lunedì 26 gennaio 2015

L'invenzione della memoria

«Spara nelle tenebre, e anni dopo sono le tenebre a sparare di rimando». Con questa inedita metafora bellica, che evoca le trincee o i cecchini appostati tra le rovine delle città distrutte, Katja Petrowskaja, l’autrice di Forse Esther, ha offerto una perfetta rappresentazione del suo metodo di indagine storica. Nata a Kiev nel 1970, Katja Petrowskaja vive a Berlino, e ha scritto in tedesco un’appassionante cronaca familiare, che è anche un romanzo di formazione e un superbo esercizio di stile. La sua è stata una famiglia di ebrei con una particolare vocazione: l’insegnamento ai sordomuti.

Quello della scrittrice è un metodo di ricerca totale, che si avvale degli strumenti più classici (letture, interviste, sopralluoghi) come delle sorprese elargite da internet («il muro del pianto dei non credenti»). Ma il tono fondamentalmente concitato del suo libro esprime una forma di urgenza che possiamo ben comprendere. Katja Petrowskaja scrive prima che sia troppo tardi, prima che da quel buio che interroga non giunga più nemmeno un colpo di rimando.

Il fatto è che il cosiddetto «secolo breve», con tutti i suoi inauditi orrori e i suoi luminosi esempi di grandezza umana, sta perdendo uno a uno i testimoni diretti, coloro che «hanno visto con i propri occhi». In teoria, non c’è nulla di nuovo sotto il sole: ogni epoca della storia umana ha attraversato questa mutazione della memoria collettiva. Sarà venuto il giorno in cui l’ultimo soldato delle guerre puniche, un vecchio centurione carico di ricordi e di ferite, avrà chiuso per sempre gli occhi stanchi del mondo. In questi casi, è come se nella continuità del tempo si aprisse un crepaccio. Si potrebbe dire che l’evento, proprio per non perdere la sua realtà, stabilisce un diverso genere di relazione con la memoria.

Appena prima che il crepaccio diventi una voragine, la testimonianza cede la staffetta all’immaginazione. È abbastanza intuitivo che un processo così delicato non possa mai filare del tutto liscio. Ma nella storia umana non era mai accaduto che la ricerca di una verità condivisa fosse concepita e praticata in modo così drammatico. Dal genocidio degli armeni alla guerra civile spagnola, dall’assassinio di Kennedy al crollo dell’impero sovietico, non c’è documento così solido e incontrovertibile da non poter essere investito dall’ombra del dubbio. Una volta si diceva che la storia la scrivono i vincitori: era una triste massima, ma almeno corrispondeva a un principio razionale. Oggi si potrebbe dire che i più accaniti nel conquistare il privilegio di scrivere la storia siano i negatori.

Proprio mentre la tecnologia consentiva un’inaudita moltiplicazione delle prove, esse hanno finito per diventare il maggiore alimento del dubbio. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo il caso di quella ricca letteratura demenziale impegnata a svelare che l’11 settembre 2001 le Torri gemelle crollarono a causa di un complotto della Cia, o di qualche associazione segreta ebraica…

È questo il senso dell’incubo raccontato da Primo Levi nel suo ultimo libro: l’atroce destino di chi scampa ad Auschwitz per rendersi conto, col passare del tempo, che più nessuno crede a ciò che ha visto.

Strano a dirsi, ma le tecniche della letteratura, unite al talento dei singoli, hanno un grande ruolo sia, come è facilmente intuibile, nel campo dell’immaginazione, sia in quello della testimonianza. La letteratura non «abbellisce» inutilmente i discorsi umani, ma ne sperimenta in direzioni inaudite l’efficacia storica, il carattere esemplare, la memorabilità. Inoltre, il suo punto di vista è sempre quello del singolo (solo la cattiva letteratura, cioè la propaganda, fa leva su un «noi» del tutto fittizio). La verità alla quale aspira è quella che può essere ottenuta, al termine di cammini che sono spesso lungi e tortuosi, dall’individuo, sempre in lotta contro il tempo e i limiti del suo talento.

È per questo motivo che i libri di Primo Levi risulteranno sempre non certo più «veri» degli atti del processo di Norimberga, ma sicuramente più «credibili». È la loro implicita debolezza a farne la forza. Affidandosi alla concretezza del destino personale, che è irripetibile e diverso da ogni altro, anche ciò che ormai credevamo risaputo in ogni minimo dettaglio si mostra visibile da prospettive che non sospettavamo.

Da questo punto di vista, avrebbe meritato una maggiore attenzione la traduzione italiana di un libro di Marcel Cohen intitolato La scena interiore, apparso da Gallimard nel 2013. Non si tratta solo della bellezza e dell’originalità dello stile e della struttura, che ne fanno un gioiello della prosa francese contemporanea, come è stato osservato da molti recensori in patria. Un incredibile concorso di circostanze ha fatto sì che Cohen incarnasse successivamente il ruolo di testimone diretto e quello di chi, scrutando la propria stessa vita dalla distanza siderale creata dal tempo, è costretto a indagare sul passato interrogando indizi talmente esili da sfiorare l’insignificanza assoluta.

Siamo a Parigi nel 1943: lo stesso cupo scenario mirabilmente evocato da Patrick Modiano in Dora Bruder, il suo romanzo più bello. Per tutti gli ebrei che non hanno potuto abbandonarla in tempo, la città si è trasformata in una trappola. La Gestapo, con la complicità attiva del regime di Vichy e della sua polizia, pattuglia ogni quartiere, ogni strada, ogni palazzo. Basta la soffiata di un vicino di casa per finire su un convoglio destinato ad Auschwitz. Ci sono addirittura dei giornali infami, come il «Je suis partout» di Robert Brasillach, che in un’apposita rubrica rivelano indirizzi e nascondigli. I Cohen vivono la vita grama e terrorizzata di chi, per uscire di casa, deve mostrare la stella gialla cucita bene in vista sui vestiti. Sefarditi, abili commercianti, devoti ma non bigotti, vengono da Istanbul. Il più anziano in famiglia è il nonno paterno di Marcel, Mercado Cohen, rispettato come un rabbino per la sua saggezza e la profonda conoscenza del Talmud. Nel 1943 ha settantanove anni. I suoi figli cercano di convincerlo ad abbandonare la sua poltrona nell’appartamento di boulevard de Courcelles, per sfuggire ai rastrellamenti. Lui risponde che «solo i ladri e gli assassini pensano a nascondersi». Ma sembra una disputa abbastanza accademica, perché per i Cohen un posto per nascondersi non esiste.

Al capo opposto dell’anagrafe familiare c’è Monique, la sorellina minore di Marcel, nata il 14 maggio 1943 e partita per Auschwitz con il convoglio del successivo 17 dicembre. Marcel, che è nato nel 1937 e nel 1943 era un bambino di cinque anni, è l’unico scampato dei Cohen, grazie a uno di quei casi fortuiti che possono diventare l’imperscrutabile sostanza di un intero destino. La mattina in cui la sua famiglia venne catturata, era uscito con la bambinaia, che lo aveva portato a giocare al Parc Monceau, a poche decine di metri da casa.

L’uomo che a settantaquattro anni ha deciso di erigere un monumento alla sua famiglia sparita nel nulla, ha vissuto intensamente la sua vita, diventando un critico d’arte, un inviato, un romanziere. Il suo stile scarno, ancorato ai dati di fatto, non importa quanto minimi, non è semplicemente una scelta letteraria fra le tante possibili, dettata dal gusto personale. Rappresenta in maniera perfetta l’assoluta scarsità dei materiali che gli hanno permesso di affrontare la sua impresa.

Nel testo, l’alternanza di corsivo e tondo rende evidente la duplice natura del suo punto di vista: da un lato quello del testimone diretto che raccoglie con fatica dal fondo di se stesso ricordi ormai lontanissimi, e dall’altro quello dell’archeologo che si interroga sul significato di un piccolo numero di sparsi frammenti scampati alla distruzione. Si tratta di una manciata di foto, o di un portauovo di legno con la vernice scrostata, di un vecchio violino senza corde, o ancora di una retina per capelli, di un portacenere di legno scolpito a forma di orso…

Che siano esistiti per i Cohen giorni normali e addirittura felici, solo quegli oggetti umili e levigati dal tempo possono dimostrarlo. Sono l’alfabeto di un linguaggio di «fatti» che lo scrittore tenta di far parlare limitando al massimo l’intervento personale. Si tratta, ovviamente, di un’impresa impossibile, perché non c’è linguaggio che possa parlare da sé, senza un soggetto vivo che lo manovri e, per quante cautele possa impiegare, finisca per deformarlo.

Come ammoniva Nabokov nel suo stupendo saggio su Gogol’, in realtà «i nudi fatti non esistono allo stato di natura », e la peggiore condizione in cui possa trovarsi uno scrittore è proprio quella di perdere «il dono di immaginare i fatti». Ma sono convinto che la struggente, indimenticabile bellezza del libro di Cohen consista proprio nel trarre il maggior partito artistico dalla contraddizione dei propositi e dei risultati. Una vera conoscenza è solo quella che accetta di caricarsi sulle sue spalle «l’ignoranza, l’inconsistenza e i vuoti» che paradossalmente la rendono possibile. La scena interiore è una grande lezione di stile, e dunque una lezione morale capace, tra tante inutili prediche, di convincere i suoi lettori.

Emanuele Trevi - La Lettura - Corriere della Sera (http://lettura.corriere.it/linvenzione-della-memoria/)


lunedì 12 gennaio 2015

"Non incolpare nessuno", di Pablo Neruda


Non incolpare nessuno,
non lamentarti mai di nessuno, di niente,
perché in fondo
Tu hai fatto quello che volevi nella vita.
Accetta la difficoltà di costruire te stesso
ed il valore di cominciare a correggerti.
Il trionfo del vero uomo
proviene delle ceneri del suo errore.
Non lamentarti mai della tua solitudine o della tua sorte,
affrontala con valore e accettala.
In un modo o in un altro
è il risultato delle tue azioni e la prova
che Tu sempre devi vincere.
Non amareggiarti del tuo fallimento
né attribuirlo agli altri.
Accettati adesso
o continuerai a giustificarti come un bimbo.
Ricordati che qualsiasi momento è buono per cominciare
e che nessuno è così terribile per cedere.
Non dimenticare
che la causa del tuo presente è il tuo passato,
come la causa del tuo futuro sarà il tuo presente.
Apprendi dagli audaci,
dai forti
da chi non accetta compromessi,
da chi vivrà malgrado tutto
pensa meno ai tuoi problemi
e più al tuo lavoro.
I tuoi problemi, senza alimentarli, moriranno.
Impara a nascere dal dolore
e ad essere più grande, che è
il più grande degli ostacoli.
Guarda te stesso allo specchio
e sarai libero e forte
e finirai di essere una marionetta delle circostanze,
perché tu stesso sei il tuo destino.
Alzati e guarda il sole nelle mattine
e respira la luce dell'alba.
Tu sei la parte della forza della tua vita.
Adesso svegliati, combatti, cammina,
deciditi e trionferai nella vita;
Non pensare mai al destino,
perché il destino
è il pretesto dei falliti.
( Non è certo che sia di Neruda, ma è molto intensa )

Un grande Amico, un grande Professionista

I makers sono gli artigiani del Rinascimento digitale

(Piero Fissore, Flickr/CC)
(Piero Fissore, Flickr/CC)
Due anni fa avevo scritto sulle pagine cartacee di Wired degli artigiani del digitale, al secolo i makers. La previsione della loro importanza si è rivelata azzeccata e per questo vale la pena riprendere il tema.
Il modello produttivo italiano (pmi, strutture distrettuali a rete, forte presenza della cultura artigiana) non è un’anomalia, ma anzi possiamo dire che anticipa i modelli organizzativi ed imprenditoriali del XXI secolo. Questo modello è inoltre molto “coerente” con gli sviluppi organizzativi suggeriti dalla digital economy (economie di rete, social networking, 2.0). La vera anomalia è quindi il fatto che queste imprese e aggregazioni di imprese abbiano una bassa adozione delle tecnologie digitali.
Bisogna dunque ridare centralità alla cultura artigiana e coglierne la dimensione di grande contemporaneità. Claude Lèvy-Strauss sosteneva infatti che l’artigiano fosse “il principe degli innovatori”.
Oltretutto i concetti di artigianato e di digitale – a lungo considerati distanti, se non incompatibili – sono invece fortemente collegati e lo sono doppiamente. Innanzitutto come processo produttivo: sviluppare una soluzione software, un’app, un’interfaccia digitale, un modello 3D di un luogo non è certamente un processo industriale che può essere standardizzato e automatizzato. Ma ance il loro utilizzo richiede personalizzazione e adattamenti tipici degli artefatti artigiani. Non si tratta inserire nei contesti organizzativi soluzioni digitali che impongano metodi e comportamenti standard – che sarebbero deleteri nel mondo e delle imprese, togliendo diversità, dinamicità e  in ultima istanza competitività – quanto piuttosto di adattare una “cassetta di attrezzi” a uno specifico contesto, bilanciando correttamente buone pratiche consolidate con specificità individuali.
Nel se-durre (che non vuol dire semplicemente condurre verso una direzione prestabilita) sta il segreto dell’artigianato digitale. La materia digitale non è inerte, ma anzi è quasi magica e – come noto – può vivere di vita propria e andare spesso verso direzioni non previste (né volute) dai suoi progettisti. Pertanto l’artigianodigitale deve sedurre (e talvolta anche sedare) le infinte potenzialità della materia digitale e applicarle a un contesto sempre diverso e sempre cangiante, ma con molti elementi ricorrenti e persistenti. Il suo rapporto con la diversità è di com-prensione: la diversità è un elemento distintivo da valorizzare e non una imperfezione, un difetto da eliminare sfuggito dal controllo di qualità costruito a tavolino da qualche ingegnere della produzione che non è mai uscito dai suoi uffici per osservare la vita reale delle imprese.
Il movimento dell’open source, la parallela standardizzazione delle interfacce e l’esplosione delle tecnologie “digitali” di fabbricazioni (dai laser cutter a controllo digitale fino alle varie forme di stampanti 3D) ha creato un vero e proprio boom di “materia prima digitale” a elevate prestazioni e costi particolarmente contenuti su cui l’artigiano può esercitare le sue attività di adattamento e personalizzazione e quindi sedurne la forma, per citare un’altra espressione che Lévy-Strauss utilizza per descrivere l’attività dell’artigiano.  Possono essere routine software riutilizzabili, modelli 3D di oggetti stampabili o semplici immagini da includere in presentazioni.
Un’altra interessante analogia tra la cultura artigiana e la pratica informatica è l’attività di riparazione (o “manutenzione”). In effetti fabbricare e riparare sono un tutt’uno e solo chi gestisce entrambe queste attività vede al di là delle singole componenti dell’oggetto e può coglierne la finalità complessiva e le specificità delle tecnologie utilizzate. Solo aggiustando si capisce infatti come le cose funzionano intimamente, si svela l’anima degli oggetti. Bellissimo a questo proposito un dialogo del film Hugo Cabret di Martin Scorsese – un vero e proprio inno alla cultura artigiana che ha vinto 5 Oscar. Il film narra della storia di Hugo, figlio dell’orologiaio Cabret, e della storia del cinema ai suoi esordi, dove la componente artigiana era massima. Afferma Hugo: «Ogni cosa ha uno scopo, perfino le macchine: gli orologi ti dicono l’ora, i treni ti portano nei posti, fanno quello che devono fare. Forse per questo i meccanismi rotti mi rendono triste; non possono più fare quello che dovrebbero. Forse è lo stesso con le persone: se perdi il tuo scopo, è come se fossi rotto … E questo il tuo scopo ? Aggiustare le cose ?».
Anche la crescente sensibilità ambientalista, che guarda con preoccupazione gli sprechi ed è consapevole che le risorse del nostro mondo sono limitate, richiama con forza la cultura artigiana. Il suo considerare sempre più importante il riciclo, il riutilizzo e la minimizzazione dei costi energetici – non solo quelli relativi alla produzione ma anche quelli necessari per l’estrazione delle materie prime e per il loro trasporto nei luoghi di lavorazione industriale – ridà centralità all’uso dei materiali tipici del luogo (a Km zero …) e alla cultura vernacolare di cui l’artigianato è l’espressione più autentica.
Il fine dell’artigiano non si esaurisce nella funzione che svolge e da cui trae sussistenza e prestigio, ma si lega ad un’altra caratteristica fondativa della cultura artigiana, la maestria, che rimanda ad un impulso umano primordiale: il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso, la passione e la cura per quello che si fa, la cosiddetta craftsmanship. «Good enough is not enough» usava affermare il famoso pubblicitario americano Jay Chiat. Oltretutto – come osserva Lev Manovich quando parla diassemblaggio profondo – nell’artigianato digitale ciò che viene assemblato (o meglio remixato) non è solo il contenuto di diversi media ma anche le loro tecniche, i processi produttivi e le modalità di rappresentazione ed espressione. Il digitale diventa contenuto, contenitore  e collante capace di riunire in un’unica piattaforma “fruitiva” i linguaggi del cinema, dell’animazione tradizionale e di quella computerizzata (con i suoi strabilianti effetti speciali). In questo ambiente digitale convivono i prodotti dell’infografica più innovativa con le tecniche tipografiche tradizionali, la cultura aforistica di origine sapienziale con gli emoticon e con l’esplosione delle immagini – reali, manipolate, in movimento.
Un’ultima riflessione: il fondamentale (quanto trascurato) rapporto tra la cultura artigiana e la città, anzi la Smart City. Artigianato e commercio al dettaglio – spesso intimamente uniti dal concetto di bottega (dove lo spazio della produzione si fonde con quello della vendita) – sono il cuore dell’ecosistema produttivo urbano. Per loro la città è luogo di produzione e loro devono essere i principali destinatari di molte delle innovazioni promesse dalle Smart City: pensiamo ai FabLab, agli spazi di co-working, alla rivoluzione dell’Internet delle cose (che introdurrà intelligenza e connettività anche nei manufatti artigiani), agli open data sul consumo fino alla logistica merci elettrica e a forme innovative (ad es. con i droni) per la consegna a domicilio.
Confartigianato ha correttamente messo in luce in una recente analisi sulle Smart City fatta dal suo Ufficio Studi (La città intelligente artigiana. Il contributo di Confartigianato alle città intelligenti in Italia) che gli artigiani sono nei fatti l’ultimo miglio della Smart City: dovunque ci sono reti serve chi cabla e manutiene; l’innovazione energetica richiede istallatori; la rivoluzione ICT richiede artigiani digitali. Solo nei 124 principali comuni italiani, le imprese artigiane attive nei settori associati alle Smart City sono ben 335.390. Per questo motivo – cita il rapporto – «Le MPMI artigiane si candidano a rappresentare l’ultimo miglio delle città intelligenti, il reticolo di competenze e soluzioni, tanto innovative quanto concrete, in grado di implementare rapidamente e con efficacia ogni nuova visione di governance e di servizi alle comunità urbane, garantendo al contempo diffusione capillare e contatto con i cittadini».

Il buonismo che ci acceca

Difficile convivere con chi ci considera nemici da colonizzare. Carenze culturali e politiche sono retoriche supplenze di identità ambigue

Il miserevole spettacolo che l’Italia politica e giornalistica sta dando sulla strage di Parigi e il suo seguito è figlio allo stesso tempo — salvo minoritarie e lodevoli eccezioni — di carenza culturale e di stupidità politica. Entrambe sono la retorica supplenza della nostra identità ambigua e compromissoria. Perciò, in nome della convivenza con l’Islam, auspichiamo di fondare un nuovo Illuminismo, non sapendo palesemente che ce n’è già stato uno sul quale abbiamo fondato la nostra civilisation, mentre sono loro che non lo hanno ancora fatto e che dovrebbero farlo.Ci si è lamentati che le forze dell’ordine francesi non fossero riuscite a catturare rapidamente i due lombrosiani criminali artefici della strage parigina. Ignoriamo, o fingiamo di ignorare, che ciò era dovuto al fatto che il cosiddetto estremismo islamico naviga nel mare delle collusioni e delle complicità con l’islamismo che chiamiamo ostinatamente moderato. Che moderato non è e che si è profondamente radicato nel continente con l’immigrazione. 

È stupefacente che a non capirlo sia proprio quella stessa sinistra che, da noi, aveva felicemente contribuito a isolare il terrorismo delle Brigate rosse prendendo realisticamente atto che esso navigava nel mare delle complicità antiliberali e anticapitalistiche generate dal «lessico familiare» comunista. L’ignoranza che, da noi, circonda il caso francese rivela l’incapacità culturale, non solo della sinistra, di capire che cosa è stata, in Occidente, l’uscita dal Medioevo, la separazione della politica dalla religione, la cancellazione del dominio della fede religiosa sulla politica e la nascita dello Stato moderno; incapacità di capire che si accompagna a quella di prendere atto, per converso, che l’Islamismo è ancora immerso nel Medioevo ed è soprattutto incapace di uscirne.Le patetiche invocazioni al dialogo, alla reciproca comprensione che si elevano da ogni chiacchierata televisiva, da ogni articolo di giornale, sono figlie di un buonismo retorico, politicamente corretto, incapace di guardare alla «realtà effettuale» con onestà intellettuale. 

Non stiamo dando prova neppure approssimativa di essere gli eredi di Machiavelli, bensì, all’opposto, riveliamo di essere i velleitari nipotini di Brancaleone da Norcia, lo strampalato protagonista di una saga cinematografica. Il miserevole spettacolo che diamo è anche la conseguenza dell’insipienza culturale di una sinistra che — perduto il rapporto organico con l’Unione sovietica, spazzata via dalle «dure repliche della storia» — non sa, o non vuole, darsi una identità. La nostra insipienza politica è generata dall’incultura. Non abbiamo perso l’occasione, anche questa volta, di mostrare d’essere un Paese da Terzo Mondo al quale, come non bastasse, un Papa pauperista detta la linea fra l’ottuso entusiasmo di fedeli che mostrano di credere ben poco nel messaggio di Cristo e molto più di essere i sudditi di una gerarchia che assomiglia a una corporazione o a un partito. Avevo definito l’Islam, in un precedente articolo, una teocrazia, aggiungendo che qualsiasi tentativo, da parte nostra, di trovare con esso una qualche forma di conciliazione si sarebbe rivelato, a causa della contraddizione logica e storica, illusorio.

Che piaccia o no al buonismo, siamo diversi. È inutile nascondersi dietro il dito di un universalismo di facciata che non regge alla prova della logica e della storia. Siamo anche migliori, avendo noi conosciuto, e praticato da alcuni secoli — a differenza di loro che sono, e vogliono restare, una teocrazia — la separazione della religione dalla politica. Pur con tutti i nostri limiti, pratichiamo l’insegnamento dell’Illuminismo e siamo entrati da tempo nella Modernità, mentre loro ne sono ancora fuori e non danno neppure segno di volerci entrare. Viviamo in regimi che praticano la tolleranza nei confronti di chi non la pensa allo stesso nostro modo o professa una religione diversa dalla nostra; siamo società che, per dirla con Isaiah Berlin, professano e rispettano la «pluralità di valori». Chi non la pensa come noi, non è considerato e trattato come un nemico. Loro ci considerano «infedeli» rispetto alle loro convinzioni e alla loro prassi; un nemico da sterminare come hanno fatto nei confronti della redazione del settimanale satirico parigino il cui torto era di aver fatto dell’ironia sul loro credo. Per noi, gli islamici sono gente che la pensa in un modo diverso. 

Da figlio del Cristianesimo e del liberalismo mi chiedo come si possano uccidere uomini e donne in nome del proprio dio. Il criminale che torna sui suoi passi per finire un agente ferito e a terra è una bestia, con tutto il rispetto per gli animali. Le nostre reciproche culture sono inconciliabili ed è persino ridicolo auspicare che ci si possa incontrare almeno a metà strada. Dovremo convivere, sapendo che ci vorrebbero colonizzare e dominare attraverso quel «cavallo di Troia» che è l’immigrazione e che noi stessi incoraggiamo. Lo ripeto. Non siamo noi che dobbiamo riscoprire le nostre radici. Sono loro che devono rinunciare alle loro. Sempre che vogliano convivere pacificamente. Cosa di cui dubito.




domenica 11 gennaio 2015

@pier61: C'è l'emergenza casa ma senza balcone 150 appartamenti rimangono vuoti. Non li vogliono. Succede a #bologna http://t.co/vcNbywhZvV

@pier61: C'è l'emergenza casa ma senza balcone 150 appartamenti rimangono vuoti. Non li vogliono. Succede a #bologna http://t.co/vcNbywhZvV

by Pierangelo Raffini



January 11, 2015 at 06:30PM

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Vogliono uccidere la nostra anima

Gli autori dell’attacco al «Charlie Hebdo» non sono pazzi criminali, li muove un’ideologia politica. Più l’Occidente si autocensura, più diventeranno audaci

di Ayaan Hirsi Ali

Dopo la carneficina di mercoledì, forse l’Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e Islam radicale. 

Questo non è stato un attacco sferrato da uno squilibrato, da un lupo solitario. Non è stata un’aggressione per mano di delinquenti qualunque. Era stata programmata per fare più morti possibile, durante una riunione di redazione, con armi automatiche e un piano di fuga. Gli assassini volevano seminare il terrore, e ci sono riusciti. Ma di cosa ci sorprendiamo? Se c’è una lezione da imparare, è che tutto ciò che noi crediamo dell’Islam non ha alcun peso. Questo tipo di violenza, la jihad, rappresenta quello in cui credono gli islamisti. Il Corano è disseminato di appelli alla jihad violenta, ma non solo. In troppa parte dell’Islam, la jihad si è evoluta in un’ideologia moderna. La «bibbia» del jihadista del ventesimo secolo è «Il concetto coranico della guerra», scritto dal generale pakistano S.K. Malik. 

Nella sua analisi l’anima umana - e non il campo di battaglia fisico - rappresenta il centro dove portare il conflitto. E il modo migliore di colpire l’anima è attraverso il terrore, «il punto in cui il mezzo e il fine si ricongiungono». Ogni volta che giustifichiamo la loro violenza in nome della religione, ci pieghiamo alle loro richieste. Nell’Islam, è un grave peccato rappresentare o denigrare il profeta Maometto. I musulmani sono liberi di crederci, ma perché devono imporlo ad altri? L’Islam, con i suoi 1.400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli, dovrebbe riuscire a tollerare qualche vignetta. L’Occidente deve costringere i musulmani, specie quelli della diaspora, a rispondere a questa domanda: che cosa è più offensivo per un credente, l’uccisione, la tortura, la schiavitù, la lotta armata e gli attacchi terroristici in nome di Maometto, o la produzione di disegni, film e libri che si fanno beffe degli estremisti e della loro visione di ciò che Maometto rappresenta? 
Per rispondere a Malik, la nostra anima in Occidente crede nella libertà di coscienza e parola. Sono le libertà che formano l’anima della nostra civiltà. Ed è proprio in questo che gli islamisti ci hanno attaccato. Tutto dipende da come reagiremo. Se ci convinciamo di combattere contro un manipolo di pazzi criminali, non saremo in grado di fornire risposte. Dobbiamo riconoscere che gli islamisti di oggi sono motivati da un’ideologia politica, radicata nella dottrina fondante dell’Islam. Sarebbe un notevole cambiamento di rotta per l’Occidente, che troppo spesso ha reagito alla violenza jihadista con tentativi di conciliazione. Cerchiamo di blandire i capi di governo islamici che premono per costringerci a censurare stampa, università, libri di storia, programmi scolastici. Loro alzano la voce, e noi obbediamo. In cambio cosa otteniamo? I kalashnikov nel cuore di Parigi. Più ci sforziamo di attenuare, placare, conciliare, più ci autocensuriamo, più il nemico si fa audace ed esigente. 

C’è una sola risposta a questo vergognoso attacco jihadista contro Charlie Hebdo : l’obbligo di media e leader occidentali, religiosi e laici, di proteggere i diritti elementari di libertà di espressione, che sia la satira o altro. L’Occidente non deve più inchinarsi, non deve più tacere. Dobbiamo inviare ai terroristi un messaggio univoco: la vostra violenza non riuscirà a distruggere la nostra anima. 

Traduzione di Rita Baldassarre http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_09/vogliono-uccidere-nostra-anima-7e36261e-97ca-11e4-bb9d-b2ffcea2bbd2.shtml

venerdì 9 gennaio 2015

Il cambiamento è la legge della vita. Quelli che guardano solo al passato o al presente, sicuramente perderanno il futuro. (J.F.Kennedy)

Il cambiamento è la legge della vita. Quelli che guardano solo al passato o al presente, sicuramente perderanno il futuro. (J.F.Kennedy)

by Pierangelo Raffini



January 09, 2015 at 09:16PM

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giovedì 8 gennaio 2015

La rabbia e l'orgoglio

Oggi è il quinto anniversario della morte di Oriana Fallaci, che dieci anni fa aveva pubblicato sul Corriere della Sera il suo testo più famoso: che effetto vi fa, oggi?

In questi giorni di anniversario dell’11 settembre 2001 stiamo rivivendo le successioni degli eventi di dieci anni fa: ieri era il giorno che George Bush andò a Ground Zero, oggi quello in cui annunciò all’America di prepararsi alla guerra. Si discuteva in tutto il mondo di quello che era successo e di quello che sarebbe successo: due settimane dopo, il 29 settembre, il Corriere della Sera pubblicò un lunghissimo articolo (fu impaginato in una sorta di inserto graficamente inedito per l’epoca) di Oriana Fallaci, celebre giornalista e inviata che non scriveva da molto tempo. L’articolo era letterariamente molto originale e politicamente molto violento, e generò intorno reazioni altrettanto violente e un dibattito intenso: per il Corriere fu un successo editoriale notevolissimo a cui successero nuovi contributi e tentativi di imitazione diffusi. Per Fallaci fu un rientro sulla scena della discussione giornalistica e politica molto intenso, che implicò litigi e tensioni personali con molti e il ritorno sulla scena di un suo leggendario pessimo carattere. Quel testo fu accolto da molti come uno sfogo razzista e poco lucido privo di capacità di analisi equilibrata, e da altri come la liberazione di pensieri semplici ma fondati e troppo trattenuti da retoriche di correttezza politica. Fu in ogni caso un prodotto giornalistico di straordinario impatto e successo, cosa che dovette riconoscere anche chi non ne condivise niente. Oriana Fallaci morì il 15 settembre del 2006, cinque anni fa. Rileggere – o leggere per la prima volta – il suo articolo “La rabbia e l’orgoglio” (e la premessa scritta dal direttore del Corriere che allora era già Ferruccio De Bortoli), dopo dieci anni, è molto interessante.

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’ altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’ una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It’ s good to be angry, it’ s healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l’ ho vissuta io, quest’ Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella.

Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d’ un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L’ ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l’ audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull’ obiettivo, si getta sull’ obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l’ audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l’ aereo s’ è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro. Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’ aria. Sì, sembravano nuotare nell’ aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf!

(continua a leggere sul sito del Corriere della Sera

http://www.ilpost.it/2011/09/15/la-rabbia-e-lorgoglio/

venerdì 2 gennaio 2015

Testimoni del tempo. L’umanità ha bisogno di persone che...





Testimoni del tempo.


L’umanità ha bisogno di persone che testimonino la possibilità della fratellanza, in nome della conoscenza e della ricerca.



Sono realista, se volete pessimista per il presente, ciò non toglie che bisogna testimoniare e gettare i semi per piante che fruttiferanno nel futuro.






Non è possibile dire quando, ma è importante lasciare un segno, dire parole, formulare pensieri, vivere in una dimensione di segno opposto a quella dell’attuale imbecillità.


E soprattutto non bisogna scoraggiarsi.


Giordano Bruno



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