mercoledì 18 settembre 2013

La ripresa c’è, ma non per tutti dura selezione tra le imprese più soldi, niente assunzioni

Se questa fosse una guerra, un’impresa come quella di Tatiana Roberti andrebbe definita una creatura dei tunnel. Venivano chiamati così i figli dei Vietcong nati nei cunicoli scavati dai soldati per evitare i bombardamenti: per anni non videro mai la luce del sole, eppure crebbero lo stesso. Tatiana Roberti e suo marito Cristian Gatto hanno fondato la loro azienda nel 2007 in uno dei tanti capannoni dismessi che si trovano a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso.

Non sanno neanche cosa significhi fare gli imprenditori in tempi normali. Dall’inizio sono subito scesi nei tunnel per resistere ai colpi della recessione, che in questo caso significa un feroce controllo dei costi e massima specializzazione. Così la loro impresa di arredamento di spazi commercia-li, vetrine e showroom ha continuato a guadagnare per sette anni su sette, mentre l’economia italiana crollava del 9 per cento.
Ora però sta succedendo qualcosa di nuovo. Tatiana Roberti, 37 anni, nota nell’aria un fenomeno a lei quasi sconosciuto: «C’è movimento in giro », dice. Difficile spiegare in cosa consista, se non per un particolare: per chi ha resistito in questi anni – sostiene - sta diventando più facile riscuotere la fiducia dei committenti. La grande recessione ha selezionato i più coriacei, gli innovativi e magari anche chi ha avuto la buona sorte di non incappare nei ritardi di pagamento dello Stato. Molti degli altri hanno dovuto soccombere o si sono ritratti nelle loro nicchie. I più produttivi ora hanno finalmente lo spazio che cercavano. Forse è una ripresa darwiniana, ma per alcuni funziona. «Molti artigiani che non erano specializzati come noi non ci stanno più facendo concorrenza», spiega Tatiana Roberti. Lei sa cosa significhi stringere i denti e resistere. Mentre portava la sua impresa da 700 mila euro di fatturato a 1,8 milioni nel 2011 e 1,4 nel 2012, cercando di non superare mai i dieci dipendenti e affidandosi a collaboratori e consulenti, faceva anche altro. Ha avuto un figlio, spesso affidato ai nonni, e nel frattempo per cautela ha continuato a lavorare come dipendente in un’altra impresa. Tre vite in una aspettando che passasse la crisi.


Più difficile dire quando questo spicchio di buone notizie inizierà a vedersi anche nei grandi numeri del Paese. Per adesso in Italia si è visto solo un attutirsi della caduta, mentre nel complesso la zona euro ha festeggiato l’uscita dalla recessione con il secondo trimestre di quest’anno. Fra aprile e giugno la Germania è cresciuta dello 0,7 per cento, la Francia dello 0,5%, la Spagna ha avuto un segno meno di 0,1% e l’Italia è scivolata dello 0,3%. Non sarebbe niente da cui trarre conforto, se gli andamenti degli ultimi due anni non fossero stati ancora peggio.
In effetti non mancano i segnali che in autunno potrebbe essere finita la recessione più profonda mai vissuta dall’Italia in tempo di pace. Sulla base degli indici sul settore manifatturiero, il Centro studi di Confindustria ci crede. Gli investimenti sono scesi dell’1,1% nel secondo trimestre, ma è un passo avanti dopo il collasso dell’11% sul trimestre precedente; l’export è salito del 4,8%, dopo una caduta dell’8,2% fra gennaio e marzo (tutte variazioni trimestrali in ritmo annuale).
In sostanza la Cina sta tenendo meglio del previsto e la ripresa americana prosegue, dunque il made in Italy ha più compratori di prima. 

È in buona parte per questo che le imprese rimaste in vita, dopo un crollo di un quarto della produzione industriale, cercano di uscire dai tunnel e rinnovare le macchine per cogliere l’occasione.
Di recente per esempio la Pregia di Castelfranco, l’azienda di Tatiana Roberti, ha rifatto l’intera linea espositiva in Cina di un grande gruppo italiano dell’abbigliamento.
«È importante che questo miglioramento si sia registrato già prima dei pagamenti degli arretrati della pubblica amministrazione - osserva la banca Jp Morgan in un rapporto sull’Italia – adesso le entrate alzeranno molto la domanda e la fiducia delle imprese». Giovanni Bossi inizia a vederlo a Mestre, dov’è amministratore delegato di Banca Ifis. Il suo istituto compra crediti dalle imprese per riscuoterli e da luglio nota un’accelerazione. «Settembre di solito era un mese calmo, ma quest’anno sta andando eccezionalmente bene », osserva Bossi. I flussi di pagamento dello Stato si sono moltiplicati per sette, meno imprese debitrici saltano le rate di fine mese, mentre molte altre cercano di vendere i loro vecchi crediti per poter avere liquidità da investire subito. Morgan Stanley, un’altra grande banca americana, stima che in un anno il versamento degli arretrati dello Stato possa portare all’Italia mezzo punto percentuale di crescita in più. In altri tempi sarebbe stato un dettaglio statistico, oggi no.
C’è però chi non beneficerà di queste somme che, peraltro, sarebbero dovute da tempo. 

A Borgoricco, un’altra frazione del padovano, c’è un’altra azienda di una giovane coppia che ha resistito nei tunnel della recessione. Si chiama New Ecology e offre servizi ambientali, ma ha smesso da tempo di lavorare con commesse pubbliche. «Non ci possiamo permettere di correre il rischio di essere pagati con tanto ritardo», osserva la 39enne amministratrice Maria Dolores Nalesso. Anche lei in questi mesi si è trovata a decidere se comprare i portafogli clienti delle aziende che non ce l’hanno fatta e ora vede qualche occasione in più. Ma la sua esperienza le suggerisce che all’Italia qualche fermento di ripresa non basta, perché le trappole per le imprese sono ovunque. Il mese scorso si è accorta che per una falciatura d’erba lungo la ferrovia, un lavoro da tre giorni, deve investirne sei in licenze ammini-strative. Fra Imu, Irpef, Ires e Iva, il 70% del fatturato se ne va in tasse. E benché anche lei abbia aumentato l’efficienza e ridotto i costi, osserva, «ormai siamo all’osso ».
Con i sessanta dipendenti ha stretto un patto: nessuno finirà in cassa integrazione, ma tutti devono dare il massimo anche se i salari arrivano con dieci giorni di ritardo. «Come fa a girare il denaro – si chiede Nalesso – se i nostri clienti non sono sostenuti dalle banche? ».


La sua domanda grava sull’intera economia italiana. Gli ultimi rilevamenti della Banca d’Italia mostrano che il credito alle imprese e alle famiglie continua a contrarsi, le sofferenze bancarie crescono e i tassi d’interesse su molti prestiti salgono. Nessuna ripresa è mai durata a lungo senza credito per comprare macchinari o beni di consumo. L’Italia non soffre più dello stress finanziario acuto di un anno fa, ma le spie del disagio non mancano.
I dati di Target 2, il sistema di pagamenti della Banca centrale europea, mostrano che in agosto le banche italiane hanno fatto ricorso all’ossigeno dell’Eurotower più che in luglio. La posizione debitoria della Spagna in Target 2, benché maggiore, cala molto più in fretta: è come se intorno all’Italia oggi permanesse un alone di sospetto.

Morgan Stanley, nel suo ultimo rapporto, sostiene che quel che manca è il senso di direzione. Secondo la banca il cosiddetto “potenziale di crescita”, il ritmo a cui il paese può normalmente procedere, resta poco sopra lo zero. «La stabilizzazione rischia di non diventare vera ripresa senza misure per affrontare le molte deficienze dell’economia», scrive Morgan Stanley. «Ma un sistema politico instabile rende difficili le riforme di sostanza».
A Castelfranco Tatiana Roberti non ha neanche il tempo per chiederselo. Potrebbe investire, assumere e crescere ancora, riconosce, ma si guarda bene dal farlo: non ci sono certezze sul credito, né sui costi del sistema Italia. «Ci siamo impegnati tanto. Ma finché la situazione resta così, chi si fida a esporsi di più?».

Federico Fubini - La Repubblica - Le scommesse dell'economia


domenica 15 settembre 2013

Alimentare e farmaceutico già fuori dal tunnel la fiducia torna a crescere

Alimentare e farmaceutico hanno già il segno più nei primi sei mesi dell’anno. Il turismo sta archiviando un’estate ancora in passivo ma di poco, e comunque l’atteso tracollo non c’è stato, anzi. La ripresa sta arrivando e anche se tutti, economisti, manager e imprenditori sottolineano la prudenza, la luce in fondo al tunnel si sta facendo sempre più forte. Gli indicatori che misurano il grado di fiducia di famiglie e imprese volgono in su, gli ordini stanno riprendendo, l’export continua a tirare, il saldo commerciale positivo si consolida anche con il risveglio delle importazioni e Prometeia ha appena firmato una previsione per il terzo trimestre che si chiuderà a fine mese con un Pil che torna in positivo dopo 43 mesi. 
Il primo soffio di primavera, dopo anni di gelo, è arrivato da due settori anticiclici come alimentari e farmaceutici, le cui imprese, nel primo semestre di quest’anno hanno registrato un aumento del fatturato, contro una media dell’industria che rimane pesantemente negativa. A inizio estate la timida ripresa europea ha fatto da traino ad un miglioramento di comparti che avevano subito un crollo l’anno scorso: elettronica, elettrodomestici e, in parte, i mobili. Qualche segnale di assestamento arriva anche dall’auto, la cui caduta di immatricolazioni, in Europa come in Italia, sta rallentando, ma soprattutto dai beni intermedi che sono settori che
normalmente anticipano l’avvio della ripresa economica. Nessuno sa se si tratti di una rondine che volerà decisa, o di semplici segnali di un’inversione di tendenza: “Sono settori che fanno da pivot alla ripresa dice Prometeia - ma anche molto sensibili ai bassi livelli di magazzino raggiunti e alla necessità di ricostituire le scorte. Ma i timidi miglioramenti nei settori di beni di investimento come meccanica ed elettrotecnica fanno ben sperare”. A livello di dati generali c’è però una certezza acquisita: quel minimo, quel maledetto pavimento che tutti aspettavano da quasi due anni, è stato toccato tra maggio e giugno di quest’anno. E’ qui che sembra finire una delle cadute dell’economia più dolorose del secondo dopoguerra: una recessione che non ha eguali nemmeno in quelle che seguirono lo shock petrolifero. Dei settanta mesi passati dall’agosto 2007, 43 sono in contrazione 26 in crescita. Il Pil perso è pari al 4,3 tra il 2011 e il 2013, che si somma ai 7,2 del 2008-2009, quando nelle crisi petrolifere e valutarie del 1992-93 e del 1974-75 si oscillò tra l’1,5 e il 3,8. La fase di espansione, durata poco più di due anni, ha visto una crescita modesta, al contrario di quanto avveniva negli anni passati. Si capisce quindi perché ogni stormir di fronde nei dati viene accolto con liberazione, quasi fosse la fine di un incubo. Una produzione industriale che ricomincia ad alzare la testa, un clima di fiducia tra i consumatori e le imprese che non è più così cupo. Un risveglio della domanda di mutui da parte delle famiglie. Una qualche stabilità finanziaria che fa presagire un allentamento della pressione sul credito. 

E infine i dati dell’andamento del Pil che mostrano una discesa che va rallentando, tanto che Prometeia, nella sua ultima previsione stilata venerdì scorso, prevede un terzo trimestre già positivo e una discesa del Pil per l’intero 2013 che si fermerà a meno 1,6%. L’ultimo rapporto di Ref Ricerche spalma sul 2013 un miglioramento di 0,3 punti nel Pil per quest’anno (-1,6% contro un -1,9% prima previsto) e stima un 1% di aumento per l’anno prossimo (anziché lo 0,8%). Sono dati misurati al decimo, sottoposti a mille distinguo come ad esempio il fatto che l’Istat ha cambiato metodi di rilevazione del clima di fiducia di imprese e consumatori e gli indici hanno avuto un improvviso balzo - e che vengono commentati a corrente alternata tra chi plaude all’arrivo della prossima ripresa e che chi sottolinea il modesto presente: «Per ora è migliorata solo la derivata seconda della funzione, cioè stiamo scendendo… più piano» commenta Giacomo Vaciago presidente di Ref Ricerche che pure nella sua nota congiunturale prospetta una fine anno più positiva e la stabilizzazione della caduta dei beni di consumo durevoli a partire dall’auto, segno che ormai si è toccato il fondo e anche qui. A trainare il miglioramento produttivo sono stati due fattori. Da un lato la ricostituzione delle scorte, scese a livelli bassissimi, e che è stata spinta dalla stabilizzazione dei prezzi delle materie prime; dall’altro la vitalità, ormai acquisita, delle nostre esportazioni. L’export italiano non ha mai smesso di crescere in questi anni riuscendo a recuperare in valore i livelli di vendite del 2007. Tra il 2011 e il 2012 l’Italia ha fatto meglio dei concorrenti europei, nei primi mesi del 2013 i risultati sono migliori di quelli di Francia e Germania che hanno avuto una flessione del 3% dei valori esportati. «Abbiamo guadagnato quote di mercato nell’alimentare, nella farmaceutica che, grazie al confezionamento, finisce per produrre per il mercato europeo, nei beni di largo consumo come la detergenza, in cui l’Italia è un hub mondiale» dice Andrea Dossena di Prometeia. «Certo l’esportazione fa miracoli, la Russia non ha mai smesso di comprare beni come le calzature, i Bric si stanno riprendendo, la nostra meccanica va meglio e si ricomincia ad esportare in Germania. Il turismo non va male: l’Italia è il primo Paese europeo per pernottamenti di russi e cinesi. Ma la domanda interna è fiacca, non ce la fa a trainare la nostra capacità produttiva», dice Marco Fortis di Fondazione Edison. E non solo per motivi di quantità: «Siamo di fronte ad un cambiamento di lungo termine: si comprano pochi beni tradizionali, scarpe, vestiti. Le classi giovani consumano per lo più elettronica e informatica. La popolazione invecchia e le classi più avanzate più che beni chiedono servizi. Insomma la ripresa rischia per lo più di aumentare le importazioni e alimentare il commercio più che il nostro sistema produttivo». Il segno che la domanda interna è ancora debolissima sta nel miglioramento netto della nostra bilancia commerciale dovuto, oltre che all’aumento dell’export, anche alla sostanziale stabilità delle importazioni. Ma una ripresa basata solo su di esse non sembra essere sufficiente: «Neanche al Nordest dove molte aziende vivono di mercato interno e si sta ancora di più polarizzando il sistema produttivo», dice Daniele Marini, direttore della Fondazione Nordest. «Rischia di essere troppo lenta e allagare la spaccatura a metà del Paese tra Nord e Sud», dice Innocenzo Cipolletta. Si scruta, nella speranza di un risveglio, quel mercato della casa e quel settore delle costruzioni che, con la sua caduta, aggravata dalla crisi creditizia, ha trascinato nel baratro anche tutto un settore produttivo determinante per l’industria italiana come quello dell’arredo: tra il 2007 e il 2012 dal legno agli elettrodomestici, dai mobili ai serbatoi si registrano perdite di fatturato che oscillano tra il 15 e il 25%. 

Le esportazioni hanno in qualche modo aiutato a evitare il peggio, i provvedimenti di agevolazione del governo si spera diano risultati. «La fase critica dell’immobiliare sembra essere alle spalle - dice Luca Dondi di Nomisma - c’è un’aspettativa di ripresa timida sulle compravendite, dovuta alla stabilizzazione del credito e alla discesa degli spread, che ha fatto salire la domanda di mutui. Ma sui prezzi il recupero sarà lentissimo così come sul settore delle costruzioni sul quale pesa un’offerta enorme di invenduto. Se il credito comincerà a riaffluire, si potrà sperare nel completamento di alcuni cantieri che la crisi ha bloccato». Sulla fine di una recessione che ha scremato duramente il sistema produttivo e che pone interrogativi sul suo futuro, dato che per ora sembra sopravvivere solo lo zoccolo duro di chi è riuscito a vincere nel mercato globale, pesano le incertezze dei prossimi mesi. Un credito ancora avaro, colpito come è dalle difficoltà delle banche a smaltire il cumulo di sofferenze, la fragilità di una situazione internazionale e di un’Europa che non ha certo le vele spiegate nell’uscire dalla crisi e in cui ci sono Paesi come Francia, Spagna e anche Olanda che devono ancora riaggiustare i conti. E sull’Italia che a fatica tenta di incassare il dividendo della stretta feroce degli anni scorsi per riaggiustare i conti, pesa come un macigno la precarietà della situazione politica che potrebbe far saltare quelle poche certezze cui era appesa la fine dell’incubo. Nella tabella qui sopra l’andamento dei principali settori industriali del Made in Italy nello studio di Prometeia -Intesa Sanpaolo Nei quattro grafici qui a destra, la svolta degli indicatori sulle attese di consumatori e imprese: il clima di fiducia inizia la risalita

“Da Google alla start up, lavoro nella Silicon Valley” - Molto interessante le differenze di mentalità messe in evidenza tra Italia e gli Stati Uniti. La Passione comunque è tutto !

All’inizio sembrava il paradiso dei lavoratori. Negli uffici italiani arrivavano leggende di giovani che trovavano investitori per realizzare le proprie idee, prati verdi accanto alle scrivanie, donne manager che riuscivano a essere perfette a casa e al lavoro. Negli ultimi tempi, però, sono arrivate le critiche. Il famoso spirito della Silicon Valley non convince più tutti.

Prima ci sono stati i dietrofront. Come quello di Marissa Mayer, ceo di Yahoo (assunta con un pancione di sei mesi), che ha detto stop a flessibilità e telelavoro. E quello di Google, che ha cancellato il benefit che permetteva ai dipendenti di dedicare il 20% delle ore lavorative a idee innovative (per intenderci: così è nata Gmail). 

Non sono mancate le inchieste giornalistiche che hanno mostrato come accanto alla struttura dei sogni di Googleplex, gli homeless (i senzatetto) siano cresciuti del 20%, e con loro vere e proprie tendopoli. Non ultimo, è arrivato il monito di Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook, prima a Google, che ha invitato le donne a darsi una mossa (il titolo del suo libro è Lean In, tradotto in Italia Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire), che ha denunciato sul New Yorker denunciando la cultura maschilista della valle.

L’ennesima critica è stata recapitata da Forbesnell’articolo “Why Silicon Valley’s Work Culture Is Killing Us”, “Perché la cultura del lavoro della Silicon Valley ci sta uccidendo”, che denuncia come con la storia del welfare aziendale e della flessibilità nella valle delle valli californiana «il lavoro sia diventato una religione e la vita privata qualcosa da schiacciare dentro». La proposta è quella di mettere delle regole. Come: “Non mandare email alle 10 di sera”.  

Ma davvero il modello Silicon Valley è in crisi e sta fallendo? «Non sono d’accordo», risponde da San Francisco Anna Gatti, alla guida di una startup per l’e-commerce dopo esperienze da manager tra Google, YouTube e Skype. Mamma e manager, lei la Silicon Valley la frequenta da quasi 15 anni. E dice: «Bisogna focalizzarsi mentre si è al lavoro e darsi una disciplina senza perdere tempo. Così non rinuncio alle cose importanti, come la cena con mia figlia. Almeno quattro vole alla settimana».

Come sei arrivata nella Silicon Valley e qual è stato il tuo percorso finora? 
Sono arrivata nella Silicon Valley nel 1999 per finire il programma di PhD iniziato in Bocconi all’università di Stanford, dopo una laurea in Economia aziendale all’Università Bocconi di Milano. Dopo un post-doc a Stanford, mi hanno offerto una posizione come ricercatrice all’Università di Berkley. Nel 2002 sono stata contattata dall’Onu per un lavoro a Ginevra, all’Organizzazione mondiale della sanità. Poi mi sono stancata di Ginevra, mi mancava lo spirito della Silicon Valley. Ho deciso di tornare. Mi hanno assunto a MyQube, fondo di venture capitalist che investe nelle startup. Dopo un paio di anni cercavo una esperienza più operativa. Ho fatto colloqui a Google e mi hanno assunto come capo di Consumer Operation International. Il passaggio successivo è a YouTube, come capo della parte internazionale di Online Sales and Operations. Dopo qualche anno, Skype, dove ero direttore di monetizzazione. Dopo che Microsoft ha comprato Skype, sono uscita e ho creato la mia startup, che si occupa di intelligenza artificiale per fare personalizzazione di e-commerce. È una bella sfida.

Cos’è lo spirito della Silicon Valley di cui parli? 
La Silicon Valley è un’area dove c’è la voglia di spingersi oltre i limiti. Davanti a un problema si cerca la soluzione migliore. Le persone si siedono e pensano “the best solution to any problem”. Ci sono persone disposte a parlare della tua idea, ad aiutarti a realizzarla. Non ci sono pregiudizi. Sai che puoi sperimentare. Non pensi “non ci provo se no faccio una brutta figura”. Se credi in qualcosa qui puoi farlo: “You can change the world”. La respiri per strada questa cosa. Qui è nata Tesla, qui ci sono le startup per le spedizioni nello spazio, il 3D printing del Dna.

Come vive una mamma manager nella Silicon Valley?
Sono soddisfatta per stile di vita, qualità e professionalità. Sono una single mother e mia figlia è completamente integrata nella mia vita. Lei viaggia con me per lavoro o piacere da quando aveva quattro settimane. Qui durante la gravidanza si lavora fino a due settimane prima del parto. A me non è pesato. Sono una manager, non faccio lavoro fisico di fatica. A YouTube ho preso una responsabilità maggiore con il compito di creare una una nuova funzione quando ero incinta di 7 mesi. Al colloquio di lavoro, dissi che avrei preso tutti e sei i mesi di maturità che Google offre (la legge americana garantisce sei settimane). E loro mi risposero che mi avrebbero aspettato. La mia bimba è nata il 18 febbraio, io ho lavorato fino al 7.

Come si organizzi la tua giornata lavorativa?
Devi essere molto focalizzata. In Italia si butta via molto tempo. Si prende il caffè con i colleghi e si perdono 15 minuti. Sono 15 minuti che toglierei al gioco con mia figlia. Bisogna aumentare l’efficienza, devi essere disciplinata, ci sono cose che voglio fare e le faccio. Non organizzo meeting di mattina prima delle 9 perché voglio accompagnare mia figlia a scuola. Allo stesso modo ho deciso che devo cenare a casa con mia figlia almeno quattro volte alla settimana. E lo faccio. Certo, c’è una tata che mi aiuta e che vive praticamente con noi. Ma sono molta rigorosa sul rispetto dei tempi, delle responsabilità e delle persone.

C’è chi ha scritto però che lo stile di vita della Silicon Valley ha fatto del lavoro una religione, a scapito della vita privata.
Non condivido quelli che criticano lo stile di lavoro della Silicon Valley, dicendo che il lavoro è una religione e la vita privata è solo qualcosa da incastrare dentro. Se voglio alle 10 di sera rispondo alle email, come chi scrive il post su Facebook prima di andare a letto. Se dalle 18,30 alle 21 non ho guardato assolutamente il computer perché ho voluto giocare con mia figlia, posso anche mandare una email alle dieci di sera. Ma non mi aspetto che mi rispondano alle 23. A Google si facevano dei meeting internamente per parlare di queste cose. Si diceva di non mandare le email a mezzanotte ai nuovi assunti, perché magari si sarebbero sentiti in dovere di rispondere subito. È una cosa di cui si discute sempre nelle aziende sane come Google. Questo modo di lavorare lo vedo più come un’opportunità che come un sacrificio. Ho lavorato nel team di Sheryl Sandberg, oggi direttore operativo di Facebook. Come italiana vedo enormemente la differenza tra l’Italia e la Silicon Valley. È una comunità che è nata su basi produttive e innovative. È un’area che nasce con il microchip.

In che modo si organizza il lavoro nella Silicon Valley?
Qui tutto si basa sulla performance. Gli orari di lavoro sono di otto ore, 9-18 o 8,30-17,30. Poi magari ci si ferma mezzora in più. Ma dopo le 18,30 è difficile che le persone siano in ufficio. Si possono avere meeting di lavoro alle 7,30 di mattina, anche per una questione di fusi orari. Quello che conta sono le performance e gli obiettivi. Ma la differenza fondamentale è un’altra. 

Quale?
Ma la differenza fondamentale è che qui il lavoro non è concepito come lavoro. Quello che tu fai non è lavoro, è la tua passione. Così come in una conversazione si può parlare di libri, cibo o viaggi, qui si parla dei progetti. Il business lo fai al barbecue. Così come un giornalista legge il New York Times alle dieci di sera, lo fa per lavoro o per passione? In Silicon Valley si trasferiscono le persone più ambiziose da tutte le parti del mondo. Qui c’è molto driver. Ci sono persone che vogliono migliorarsi. Io potevo fare benissimo la professoressa universitaria in Italia, come mi avevano proposto, invece sono volata qui. 

E il mito del welfare aziendale? È tutto vero?
Ho lavorato per aziende incredibili come Google. Ma ovviamente non tutte le aziende sono così. A Google nel mio ufficio c’era una piscina bellissima. Quando ero incinta, prima di lavorare facevo un’ora di nuoto. C’erano i miei colleghi che portavano i cani. Googleplex è il posto del welfare aziendale per eccellenza. 

Eppure, come ha ricordato anche Sheryl Sandberg, le donne nel top management sono poche. Così come gli ispanici. La Silicon Valley è davvero così meritocratica?
La Silicon Valley è meritocratica. Certo, resta ancora molta differenza tra uomini e donne. Ma rispetto all’Italia è il paradiso della donna per le opportunità professionali. In termini assoluti l’uomo ha più facilità. Questo secondo me è anche una tendenza biologica. Noi esseri umani siamo abbastanza isomorfi, rassicurati dai nostri simili. In un team di tre maschi, assumeranno piu’ facilmente un altro maschio perché pensano di capirlo meglio. Così come accade tra donne. Non c’è la parità. Ovviamente questi atteggiamenti si possono e devono cambiare. È un tema di cui si discute molto nella Silicon Valley. Questa situazione è dovuta sia al fatto che gli uomini ottengono una posizione di comando più facilmente, sia perché le donne non hanno imparato a negoziare con il capo gli aumenti, le promozioni. Quando si offrono posizioni di responsabilità a una donna, spesso pensa “se poi mi sposo, rimango incinta”, gli uomini no.  

@lidiabaratta - Linkiesta (www.linkiesta.it)


martedì 3 settembre 2013

La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa (F.D.Roosvelt)

Oggi è sufficiente sfogliare le pagine dei giornali, ascoltare i notiziari delle radio o vedere i telegiornali, per essere sommersi da notizie che ci deprimono o ci fanno arrabbiare. Se si cade nella convinzione che il mondo sia principalmente questo, ci si convince di essere circondati da un mondo ostile, in totale decadenza senza più possibilità di miglioramento. Una società verso il declino insomma.

È vero che oggi ci sono evidenti difficoltà per tutti, soprattutto per i giovani, e che abbiamo attraversato un periodo di crisi intenso. Ma se ripercorriamo la storia, grande maestra di vita, potremo scoprire come è stato sempre così in tutti i periodi di transizione dove costumi, valori, mezzi di comunicazione, consumi, istituzioni sono stati messi in discussione per i rapidi mutamenti avvenuti. E anche allora lo sconcerto, il pessimismo e l'allarmismo hanno preso, per un certo periodo, il sopravvento.

Questi sentimenti sono dettati, normalmente, dalla nostra inadeguatezza di giudizio dei problemi che ci stanno di fronte perché limitiamo il nostro orizzonte al breve periodo, incapaci di cogliere la complessità degli avvenimenti e quindi di darci risposte adeguate per costruirne uno nuovo. È inevitabile in queste condizioni che si cada nel pessimismo e nella paura.

Attingendo dalla storia possiamo capire come le comunità hanno sempre attinto l'energia necessaria per contrastare l'incedere che pareva inevitabile. Naturalmente essa non si ripete esattamente nelle diverse ere, ma ci sono forti analogie con epoche diverse. Ma diventa un laboratorio a cui attingere per illuminarsi non solo sul passato. La storia è una forma intellettuale per comprendere il mondo, come ha detto Johan Huizinga.

Se parliamo poi dello scenario italiano possiamo pensare alla sorprendente similarità della crisi dell'economia nel Seicento che colpì le grandi città manifatturiere della Penisola e quella incontrata oggi da molte industrie del nostro Paese a causa della scarsa capacità di competere, generata dalla scarsa propensione al l'innovazione dimostrata negli ultimi anni. Salvo le eccezioni che, infatti, producono utili a tutto spiano. Tanto per ribadire che lo studio della storia offre un prezioso strumento per l'uomo che può così comprendere a fondo il presente.

In tutti i casi anche se qualcuno vedesse l'ottimismo come una distorsione forzata della realtà voglio ricordare l'ammonimento un uomo politico e di alto rango che contribuì negli anni '50 alla costruzione della Comunità Europea, Jean Monet, che diceva "quello che conta non è essere ottimisti o pessimisti, ma essere determinati". 

Rifletteteci su.

lunedì 2 settembre 2013

Cercate di essere ottimisti. C'è sempre tempo per mettersi a piangere. (M.Dietrich)

L'ottimismo oggi é, prima di tutto, uno stato d'animo o se vogliamo un irrazionale predisposizione al sorriso.

Guardando bene alle cose la crisi c'è, ma ci sono anche le ragioni per sorridere al futuro: corpi più sani e longevi, più calorie, alimentazione disponibile per (quasi) tutti, mezzi per viaggiare più veloci e altri per comunicare con tutto il pianeta. Sessant'anni senza guerre mondiali. 
Se penso ai racconti dei miei genitori che sono stati coinvolti nel secondo conflitto mondiale, mio padre perse anche un braccio a 14 anni, sono ottimista verso il futuro. 

Sono i numeri e i fatti che supportano il mio ottimismo. Basta che si osservino i miglioramenti avvenuti nella qualità della vita negli ultimi 50 anni, il reddito medio è cresciuto di tre volte (al netto dell'inflazione), l'aspettativa di vita è aumentata del 30%, la mortalità infantile è crollata del 70%. 
Dal crash finanziario del 2008 l'economia globale ha comunque reagito, dal 2010 il tasso di crescita è stato del 4% annuo e l'Africa è cresciuta per tre anni consecutivi di oltre il 5%. Tutti gli indici di prosperità sociale sono migliorati oltre il 20% negli ultimi vent'anni.

È vero tutto il sud dell'eurozona è ancora intrappolato in una recessione, ma è oggi più un problema politico che di mercato. Il mercato si sta riprendendo. Basta guardare i dati dell'export.
Dobbiamo incoraggiare un tipo di cultura imprenditoriale, le Startup, che da noi è appena sorta diversamente dai paesi anglosassoni. Dobbiamo rompere gli indugi e gli schemi, pensare diversamente, osare. Ma ce la possiamo fare.

Come dice Scott Peck "una volta che riconosciamo che la vita è davvero difficile, una volta che comprendiamo e accettiamo questo fatto, allora la vita non sarà più così complicata"