domenica 29 maggio 2011

Hoffman, la nuova bolla trasforma in miliardario il Michael Moore del web

Con quel faccione alla Michael Moore, pacioso solo all' apparenza, Mr. Linkedin spostò tutto il suo peso sul palco dell' ultimo South By Southwest, la convention di Austin che ogni anno propone il meglio del futuribile tra scienza e finanza, e sbottò con l' autorità riconosciuta dalla sua autorevolezza: "Ma di che cosa stiamo parlando?". La platea di giovani creativi e aspiranti milionari si zittì. "Per tutti gli anni 50 e 70 ci hanno riempito la testa di macchine volanti, di robot, di computer che avrebbero espanso i confini della nostra mente...". Pausa. Spasmodico silenzio. Ripresa. "Ci siamo ritrovati invece con i cartoons dei Pronipoti. E nulla di quello che avevano previsto s' è avverato". Grande, grandissimo, immenso: in un nome e cognome soli, Reid Hoffman. Non sono passati neppure due mesi dall' exploit di Austin che il ciccione più famoso della Silicon Valley s' è già espanso lui sì dai confini autorevoli ma angusti del suo profilo di guru di Internet per entrare in quelli infinitamente più comodi del primo neomiliardario della nuovissima bolla hitech. Intendiamoci: sono dieci anni che il buon Reid bazzica l' ambiente e il suo portafoglio era già tra i più alti della new economy. Ma da giovedì 19 maggio una data che è già entrata nella leggenda, e gli storici della finanza diranno se nel bene o nel male l' uomo che fondò Linkedin, la Facebook del business, è entrato ufficialmente nell' ambitissima classifica dei miliardari di Forbes: i 400 che reggono le magnifiche sorti e progressive dell' economia mondiale. Altro che Pronipoti. Altro che i cartoni animati di Hanna & Barbera. Il signor Hoffman l' aveva dichiarato bello forte laggiù tra i cowboys di Austin: "Il futuro si sta avverando molto prima di quanto pensassimo. Ed è molto più strano di quanto lo immaginassimo. Non robot ma dati. Informazione. Informazioni....". Mai previsione fu più azzeccata. Con le informazioni raccolte nella megarubrica di Linkedin 100 milioni di iscritti, una crescita dell' 87 per cento in un anno, il più grande database dove le imprese di tutto il mondo pescano le informazioni su manager & Ceo il fondatore e presidente del social forum del business è entrato trionfalmente a Wall Street. Mettendo a segno la prima grande Ipo della Silicon Valley dieci anni dopo il boom che portò però anche al crollo. Un successo a dire poco straordinario. Le azioni che all' inizio del mese erano state valutate intorno ai 30 dollari sono state scambiate oltre i 100. Una ipervalutazione che supera il 300 per cento. Una performance spettacolare che ha fatto balzare una compagnia da 15 milioni di dollari di ricavi e che due anni fa non raggiungeva il valore di mezzo miliardo alla stratosferica cifra di 10 miliardi.

Un successo senza precedenti che dimostra l' incredibile appetito che gli investitori hanno per i nuovi protagonisti dell' hitech: le compagnie che hanno fatto del prefisso "social" la ragione del loro business. Aspettando la collocazione di Facebook, Zynga, Groupon. L' appetito per la verità è l' unica cosa che da sempre non manca al buon Reid. Provate a chiedere ai camerieri di Hobee. Il ristorantino è a metà strada tra la casa di Palo Alto e l' ufficio di Mountain View. E qui il miliardario più fresco del mondo si ferma ogni mattina nel tragitto di 12 minuti col suo Suv per tuffarsi sul prelibatissimo Santa Cruz Scramble: uova, salsa piccante e cuori di carciofo. D' altronde una botta di proteine ci vuole se ti sei buttato giù dal letto alle 6.30 e un quarto d' ora dopo sei già in preghiera davanti all' unico dio che hai sempre adorato: il computer per controllare l' email. Perché questa in fondo è la vita che da anni conduce il professor Hoffman. Non c' è nulla del glamour di Wall Street. Ma neppure nulla delle follie posthippy della Silicon Valley. Prendete appunto la sua creatura: Linkedin. La sede è lì proprio a due isolati dal GooglePlex di Mountain View: ma nei suoi uffici non c' è nulla del caos incredibilmente ordinato che fa girare la macchina di Larry Page & Sergej Brin. Tutta un' altra cultura. Nel senso vero del termine. In questo mondo di ingegneri e squali finanziari il curriculum di Reid Hoffman svetta come una contraddizione in termini. Già dal luogo di nascita: Stanford, California. La patria dell' Università che ha sfornato più intellettuali che genietti della vicina Silicon Valley. E infatti la carriera di Reid, classe 1967, sembrava diretta verso tutt' altre fortune. Che a dire il vero il papà famoso avvocato non è che guardasse di buon occhio. Che cosa te nei fai, all' alba degli anni 90, nella California che scoppia di hitech, di una laurea in filosofia? Con la tesi in "sistemi simbolici", poi: tutti si affrettano a fare montagne di dollari sui computer e tu ti permetti di discettarci su? Per non parlare di quell' altra idea pazza e perseguita di andarsi a specializzare a Oxford: in quell' Europa che mica per niente si continua a chiamare Vecchia.

Ma Reid doveva dimostrarsi uomo dal multiforme ingegno: anche per il suo papà che pure l' ha sempre assecondato lasciandogli comunque aperta, nel caso, la porta principale del suo ufficio legale. Non ce n' è stato bisogno. E stato lo stesso ragazzone a mandare alle ortiche i suoi piani. La vecchia confessione a "Director Magazine" suona ancora oggi come un' altra profezia. "Sì, appena uscito da Stanford volevo avviarmi a una carriera di professore e pubblico intellettuale. Ma mica per finire a citare Kant. Volevo davvero concentrarmi nella lettura della società e aiutare la gente a chiedersi: chi siamo? Dove stiamo andando come individui e come società? Poi ho capito che gli accademici scrivono libri che alla fine vengono letti da 50 o 60 persone in tutto. E io volevo molto più impatto". Alla faccia: anzi al faccione. Convertito sulla via della Silicon Valley il ragazzone di Stanford ne infila una dopo l' altra. I suoi sistemi simbolici si trasformano in un sistema molto concretamente ancorato negli affari. Si reinventa come product manager per megacompagnie chiamate Apple e Fujtsu: come dire lo yin e lo yang della filosofia d' impresa. E poi trasforma la lezione appresa in esperienza individuale, mettendosi in proprio. L' idea che gli rimbalza in testa in fondo è però sempre quella filosoficamente appresa a Stanford: cogliere l' anima appunto sociale del web. Per sfruttarla a fini commerciali, s' intende. Oggi Hoffman discetta sulle tre età della rete. La prima Internet dove ciascuno era un' isola dalla quale lanciava messaggi in codice agli altri naufraghi sulle isole di tutto il mondo. Poi l' età 2.0 in cui ci si ritrova tutti straordinariamente connessi. E infine la terza età in cui a trionfare sono appunto i dati: le informazioni scambiate che fanno ricchezza tantopiù se aggregate in collettori sociali come Linkedin. Sulla ricchezza non c' è ombra di dubbio.

Il giochetto dell' ipo ha portato l' altro giorno nelle tasche del suo presidente Hoffman ha lasciato la poltrona di Ceo all' ex Yahoo Jeff Weiner qualcosa come 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Naturalmente la via del successo non è solo lastricata di buone intenzioni. Bisognava davvero prenderla con filosofia come forse solo Hoffman era attrezzato a fare nel perseguire l' idea di un social forum del business come Linkedin. Non è un caso che mentre in tanti, oggi, sottolineano il rischiobolla legato al superxploit di Wall Street, è toccato proprio a un ex collega di Reid, cioè Joseph Grundfest, professore di business alla Stanford Law School, ricordare che al signorone ci sono voluti dieci anni per costruire la sua creatura. Che Linkedin, nata nel 2003, non è insomma una startup apri e fuggi tipo Pets.com o tutte quelle altre compagnie che adesso già bramano di seguirne l' esempio sperando in affari milionari. Che lo stesso Hoffman è passato prima per la creazione di una società chiamata PayPal e poi negli anni ha piantato le sue azioncine nel fior fiore delle aziende promessa della Silicon Valley: da Facebook a Zynga a Flickr a Digg. Che in tutto il mondo dell' hitech c' è solo un altro signore che può vantare la fama di "angel investor" superiore alla sua: e cioè l' inventore di Netscape quel Marc Andreessen che questo mese ha fatto bingo con le sue azioni alle stelle dopo l' acquisto di Skype da parte del gigante Microsoft. E adesso? Adesso l' uomo che ha smascherato le finte promesse dei Pronipoti non ha nessuna intenzione di fermarsi qua. Anzi. Altro che robot. Lui è convinto che la sua rete possa ancora espandersi all' infinito: come in un film di fantascienza. Perché sempre più gente dice "vivrà su Facebook: ma lavorerà su Internet". E arrivederci cartoons...

ANGELO AQUARO - NEW YORK

Pantaloncini: eleganti negli anni 30. Le regole per evitare la deriva trash

In questi giorni si è letto il caso di una scuola in cui il Preside non voleva che entrassero gli studenti in bermuda e con le spalle scoperte. Ora non vorrei sembrare "rigido" o "bacchettone", ma l'uso del pantaloncino presumerebbe, il condizionale è d'obbligo, un abbigliamento consono e luoghi adeguati.
Quando eravamo ragazzi, e parlo della generazione dei "baby boomers", il pantaloncino corto alle elementari e alle medie, rigorosamente al ginocchio, non era una moda, bensì la normalità. Dettata anche dall'epoca, dalla recente storia di sofferenze patite dai genitori a causa del periodo bellico. Il pantalone lungo era riservato, a volte, per le cerimonie. Erano gli anni successivi che prrevedevano l'uso del lungo. Era una questione anche di decoro.

Ecco il decoro. Personalmente penso che sia quasi scomparso. Oggi appena la temperatura si avvicina ai 24/25°, è già tutta una corsa a svestirsi. Uomini e donne. Pare che il caldo sia ormai insopportabile. E dire che ormai anche da noi tutti i locali sono climatizzati. Ma non basta. E la cosa che mi inorridisce maggiormente è che vedi persone, "descamisados" come li chiamo io, aggirarsi in canottiera, bermuda (nemmeno calzonicini) e magari anche zoccoli, per ospedali, uffici pubblici, centri storici, chiese e anche cimiteri, a volte, che si trascinano più che camminare.

Il pantalone corto piace molto anche a me, ma si dovrebbe, ancora d'obbligo, conoscerne anche le regole. E di conseguenza indossarlo nei modi e luoghi dovuti. Ma questa è una società in cui sembrano che i diritti debbano sopraffare i doveri, e il gradio di civiltà che esprimiamo si nota anche in come vestiamo e ci comportiamo per strada. Purtroppo.

Riporto di seguito un simpatico articolo uscito sul Corriere della Sera sulle regole che sarebbero da seguire per l'utilizzo del pantaloncino corto.

All' inglese Giuseppe Scaraffia: meglio portarli con calzettoni in filo di Scozia e scarpe stringate

Si può essere messi alla porta della propria scuola, ma anche bloccati all' ingresso del club preferito. Tutta colpa dei bermuda (in questo caso nell' incauta variante «pinocchietto») se Rino Gattuso, la scorsa estate, non ha potuto mettere piede al Jimmy' z di Montecarlo. Dress code cannato, anche per un vecchio condottiero dai polpacci d' oro. Con l' arrivo dei primi caldi si riaffaccia la vexata quaestio: bermuda sì o bermuda no? La deriva trash del capo nato con buone intenzioni nell' alta società americana degli anni Trenta divide la platea. «Bermuda no, a meno che non si decida di portarli all' inglese, con i calzettoni in filo di Scozia fino al ginocchio e Clarks stringate», spiega Giuseppe Scaraffia, docente di letteratura francese alla Sapienza di Roma, rassegnato alla visione quotidiana di studenti in bermuda e tatuaggi, «persino in sede di laurea». «Forse bisognerebbe insegnare a questi ragazzi che l' eleganza si esprime con la sopportazione dei climi più ostili: ovviamente andrebbe spiegato anche ai taxisti con le canottiere a tela di ragno e a tutti quelli che per professione devono indossare sempre la divisa, estate compresa». La faccenda si fa meno grave se a giocare a ginocchia scoperte sono le donne: le gambe (di solito) sono più aggraziate e se l' età e il fisico lo concedono si può sconfinare nell' hot-pants, come l' Eva Herzigova mozzafiato apparsa sul tappeto rosso di Cannes. Anche per le ragazze il contesto deve essere quello giusto: bermuda vietatissimi nelle aule universitarie, sconsigliati nelle occasioni formali (bocciata Michelle Obama sulla scaletta all' Air Force One), promossi a sorpresa in una serata mondana. «Di giorno non hanno controindicazioni, magari portati con espadrillas con un po' di tacco: quelli dal taglio confort e poco scosciati sono belli anche sulle signore», dice la stilista Luisa Beccaria, ambasciatrice di uno stile raffinato ma eccentrico. «Di sera, con un bel sandalo gioiello e in un tessuto fluido, possono essere rivisitati come capo elegante». E gli uomini? «Difficile evitare l' effetto smandrappato: a meno che non si stia partendo per il weekend in campagna è meglio lasciar perdere».
Proietti Michela



In ufficio è tempo di rivoluzione. Addio al mito della scrivania fissa

Chissà se in Italia ci sarà sufficiente responsabilità e senso del dovere per non approfittarsi di questa modalità che sarebbe una soluzione a tanti costi aziendali e contribuirebbe al miglioramento della qualità di vita personale, oltre a quello di tutta la comunità. E' una bella sfida.

Dal Corriere della Sera: Microsoft Italia ne «smaterializza» 830: si lavorerà con telefonino e tablet. Novità: Si punta a obiettivi individuali. In Olanda le vendite sono aumentate del 50 per cento

Tempi duri per chi scalda la sedia al lavoro pensando così di fare carriera. Microsoft Italia sta per diventare un laboratorio vivente per l'organizzazione del lavoro, vecchio empasse nazionale: «smaterializza» 830 scrivanie. Le comprime in smartphone (rigorosamente consumer) e tablet liberando i dipendenti dalle rigidità degli orari. E punta tutto sugli obiettivi individuali e l'autodisciplina. «In Olanda Microsoft lo ha fatto quattro anni fa e le loro vendite sono aumentate del 50%. È replicabile anche qui il modello?». Se lo sta domandando in questi giorni Pietro Scott Jovane, amministratore delegato del gruppo di Redmond in Italia. E se lo domanda anche se la risposta se l'è già data visto che tra un mese si parte, appena sarà concluso il passaggio nella nuova sede aziendale. Sarà tutto online, wireless, light nel senso che la tecnologia deve essere veramente tascabile e facile, proprio come quella che le persone sono ormai abituate ad avere in casa. Eppure Scott Jovane è convinto che la matrice di questo passaggio non sia la tecnologia, che rimane solo un mezzo. «Dobbiamo riconoscere che c'è una sorta di grey market tra vita familiare e aziendale. Se come manager non permettiamo ai dipendenti di "portare" la famiglia durante l'orario di lavoro dimentichiamo che loro si portano il computer a casa, portando il lavoro tra coniugi e figli». Certo, è un discorso che stenta a essere comprensibile per le aziende industriali in cui la logica della «catena di montaggio» è ancora al centro della produzione. Ma per i servizi è spesso un problema culturale.

«Al concetto di presenza noi stiamo già sovrapponendo quello di presence, che può essere online. Ma è molto importante che quell'andare online sia facile, immediato, proprio come andare su Skype, per fare un esempio di un'azienda che abbiamo appena acquisito». Insomma, più il tablet che il laptop. Più lo smartphone con l'accesso a Facebook che il produttivo blackberry aziendale.

E la cultura cosa c'entra? «È uno sforzo che deve partire dai vertici: se sento un mio dipendente al telefono e "scopro" che magari è uscito per andare a prendere i figli a scuola o intercetto una mia dipendente che sta lavorando da casa per conciliare lavoro e impegni familiari non mi deve dare "fastidio" perché so che sta lavorando sugli obiettivi che gli ho dato e che dovrà portarli a casa entro i tempi prestabili. Perché solo così lo premierò. In altri termini mi devo fidare di lui e della sua capacità di autodisciplinarsi. È anche un modo per attrarre talenti giovani che, non dico che siano più bravi, ma sono pronti per questa organizzazione del lavoro autodisciplinata».

Le ricerche, sempre di più, dicono che le aziende che decidono di fare questo passo ne traggono benefici in vari termini: l'assenteismo, per esempio, tende a decrescere anche del 50%. Un po' per la riduzione dello squilibrio psicofisico. Un po' perché la possibilità di adeguare il lavoro alla vita personale - e non il contrario - permette evidentemente di essere più flessibili. O, anche, e soprattutto, la produttività come nell'esempio olandese. Ed è qui che la tecnologia può tanto. «Se un mio collaboratore invece di venire in ufficio alle 8 del mattino durante il picco di traffico, inizia a lavorare da casa in remoto e poi decide di venire alle 11, impiegando la metà del tempo durante il tragitto, per la produttività è tanto di guadagnato».

Per il resto, l'esempio degli smartphone con le email che ci inseguono in tasca in ogni dove e al quale diamo la "buonanotte" scrollando gli ultimi messaggi prima di infilarci nel letto, si commenta da solo. E dunque, conclude Scott Jovane, «perché un'azienda non dovrebbe essere flessibile come si stanno mostrando flessibili i dipendenti permettendogli di portare magari la cena a casa dalla mensa o unire a un viaggio di lavoro la propria famiglia?». L'appuntamento è in Microsoft tra un anno per vedere i risultati. E, magari, anche in qualche altra azienda.

Massimo Sideri



mercoledì 25 maggio 2011

La gioia

Nè la ricchezza più grande, né l'ammirazione delle folle, né altra cosa che dipenda da cause indefinite sono in grado di sciogliere il turbamento dell'animo e di procurare vera gioia.

Epicuro

lunedì 23 maggio 2011

Mantenere un comportamento Etico

Rifletto spesso su questo aspetto. Ho fatto dell'Etica uno dei primari valori guida della mia vita, ma sono sempre in sintonia con questo mio convincimento ? 
Sono assolutamente convinto che l'Etica sia legata ai comportamenti individuali e giornalieri di ognuno di noi. E' facile definirsi etici, più difficile comportarsi di conseguenza costantemente. 
Ogni nostro comportamento individuale è un esempio che, se aderente ai principi etici, può contaminare positivamente gli altri e trasformarsi in comportamento collettivo o comunque di altri. In una catena virtuale del valore etico che si propaga tra le persone.
Penso che si possa mantenere tale comportamento non venendo mai meno ad una certa umiltà, alla semplicità, all'attenzione costante verso gli altri, ad un comportamento franco, coraggioso, solare.

domenica 22 maggio 2011

Miseria e dignità

A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che "ogni straniero è nemico". Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero.
Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena sta il Lager.
Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle su conseguenze con rigorosa coerenza: finchè la coneczione sussiste, le conseguenze ci minacciano.
La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.

Primo Levi "Sequesto è un uomo" - Einaudi Editore 1958

martedì 17 maggio 2011

Sui Valori

I Valori sono le nostre convinzioni personali, private, individuali, relative a ciò che per noi è sommamente importante.
I nostri Valori sono tutt'uno con i nostri sistemi di credenza circa il giusto e l'ingiusto, il bene e il male, ciò che è morale è ciò che non lo è.
I Valori che sono in noi ci permettono di esprimerci nella vita con un'Etica distintiva.

Cosa Amo in Te

Amo in Te l'avventura della nave che va verso il polo,
amo in Te l'audacia dei giocatori delle grandi scoperte,
amo in Te le cose lontane,
amo in Te l'impossibile,
entro nei Tuoi occhi come in un bosco pieno di sole e sudato affamato infuriato ho la passione del cacciatore per mordere nella Tua carne,
amo in Te l'impossibile ma non la disperazione.

Nazim Hikmet

lunedì 16 maggio 2011

Concentrazione

Concentra la tua attenzione totalmente sulla cosa che più ti interessa fino a che non è stata eseguita o terminata. Non distrarti dall'obiettivo singolo. Mantieni la concentrazione e l'attenzione sul processo essenziale finché esso non sia completato. Finisci il lavoro prima di pensare al risultato. Concludi sempre il ciclo. Non lasciarne aperti molti, per molto tempo. Assicurati che una cosa sia completata prima di passare alla successiva.
Le difficoltà maggiori vengono sempre da una mancanza di completezza.

domenica 15 maggio 2011

Sii responsabile delle tue emozioni e della tua vita

Se lasci ad altri la responsabilità delle tue emozioni, gli dai il controllo della tua rabbia, della tua tristezza, della tua paura, della tua gioia... della tua vita. Non permetterlo mai anche se in alcuni momenti potrà accadere, riprenditi e governa il tuo Io. Se individui in te stesso e tue emozioni e la loro responsabilità, ti riappropri del potere e, con esso, del controllo sulla tua vita.

sabato 14 maggio 2011

"Vi auguro di non essere mai tranquilli"

Per i particolari ci sarà tempo. Di qui all’eternità, ce ne sarà di tempo per stupire dell’originalità del carisma di don Giussani. Ce ne sarà per vedere ingigantire la sua figura di «difensore della ragione dell’uomo», come ha proclamato di lui papa Giovanni Paolo II nella sua lettera autografa del 22 febbraio 2005. è andata proprio così. Fosse gente che passava da casa sua o in cui egli si imbatteva per strada, in tram, nelle aule e corridoi di scuole, uffici, università, in una sperduta parrocchietta d’Italia o su in cima al monte Koya dei monaci buddisti, Luigi Giussani c’era. E c’era per rendere ragione della speranza che era in lui, Gesù Cristo. Una speranza fissata in uno sguardo così penetrato di umanità e di fraternità, che Giussani è arrivato fino al punto di chiedere perdono ai fratelli ebrei per aver riconosciuto in Gesù il Messia. Tutto questo è durato almeno cinquant’anni.

Ci sarà tempo, molto tempo, anche prima di quello eterno, perché le cose dell’altro mondo che Giussani ha detto e testimoniato al popolo e perciò a ciascuna delle migliaia e migliaia di persone in cui si è imbattuto, siano compulsate, studiate e mandate a memoria come il poema dantesco. Perché è un Dante, Giussani. Non c’è dubbio. è l’Alighieri della condizione umana in rapporto al Destino. Aveva proprio ragione lui, «io vedo quello che vedete voi, ma vedo di più di quello che vedete voi». La partenza di Giussani non è mai stata la religione, ma l’uomo, l’uomo intero, l’uomo come vis appetitiva, l’uomo come “capacità di Dio”. Incalzava Giuss, «no, non si può conoscere Cristo se non si ha passione per l’uomo». 

L’essere, la meraviglia dell’essere, era per Giuss questione di vita o di morte. Non nell’iperuranio di categorie filosofiche, ma nell’aut aut della ragione che «nella mendicanza al Mistero che fa tutte le cose» deve affermare il motivo per scendere giù dal letto ogni mattina. Per partire, e per ripartire.
«Come fanno le cose a essere?» lo hanno continuato sentir stupire negli ultimi giorni della sua vita.
Sempre in lotta, sempre ad affermare, sempre a chiedere perdono, sempre a perdonare. Ecco chi era don Luigi Giussani – come disse a conclusione di un suo intervento al Meting di Rimini – un «Vi auguro di non essere mai tranquilli!». «L’amore è generatore dell’umano secondo la sua dimensione totale, vale a dire l’amore è generatore della storia della persona in quanto generazione di popolo». «Non l’amore come espressione della propria voglia; non come reattività, non come “tenerume”». «L’amore è: essere per, essere per l’Ideale, essere per il disegno totale, dove la bellezza e la giustizia sono salve».

martedì 10 maggio 2011

Sulla morte

Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, poichè ogni bene e ogni male risiede nella sensazione; il più terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, dal momento che, quando noi siamo, la morte non c'è, e quando c'è la morte noi non siamo più.

Epicuro


domenica 8 maggio 2011

A che bello u’cafè…

…pure in carcere o’sanno fà … così cantava De Andrè nella sua canzone. La situazione è un po’ cambiata. Oggi gli errori commessi nei bar, rischiano di trasformare uno dei piaceri maggiori degli italiani, in una bevanda “al gusto di caffè” in pochi secondi.

Secondo un dato del 2006, ogni anno circa 22 milioni di persone consumano la colazione al bar. Su questo totale il 16% che lo fa almeno una volta alla settimana, mentre il 3,4% tutti i giorni. Di questi il 53% predilige il caffè, per un totale di 80 milioni di tazze consumate ogni giorno. L’abitudine al caffè (e la colazione) al bar sono un fenomeno talmente radicato in Italia, da suscitare la curiosità e l’interesse nel mondo tanto che, per citare il caso più famoso, “l’inventore” della catena americana degli Starbucks prese ispirazione anche nella capillarità della presenza, da un viaggio nel nostro paese.

Il caffè. Una consuetudine tutta italiana per iniziare la giornata, per spezzarla e riprendere con nuovo vigore: il lavoro, la lettura, la scrittura di un documento impegnativo o prima di chiudersi in riunione. La pausa-caffè aumenta la produttività. Il tempo che si passa davanti ad un caffè è comunque variabile, può essere consumato in pochi minuti, se di fretta, oppure può dilatarsi quando è sfruttato per affrontare un tema particolare o fare una chiacchierata informale, meno impegnativa. E’ un momento “particolare” in cui, tipicamente al bar, gustarsi l’aroma, lo spessore della crema, il tipo di torrefazione e valutare l’amore o l’umore dei baristi che influenzano assolutamente la preparazione.

Gli errori, in aumento, che vengono commessi nella preparazione sono dettati solitamente, da banali imprecisioni nell’esecuzione dovuti probabilmente alla scarsa cura che si pone in questo “rito”. E la differenza, tra un caffè ben fatto preparato da un barista preparato e uno improvvisato, si sente tutta. Come sostiene anche Luigi Odello, segretario generale dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano, che cita alcune sue stime, in una scala da 0 a 9, i caffè serviti nei bar del nostro Paese ottengono “al 50% un voto compreso fra il 5 e il 7, il 30% è bocciato con un punteggio fra 0 e 5 e solo il restante 20% rappresenta un’eccellenza, con un voto fra il 7 e il 9”. Numeri importanti come si vede, ma come distinguere quei bar dove vengono commessi gli errori ? L’Istituto cita alcuni consigli da seguire, ergo, parametri preziosi per una nostra valutazione: quando troppe tazzine vengono disposte sulla macchina, quelle dietro rimangono fredde; l’uso di tazzine cilindriche non aiuta la formazione della crema; tenere il caffè già macinato nel dosatore anziché in grani, e macinarlo un po’ alla volta, lo invecchia molto più velocemente; la presenza di fondi nel portafiltro crea nel nuovo caffè un sapore di bruciato o di fumo; un portafiltro sporco nei bordi non permette di agganciarsi bene alla macchina del caffè e di conseguenza il caffè sa di gomma bruciata; le dosi troppo scarse producono un caffè meno corposo e con meno aromi; l’uso di miscela scadente da un sapore di paglia e arachide; non pressare bene la polvere fa scorrere l’acqua troppo velocemente; infine niente fretta, il caffè dovrebbe uscire non prima di 25 secondi per dare la possibilità all’acqua di attraversare la polvere, diversamente si ha un caffè sottoestratto. Questo ultimo aspetto non è secondario.

Quando si decide di prendere un caffè non bisognerebbe essere impazienti, l’impegno e l’attenzione del barista sono fondamentali perché permettono di gustare anche quella “crema” naturale (3-5 millimetri), nella tazzina calda di questa meravigliosa bevanda. A questo proposito segnalo che il bicchierino d’acqua proposto in accompagnamento al caffè va bevuto prima, non dopo, in alcuni sorsi, per pulirsi la bocca e gustarne appieno la qualità e il retrogusto di nocciola e cacao.

Quindi il caffè oltre ad essere l’inizio di qualche cosa, è un luogo. Come dice Claudio Magris “è un’accademia platonica” dove si socializza: si chiacchiera, si racconta, ci si confida, è impossibile tenere comizi o predicare. Ovviamente se il caffè è buono.

Pierangelo Raffini

mercoledì 4 maggio 2011

Il cuore della Democrazia

Però, la vecchia democrazia occidentale. Parte sempre male: lenta, litigiosa, tremebonda, confusa. Dittature e fanatismi le danzano intorno con baldanza sfrontata, esibendo idee chiare, rapidità d’azione, disciplina ferrea. Invadono le pianure della Polonia, sparano il primo uomo nello spazio, abbattono i grattacieli di Manhattan. La democrazia risponde con lo spettacolo desolante della sua impotenza. Balbetta, piange, si arrovella. Si mostra nuda e gonfia di piaghe allo sguardo dei suoi critici, che ne pronosticano i funerali imminenti. Ma passano i mesi, gli anni, talvolta i decenni, ed è ancora lì.

Che incassatrice formidabile, la democrazia. Difende la sconfitta e si riorganizza, rivelando riserve insospettabili di pazienza e talvolta anche di ferocia. Vince le guerre, conquista la Luna, stana i «cattivi» e non si vergogna di giustiziarli e di esultarne. Gli egoismi di cui è composta si raggrumano in qualcosa che non sarà mai il paradiso in terra, ma è pur sempre una comunità. Donne e uomini che non si sentono sudditi di nessuno e proprio per questo non inneggiano alla democrazia come a un totem salvifico, ma le restano affezionati. Ne sparlano e però poi la difendono: per poter continuare a sparlarne. Le dittature e i fanatismi sono emozioni violente e superficiali, che sorgono all’improvviso e all’improvviso si afflosciano. La democrazia invece è un sentimento. Scava nel profondo. Non fa battere il cuore. È il cuore. E il cuore, alla fine, vince sempre.

Massimo Gramellini - Buongiorno - La Stampa

Il vero obiettivo della vita

Non aspirare mai alla ricchezza e non lavorare soltanto per diventare ricco o avere più soldi. Impegnarsi invece per raggiungere la vera felicità, che significa essere amato ed amare, non essere invidioso e soprattutto conquistare la pace della mente e della serenità. 
Tante cose poi, vengono di conseguenza. L'importante è spostare il focus su ciò che veramente conta.

domenica 1 maggio 2011

Poveri noi

Tema del libro è il bilancio di un Paese fragile, che non ammette di esserlo. Fragile socialmente, in primo luogo, segnato da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà, e soprattutto d’impoverimento. 

Ma fragile anche moralmente, nella tenuta dei suoi sentimenti collettivi, dei valori condivisi, nell’atteggiarsi delle relazioni, sempre più spesso attraversate da venature di rancore. E, naturalmente, fragile politicamente, nell’assetto «liquido» delle sue istituzioni, nei processi in cui si esprime una cittadinanza in larga misura lesionata. 

Un Paese abissalmente distante dall’immagine che offre di sé, dal racconto apologetico che monopolizza il discorso pubblico sovrapponendosi alla realtà fino a renderla irriconoscibile ai propri stessi protagonisti.

Da quando la crisi economica ha cominciato a mordere anche sulle fasce finora considerate relativamente «forti» del mercato del lavoro (titolari di posto fisso, lavoratori autonomi....), molti italiani si trovano a vivere «in bilico» tra standard alti di consumo e il baratro dell’indigenza. Gli italiani impoveriti oscillano tra paura e rancore, tra depressione e aggressività, tra il senso del proprio fallimento personale e la tentazione di trovare un capro espiatorio. La middle class che strutturava la propria autostima sulla distanza dagli «ultimi» tende a resistere con le unghie e con i denti facendo prevalere l’atomizzazione egoistica del «si salvi chi può» e del «mors tua vita mea», in una tendenziale guerra dei penultimi contro gli ultimi, esemplificata dal grido sempre più diffuso: «perché a loro sì e a noi no?». 

Viviamo sempre piú in una società sfarinata, segnata dalla dissipazione dei legami, dei nessi comunitari. Ma la questione della povertà («relativa» o «assoluta») in Italia va affrontata con coraggio, organicità e sistematicità. Perché lottare contro la povertà non può certo significare rimuovere i poveri dalla società e farli scomparire dalla scena mediatica.

Dal 2007 a capo della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale, Marco Revelli scava tra le pieghe del processo di «modernizzazione regressiva» che sta caratterizzando il nostro Paese, che ha creduto di crescere declinando, di guadagnare posizioni perdendo in realtà terreno.

Tra il 1998 e il 2009, fatta 100 la media annuale del Prodotto Interno Lordo pro capite di tutti gli Stati dell'Unione Europea, l'Italia è letteralmente crollata, perdendo in un decennio ben 18 punti. Occupava la parte alta della classifica nel 1998, 20 punti sopra la media europea. Nel 2009 era finita a quota 102, appena sopra la linea di galleggiamento. E' in assoluto il Paese che ha perduto più posizioni in Europa.

Una Vela che esplora le fragilità - economiche, morali e politiche - di un'Italia «abissalmente distante dall'immagine che offre di sé»: un'argomentazione sostenuta da dati statistici e dall'analisi del linguaggio del potere e della comunicazione mediatica - dai messaggi rassicuranti all'opulenza ostentata. Emerge il ritratto di una nazione dal profilo piatto, che ha liquidato i vecchi punti di forza senza crearne di nuovi e dove ci si ritrova, «se non più poveri tecnicamente, certamente più vulnerabili e arretrati», nel mezzo di una terra di nessuno in cui maturano, o trovano terreno fertile, le frustrazioni e i veleni, i risentimenti e i rancori, le rese morali e i fallimenti materiali. Solitudini e crisi d'identità in grado di sfregiare l'antropologia del nostro paese, tra intolleranza per i deboli e il simmetrico eccesso di tolleranza per i vizi dei potenti. 

Al centro della forbice sempre più ampia tra ricchezza e povertà, i temi cruciali dell'eguaglianza sociale, della qualità della democrazia, dell'indebolimento dei diritti e del concetto di cittadinanza.