mercoledì 26 novembre 2008

I Believe

Il Credo di John D. Rockfeller - 1941
Credo nel valore supremo dell'individuo e nel suo diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.

Credo che ogni diritto comporti una responsabilità; ogni opportunità un obbligo; ogni possesso un dovere.

Credo che la legge sia fatta per l'uomo e non l'uomo per la legge; che il governo sia al servizio della gente e non il padrone della gente.

Credo nella dignità del lavoro, sia con le mani che con la mente; che nessuno abbia il diritto di essere mantenuto, ma che tutti abbiano il diritto a un'opportunità permantenersi.

Credo che la parsimonia sia essenziale alla vita bene ordinata e che l'economia sia il prerequisito di una struttura finanziaria sana, nel governo come nel business o negli affari personali.

Credo che la verità e la giustizia siano fondamentali per un ordine sociale duraturo.

Credo nella sacralità di una promessa che la parola di un uomo dovrebbe essere solvibile come la sua cambiale: cheil carattere - non la ricchezza o la posizione - è il valore supremo.

Credo che servire sia dovere universale del genere umano eche solo nel fuoco purificatore del sacrificio l'anima umanasi liberi dalla scoria dell'egoismo.

Credo in un Dio che tutto ama e tutto sa, chiamatelo come volete,e che la più elevata utilità individuale sia da cercare nell'armonia con la sua volontà.

Credo che l'amore sia la più grande cosa al mondo; che solo l'amore possa vincere l'odio; che il diritto possa trionfare sulla forza e che trionferà.

martedì 25 novembre 2008

Un piatto come opera d'arte

Sarà capitato a tutti, seduti al ristorante, di rimanere alcuni secondi in silenzio in un misto tra meraviglia e adorazione, momenti in cui avete colto tutta l’armonia, i colori, i profumi, la consistenza, l’architettura e la passione contenuti nel piatto che avevate di fronte. E di essere stati indecisi sul da farsi, tra il prendere la posata e perdere per sempre l’opera che vi stava davanti, o lasciare la portata così, intonsa, per appagare fino in fondo una sensazione personale difficilmente descrivibile. Vivere questa esperienza significa comprendere appieno il significato del “bello da mangiare” e quindi anche il tema del Baccanale di questo anno. Rotti al fine gli indugi poi, avrete avuto la conferma di gustare pure il buono... Quando si ha la passione per la cucina, si desidera andare per ristoranti per vivere un “viaggio” a tutto tondo che soddisfi lo spirito prima del palato, in grado di farci scoprire qualche piatto che provochi un’emozione che rimanga indelebile nei nostri ricordi come il piatto “indimenticabile“. In questi casi si spera di incontrare il maestro di cucina, l’artista, per scambiare qualche opinione e conoscere qualche particolare inedito della sua esperienza o di quel piatto specifico. Il “gastronauta” – uso sempre questa felice definizione coniata dal giornalista enogastronomico Davide Paolini - si appresta a vivere questi momenti con lo stesso stato d’animo con cui si avvicina ad una mostra di pittura, un percorso esperienziale che, spera, lo lasci un po’ arricchito dentro al suo termine. Nel suo itinere – a differenza di un turista che trova, il gastronauta cerca -alla scoperta del buono, del genuino e anche del bello, è concorde con l’antico adagio che recita “anche l’occhio vuole la sua parte”. Ugualmente ritiene la cucina una forma d’arte, applicata, come l’abbigliamento, l’architettura e il design, perché adempie da un lato a esigenze funzionali, nel caso del cibo la funzione biologica della nutrizione, e dall’altro ad esigenze estetiche. E a giusta ragione è convinto e sostiene che la cucina è per definizione Cultura, perché narra e conserva la storia dei popoli, le sue tradizioni, testimoniando il continuo mutare nel loro progredire. D’altronde il cibo è sempre stato coinvolto nell’arte in generale, cito a caso e ad esempio nella pittura dal ‘500 in avanti – Bruegel e Arcimboldo i capostipiti - nella letteratura il “Manifesto della cucina futurista” di Marinetti o il più recente scrittore Camilleri che fonde i suoi romanzi in modo indissolubile con la cucina. O, ancora, come all’inizio degli anni ‘70, nascendo l’espressione nouvelle cuisine – poi purtroppo degenerata, ma non accade forse così a volte nell’arte in generale ? - si iniziò a definire uno stile culinario di un gruppo di chef di talento, tra i quali Bocuse e Guérard, dove il momento più importante dell’elaborazione gastronomica non era più la perfetta applicazione di regole, ma la creatività, la capacità di accostare elementi inusuali, per ottenere nuove sensazioni e nuove armonie.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 22 novembre 2008

Il "divin porcello" spopola da novembre a gennaio

Da fine novembre - Sant’Andrea - a metà gennaio, il 17 è Sant’Antonio Abate, il protagonista nelle campagne, anche Romagnole, era ed è, là dove si mantiene viva una certa tradizione, il “divin porcello”, il maiale. Considerato normalmente un animale sporco e sudicio, vietato in certe religioni e demonizzato dalle diete oggi per essere “sempre in forma” salvo poi soffrire ugualmente di extra-large, il maiale trova consolazione nella tradizione cristiana che gli ha dato anche un santo protettore: appunto Sant'Antonio Abate. Da noi, in Romagna, era comunque considerato una "benedizione del Signore" o della provvidenza, anche dalle famiglie più atee e miscredenti. E il motivo di questa conversione temporanea era semplice: il maiale veniva allevato con gli avanzi di casa, con cibi poveri e forniva carne e salumi per l'intero anno. Del maiale, si dice, "non si butta via niente". Fino agli anni ’50-60 è stato così, oggi è meglio dire che “non si buttava” quando c'erano i maiali buoni certamente, ma soprattutto quando c'era la fame con la "F" maiuscola. Cambiando le abitudini e l’alimentazione, ora si scarta molto di più e certi dettami della modernità hanno praticamente ucciso preparazioni indimenticabili come “e migliaz” (il migliaccio) dolce sanguinaccio romagnolo a base di sangue suino. Come di estinguersi corrono il rischio i maiali di razza romagnola. La Mora Romagnola infatti è una razza suina che rischia l’estinzione - oggi sono circa 300 capi e un consorzio cerca di mantenere e aumentarne la produzione - una razza che un tempo era allevata nell'intera Romagna con prevalente diffusione nel Forlivese e nel Faentino. Si può dire che il maiale in Romagna è rintracciabile non solo a cose legate alla cucina. Nelle parole ad esempio. In certe zone del nostro Appennino, lo ricordo ancora io, i bambini venivano chiamati “ i ninè” che è lo stesso nome che si da al piccolo del maiale, ma non era usato in senso assolutamente offensivo. Probabilmente i bambini e i maialini erano comunque un segnale positivo della provvidenza… Ma pensate anche al detto “se sant’antonio u sé innamure in tu’n porz…” (se sant’Antonio si è innamorato in un maiale) che è sempre stato il lasciapassare per qualsiasi commento su una coppia di persone che “la gente” di paese non approvava nella loro unione sentimentale. Ma tornando al nostro maiale e al suo totale utilizzo ricordiamo cosa si produce dalla macellazione di questo animale: sangue per il migliaccio, ossa da cuocere e piluccare, strutto, salsicce, salami (in quelli “buoni” della tradizione si mette ancora il sangiovese dell’ultima vendemmia), capocollo, coppe, fegatelli, coppa di testa (dove finiscono testa, ossa, cotenne, orecchie, codino, zampetti...), guanciale, lardo, ciccioli, cotechini, pancetta (cotta all’alba con la piada fritta prima di andare nei campi), mortadelle, soppressate, lonzino, stinco, braciole, costolette, cotiche... fino ad arrivare al prosciutto, quello crudo. Il premio finale. L'ultimo a mangiarsi. In tavola tutto questo si traduce in alcuni piatti tradizionali romagnoli dei quali vale la pena segnalare: i fegatelli con la rete e la salvia in graticola, i bruciatini di pancetta all’aceto (oggi solo balsamico, ma è un falso storico), l’arrosto di lombata, la polenta al ragù o alla salciccia, la porchetta, le bracioline, “e frizon” (il friggione) con la salciccia in alcune zone. Ma un ruolo molto importante, oggi ormai perduto se non in pochi “capisaldi” della ristorazione tradizionale era quello svolto dallo strutto. Per friggere, conservare salsicce, fare la piadina, non solo un ingrediente, ma il simbolo di una civiltà gastronomica che fa da cerniera tra l’Italia del Nord che utilizza il burro e quella del sud che usa invece l’olio. Chi ricorda la differenza di sapore delle patate arrosto o fritte nello strutto, tagliate grosse con rosmarino e sale grosso ? Lo strutto era utilizzato anche per certi dolci, come le castagnole, le sfrappole, per i soffritti in genere, per il salto in padella delle erbe di campo. Ricordo ancora mia madre che per lungo tempo lo ha utilizzato al posto della margarina (perché il burro per lei che aveva visto la Fame vera durante la guerra nell’appennino romagnolo, era troppo nobile) o certi parenti di mio padre, contadini, con cui da piccolo andavo a trovare che avevano sempre la padella nera vicino al fuoco con due dita di strutto pronti per i diversi momenti di alimentazione legati al ciclo di vita dei campi.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 23 novembre 2008

venerdì 14 novembre 2008

Scuola Democratica

"Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in un alloggiamento per manipoli; ma vuole istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia perfino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di stato. E magari si danno dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo apertamente trasformare le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tenere d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi, ve l'ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico"
On. Pietro Calamandrei 20 marzo 1950

giovedì 13 novembre 2008

YES, WEB CAN


Adesso lo sappiamo e quindi possiamo scriverlo: Internet non l' ha inventata Al Gore, ma Barack Obama. Nella sfortunata campagna elettorale del 2000 il democratico «sconfitto» si attribuì goffamente la scoperta della Rete. In quella trionfale appena conclusa il vincitore ne ha fatto un uso senza precedenti, scovandone ogni dote e potenziandola esponenzialmente. Titola il sito di «Wired», il giornale più attento alla rete e alle nuove teconologie: «Spinto da Internet, Obama conquista la presidenza». È davvero così? Oltre al primo Presidente nero e meticcio abbiamo il primo Presidente.com? È stata la teconologia l' arma vincente di questa formidabile ascesa? Risposta: sì, ma. Partiamo dal sì. E' vero. Barack Obama è stato un perfetto candidato.com. In questo tuttavia non inedito. Già la campagna elettorale del 2000 era sbarcata su Internet. E chi era stato il primo a muoversi con qualche agilità nel territorio virtuale? Pensa te: John Mc Cain. Il vecchietto (già allora), utilizzò la rete nella sua purtroppo perdente sfida a George W. Bush, uno che si è vantato dei bassi voti a scuola e che si faceva caricare la playlist sull' I Pod da un assistente (limitandosi a pretendere la presenza della becera «My Sharona»). Poi, nel 2004, la corsa delle primarie democratiche partì, anziché con un colpo dello starter, con un clic dal Vermont: la discesa in campo di Howard Dean, lanciato da un passa-e-mail, sorretto dal popolo del web e stroncato dal popolino dei caucus nell' Iowa. Né McCain né Dean, nonostante l' intuizione del mezzo, raggiunsero il fine. Perché? Perché nessuno dei due era Barack Obama. Non basta usare Internet per arrivare alla Casa Bianca, bisogna sapere che cosa farne e occorre essere la persona giusta nel «non-posto» giusto. Obama, a differenza dei predecessori lo è stato. Ha vinto, sul web, con il web e grazie al web in tre www.mosse. La prima: ha giocato a tutto campo. Ha sfruttato ogni potenzialità, moltiplicato qualsiasi fattore. Aprire un sito, inserire qualche link, uploadare un paio di video su You Tube è sufficiente (forse) per il lancio di un film. Per arrivare alla Casa Bianca occorreva un' occupazione gentile e capillare, una conquista dei cuori e delle menti con una strategia militare che puntasse alla «missione compiuta» nel breve termine di una stagione elettorale. Obama (e/o chi per lui) non ha trascurato nulla. Ha creato il suo sito, ti ha fatto creare il tuo «sotto-sito» (mybarackobama.com), ha invaso YouTube e Facebook, di cui ha perfino arruolato uno dei fondatori. In una catena tendente all' infinito e all' incredibile ogni sito ne generava un altro con diversa funzione. Obama (e/o) chi per lui ha capito la Rete. Ha guardato all' esperienza di Clinton e considerato quanto il pettegolezzo nato sul web possa essere micidiale se non spento subito. Ha creato un sito apposito per smentire ogni voce (Fightthesmears.com, l' anti Drudge report). Ha messo un esercito di ragazzi a navigare cercando ogni possibile formazione di mucillagine e fango sul percorso, per dissolverla prima che potesse diventare un ostacolo. Ha guardato i terminali del flusso originato dalla Rete e ha occupato anche quelli. Si è fatto costruire una «Obama applicazione» per l' I Phone, in grado di dare informazioni, indicare comizi e raggiungere in via preferenziale residenti negli «Stati in bilico». Ha inserito in ogni sito un sistema per deviare l' informazione direttamente a un cellulare via sms. Ha immediatamente utilizzato il twitter. Era sulla cresta di ogni onda appena superava la linea dell' orizzonte. Ma non sarebbe bastato senza... ...la seconda mossa: come un contemporaneo Bernardo di Chartres, Obama ha valutato le nuove tecnologie «nani sedute sulle spalle dei giganti». Ovvero: nuovi strumenti per fare vecchie cose. Ha capito che la modernità è una strada diversa per andare dalla stessa parte, un aggiornamento e non una rifondazione. Sul web non si va a giocare un campionato di fantapolitica, ma ad aumentare le possibilità di vincere un' elezione reale. Come? Facendo lì, oltre che e non invece che altrove, le stesse vecchie insostituibili cose: raccogliere fondi, diffondere parole d' ordine, controinformare. Ha affiancato alla macchina tradizionale che tirava su donazioni in un unico assegno milionario da Warren Buffett, una flotta di automobiline virtuali che hanno caricato 600 milioni di dollari da tre milioni di persone sparse e mai radunabili sotto lo stesso tetto (oltreché, dicono i detrattori, non rintracciabili). Ha creato una virtuosa filiera di e-mail e sms per portare chiunque si fosse dichiarato un sostenitore al voto il 4 novembre (e non anche il 5, spiegava il sito di controinformazione, smentendo una voce diffusa ad arte per limitare l' afflusso). Contribuisci, vota e fai votare: sono imperativi vecchi come la democrazia, la novità era il modo di esprimerli, la tempestività e l' ampiezza con cui venivano diffusi. In questi mesi la squadra di Obama ha preso il web e l' ha portato sulla terra, ha tagliato corto sulla sua propensione al giocoso e all' inconcludente e l' ha reso macchina da fatti e non da parole o immagini. Perché questo non riuscì a Mc Cain nel '99, a Gore nel 2000, a Dean nel 2004 e alla Clinton nel 2007? Per via della... . ..terza mossa, che una mossa non è. Semplicemente è la natura di Obama. McCain può essere un eroe, Gore un vice, Hillary una moglie con qualche diritto ereditario, ma solo Obama può essere un avatar. La sua figura appare disegnata, la sua biografia irreale, il suo procedere nella storia staccato dalle leggi della fisica e della logica. Non ha bisogno di essere giovanilista perché è giovane. Né di mostrarsi diverso, giacché lo è. Obama non appare come una figura della realtà che diviene fantasia, ma viceversa. È come quel nickname senza sembianze certificate con cui hai chattato per mesi e che ti ha fatto sognare, credere di essere, dietro il sipario, la persona giusta, ti ha spinto a sostenerlo, a faticare per incontrarlo, infine eccolo lì, corrispondente a quell' immagine eterea, costruita da milioni di pixel e viaggi generazionali nello spazio e nel tempo, eppure, va ammesso, autentica. Obama, e soltanto lui nel panorama politico non soltanto americano ma mondiale, è «web-compatibile». Lo è perché appare «web generato». Tanto Gore non era credibile quando affermava: «Ho creato Internet» quanto Obama lo sarebbe se dicesse: «Internet mi ha creato». Obama è un link tra questo presente e una nuova pagina. È il download di un' aspirazione collettiva che prima di lui concepiva la propria esistenza, ma non il proprio oggetto, un mero dominio in costruzione, da riempire di contenuti. È un motore di ricerca, che procede per parole chiave: «cambiamento», «speranza», «possibilità». Tutto questo, attenzione, come la sua già raggiunta dimensione di mito contemporaneo che siede alla destra del Che e alla sinistra di Jackie O, ne faceva un superlativo candidato. E un perfetto candidato.com. Ma dal 20 gennaio dovrà essere un presidente (se vorrà, un presidente.com). Starà a lui (e/o chi per lui) inventare un modo per far diventare Internet strumento di governo e non solo di lotta. E trasformare, anche grazie a questo, la più straordinaria delle campagne elettorali in un' amministrazione che esercita con metodi nuovi la vecchia e desueta arte del buongoverno.

GABRIELE ROMAGNOLI - Repubblica — 06 novembre 2008

lunedì 10 novembre 2008

Gli appetiti del buffet

Quando partecipo ad un evento dove è previsto un buffet, trovo sempre divertente osservare e riflettere sulla natura umana degli intervenuti e i loro comportamenti. Di fronte ai tavoli imbanditi, che dovrebbero rappresentare un momento di piacevole informalità e socialità, senza la “schiavitù” dell’etichetta, alcune persone si trasformano. Non è un fatto di censo, ho visto scene incredibili in ogni occasione, dall’inaugurazione del negozio alla presentazione della mostra, dalla cena in giardino al party per la presentazione del nuovo libro. A prescindere dagli invitati sono arrivato alla conclusione che l’istinto primordiale nei riguardi del cibo scateni la competizione.
Tralascio i “professionisti del buffet” – ad Imola ad esempio ho individuato un paio di famiglie – presenti a tutte le inaugurazioni e non so come facciano ad essere così informati, che si posizionano su un angolo del tavolo e divorano letteralmente una quantità di cibo incredibile, facendo “muro” e impedendo agli altri di arrivare al cibo, soprattutto se non è prevista la fila. A tutti però sarà capitato di vedere come alcune persone si avventino sul banchetto come se fossero giorni che non hanno mangiato. In un buffet in realtà è bello avere la libertà di poter assaggiare davvero un po’ di tutto e potersi relazionare con più persone. Trovo sgradevole vedere persone tornare dal tavolo delle vivande col piatto stracolmo, con portate che si stratificano in precario equilibrio col rischio di far cadere il cibo e sprecarlo inutilmente. Oggi in cui non mangiamo più per necessità – salvo i casi di indigenza sociale – ma per piacere o per il gusto di farlo, trovo spiacevoli questi atteggiamenti, aggravati dal fatto che spesso capita poi di vedere gli stessi piatti abbandonati con ancora abbondanza di cibo. La condotta da adottare invece dovrebbe essere lo stesso che usiamo al ristorante, ma in modalità di assaggio: un po’ di antipasto, un primo, un secondo, verdura, dolce o frutta. Il piatto andrebbe riempito per un 70% e contenere al massimo 3 o 4 cose. Nei buffet, il divertimento, sta anche nell’andare più volte al tavolo per “spizzicare” le cose in modo però sempre misurato. La regola sarebbe “mettere poco e andare spesso”, tra l’altro questo permette di muoversi appunto e aumentare la socialità conoscendo anche nuove persone, magari iniziando il discorso in modo semplice parlando proprio del cibo. Ricordare sempre che la tavola unisce enon divide.
Per concludere lancio un appello agli organizzatori dei buffet. La cosa più difficoltosa e antipatica, partecipando ad un rinfresco, è la gestione del proprio bicchiere. Nella mia lunga frequentazione solo due volte, a Milano, i simpatici organizzatori davano inserito nel piatto un utile supportino in plastica per inserire lo stelo del bicchiere. Così si hanno le mani libere e il bicchiere sotto controllo. Come direbbe Bisio in una sua pubblicità: geniale !
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE il 8 novembre 2008

domenica 9 novembre 2008

Il "no profit" sulla tavola del pranzo della domenica

In qualità di membro dell’Accademia Italiana della Cucina ritengo interessante parlare di una ricerca realizzata dal Centro Studi dell’Accademia stessa - che è Istituto Culturale “no profit” - su un appuntamento che forse molti potrebbero pensare sia un rito dimenticato o presente ormai solo in alcuni territori: parliamo del pranzo della domenica. Al contrario, un po' a sorpresa, lo studio conferma come questo appuntamento sia ancora attuale e vivo nelle abitudini delle famiglie italiane. Emerge dai dati raccolti, che il 52 per cento delle famiglie tutte le domeniche si siede a tavola con parenti o amici per assaporare menù e piatti che sono praticamente immutati nel tempo, dagli antipasti seguiti da pastasciutta pasta ripiena o in brodo, agli arrosti vari con patate o i bolliti con l'intramontabile insalata, alle crostate, torte di mele, budini, tiramisù o i classici pasticcini sul cabaret comprati nella migliore pasticceria. Protagonisti assoluti sono i manicaretti tradizionali, dai segreti tramandati in famiglia, realizzati soprattutto da mamme/suocere, zie e nonne ancora in gran forma. Piatti simili in tutto il paese, diversi nella realtà perché la cucina italiana non è solo una cucina regionale, ma anche territoriale, zonale, in una frammentazione che diventa però ricchezza e patrimonio storico-culturale. Lo studio, che ha coinvolto anche tutte le Delegazioni in Italia, ha consentito di prendere in esame un campione molto rappresentativo delle famiglie del paese. Ne è uscito che il pranzo della domenica è in verità un classico dei nostri appuntamenti di convivialità, una sorta di cerimoniale amato – forse qualche volta anche subito – sicuramente diffuso in ogni angolo parte del nostro paese. La domenica insomma è vietata a surgelati, fast food e ristoranti, a testimonianza di ciò provate a cercare un ristorante aperto a mezzogiorno: buona fortuna!. Altri dati dello studio dicono che intorno al tavolo di casa, alla domenica, si raccoglie in media un gruppo di 5 persone, con punte anche tra i 7 e i 10 quando si ritrovano nonni, zii, genitori e nipoti. Naturalmente la tavola a cui si fa riferimento è nel 70%, dei casi quella dei genitori, per il 17% dei figli, per il 4% di altri parenti o amici. Solo per un 5% circa il luogo ideale è quella del ristorante. Si può quindi dire che il pranzo della domenica resta inossidabile, specchio di un paese che cambia rimanendo però fedele a se stesso. Ritengo che in questo appuntamento “tradizionale” si possa leggere in qualche modo la nostra storia con l’evoluzione dei costumi e della cultura gastronomica. A partire dai primi del novecento fino agli anni '50 dove la carne era un lusso e si consumava – quelli che potevano - sotto forma di arrosti, brasati o bolliti, solo la domenica, ai tempi del “boom economico” con le prime “gite fuori porta” e i primi picnic, quando dalle città si spostavano in campagna – ricordo molto bene queste trasferte al fiume o negli Appennini – file di auto con plaid, piatti, stoviglie e cibarie. Passando poi agli anni Settanta dove subentra la nouvelle cuisine a quella tradizionale, sull’onda lunga della contestazione in cui tutto doveva cambiare, per arrivare agli anni '80 dove, vuoi per la perdita dei valori, per la “crisi della famiglia”, per il diffondersi delle diete e per l'affermarsi di cibi precotti e surgelati – il tempo comincia a scarseggiare - il pranzo della domenica subisce un calo di popolarità. Con gli anni '90 si assiste ad un ritorno alle origini, si esaltano i sapori genuini, i piatti della nonna che sembrano dimenticati e tra la fine dell’ultimo decennio e il nuovo secolo è tutto un fiorire di libri e nuove pubblicazioni di cucina, di trasmissioni tematiche, di Chef che impazzano nei media. E’ una sorta di nuovo Rinascimento Gastronomico in cui gli italiani si appassionano a quest’arte, in cui si elaborano ricette innovative ma nel solco delle tradizioni locali, si riscoprono e valorizzano i prodotti e i vitigni del territorio. Il pranzo della domenica, mai veramente abbandonato, torna pertanto ad avere un ruolo importante di (ri)unione e di ritorno alle nostre tradizioni. Magari – visto che i tempi cambiano – con sempre più attenzione a ingredienti di qualità, prodotti biologici, locali, stagionali e porzioni ... meno abbondanti.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 9 novembre 2008

lunedì 3 novembre 2008

La tradizione delle fave dei morti che arriva dalla Romagna

La tradizione legata ad Ognissanti e quindi alle ricorrenze dei primi di novembre nascono nell’antichità e in Romagna si sviluppano principalmente grazie all’afflusso dei componenti delle legioni romane che Cesare, di ritorno dalla Gallia, premiò regalando loro – come era uso fare allora – appezzamenti di terra da coltivare. Forse non tutti sanno queste legioni, come quasi tutte da un certo momento in poi , erano composte da “barbari” (come erano definiti dai romani tutti i cittadini dell’impero che non fossero compresi nel territorio dell’Urbe, che andò allargandosi nel tempo). I legionari di Cesare, nella fattispecie, erano Gallici e quindi portarono con loro, in Romagna, le tradizioni celtiche ancora oggi riscontrabili in numerose sfumature dei nostri usi e costumi. Quindi prima che Colombo partisse per l'America, la festa di Halloween veniva festeggiata con altro nome e caratteristiche non troppo dissimili in varie parti d'Europa, fra cui anche l'Italia settentrionale e la Romagna.

Essendo una festa che esorcizzava la paura della morte, nel nostro territorio in queste giornate, venivano messe in atto diverse usanze tese all'accoglimento dei trapassati che in quel periodo tornavano tra i vivi nelle loro case, che coinvolgevano la casa, ma pure gli animali e la terra. Ad esempio i contadini, nella mattina di questa festa, si alzavano presto per lasciar il posto ai morti e per l'occasione si metteva nei letti biancheria pulita e profumata. Alla sera veniva invece loro preparato del cibo e nella vigilia dei morti non si sparecchiava la tavola. Veniva lasciato tutto pulito ed ordinato, il pane fresco già tagliato. I contadini romagnoli usavano altresì mangiare proprio delle fave in questo anniversario, perché si riteneva che questa pianta avesse il potere di rafforzare la memoria, così che nessuno dimenticasse i propri defunti. Si mangia quindi la fava secca lessata, condita di cotiche e rosmarino. E sempre la fava, veniva posta sui davanzali in ciotole ricolme, per gli ignoti transitanti, altrimenti potevano venir poste negli angoli delle strade bigonci o ciotole piene di ceci e lupini lessi. Altra tradizione era quella di confezionare il ripieno dei cappelletti privo di carne, utilizzando quindi formaggi quali il raviggiolo e da qui la differenza con il tortellino emiliano in cui la carne è sempre presente. Altro piatto tradizionale erano i maltagliati insaporiti con l'alloro e il vino rosso.

Le offerte per i defunti potevano venir poste anche agli angoli delle strade strade: bigonci o ciotole piene di ceci e lupini lessi.
Altra tradizione consisteva anche nel portare una certa quantità di grano alla chiesa parrocchiale stendendolo sull'avello dei propri morti e collocandovi una candela accesa. Oppure veniva posta una bigoncia dietro la porta della chiesa, dove chi poteva, metteva del grano. Un’ulteriore usanza, che ci riporta a certe “mode” rispolverate senza conoscerne la genesi, era quella legata alle offerte fatte ai morti, lasciandole sulle tombe o dandole a chi li impersonava bussando alla porta di casa per una questua rituale, perché si ricordassero di pregare per i defunti. Solo che, al posto dei dolcetti, legumi bolliti. Anche le zucche appartengono alla tradizione e ci sono numerose testimonianze secondo cui nella prima metà di novembre si usava collocare nottempo nei crocicchi, o in altri luoghi del paese, zucche svuotate ed intagliate a forma di faccia, con dentro una candela accesa che servivano a a"spaventare le streghe. Possiamo quindi dire che le usanze tanto in voga negli ultimi anni sono di fatto un ritorno – con caratteristiche un po’ troppo “gioiose” perché nella tradizione la festa non aveva nulla di allegro – alle nostre radici.

Le fave comunque sono sempre state legate al culto dei morti per la loro capacità di evocare la continuità della vita che proprio dalla morte trae nuovo impulso, in un ciclo di eterno ritorno. Quindi un anello di congiuntura tra la vita e la morte. Oggi di tutto questo, a parte alcuni aspetti allegorici, rimangono solo le fave dolci, detti "Fave dei morti", dolcetti che, insieme a focacce e pani anch’essi dolci, venivano offerti in dono, nelle notti precedenti la ricorrenza dei morti, alle fate.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 2 novembre 2008