ci dicono il contrario del rapporto Ocse Pisa, e cioè che i loro risultati sono migliori rispetto alle statali. Tutto dipende dal campione, ma i nomi degli istituti che partecipano al rapporto Ocse sono coperti da privacy. In ogni caso è una buona notizia per la scuola statale. E ne abbiamo bisogno: ieri a Palermo gli studenti di 158 scuole si sono seduti al banco con il piumino indosso. Non ci sono i soldi per pagare il riscaldamento.
Lorenzo Salvia dal Corriere della Sera del 18 dicembre 2010
martedì 14 dicembre 2010
Una setta di banchieri decide le sorti del mondo
Sono nove, si riuniscono il terzo mercoledì del mese, controllano tutta la finanza
Nove banchieri delle più importanti istituzioni finanziarie di Wall Street si riuniscono il terzo mercoledì di ogni mese nel Distretto finanziario di Manhattan per assicurarsi il controllo e la floridezza del mercato che più preoccupa la Casa Bianca: quello dei derivati.
L’amministrazione Obama ha tentato invano di sottoporli a rigidi controlli nella recente riforma finanziaria varata dal Congresso, e Paul Volcker, l’ex presidente della Federal Reserve consigliere dello Studio Ovale, ne è il critico più aspro, indicandoli come un mercato che «sfugge a ogni regola» e continua a minare la stabilità di Wall Street dopo aver già contribuito alla crisi del settembre 2008. Ma le pressioni di Casa Bianca e Congresso hanno una debole eco nelle riunioni che vedono attorno ad un tavolo banchieri di giganti come JP Morgan Chase, Goldman Sachs, Deutsche Bank e Morgan Stanley interessati soprattutto a mantenere il controllo di scambi annuali per molti trilioni di dollari che sfuggono a ogni supervisione visto che i derivati sono prodotti finanziari in gran parte non quotati in Borsa.
Dunque vengono scambiati privatamente e spesso registrati nei bilanci in maniera così ambigua da suggerire sospetti di illeciti. E’ proprio per indagare sul possibile rischio di frodi capaci di mettere a rischio la stabilità delle maggiori banche - e dunque i risparmi di milioni di cittadini - che il ministero della Giustizia di Washington ha creato una task force investigativa, il cui titolare Robert Litan ha scoperto il segreto del «club del mercoledì» finito ieri sulla prima pagina del New York Times.
A dare corpo all’indagine sono state le testimonianze raccolte fra gli alti funzionari di Bank New York Mellon, fondata nel 1784, che hanno consentito di ricostruire come la loro richiesta di entrare nel «club del mercoledì» - che porta il nome di Ice Trust - sia stata rifiutata dai nove banchieri sulla base della convinzione che «la domanda non era sostenuta da un sufficiente volume di scambi di derivati durante l’anno».
«Si tratta di una risposta assurda perché siamo una delle banche da più tempo attive nel Distretto finanziario» ha fatto presente Sanjay Kannambadi, ceo della sussidiaria creata da Bank New York Mellon per entrare nell’Ice Trust, secondo il quale «il vero motivo per cui ci hanno tenuti fuori è la volontà di mantenere alti margini di profitto e di non condividere con altri la redazione delle regole che governano questo tipo di scambi».
Di fronte a tale ricostruzione Robert Livan non ha fatto altro che riscontrare la possibile creazione di un gruppo finanziario impegnato a gestire il mercato dei derivati con metodi non pubblici, sollevando lo scenario di qualcosa che assomiglia a una setta segreta di banchieri nel cuore di Wall Street per gestire i prodotti derivati che continuano a essere quelli capaci di garantire i maggiori profitti economici.
Da qui l’inchiesta, solamente all’inizio, che minaccia di mettere a soqquadro Wall Street. Gary Gensler, presidente della Commodity futures trading commission incaricata di regolare gli scambi della maggioranza dei derivati, suggerisce la necessità di «una maggiore supervisione sull’operato delle banche» al fine di scongiurare il rischio di intese non pubbliche destinate ad «aumentare i costi per tutti i cittadini americani». Ma i membri del «club del mercoledì» respingono tali accuse, affermando l’esatto contrario. «Il sistema creato consente di ridurre i rischi esistenti in questo mercato e fino a questo momento la cooperazione fra noi si è rivelata un successo» ha dichiarato al New York Times una portavoce di Deutsche Bank, lasciando intendere che il super-club svolge quelle mansioni di controllo che la riforma finanziaria non è riuscita ad assegnare ad alcuna istituzione.
Maurizio Molinari - CORRISPONDENTE DA NEW YORK per La Stampa
domenica 5 dicembre 2010
Sulla difesa della nostra Cucina ci vuole coerenza
Il ministro Zaia e la promozione dell’hamburger italiano.
Forse a molti è sfuggita una notizia di qualche settimana fa, corredata anche di foto, in cui il ministro per le Politiche agricole, Luca Zaia, si faceva ritrarre insieme all’Amministratore delegato di Mc Donald’s Italia con un grembiule della stessa società americana, mentre stavano per addentare “l’hamburger italiano” inserito nella proposta della multinazionale statunitense. Se questo voleva essere una testimonianza dell’attenzione che il ministero pone per la salvaguardia della nostra Cucina, mai il messaggio poteva essere più dannoso, ambiguo e grave di conseguenze. Attenzione, non sto scrivendo un documento anti-americano. Chi mi conosce sa che appena mi si presenta l’occasione, ormai da più di vent’anni, volo negli States perché è un Paese ricco di stimoli e di novità da cui cogliere insegnamenti e idee. Ma da ogni cultura cerco di cogliere il meglio. Chi si batte per la chiusura dei kebab (che personalmente apprezzo assai), dovrebbe essere più attento alle diverse situazioni, esprimendo coerenza nella comunicazione. Il messaggio proposto da Mc Donald’s è esattamente all’opposto della filosofia che risiede, intrinseca, nella cultura enogastronomica italiana. Non smetto mai di ricordare in ogni situazione come, anche la cucina, contribuisce a mantenere la memoria di un popolo. E’ anch’essa la sua identità. Stravolgendola, pagheremo sulle generazioni future. La nostra cucina si distingue in tutto il mondo per alcune peculiarità che la rendono unica: freschezza, naturalità, scansione ternaria del pasto, forte componente di socialità, territorialità, una certa “lentezza” conviviale e la riscoperta delle produzioni a “km 0”. Tutto questo è assolutamente in antitesi con il modello dei “fast food” dove la velocità (appunto) è sempre stato un punto cardine della proposta, unitamente alla proposizione di un cibo iper-calorico, dannoso per il colesterolo, indifferenziato, confuso nei sapori grazie anche alle salse che la arricchiscono. Sono altresì d’accordo su quanti avanzano dubbi sul valore simbolico ed economico dell’accordo. Cercare di rappresentare l’italianità gastronomica con un unico “piatto” affogato nella proposta di Mc Donald’s, offre il fianco al fatto che si generi un errore di comunicazione sulla nostra cucina, generalizzandola e inserendola in un limbo identificativo. Già sono in atto da tempo continue contraffazioni dei nostri cibi più rappresentativi (parmigiano docet), con un fortissimo danno economico, e “appropriazioni” indebite sulla paternità (vedi la pizza). Rischiamo di vanificare tanto lavoro fatto fino ad ora, non solo dagli Enti proposti, ma anche da associazioni come lo Slow Food e l’Accademia Italiana della Cucina che da anni si battono per la valorizzazione della nostra “Civiltà della Tavola”. Infine ritengo che l’industria agroalimentare italiana non avrà alcun beneficio da questa “novità”, in qualità di potenziali fornitori. Certificare in modo così autorevole questa proposta alimentare porta certamente vantaggi, ma ad una sola parte: quella della multinazionale americana che da noi ha sempre incontrato qualche problema nel farsi accettare proprio per l’offerta nutrizionale. Sono contrario alla demonizzazione delle alternative, ma anche alle forme di autolesionismo a scapito dei nostri “asset”.
scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Onli.it
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