domenica 30 giugno 2013

Quale Stato del Benessere se non c'è più una lira?


Gli standard che abbiamo conosciuto ormai vanno sparendo. Si può ugualmente riavere un sistema giusto con uno scatto culturale che prenda sul serio l'art. 118 della Costituzione 
Sfuggire al ricatto economico per ripensare con maggiore serenità a finalità e possibili miglioramenti dell'attuale struttura previdenziale 

Il welfare tradizionale sta cedendo di fronte alle revisioni imposte al bilancio dalle politiche di stabilità europee. Sul welfare locale pesano i tagli delle fonti di finanziamento statale, passate da 2,1 miliardi del 2008 a 0,55 miliardi di euro del 2011 (-74 per cento), con il totale azzeramento di alcuni fondi (politiche giovanili, inclusione degli immigrati, pari opportunità, non autosufficienza) e la riduzione del Fondo per le politiche sociali, passato da 930 a 43 milioni di euro. 
Il tema del futuro del welfare non rappresenta un'emergenza solo per l'Italia, ma un problema per tutti i Paesi sviluppati: basti pensare che il welfare europeo vale il 58 per cento di quello mondiale, nonostante gli europei siano solo l'8 per cento della popolazione mondiale.
Il welfare in Italia, dunque, rispetto agli standard a cui la mia generazione si era abituata, è finito e bisogna prenderne tristemente atto. (...)
Il paradosso è che in Italia ci si oppone, mentre nel Regno Unito la classe politica promuove la "Big Society", cioè l'intervento strutturale del privato nell'attività pubblica, a seguito della consapevolezza che il sistema sociale com'è attualmente, oltre a non essere sostenibile, produce la "dependency culture" e un notevole numero di approfittatori, da un radicale ridimensionamento dello Stato sociale.

La riforma inglese, varata dal Governo, mira a risparmi per 18 miliardi di sterline l'anno, e andrà a colpire i percettori di assegni familiari, i disabili, i beneficiari di sussidi per la casa, l'intero sistema sanitario nazionale, in un'ottica decisamente antikeynesiana, caldeggiata dalla Ue, dalla Bce e dall'Fmi.
Anche se il percorso intrapreso nel Regno Unito segna il passo, bisogna prendere dal modello della Big Society ciò che funziona e studiare come trasferirlo da noi. 

In particolare, il tentativo di trasferire direttamente alle collettività locali responsabilità nella definizione dei tributi, nella politica dei trasporti, nella gestione di scuole, musei, parchi pubblici, servizi alla persona eccetera.

Ad esempio, si può guardare con attenzione all'esperimento laggiù avviato, che sta trasferendo al cittadino, con un alleggerimento dell'impegno dell'amministrazione del beneficio sociale, l'onere della cura delle proprie esigenze socio-sanitarie.

L'esperimento avviato in alcuni comuni e contee denominato "In Control" ha avuto risultati lusinghieri soprattutto per quanto concerne il gradimento dei cittadini. Detto modello pilota predetermina le risorse economiche da assegnare agli utenti, in modo che possano pianificarne l'utilizzo. Poco tempo dopo aver chiesto assistenza, essi vengono a sapere quale sarà lo stanziamento di risorse a loro disposizione per acquistare sostegno. Molti richiedenti stabiliscono da soli i loro bisogni attraverso un semplice sistema di punteggi; in alcune contee questo calcolo si fa addirittura al telefono. In seguito lo stanziamento viene verificato e tradotto nell'assegnazione di un fondo consistente in una somma di denaro. 

I budget possono variare da poche decine di sterline la settimana, che servono a un anziano fragile per acquistare assistenza domiciliare, alle decine di migliaia di sterline che servono a un giovane gravemente disabile per ottenere assistenza 24 ore su 24.
La mia proposta presuppone la piena attuazione di quella mutazione culturale che, favorita dalla modifica dell'articolo 118 della Costituzione con l'introduzione del principio di sussidiarietà, ha rovesciato la concezione precedente di stampo statalista e assistenzialista, avviando il recepimento in senso positivo del contributo dell'associazionismo, dello spirito di iniziativa del privato sociale, della "cittadinanza attiva" alla soluzione dei problemi delle comunità locali che sono, poi, anche quelli dell'intero Paese. (...)
Lo Stato da parte sua (...) deve avere un ruolo da protagonista nel promuovere e regolare, negli indirizzi di fondo, questo nuovo welfare che stiamo definendo, compito al cui interno sta l'esigenza di una complessiva e coerente riforma dei corpi intermedi della società civile, e dell'impresa sociale, affinché quest'ultima faccia un salto di qualità, riuscendo ad attirare investimenti profit, dando corso contestualmente a una disciplina fiscale di favore per il terzo pilastro, secondo quanto accade in gran parte dei Paesi europei. Ma lo Stato sta alla dimensione pubblica come l'apparato scheletrico sta al corpo. Questa, nella metafora, dovrebbe essere la corretta relazione tra le istituzioni e la sfera degli interessi comuni. (...)
Uno Stato, per definirsi sociale, deve promuovere il principio del sostegno comune e dell'assicurazione collettiva contro la cattiva sorte individuale e i suoi effetti, principio che fa di una società semplicemente teorizzata una comunità reale, che promuove i singoli allo status di cittadini, cioè "stakeholders", oltre che "stockholders", e attori responsabili.
Se riusciamo a sfuggire al ricatto economico, allora possiamo ripensare con maggiore serenità finalità e funzionamento dell'attuale sistema di welfare, cui si accompagna una domanda di maggiore autonomia per i diversi attori sociali, nel quadro di una piena e sostanziale applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale. (...)
Il welfare nazionale ha bisogno di una stagione istituente, in grado di valorizzare il modello italico, che ha prodotto nei secoli una ricchissima e diffusa ramificazione di iniziative e di opere sociali, che dal particolare sono riuscite a imporsi a livello universale.
Bisogna ritornare un po' alle origini, al capitale sociale esistente in quantità già significative nei territori, capitale capace di attenzioni antiche quali la mutualità e la solidarietà, per aggiornare il modello, affinché si pervenga a un welfare di nuova generazione, in grado di passare da una logica della prestazione e della moneta, tipica del vecchio sistema, a una logica del legame sociale, della partecipazione, del coordinamento delle politiche sociali, dell'impegno comune di tutti gli attori.

Emmanuele Emanuele - Il Sole 24 Ore Presidente della Fondazione Roma1


domenica 9 giugno 2013

Come la bellezza salverà il mondo e l'economia

In un paese come l’Italia l’idea del bello gira intorno a tutti noi, e nei nostri giorni migliori tutti voIn un In un paese come l’Italia l’idea del bello gira intorno a tutti noi, e nei nostri giorni migliori tutti vorremmo girare intorno al bello.

Le belle parole contro il rumore di fondo che ci opprime dalla tv. Il film la Grande Bellezza che ci commuove. Il mare nel weekend. Le scarpe fatte a mano di Saskia. A Firenze Ponte Vecchio al tramonto. Il bello del passato e il bello del presente, ma anche il bello del futuro, la rivoluzione industriale delle stampanti 3D, capaci di trasformare le merci standard dell’industria in oggetti smart, unici e personalizzati.

La bellezza salverà il mondo, scriveva Fiodor Dostoevskij che aveva conosciuto l’orrore di una finta esecuzione e della Siberia. Aveva ragione? La bellezza può salvare le nostre vite da una quotidianità distratta? La bellezza può farci sentire vivi, davanti allo schermo di un computer e nella vita di ogni giorno?

Dai siti, dai telegiornali, dalle prime pagine sembra quasi che la “crisi economica” sia ormai la nostra sola padrona. Invece, a sorpresa, posta del duello tra Old Artisans contro New Makers, il tradizionale “fatto a mano” contro la “tecnologia di moda”, è il bello. La nuova economia passa dall’estetica, non solo dall’high tech. E il mago Steve Jobs l’aveva capito prima di tutti e su questa scommessa ha vinto il suo impero e il suo fascino.

Il Made in Italy deve ora affrontare questa prova: artigianato, piccole produzioni di qualità, il classico “lavoro ben fatto”. Ma la qualità locale non basta nel mondo globale. Se la nostra “bellezza” non filtra lontano via web e social media è come un capolavoro dimenticato nella cantina di un museo, nessuno l’amerà.

Moda, arredamento, alimentare, i grandi brand si vestono ora da artigianato. “Lusso”, nella cris,i non è più un cartellino con un prezzo esoso, è cura, tempo, produzione limitata, a passo d’uomo. Nei “Tempi Moderni” di Charlot “industria” era una catena che legava l’operaio a una singola mansione e il consumatore a un singolo prodotto. La nuova rivoluzione industriale dice addio alla frenesia burocratica del “taylorismo” e dà il benvenuto al “taylor made”, produttori diversi per consumatori diversi, nel mercato d’Asia o sotto casa.

Manifattura additiva e fablabs sono solo l’inizio, e una parte, del nostro futuro di lavoro. Negli Usa, la metamorfosi della grande industria a new economy riconverte aree urbane e no, crea occupazione, ricerca laboratori. A San Francisco, in California, lo Stato rimette a disposizione spazi e capannoni dismessi; giovani e non ripartono con piccole, o medie, attività manifatturiere. Associazioni come SF Made promuovono le produzioni locali, e il processo si allarga a New York e Detroit. Dopo una generazione senza manifattura la capitale della Borsa e la vecchia metropoli dell’automobile tornano a “montare” oggetti e produrre beni e servizi. Vince non la nostalgia, ma l’orgoglio del fare “in casa”, a chilometro zero. E vale per le birre delle microbrewery, le distillerie locali, come per le stoviglie disegnate dai clienti e prodotte via additive manufacturing, o stampanti 3D.

“Sarebbe però un errore cercare una via alla rinascita manifatturiera italiana solo scimmiottando gli americani- osserva Roberto Scaccia, italiano co-fondatore della piattaforma Usa di e-commerce per l’artigianato Zanoby.com. Da noi, prima ancora di considerare un “update” tecnologico, sarebbe necessaria la coscienza del valore custodito dalle nostre piccole e medie imprese. La sapienza delle mani di chi lavora, il processo produttivo classico, capace di raccontare identità, luoghi e saperi che le lavorazioni artigianali racchiudono. Questa eredità è amata dagli utenti globali. Dobbiamo connetterci, ricevere i loro feedback su nuovi prodotti ed avviare una nuova “committenza” collaborativa, a tu per tu con il cliente finale.”

Zanoby.com, startup nata da 2 anni e attiva sul web da qualche mese, ha fatto di questa visione il proprio core business. Una piattaforma dove il bello è protagonista. Articoli di qualità rappresentati con immagini, video e contenuti multimediali da premio Oscar. Non vende semplici prodotti, vende il modo in cui sono creati, le storie dei produttori, i valori del territorio da cui provengono. Roberto è un antropologo, 35 anni, occhi furbi e fisico dalla cura californiana. Un cuore italiano che vive in USA da anni, e queste sensibilità gli fan sognare e progettare il Nuovo Rinascimento ArtigianoCi siamo conosciuti, prova a dirlo, grazie al web. Una sua collaboratrice aveva rintracciato il mio profilo facebook e scovato tra i miei post la visione “passionale” che ci accomunava.

Nella lunga skypecall Firenze-SanFranciso, Scaccia mi parla di manifattura “antropocentrica”, che in inglese suona meglio come “human centered manufacturing”. Una manifattura che fa della dimensione umana il suo punto di riferimento. “Nella sapienza delle mani risiede una coscienza collettiva del saper fare artigiano, custodita fra le linee della pelle e le articolazioni delle dita. Bisogna tornare a valorizzare questo patrimonio di sapere – insiste Scaccia – a partire dal sistema educativo, in tenera età, e farlo divenire una tradizione innovativa, e suggestiva, anche per i giovani imprenditori, in Brasile e in Brianza, per rigenerare tradizioni locali, aggiornandole con un senso estetico globale, comunicarle e rivenderle nel mondo”.

Roberto Scaccia è membro del comitato scientifico di CNANeXT, il Festival dell’intelligenza collettiva che  organizzeremo ad ottobre a Firenze. Nella capitale mondiale dell’artigianato parleremo della nuova manifattura.

Un sogno antico, ma fatturati modernissimi.

Francesca Mazzocchi - www.Chefuturo.it



domenica 2 giugno 2013

Una libertà minacciata


Una grande rivoluzione sta silenziosamente giungendo al suo epilogo in Europa. Una rivoluzione della mentalità e del costume collettivi che segna una gigantesca frattura rispetto al passato: la rivoluzione antireligiosa. Una rivoluzione che colpisce indistintamente il fatto religioso in sé, da qualunque confessione rappresentato, ma che per ragioni storiche, e dal momento che è dell'Europa che si parla, si presenta come una rivoluzione essenzialmente anticristiana.

Ormai, non solo le Chiese cristiane sono state progressivamente espulse quasi dappertutto da ogni ambito pubblico appena rilevante, non solo all'insieme della loro fede non viene più assegnato nella maggior parte del continente alcun ruolo realmente significativo nel determinare gli orientamenti delle politiche pubbliche - non solo cioè si è affermata prepotentemente la tendenza a ridurre il cristianesimo e la religione in genere a puro fatto privato - ma contro il cristianesimo stesso, a differenza di tutte le altre religioni, appare oggi lecito rivolgere le offese più aspre, le più sanguinose contumelie.
Ecco alcuni esempi, tra gli innumerevoli che potrebbero farsi, di quanto sto dicendo (tratti in parte da una dettagliata denuncia pubblicata su un recente numero di Avvenire ). In Irlanda le chiese sono obbligate ad affittare le sale per le cerimonie di loro proprietà anche per ricevimenti di nozze tra omosessuali; a Roma, nel corso del concerto del Primo Maggio un cantante ha mimato il gesto rituale della consacrazione dell'ostia durante l'eucarestia avendo però tra le mani un preservativo al posto dell'ostia; in Danimarca il Parlamento ha approvato una legge che obbliga la Chiesa evangelica luterana a celebrare matrimoni omosessuali nonostante un terzo dei ministri di questa si siano detti contrari; in Scozia due ostetriche cattoliche sono state obbligate da una sentenza a prendere parte a un aborto effettuato dalle loro colleghe, mentre dal canto suo l'Ordine dei medici inglese ha stabilito che i medici stessi «devono» essere preparati a mettere da parte il proprio credo personale riguardo alcune aree controverse.
Ancora: in un recente video di David Bowie, in cui la celebre rockstar è abbigliato in modo che ricorda Gesù, la scena mostra un prete che dopo aver percosso un mendicante entra in un bordello e qui seduce una suora sulle cui mani subito dopo si manifestano le stigmate; in Inghilterra, a un'infermiera è stato proibito di portare una croce al collo durante l'orario di lavoro, mentre una piccola tipografia è stata costretta ad affrontare le vie legali per essersi rifiutata di stampare materiale esplicitamente sessuale commissionatole da una rivista gay; in Francia, in base alla legislazione vigente, è di fatto impossibile per i cristiani sostenere pubblicamente che le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso costituiscono secondo la loro religione un peccato. E così via in un profluvio impressionante di casi (per informarsi dei quali non c'è che andare sul sito wwww.intoleranceagainstchristians.eu ).
Senza contare che ormai in quasi tutti i Paesi europei, al fine proclamato di impedire qualunque pratica discriminatoria, è stata cancellata l'erogazione di fondi alle istituzioni cristiane, così come è stata cancellata la clausola a protezione della libertà di coscienza nelle professioni mediche e paramediche. Non si contano infine in tutte le sedi più o meno ufficiali, a cominciare da quelle scolastiche, i casi di cancellazione, a proposito delle relative festività, della parola Natale, sostituito dal neutrale «vacanze invernali» o simili.
Ce n'è abbastanza da suscitare la preoccupazione di qualunque coscienza liberale. Qui infatti non si tratta tanto di cristianesimo, di Chiesa, o di religione, bensì di qualcosa di ben più importante: si tratta di libertà. E di storia. Di consapevolezza cioè che in Europa la libertà religiosa ha rappresentato storicamente l'origine (e la condizione) di tutte le libertà civili e politiche. Essere assolutamente liberi di adorare il proprio Dio, di propagarne la fede, di osservarne i comandamenti, di aderire alla visione del mondo e al senso dell'esistere che questi definiscono, di praticarne pubblicamente il culto; ma anche naturalmente essere libero di non avere alcun Dio e alcun culto: da qui è partito il cammino della libertà europea. E c'è bisogno di ricordare che si è trattato del Dio cristiano?
La libertà religiosa vuol dire alla fine null'altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore. Che è appunto la libertà di autodeterminarsi: e pertanto anche di parlare, di scrivere, di discutere a sostegno delle proprie convinzioni, così come di ascoltare quelle altrui e magari farsene convincere.
Insomma, libertà religiosa da un lato e dall'altro libertà di opinione e di parola - che sono i due pilastri della libertà politica - vanno all'unisono. È innanzi tutto da questo punto di vista, dunque, che è quanto mai preoccupante il fatto che oggi, in Europa, in molti luoghi e per molti versi, la libertà dei cristiani appaia oggettivamente messa in pericolo. E non importa che ciò avvenga per il proposito di proteggere da supposte discriminazioni questa o quella minoranza. È anzi semplicemente paradossale, dal momento che nell'attuale panorama del continente sono i cristiani in quanto tali che appaiono una minoranza. Lo sono di certo - e massimamente i cristiani cattolici e la loro Chiesa - rispetto al mainstream dell'opinione e del costume dominanti e culturalmente accreditati.

Basta vedere come nelle materie più scottanti alcuna voce autorevole, riconosciuta generalmente come tale, si alzi quasi mai a sostegno del loro punto di vista; come ogni accusa nei confronti loro e del loro clero raccolga sempre larghissimo favore; come ogni attribuzione di responsabilità storica per qualunque cosa negativa del passato, anche la più fantasiosa, sia invece sempre di primo acchito giudicata fondatissima. 
È forse ora che l'Europa che si dice e si vuole «Europa dei diritti» - ma che finisce troppo spesso per essere solo l'Europa del pensiero unico politicamente corretto - ricordi il celebre ammaestramento di una grande figlia dell'ebraismo rivoluzionario, Rosa Luxemburg. La quale si può presumere che come ebrea e rivoluzionaria sapesse bene ciò di cui parlava: «La libertà è sempre e solo la libertà di chi la pensa diversamente».

Non temere !

Non temere! Accogli l'ignoto e l'impreveduto e quanto altro ti recherà l'evento; abolisci ogni divieto; procedi sicuro e libero. Non avere omai sollecitudine se non di vivere. Il tuo fato non potrà compiersi se non nella profusione della vita.
Gabriele D'Annunzio 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/paura-e-coraggio/frase-8152?f=a:4932>

sabato 1 giugno 2013

Tel Aviv, l'altra Silicon Valley

D«In Israele ci sono troppe buone idee: il problema è capire quali sono utili», quelle cioè che servono alla gente e al mercato e fanno guadagnare. A dispetto dei suoi 28 anni, Yoav Oz di Star-Tau, fisico da Navy Seals israeliani con i quali ha effettivamente prestato servizio di leva, insegna a chi ha quelle idee a farne un business. A trasformare un'intuizione in un'impresa.

Delle 20 domande di ammissione che ogni giorno riceve da quando ha aperto i battenti cinque mesi fa, Star-Tau ha selezionato 32 idee meritevoli di diventare una start-up. Questo stesso centro di educazione all'impresa creato da un gruppo di studenti all'ombra della Tau, l'Università di Tel Aviv, è una nuova impresa. La Tau aveva dato loro 1.500 dollari e oggi muovono un capitale da un milione.
Quando trova il suo terreno naturale, una start-up è un cromosoma culturale ed economico in continua mutazione. Secondo lo start-up Ecosystem Report 2012 nessun luogo al mondo dopo la Silicon Valley gli è più congeniale di Tel Aviv. Seguono Los Angeles, Seattle, New York, Boston e Londra. Per essere precisi, più di Tel Aviv, il quartiere Nord orientale di Ramat Hahayal. L'universo israeliano dell'hi-tech e dei media digitali lo ha sviluppato in questo quindicennio semplicemente perché nel folle mercato immobiliare della città, i prezzi erano i più bassi. E per la vicinanza all'Università: della fenomenale impresa israeliana delle start-up, i 57 college e le otto università del Paese sono un approdo fondamentale.

È più complesso spiegare perché in Israele è accaduto tutto questo. Perché in un Paese di 7,8 milioni di abitanti, con qualche serio problema geopolitico alle porte, operino 5mila start-up: alcune muoiono, molte diventano imprese consolidate, altre sono acquistate da stranieri. «Dopo 24 mesi una start-up deve incominciare a prendere i soldi dal mercato», dice Ziv Min-Dieli di The Time, uno dei 25 incubatori privati del Paese: in questo crescono 40 start-up e 400 sperano di entrare. Ma ogni anno ne nascono di nuove: 546 nel 2011, 575 l'anno scorso. Un programma statale iniziato un ventennio fa con 100mila dollari ha creato un'industria da quattro miliardi. «Un master plan non è mai esistito», spiega Benny Zeevi, co-presidente di Israel Advanced Technology Industries, una piattaforma delle start-up. «In un certo senso eravamo come Cristoforo Colombo: era partito con una mappa sbagliata eppure ha scoperto l'America».

Ma se negli Usa e in Europa le start-up sono genio e iniziativa privati con il corollario di amministrazioni locali lungimiranti, in Israele è molto di più. È l'impresa collettiva che definisce una nazione. Come i kibbutz 65 anni fa. Le start-up sono il kibbutz tecnologico del XXI secolo. Per spiegarne il senso, il miliardario Yossi Vardi usa la parabola della "madre ebrea": «La tecnologia è ovunque. Ma in Israele tutti i figli sanno che la mamma dirà loro: con tutto quello che ho fatto per te, è troppo chiederti almeno un Nobel?». Negli ultimi dieci anni Israele ne ha prodotti sei: le mamme dovrebbero essere soddisfatte.
Tutto incomincia nel 1985 (Primo ministro Shimon Peres) con il programma di stabilizzazione economica che trasforma Israele da Stato del welfare socialdemocratico in neo-liberale. Prosegue con la rivoluzione tecnologica delle Forze armate (Shimon Peres); con la Perestroika che permette a migliaia di scienziati, matematici, inventori russi di emigrare in Israele: il passaggio dal bagaglio teorico della loro educazione sovietica a quello applicativo e commerciale ha richiesto forse cinque anni, non una generazione. Poi c'è stato il dividendo della pace di Oslo: nel 1973 le spese militari erano il 35% del Pil, a partire dagli anni 90 scendono al 9. In maniera totalmente bipartisan, i governi assemblano il valore aggiunto di tutti questi avvenimenti politici e investono nei nuovi incubatori. A partire dal decennio scorso gli incubatori passano interamente ai privati. La nuova frontiera delle start-up ora è la ricerca nella neuro-biotecnologia. 

Senza lo Stato, tecnologia e start-up non avrebbero avuto queste dimensioni. «Israele è piccolo e non è uno Stato federale: per Gerusalemme è più facile determinare quel che accade a Tel Aviv», spiega Avi Hasson, responsabile dell'ufficio del Chief Scientist del ministero dell'Industria. Hasson è il regolatore del mondo delle start-up e dei suoi finanziamenti: controlla i 25 incubatori del Paese, garantisce le infrastrutture e molto denaro. «Noi non diamo soldi alle imprese ma ai progetti di ricerca», precisa Hasson, 46 anni, venti dei quali da venture capitalist privato, triennio di leva nello Shmoneh-Matayim. È l'Unità 8200 dove i giovani geni del Paese passano i tre anni di leva obbligatoria a inventare cose. Prima della pillola con la nanocamera per indagare nell'intestino, il suo creatore aveva concepito la microcamera sulla punta delle bombe sganciate dall'aviazione.

Fissate le regole, ogni università, ogni incubatore è libero di fare ricerca e raccogliere fondi. Anzi, ha il dovere di farlo. Get Taxi è incominciato con un app e ora non è solo più semplice chiamare da un cellulare un'auto pubblica in tutto Israele, 200 black cabs se sei a Londra e 200 taxi a San Pietroburgo. È nata una filosofia: «È più facile e meno dispendioso andare da un punto A a un punto B, riduce il traffico, è tutto più ecologico», dice Nimrod May, Global VP marketing di Get Taxi. Ma quando Dov Lautman di Delta, capitano storico dell'industria tradizionale, stabilisce che «prima della stoffa c'è il corpo» e vende 300 milioni di canotte e mutande nel mondo dopo un processo produttivo di 18 gradi d'innovazione, anche la grande manifattura gode delle ricadute delle start-up.

Quando Rafi Gidron attraversa la lobby del David Intercon la gente si volta a guardare, qualcuno si avvicina per stringergli la mano. Secondo la similitudine start-up/kibbutz, Rafi per Israele è un Moshe Dayan del XXI secolo. Fra le tante, nel 1997 ha creato una start-up chiamata Chromatis che nel 2000 Lucent ha comprato per 4,7 miliardi di dollari: la più grande acquisizione della storia d'Israele. 
Vent'anni fa, quando è iniziata l'avventura israeliana delle start-up, «un ingegnere di Tel Aviv guadagnava un quinto del salario di un americano», spiega Eyal Reshef, fondatore di Israel Media Mobile Association. «Ora non è più così: costa il 110% in più». È un segno di benessere, di maturità. E l'avviso che bisogna inventare qualcos'altro di nuovo, vincere altri Nobel per soddisfare gli investitori e continuare a far felici le mamme d'Israele.

Ugo Tramballi - Il Sole 24 Ore http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-05-26/aviv-altra-silicon-valley-082209.shtml?uuid=AbYWxHzH&p=2