venerdì 31 gennaio 2014

Le 5 capacità che un leader deve possedere

Accetta gli altri per quello che sono.

Affronta le cose nel termine del solo presente.

Tratta gli altri, anche le conoscenze abituali, con cortese attenzione.

Si fida degli altri, anche se il rischio sembra elevato.

Non ha bisogno di approvazione e riconoscimento costanti.

mercoledì 29 gennaio 2014

Crisi è anche opportunità

Senza crisi non ci sono sfide,
senza sfide la vita è una routine.
È nella crisi che emerge il meglio di ognuno,
perché senza crisi tutti i venti sono lievi brezze.

A. Einstein

I valori fondamentali di Amazon

Attenzione
Ossessiva attenzione al Cliente
Senso di appartenenza
Spinta all'azione
Sobrietà 
Senso della sfida
Innovazione

martedì 28 gennaio 2014

Il coraggio di rischiare

Abbi fede nelle tue capacità 
Stabilisci i tuoi obiettivi
Vivi la vita fino in fondo
Non rinunciare mai
Preparati bene
Abbi fiducia in te stesso 
Non stancarti di riprovare
Abbi un atteggiamento collaborativo
Divertiti, lavora sodo e il denaro arriverà 
Non sprecare tempo, cogli le opportunità
Guarda la vita con ottimismo
Quando non ti diverti più passa ad altro
Persegui i tuoi sogni e i tuoi obiettivi
Non avere rimpianti
Tieni fede alla parola data
Punta in alto
Sperimenta nuove iniziative
Non darti per vinto
Sfida te stesso
Cogli l'attimo
Rifletti sulla tua vita
Sii leale
Affronta i problemi a viso aperto
Il denaro è solo un mezzo
Scegli le persone giuste e premia il talento
Sii gentile e rispettoso
Fa' la cosa giusta
Sii sempre onesto
Offri il tuo contributo
Impara a guardare lontano
Valuta sempre le conseguenze delle tue azioni
Le grandi vittorie si raggiungono a piccoli passi
Non perdere mai di vista l'obiettivo finale
Sii coerente con te stesso
Rendi interessante tutto ciò che fai
Se occorre fare qualcosa, falla tu stesso
Guarda oltre l'ovvio e mettici la faccia
Nulla è impossibile
Pensa in modo creativo
Il sistema non è sacro
Per vincere devi infrangere le regole
Valorizza le tue doti
Trova soluzioni alternative
Pensa sempre come puoi fare del bene
La velocità è l'arma vincente della competizione
Sii il primo sul campo
Non complicare le cose
Contratta: tutto è negoziabile
Divertiti mentre lavori
Non guidare le pecore, raduna i gatti
Sii una persona come tutte le altre

Richard Branson


domenica 26 gennaio 2014

Smarfle, fare start up non è un hobby e non è roba da fighetti. Per chi pensa sia una moda.

“Ho passato le pause pranzo in macchina a lavorare alla mia idea e ho rinunciato a un lavoro fisso. Ma se va male rivaluto la laurea in ingegneria”. Massimo Michetti, founder della mobile app che rivoluziona il modo di ascoltare musica, racconta la vita degli startupper italiani. “È difficile, bisogna smuovere pachidermi”

Il team di SmarfleIl team di Smarfle“Sia chiaro: fare una start up non è un gioco. Non si fa impresa nel weekend e non è il passatempo della domenica pomeriggio. Chi fa start up deve lavorare giorno e notte, compresi i finesettimana”. Per Massimo Michetti ‘start up’ non è solo roba da fighetti o qualcosa che fa tendenza. E lui lo sa bene: quando ha iniziato a lavorare a Smarfle, una mobile app che riconosce le preferenze musicali  e seleziona la musica adatta per la specifica situazione, creando playlist speciali per ogni momento della vita degli utenti, Massimo lavorava per un’azienda di Bari. Per lui un contratto a tempo indeterminato e un futuro tranquillo. “Nelle pausa pranzo, invece di andare a mangiare con i colleghi, mi chiudevo in macchina per lavorare al progetto. Così, prima ho messo a rischio affetti e vita sociale, poi mi sono licenziato per buttarmi a capofitto in ciò in cui credevo” racconta. Non a caso, Smarfle è una delle start up che non è passata inosservata a Working Capitalil programma di accelerazione di Telecom Italia, e si è aggiudicatail grant d’impresa di 25 mila euro. “Al di là del contributo economico, Working Capital mi ha convinto del fatto che stessi andando nella direzione giusta” racconta questo 31enne pugliese, ingegnere informatico, laureato al Politecnico di Bari.

E proprio al Politecnico, Massimo Michettii conosce Francesco Capozzi, 29 anni, una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni e un dottorato di ricerca. Francesco ha collaborato con una società di social gaming a Bari e ora è assistente di ricerca al CNR.
Insieme, i due ragazzi hanno pensato di creare qualcosa di innovativo nel mondo della musica. “Quello musicale è uno spazio inflazionato, ci sono grossi competitor, da Apple ad Amazon, ma abbiamo notato che mancava qualcosa di preciso: uno strumento capace di interpretare le preferenze musicali dell’utente. L’obiettivo di Smarfle è rivoluzionare il modo in cui si ascolta la musica. Il nostro motto, infatti è Your music, Smarter”.

Ai due ragazzi si sono uniti, poi, Emiliano Mancini, 40 anni di Roma, laurea in Scienze dell’Informazione alla Sapienza ed esperienza come consulente in diverse società, ha lasciato la capitale dopo aver capito il potenziale di Smarfle trasferendosi definitivamente a Bari; eGiovanni Talesco, 36 anni, ingegnere informatico di Bari, esperto di social game.

Tra settembre e ottobre del 2012 i quattro decidono di provarci sul serio: “Mi danno tutti del pazzo perché ho rinunciato a un posto di lavoro per un’idea: se la mia fidanzata mi sostenuto fin dall’inizio, la mia famiglia ha fatto fatica a capire che non era una follia. Ho convinto i miei genitori a sostenermi dicendo che, nel caso in cui la start up dovesse andare male, posso sempre rigiocarmi la carta della laurea in ingegneria informatica. Ma questa è davvero l’unica cosa che voglio fare ed il modo per massimizzare le mie capacità. Il mio sogno è sempre stato quello di creare un prodotto mio e metterlo a disposizione della gente” continua Massimo.

E proprio per realizzare questo sogno il team si riunisce tutti i giorni in uno spazio di coworking messo a disposizione dalla fiera di Bari. Ogni lunedì c’è la riunione per pianificare il lavoro fatto in precedenza e valutare quello da svolgere in futuro e ogni giorno c’è uno scambio di mail per aggiornare i colleghi su eventuali problemi e sui risultati raggiunti. “Siamo una squadra, ma anche una macchina di lavoro – continua il founder –. Del resto se in Italia vuoi fare impresa non puoi che muoverti in questo modo. Nel nostro Paese chi vuole fare innovazione deve smuovere pachidermi fatti di pregiudizi e impicci burocratici. Bisogna lavorare a pieno ritmo per emergere e non fermarsi mai”.

Le ambizioni di Smarfle sono altissime: “Puntiamo a un progetto di respiro internazionale, fatto su misura per gli utenti, che non miri a sostituirsi a quanto già esistente nel pianeta musicale, ma a stringere partnership con i grossi competitors (Amazon, Google, Apple)”. Strategie e business plan sono chiari: “Creare un prodotto di qualità cercando di seguire il feedback degli utenti, sperimentare e verificare il corretto funzionamento delle applicazioni e crescere lentamente. Almeno in un primo momento, infatti, vogliamo captare l’attenzione del pubblico sul prodotto, a quel punto possiamo prendere la rincorsa. Non a caso, per quest’anno abbiamo deciso di rendere forte il prodotto solo sull’iphone, poi punteremo a conquistare le altre piattaforme. È ovvio che da idee così chiare non possiamo che aspirare al massimo: un fatturato a doppia cifra con tanti zeri. Forse non alla fine del primo anno, ma sicuramente molto presto” conclude Massimo Michetti.

Concetta Desando - Economyup - gennaio

Inglass, ecco come raddoppiare gli affari durante la crisi

L’azienda veneta specializzata in stampi e camere calde per la plastica è passata dai 45 milioni di fatturato del 2009 agli 85 del 2013. Interpretando le opportunità della globalizzazione, aprendo uno stabilimento in Cina e diversificando l’offerta


La sede di Inglass a San Polo di Piave (Treviso)La sede di Inglass a San Polo di Piave (Treviso)Raddoppiare il volume d’affari in cinque anni è un’impresa proibitiva durante la Grande Crisi. Ed è ancora più difficile per un’azienda che lavora soprattutto nella filiera del settore automotive. Eppure la Inglass di San Polo di Piave (Treviso), attiva nella progettazione e costruzione di stampi e sistemi di iniezione a canale caldo per manufatti plastici, ci è riuscita, passando dai 45 milioni di fatturato del 2009 agli 85 milioni del 2013.

La chiave di questo successo? Un insieme di strategie caratterizzate da un denominatore comune: saper interpretare le opportunità offerte dall’economia globalizzata senza restare sulla difensiva. «Abbiamo seguito la globalizzazione anche da un punto di vista culturale», dice Alessandra Bosco, global business development manager di Inglass. «Il forte investimento sulle filiali anche nei mercati emergenti ci ha portato ad avere nella maggioranza dei casi personale diretto che potesse occuparsi dei clienti utilizzando la lingua e la cultura del posto».

Per portare avanti questa filosofia, l’azienda veneta, che opera in circa 50 Paesi del mondo e ha tra i suoi 1600 clienti sia i fornitori di componentistica primo equipaggiamento per l’automotive che le stesse case automobilistiche, ha fatto importanti investimenti in ambito Ict. Uno degli strumenti più all’avanguardia adottati e sviluppati internamente è una piattaforma web per la gestione del rapporto con i clienti «che ci permette di gestire ogni singolo sistema durante il suo intero ciclo di vita. Con questa soluzione possiamo  monitorare in modo capillare le esigenze del cliente, l'affidabilità dei nostri prodotti e la qualità dei servizi offerti a livello globale».

La storia della Inglass inizia nel 1987 alle porte di Treviso dall’idea di Maurizio Bazzo. All’epoca, il nome dell’azienda era Incos.
Alessandra Bosco, global business development manager di InglassAlessandra Bosco, global business development manager di Inglass E da allora, procedendo a suon di innovazioni e brevetti, il principale punto di forza dell’impresa è stato il compiere piccole “rivoluzioni” nei mercati in cui operava. La prima è stata il focalizzarsi, nei primi anni, sulla costruzione di stampi rotativi per l’illuminazione delle auto. Una scelta che ha portato la Inglass a posizioni di vertice a livello mondiale. Ma il patron, classe 1961 con un breve  passato come responsabile di una divisione stampaggio della  Electrolux, non si accontenta di essere tra i primi nel produrre gli stampi per la fanaleria delle macchine.

Ecco allora che arriva la seconda svolta. Corre l’anno 2001 e l’azienda guidata da Bazzo dà vita a HRSflow (Hot Runner System), una divisione dedicata alla realizzazione di sistemi a canale caldo per lo stampaggio ad iniezione di materiale plastico. «È principalmente il processo di iniezione che dà la qualità al modo in cui viene stampata la plastica», spiega Bosco. «Abbiamo cominciato a produrre sistemi di iniezione per i nostri stampi e poi, con il tempo, ci siamo specializzati in sistemi anche per tutti gli altri componenti del settore automotive».

Grazie a questo doppio know how, anche questa novità viene premiata dal mercato e Inglass – il gruppo assumerà questo nome dal 2006 – diventa in pochi anni uno dei maggiori player su scala globale nel proprio comparto. Tanto che al momento, quasi un terzo del fatturato (circa 25 milioni) arriva dagli stampi, mentre il resto arriva dai sistemi a canale caldo. Una terza rivoluzione, datata 2004, è la brevettazione del “plastic glazing”,  una tecnologia che utilizza l’iniettocompressione per stampare grandi superfici in policarbonato, un materiale plastico a basso peso specifico con cui sostituire le parti vetrate dell’automobile (tra cui il tetto e i finestrini). L’innovazione sta prendendo sempre più piede, specialmente se si considera che il peso della vettura è coinvolto direttamente nella riduzione dell’emissione di CO2 richiesta dalle normative internazionali.

Nel 2009 arriva la svolta che fa da volano a tutte le strategie anti-recessione: Inglass apre uno stabilmento di 12mila metri quadri a Hangzhou, nei pressi di Shanghai, per servire meglio la clientela asiatica. «Produrre in Cina ha dato ossigeno al gruppo proprio all’inizio della crisi e ha rafforzato il nostro business su mercati emergenti dove eravamo marginalmente presenti: al momento la nostra quota export è dell’80% circa», afferma la global business development manager. «In quattro anni abbiamo quadruplicato le vendite in Asia, passando da 4 a 16 milioni. Questo perché molte case automobilistiche occidentali hanno cominciato a produrre vetture localmente in joint venture e le stesse compagnie del posto stanno crescendo bene ed apprezzano il nostro prodotto italiano».

Ma se sei un leader in una nicchia dell’automotive e servi le principali case del mondo (Bmw, Toyota, Mercedes-Benz, Fiat-Chrysler, Porsche, Ford…) aprire in Cina non basta a fronteggiare il calo di tutto il settore. La parola d’ordine deve diventare un’altra: diversificazione. «Mentre altri hanno cercato di difendersi, noi abbiamo investito e cominciato a produrre sistemi di iniezione anche per comparti alternativi all’automotive», spiega Bosco. È così che nel 2009 viene introdotta la linea Multitech, dedicata alla produzione di canali caldi per settori come medicale, beverage e cosmetica. Diversificare, in questo caso, ha previsto anche la creazione di una nuova divisione di ricerca & sviluppo, oltre a quelle già presenti che hanno portato alle varie innovazioni degli anni passati.

Per il 2014 e i prossimi anni, Inglass prevede di aumentare la quota di mercato dei sistemi di iniezione non dedicati all’automotive e di consolidarsi sui mercati emergenti con obiettivi principali  la Russia,  l’India e il Nordafrica. «Abbiamo un piano strategico innovativo e molto ambizioso che arriva fino al 2017», conclude Bosco. «È una sfida, ma siamo certi di vincerla».


Maurizio Di Lucchio - Economyup - 24 gennaio

venerdì 24 gennaio 2014

Nuove dittature: il simbolicamente corretto

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Puoi fare ben poco stando al governo oppure operando dall’opposizione? Male, ma puoi sempre scegliere una strada sostitutiva: «Mandare un segnale». È l’apoteosi del gesto carico di significati, è il predominio del simbolico sul concreto. Che cosa può fare Obama per contrastare lo strapotere di Putin, che comprime e mortifica i diritti umani e civili in Russia? Niente, non può fare praticamente niente. Però può sempre mandare un segnale e nominare come portabandiera degli Stati Uniti alla prossima Olimpiade invernale russa di Sochi due icone della battaglia gay. A Mosca gli omosessuali continueranno ad essere discriminati, ma il mondo avrà certamente ricevuto un segnale simbolico molto forte.

È la dittatura del simbolico. Che compensa il collasso della realtà, semplicemente surrogandola. La tragedia dell’impotenza politica che, in un mondo sempre più interconnesso e regolato da leggi non scritte, cerca di riscattarsi trasfigurandosi in pura gestualità, in atto spettacolare. I politici dei governi e delle opposizioni, delle maggioranze e delle minoranze, di destra e di sinistra, hanno del resto ricevuto da una figura carismatica come papa Francesco un formidabile repertorio di simbolismo gestuale: il semplice e colloquiale «buona sera» dal balcone di piazza San Pietro, il bagaglio a mano sull’aereo, le scarpe sformate, il piccolo alloggio a Santa Marta anziché gli sfarzosi appartamenti papali, la bibita sorseggiata in Brasile, eccetera. Ma il Vaticano, per quanto titolare di una potentissima valenza politica, non ha in mano concretamente le redini di un governo democratico. Gli eletti invece hanno ricevuto un mandato dai loro elettori, ma, non sapendo destreggiarsi in una sfera politica sempre più complessa e paralizzata da procedure farraginose, si rifugiano nella retorica del gesto squillante.

A Roma il sindaco sembra totalmente privo di qualunque efficacia, mentre l’immondizia deborda e rischia di sommergere la città. In compenso il sindaco Marino manda un segnale: pedonalizza (o quasi, perché i pullman turistici e le macchine a noleggio invadono la strada) qualche centinaio di metri dei Fori Imperiali. I trasporti pubblici a Roma versano in una condizione catastrofica e desolante per un Paese civile. In compenso arriva un segnale simbolico: il sindaco si muove in bicicletta.

Basta fare attenzione alle ripetute risse sulla toponomastica, che impegnano con un fervore davvero inusitato le amministrazioni locali. Si manda un segnale intestando una via a qualche illustre esponente della parte politica vincente, oppure si monta un caso se viene intestata una piazza a un illustre esponente della parte politica opposta. E le condizioni delle strade, dei trasporti, degli asili nido, delle scuole, della viabilità, della pulizia, degli appalti, della manutenzione, insomma che ne è della politica concreta che opera scelte, impone soluzioni, dà una risposta alla cittadinanza? Tutto in secondo piano. Bisogna sottomettersi alla dittatura del simbolico. Bisogna pur mandare un segnale.

Beninteso, da sempre il potere predilige l’ostentazione dei simboli, il legare un nome a un gesto, un appuntamento, una data da celebrare, una retorica da rispettare. Il simbolico è strettamente connesso al politico, deve mandare segnali, offrire un orientamento, riempire di senso e di significati la vita dei popoli, vivificando il loro spirito di appartenenza e di devozione. Da sempre gli statisti e i condottieri hanno voluto intestarsi il prestigio di una grande opera come simbolo di grandezza e di gloria: strade, ponti, acquedotti, biblioteche, stadi o la piramide che Mitterrand ha voluto al Louvre per celebrare una nuova grandeur. I simboli della regalità, della maestà. Oppure i simboli del rinnovamento. Ma i simboli hanno un valore se accompagnano misure politiche, provvedimenti concreti, non se sostituiscono la decisione (impossibile) con la rappresentazione. E invece è proprio come se nel villaggio mediatico ci fosse fame insaziabile di simboli come vetrina della nuova politica.

In contrapposizione ai fasti delle «cene eleganti» berlusconiane, Mario Monti volle mandare un segnale presentandosi con un sobrio loden alla stazione per prendere il treno che da Milano lo avrebbe portato a Palazzo Chigi (e anche Enrico Letta si è presentato alla convocazione del Quirinale con la sua automobile privata: doveva mandare un segnale di normalità). Per mostrarsi un benevolo padrone del mondo, severo ma capace di gesti caritatevoli, Putin ha mandato un segnale di moderazione liberando l’oligarca dissidente Khodorkovskij proprio alla vigilia dei Giochi olimpici (e anche pochi giorni prima, ma questo non lo poteva sapere, della recrudescenza terroristica a Volgograd). Per mandare un segnale, i maggiorenti del Partito comunista cinese hanno formalmente aperto al libero mercato, quando tutti sanno già che in Cina il capital-comunismo non è esattamente l’applicazione di un programma economico marxista-leninista puro. Per dimostrare sensibilità al «diverso» il sindaco democratico di New York Bill de Blasio si è presentato con la sua multicolore e multiforme famiglia come simbolo di multiculturalità. E poi, grazie a una colossale nevicata che ha coperto la grande metropoli, si è offerto ai fotografi di tutto il mondo spazzando con una pala i cumuli bianchi e gelidi. Fanno oramai così i sindaci sotto la neve, anche Gianni Alemanno si fece immortalare con una pala per mandare un segnale di fattività: anche se la città era completamente paralizzata, il simbolo rischiava di funzionare come compensazione dei disagi patiti dalla cittadinanza.

In Italia la «casta» politica per mandare un segnale gira a piedi, compra il biglietto delle partite, fa la fila al cinema, si slaccia il colletto della camicia rigorosamente senza cravatta per mostrarsi alla mano e alla portata dei cittadini normali. Peccato che la stessa casta non riesca a rinunciare concretamente nemmeno a una manciata di quattrini del finanziamento pubblico. Fanno una legge sull’omofobia che concretamente non raggiunge nessun risultato (fortunatamente in Italia l’aggressione e il pestaggio sono già reati perseguibili per legge), ma manda il segnale che gli omosessuali potrebbero finalmente sentirsi protetti. Purtroppo, grazie ai veti contrapposti e a un eccesso di subalternità della politica ai (presunti) desiderata del Vaticano, le coppie gay non possono contrarre matrimonio e almeno godere dei diritti che spetterebbero loro attraverso una ragionevole disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. In compenso, per mandare il solito segnale, si escogitano cervellotiche formule burocratiche su un asessuato genitore, pur di non nominare il padre e la madre. Per la stessa ragione, in mancanza di diritti concreti e di un riconoscimento legale che oramai è acquisizione irreversibile di tutte le nazioni liberaldemocratiche, si scatena la guerra santa del boicottaggio contro Guido Barilla, reo di aver rilasciato dichiarazioni non proprio brillanti circa il tipo di marketing sulla famiglia tradizionale attuata dalla sua stranota azienda di pasta e biscotti.

Nel Mezzogiorno, si spreca la retorica sulle risorse del meraviglioso Meridione e per mandare un segnale si creano a getto continuo fantasmagorici «partiti del Sud». In compenso, nella realtà e non nell’atmosfera colorata e gratificante dei simboli, nel Mezzogiorno i treni non funzionano, le strade crollano, le autostrade non si finiscono mai. I sindaci si adeguano. La Napoli di Bassolino non è stata un gioiello di favolosa amministrazione (anche se una sentenza ha scagionato l’ex sindaco da tutte le accuse con cui la magistratura lo aveva bersagliato), ma tutti ricordano la grande bolla (e la grande balla) del «Rinascimento napoletano» perché Bassolino aveva ripulito piazza del Plebiscito, facendone un vanto per tutta l’Italia: sul piano simbolico, almeno.

Il governatore della Sicilia Crocetta ha portato, per mandare un segnale di discontinuità, una ventata di novità e di informalità: nella realtà tutti i portaborse dei politici sono stati assunti stabilmente dalla pubblica amministrazione, altro che discontinuità. Il sindaco di Genova Doria si è presentato come «uno di noi»: simbolicamente il segnale è arrivato forte e chiaro, in compenso nella realtà il trasporto locale si è bloccato e le corporazioni (vincenti) hanno messo in ginocchio la città. Per mandare un segnale il neoleader della Lega Salvini si presenta in tuta, per dare un’immagine di disponibilità informale e di predisposizione alla battaglia. Ma nella realtà, oltre al segnale da spedire all’opinione pubblica, cosa c’è di rilevante e di importante che la Lega può fare? Per mandare un segnale, la Lega aveva già imposto la devolution, con gli splendidi risultati che conosciamo.

Per dare un segnale di ritrovato patriottismo e di coesione nazionale attorno alla bandiera e ai suoi simboli, abbiamo reintrodotto in Italia l’esibizione militare ai Fori Imperiali per il 2 giugno: ma ogni anno c’è una contestazione. Per dare un segnale di compunta e inflessibile severità, si sono predisposte sanzioni draconiane contro le curve che durante le partite si abbandonano a biechi cori razzisti o, come si dice con espressione della neolingua burocratica, a manifestazioni di «discriminazione territoriale». Questo nella sfera simbolica, perché nella sfera pratica l’impossibilità di dar seguito a quelle sanzioni ha vieppiù rafforzato l’inclinazione barbarica delle tifoserie scatenate al dileggio razziale o al linciaggio «territoriale».

La dittatura del simbolico si impone nelle piccole realtà e sulla grande scena mondiale. In Siria Assad continua a massacrare il popolo siriano, ma l’Onu manda un segnale contro l’uso di armi chimiche. Un richiamo puramente simbolico che non risolve niente nella realtà, ma appaga il desiderio di un gesto, bello o brutto che sia, purché sia un gesto dal forte impatto sul piano della comunicazione. Oppure si prendono i funerali di Mandela in Sudafrica per dare l’occasione ai leader del mondo di scambiarsi gesti, strette di mano, o persino giochi un po’ infantili con i telefoni cellulari. Solo un segnale, come omaggio non a un vero grande simbolo come Mandela, ma ai tanti simboli che hanno sostituito la realtà sul palcoscenico mediatico.

Puoi fare ben poco stando al governo oppure operando dall’opposizione? Male, ma puoi sempre scegliere una strada sostitutiva: «Mandare un segnale». È l’apoteosi del gesto carico di significati, è il predominio del simbolico sul concreto. Che cosa può fare Obama per contrastare lo strapotere di Putin, che comprime e mortifica i diritti umani e civili in Russia? Niente, non può fare praticamente niente. Però può sempre mandare un segnale e nominare come portabandiera degli Stati Uniti alla prossima Olimpiade invernale russa di Sochi due icone della battaglia gay. A Mosca gli omosessuali continueranno ad essere discriminati, ma il mondo avrà certamente ricevuto un segnale simbolico molto forte.

È la dittatura del simbolico. Che compensa il collasso della realtà, semplicemente surrogandola. La tragedia dell’impotenza politica che, in un mondo sempre più interconnesso e regolato da leggi non scritte, cerca di riscattarsi trasfigurandosi in pura gestualità, in atto spettacolare. I politici dei governi e delle opposizioni, delle maggioranze e delle minoranze, di destra e di sinistra, hanno del resto ricevuto da una figura carismatica come papa Francesco un formidabile repertorio di simbolismo gestuale: il semplice e colloquiale «buona sera» dal balcone di piazza San Pietro, il bagaglio a mano sull’aereo, le scarpe sformate, il piccolo alloggio a Santa Marta anziché gli sfarzosi appartamenti papali, la bibita sorseggiata in Brasile, eccetera. Ma il Vaticano, per quanto titolare di una potentissima valenza politica, non ha in mano concretamente le redini di un governo democratico. Gli eletti invece hanno ricevuto un mandato dai loro elettori, ma, non sapendo destreggiarsi in una sfera politica sempre più complessa e paralizzata da procedure farraginose, si rifugiano nella retorica del gesto squillante.

A Roma il sindaco sembra totalmente privo di qualunque efficacia, mentre l’immondizia deborda e rischia di sommergere la città. In compenso il sindaco Marino manda un segnale: pedonalizza (o quasi, perché i pullman turistici e le macchine a noleggio invadono la strada) qualche centinaio di metri dei Fori Imperiali. I trasporti pubblici a Roma versano in una condizione catastrofica e desolante per un Paese civile. In compenso arriva un segnale simbolico: il sindaco si muove in bicicletta.

Basta fare attenzione alle ripetute risse sulla toponomastica, che impegnano con un fervore davvero inusitato le amministrazioni locali. Si manda un segnale intestando una via a qualche illustre esponente della parte politica vincente, oppure si monta un caso se viene intestata una piazza a un illustre esponente della parte politica opposta. E le condizioni delle strade, dei trasporti, degli asili nido, delle scuole, della viabilità, della pulizia, degli appalti, della manutenzione, insomma che ne è della politica concreta che opera scelte, impone soluzioni, dà una risposta alla cittadinanza? Tutto in secondo piano. Bisogna sottomettersi alla dittatura del simbolico. Bisogna pur mandare un segnale.

Beninteso, da sempre il potere predilige l’ostentazione dei simboli, il legare un nome a un gesto, un appuntamento, una data da celebrare, una retorica da rispettare. Il simbolico è strettamente connesso al politico, deve mandare segnali, offrire un orientamento, riempire di senso e di significati la vita dei popoli, vivificando il loro spirito di appartenenza e di devozione. Da sempre gli statisti e i condottieri hanno voluto intestarsi il prestigio di una grande opera come simbolo di grandezza e di gloria: strade, ponti, acquedotti, biblioteche, stadi o la piramide che Mitterrand ha voluto al Louvre per celebrare una nuova grandeur. I simboli della regalità, della maestà. Oppure i simboli del rinnovamento. Ma i simboli hanno un valore se accompagnano misure politiche, provvedimenti concreti, non se sostituiscono la decisione (impossibile) con la rappresentazione. E invece è proprio come se nel villaggio mediatico ci fosse fame insaziabile di simboli come vetrina della nuova politica.

In contrapposizione ai fasti delle «cene eleganti» berlusconiane, Mario Monti volle mandare un segnale presentandosi con un sobrio loden alla stazione per prendere il treno che da Milano lo avrebbe portato a Palazzo Chigi (e anche Enrico Letta si è presentato alla convocazione del Quirinale con la sua automobile privata: doveva mandare un segnale di normalità). Per mostrarsi un benevolo padrone del mondo, severo ma capace di gesti caritatevoli, Putin ha mandato un segnale di moderazione liberando l’oligarca dissidente Khodorkovskij proprio alla vigilia dei Giochi olimpici (e anche pochi giorni prima, ma questo non lo poteva sapere, della recrudescenza terroristica a Volgograd). Per mandare un segnale, i maggiorenti del Partito comunista cinese hanno formalmente aperto al libero mercato, quando tutti sanno già che in Cina il capital-comunismo non è esattamente l’applicazione di un programma economico marxista-leninista puro. Per dimostrare sensibilità al «diverso» il sindaco democratico di New York Bill de Blasio si è presentato con la sua multicolore e multiforme famiglia come simbolo di multiculturalità. E poi, grazie a una colossale nevicata che ha coperto la grande metropoli, si è offerto ai fotografi di tutto il mondo spazzando con una pala i cumuli bianchi e gelidi. Fanno oramai così i sindaci sotto la neve, anche Gianni Alemanno si fece immortalare con una pala per mandare un segnale di fattività: anche se la città era completamente paralizzata, il simbolo rischiava di funzionare come compensazione dei disagi patiti dalla cittadinanza.

In Italia la «casta» politica per mandare un segnale gira a piedi, compra il biglietto delle partite, fa la fila al cinema, si slaccia il colletto della camicia rigorosamente senza cravatta per mostrarsi alla mano e alla portata dei cittadini normali. Peccato che la stessa casta non riesca a rinunciare concretamente nemmeno a una manciata di quattrini del finanziamento pubblico. Fanno una legge sull’omofobia che concretamente non raggiunge nessun risultato (fortunatamente in Italia l’aggressione e il pestaggio sono già reati perseguibili per legge), ma manda il segnale che gli omosessuali potrebbero finalmente sentirsi protetti. Purtroppo, grazie ai veti contrapposti e a un eccesso di subalternità della politica ai (presunti) desiderata del Vaticano, le coppie gay non possono contrarre matrimonio e almeno godere dei diritti che spetterebbero loro attraverso una ragionevole disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. In compenso, per mandare il solito segnale, si escogitano cervellotiche formule burocratiche su un asessuato genitore, pur di non nominare il padre e la madre. Per la stessa ragione, in mancanza di diritti concreti e di un riconoscimento legale che oramai è acquisizione irreversibile di tutte le nazioni liberaldemocratiche, si scatena la guerra santa del boicottaggio contro Guido Barilla, reo di aver rilasciato dichiarazioni non proprio brillanti circa il tipo di marketing sulla famiglia tradizionale attuata dalla sua stranota azienda di pasta e biscotti.

Nel Mezzogiorno, si spreca la retorica sulle risorse del meraviglioso Meridione e per mandare un segnale si creano a getto continuo fantasmagorici «partiti del Sud». In compenso, nella realtà e non nell’atmosfera colorata e gratificante dei simboli, nel Mezzogiorno i treni non funzionano, le strade crollano, le autostrade non si finiscono mai. I sindaci si adeguano. La Napoli di Bassolino non è stata un gioiello di favolosa amministrazione (anche se una sentenza ha scagionato l’ex sindaco da tutte le accuse con cui la magistratura lo aveva bersagliato), ma tutti ricordano la grande bolla (e la grande balla) del «Rinascimento napoletano» perché Bassolino aveva ripulito piazza del Plebiscito, facendone un vanto per tutta l’Italia: sul piano simbolico, almeno.

Il governatore della Sicilia Crocetta ha portato, per mandare un segnale di discontinuità, una ventata di novità e di informalità: nella realtà tutti i portaborse dei politici sono stati assunti stabilmente dalla pubblica amministrazione, altro che discontinuità. Il sindaco di Genova Doria si è presentato come «uno di noi»: simbolicamente il segnale è arrivato forte e chiaro, in compenso nella realtà il trasporto locale si è bloccato e le corporazioni (vincenti) hanno messo in ginocchio la città. Per mandare un segnale il neoleader della Lega Salvini si presenta in tuta, per dare un’immagine di disponibilità informale e di predisposizione alla battaglia. Ma nella realtà, oltre al segnale da spedire all’opinione pubblica, cosa c’è di rilevante e di importante che la Lega può fare? Per mandare un segnale, la Lega aveva già imposto la devolution, con gli splendidi risultati che conosciamo.

Per dare un segnale di ritrovato patriottismo e di coesione nazionale attorno alla bandiera e ai suoi simboli, abbiamo reintrodotto in Italia l’esibizione militare ai Fori Imperiali per il 2 giugno: ma ogni anno c’è una contestazione. Per dare un segnale di compunta e inflessibile severità, si sono predisposte sanzioni draconiane contro le curve che durante le partite si abbandonano a biechi cori razzisti o, come si dice con espressione della neolingua burocratica, a manifestazioni di «discriminazione territoriale». Questo nella sfera simbolica, perché nella sfera pratica l’impossibilità di dar seguito a quelle sanzioni ha vieppiù rafforzato l’inclinazione barbarica delle tifoserie scatenate al dileggio razziale o al linciaggio «territoriale».

La dittatura del simbolico si impone nelle piccole realtà e sulla grande scena mondiale. In Siria Assad continua a massacrare il popolo siriano, ma l’Onu manda un segnale contro l’uso di armi chimiche. Un richiamo puramente simbolico che non risolve niente nella realtà, ma appaga il desiderio di un gesto, bello o brutto che sia, purché sia un gesto dal forte impatto sul piano della comunicazione. Oppure si prendono i funerali di Mandela in Sudafrica per dare l’occasione ai leader del mondo di scambiarsi gesti, strette di mano, o persino giochi un po’ infantili con i telefoni cellulari. Solo un segnale, come omaggio non a un vero grande simbolo come Mandela, ma ai tanti simboli che hanno sostituito la realtà sul palcoscenico mediatico.

Pierluigi Battista - La Lettura - Corriere della Sera - 12 gennaio 

giovedì 23 gennaio 2014

PERSUASIONE, SAI COME USARLA?

IN OGNI SITUAZIONE POSSIAMO INFLUENZARE GLI ALTRI O ESSERNE INFLUENZATI. MA PER COSTRUIRE RELAZIONI EFFICACI, ANCHE CON IL CLIENTE, SERVE UNA BUONA DOSE DI AUTENTICITÀ, CHE, DICE PAUL MCKENNA, SIGNIFICA AFFRONTARE UNO “SCONTRO ALLA PARI”

INTERVISTA A PAUL MCKENNA

La persuasione può fare la differenza per vendere in maniera efficace?
Tutti noi vendiamo qualcosa e la nostra abilità di vendere dipende dalle nostre capacità comunicative, dalla passione e dalle credenze che abbiamo nei confronti del nostro prodotto o servizio. Credo fermamente che nessuno dovrebbe vendere qualcosa in cui non crede: sarebbe non etico. Di conseguenza il seminario che terrò con Performance Strategies riguarderà la vendita etica. Una volta compresi i princìpi della persuasione – presenti in ogni situazione in cui vi siano esseri umani che comunicano – allora hai il vantaggio di sapere come puoi essere influenzato contro la tua volontà o come puoi presentare al meglio il tuo prodotto/servizio per persuadere l’altro. Questo non significa che puoi far fare agli altri tutto ciò che vuoi: significa semplicemente che puoi comunicare quello che devi esaltandone al massimo gli aspetti positivi.

Quanto è importante la persuasione per trasmettere un messaggio in maniera efficace? È un processo bidirezionale o monodirezionale?
Questa è un’ottima domanda. Credo fermamente nella persuasione etica, che è sempre bidirezionale. Piuttosto che vendere qualcosa a qualcuno sfruttando la propria personalità o la forza del messaggio, è molto meglio ascoltare i bisogni del cliente e verificare che il nostro prodotto soddisfi tali bisogni. Le ricerche dimostrano che se il tuo prodotto piace a una persona, questa lo dirà a una media di 3-13 persone. Di conseguenza il meglio che puoi fare è vendere alle persone quello di cui hanno bisogno e – se non ce l’hai – indirizzarle nella migliore direzione possibile, guadagnando la loro fiducia e alimentando in questo modo il rispetto per te stesso per aver fatto semplicemente la cosa giusta.

Paul, puoi darci un esempio concreto della forza della persuasione in un contesto business?
Tutto il giorno viene chiesto alla gente di comprare qualcosa o, piuttosto, di votare per qualcuno. Nella maggior parte dei casi, il prodotto migliore resta invenduto o la persona più in gamba non viene eletta. Invece, è colui che conosce a fondo i meccanismi della persuasione – o che ha assunto nel suo team un professionista della persuasione – che alla fine la spunta. Credo che la conoscenza dei meccanismi di persuasione serva a rendere il mondo un posto migliore. La persuasione dà a tutti noi quegli strumenti che ci permettono di combattere “uno scontro alla pari”. Durante l’evento di Performance Strategies spiegherò i princìpi dell’influenza sociale così che tutti diventino in grado di trasmettere i propri messaggi nella migliore maniera possibile. A pensarci bene, è proprio quello che fai quando assumi un avvocato: piuttosto che difenderti da solo, ti affidi a un “oratore” professionista che lo faccia per te. Messa in quest’ottica, non c’è alcuna differenza.

La persuasione può aiutarci a costruire relazioni migliori?
Credo che ogni tipo di relazione – personale o professionale che sia – si basi su processi reciproci di influenza. Gli psicologi sociali si sforzano di capire quali siano esattamente questi princìpi. Io ne rileverò alcuni in esclusiva per Performance Strategies durante il seminario di sabato 8 e domenica 9 marzo.
Qual è il modo migliore di capire i bisogni delle altre persone utilizzando il “linguaggio della persuasione”?
Tramite domande “mirate”, possiamo costruire quella che io chiamo “la mappa del mondo” dell’altra persona. Il miglior esempio che conosco a riguardo è quello di Gandhi: era solito immedesimarsi completamente nelle persone con cui negoziava per vedere il mondo con i loro occhi, col risultato di fare domande e gestire le obiezioni sfruttando una consapevolezza “superiore”.

È importante usare il linguaggio dell’altra persona per costruire una relazione efficace? Va bene interromperla ed esprimere le proprie opinioni?
Uno dei “miti” esistenti nel mondo dei venditori è che ci siano dei trucchi da utilizzare per farci dire sempre di sì dagli altri, che gli piaccia o no. Credo che questo sia moralmente sbagliato e che i bisogni degli altri vadano confrontati con ciò che stiamo offrendo loro. Infatti, quando i bisogni dei nostri clienti coincidono quelli soddisfatti dal nostro prodotto o servizio, si crea una relazione duratura. In caso contrario, i benefici immediati saranno superati dalle conseguenze negative di lungo termine.

È possibile leggere i segnali consci e inconsci delle persone per capire meglio ciò che ci vogliono dire?
Certo, anche se questo richiede molto tempo e molta pratica, ed è una capacità che si acquisisce col tempo. Ho speso una vita a capire come persuadere gli altri; ciononostante posso dire di non possedere tutte le risposte. A ogni modo durante il workshop con Performance Strategies farò in modo di fornire alle persone che parteciperanno qualcosa di cui tutti possano beneficiare, sia loro che i loro clienti.

Paul, un’ultima domanda. Quanto è importante secondo te capire e interpretare i bisogni degli altri?
È il punto focale di ogni relazione. La parola “autenticità” è il mio “mantra” quando sono chiamato a persuadere qualcuno. Comunque, è più facile a dirsi che a farsi, e non è qualcosa che è possibile insegnare, ma è qualcosa che va acquisito attraverso l’esperienza. Quello che mi auguro è che questo corso sia in grado di dare a tutti l’opportunità di apprendere le abilità fondamentali della persuasione e di migliorarle, in modo tale da saper presentare il vostro prodotto o servizio. Ma vi prego: partecipate a questo corso solo se vorrete avvicinarvi alla materia con la massima “autenticità”.
 

mercoledì 22 gennaio 2014

Loro costruirono il califfato, noi vili capaci solo di sperare

Gli argomenti di Oriana Fallaci sono laceranti come lame di coltello, ci si ferisce tanto quanto feriscono gli altri. Ma la sua grandezza è nell’esser stata una donna di passioni.
Ovvero di volta in volta distaccata e integrata, ricca e povera; della povertà di ieri fare la ricchezza di domani. Il suo libro, i suoi articoli sull’urgere assassino di un Islam guerriero sono un documento irrimediabile che porta l’orribile palpitazione di un attimo. Ha fatto urlare, ci fa urlare. Quante righe vorremmo modificare. Ma è impossibile.

Allora... Nel deserto, ai confini dell’Eufrate, forsennati dominati da vizi e passioni senza scampo, ancorati ai binari fissi della lotta brutale, le fermentazioni di un Islamismo decomposto, ricostruiscono il califfato di Omar. Califfato: la parola formidabile è in voga dal Vicino Oriente al Maghreb. E si preparano, sotto i nostri occhi transigenti e accomodanti, a riempire i giorni futuri, generosamente, fino all’orlo, di fumo di martiri di orrore. Gli appelli occidentali al cessate il fuoco, alla diplomazia, appaiono timidi tentativi di mettere argini di sabbia a un uragano.

Il califfato non è un sogno di fanatici antiquati che si sberrettano a un dio crudele. È un progetto politico preciso che divampa con sfacciata petulanza, ha mezzi economici, scadenze. E un esercito. Dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica c’era una sola potenza in grado di muovere una armata in diversi luoghi del pianeta, rapidamente: gli Stati Uniti. Non la Cina, non le minuscole ex potenze europee, che hanno ancora la stolta voglia di fare i terribili, i feroci, i prepotenti, ma al massimo sono capaci di combattere piccole guerre post-coloniali. Ora quest’altra forza è: il jihadismo planetario. Può spostare migliaia di sperimentati nelle scienze della morte dall’Asia centrale alla Libia, dal Sahel alla Siria, dalla Somalia all’Iraq. Nella Mezzaluna fertile dove ovunque si cammina si calpesta la Storia, nella Siria decrepita degli Assad hanno individuato il primo possibile nucleo dello Stato Islamico. Qui i confini sono ancora quelli disegnati dalla prima guerra mondiale, le spartizioni fatte a tavolino dalle mani frettolose dei diplomatici inglesi e francesi. I jihadisti decompongono pezzo a pezzo quella umiliazione remota. Annettono, eliminano, ricompongono in unità, l’unica regola dell’Islam. Qui vivono uomini minacciati, quasi sopraffatti dal Male, in un mondo che non conosce più il senso della Pietà e della Carità. Andate in Siria, invece di impancarvi da profeti, al calduccio dei caffè d’Occidente: guardate, verificate, inorridite!

Poi, verrà la seconda fase: l’annessione dei Paesi delle Primavere, inceppate o già convertite al Corano. Il waabitismo, il sordo rigorismo ritualistico nato in Arabia un secolo fa, guadagna consensi nella delusione e nella miseria di quei paesi, si fa subito armato e prepotente. La parola di Dio! Un ferro rovente. Le intelligenze carnivore, le bestie feroci e astute che credono di lavorare per il guadagno di Dio, la razzia degli uomini che vivono degli uomini sono al lavoro in Libia, nel Sud della Tunisia, in Somalia, in Nigeria, in Mauritania, nell’Algeria dove l’uscita di scena del presidente Bouteflika innescherà nuove turbolenze. In Marocco la controrivoluzione preventiva del re ha solo permesso di guadagnare tempo. Nel Sahel il ritiro dei francesi riapre le porte ai gruppi dei Tuareg convertiti alla fede militante, sconfitti ma non annientati, indomabili.

E poi l’Egitto, innanzitutto e soprattutto: ottanta milioni di abitanti, il Paese dove passa la storia di tutto il mondo arabo, che anticipa prova contagia da sempre, dove la condizione umana dell’Islam appare più spoglia, quasi a nudo. Il terrorismo e la rabbia delle masse dilagano dopo il golpe dei militari contro la «democrazia» dei Fratelli musulmani. Ancora errori dell’Occidente. Sostenitore di Mubarak, il faraone corrotto, ha applaudito l’Islam conservatore come a un accomodamento da comari, per poi inneggiare al Contrario, il ritorno dei carri armati, il dispotismo in uniforme che ci fa ancor più comodo.

Ecco il problema: decenni di interessata e distratta convivenza con i tiranni, che tenevano sotto chiave gli Islamisti e badavano per conto nostro alla fiumana dei poveri emigranti, ci hanno tolto ogni autorità morale, abbiamo stretto troppe mani per suggerire modelli, per autorizzare democrazie. L’hanno tolta anche ai terzomondisti, che trovavano «interessante» la laicità di qualche tiranno, purché abbaiasse contro gli americani. L’Occidente è diventato marginale, inutile, debole, in un mondo che ha dominato quasi sempre senza giustizia. E la nostra viltà è permanente, non uno stato d’animo passeggero, non una sorta di raffreddore da cui si guarisce facilmente.

Certo, non tutti i musulmani sono fanatici, che banalità! Il problema è che gli altri sono i tiepidi, i «mi faccio gli affari miei», i sudditi obbedienti di tutte le dittature e le prepotenze: fasciste, comuniste, tribali, Islamiche. Certo all’altro capo di quel mondo, nella piccola Tunisia dove tutto iniziò tre anni fa, altri musulmani scrivono, zitti e fieri, dopo prometeiche fatiche, una Costituzione che, ancorandosi disperatamente alla laicità e alla differenza, vuol gridare che l’Islam non è un universo immobile di capi spietati e indiscutibili, impastoiato a verità uniche, interdizioni fanatiche: che l’Islam non obbedisce sempre alla voce del Padrone. Forse quei giovani protagonisti non sono, dopo tre anni, anime asciutte, esausti come bambini dopo la fiera annuale, con volgarissimi rombi, stridori e squilli. Chi ha fatto una rivoluzione è virtuosamente contagiato, non può dimenticare ciò che ha vissuto, l’intolleranza alla rassegnazione, il «terra terra», la scoperta di un nuovo continente. E, forse, è capace di una risposta biblica al dispotismo: mai più!

Ecco: per evitare di doverci battere, militarmente, contro i ricostruttori del califfato dobbiamo sperare, un’altra volta, senza merito, nel coraggio, nel gusto di cenere di una gioventù sciupata dall’oppressione, ma in piccola parte, e ancora per poco, insensibile alle strimpellature Islamiste, che scrive in Tunisia, oggi, domani forse in altri luoghi, miracolose Costituzioni: di carta.

Domenico Quirico - La Stampa - 19 gennaio

martedì 21 gennaio 2014

15 cose da fare per avere successo


Vuoi avere successo? Complicati la vita! Questo l’insegnamento di Dan Waldschmidt, americano, consulente per aziende di fama internazionale e blogger di Businessinsider.com.
Nel suo blog spiega come riuscire negli affari e nella vita. Ecco alcuni dei suoi consigli:
1. Fai la telefonata che hai paura di fare.
2. Alzati dal letto prima di quanto vorresti.
3. Dai agli altri più di quanto quanto ricevi.
4. Prenditi cura degli altri più di quanto gli altri lo facciano per te.
5. Lotta sempre. Anche quando sei ferito, deluso, sanguinante.
6. Investi in te stesso anche se nessun crede in te.
7. Cerca una tua opinione sulle cose e non accettare mai verità precostituite.
8. Conduci anche quando non c’è nessuno ancora a seguirti.
9. Prova, fallisci e prova ancora.
10. Corri veloce anche quando sei a corto di fiato.
11. Sii gentile con le persone che sono state crudeli con te.
12. Prenditi la responsabilità delle tue azioni quando le cose vanno male.
13. Segui sempre la tua strada senza aver paura di ciò che hai di fronte.
14. Non avere paura di sbagliare.
15. Fai le cose più difficili, quelle che nessun altro farebbe. Quelle che ti spaventano.
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lunedì 20 gennaio 2014

L’imperativo della reinvenzione

Non riuscire non è fatale, non riuscire a cambiare lo è. 
Così si è espresso John Wooden, il leggendario allenatore di basket dell’UCLA, che ha vinto 10 titoli in 12 stagioni del campionato nazionale universitario NCAA, grazie alla sua abilità nell’adattarsi costantemente: a nuovi giocatori, nuovi avversari e nuovi stili di gioco.

Anche nel mondo degli affari i leader devono continuamente affrontare cambiamenti complessi: una popolazione che invecchia, la crescita della classe media nei Paesi emergenti, i costanti progressi delle tecnologie. In un contesto che cambia, una buona performance dell’impresa non basta a garantire che si perpetui. Per mantenere l’organizzazione su alti livelli, i CEO e gli altri leader devono curare strettamente l’imperativo della reinvenzione. 

È quanto è accaduto ad aziende leader nel lungo periodo come IBM, Xerox e Samsung. Nell’ultimo secolo, IBM è passata dal fabbricare macchine da calcolo a inventare il PC al guadagnare la maggioranza dei ricavi con i servizi. Quando Xerox iniziò, era talmente identificata con le fotocopiatrici che il suo nome divenne non solo sinonimo della sua categoria di prodotto, ma un verbo comunemente usato (in inglese “to xerox” è spesso usato per “fotocopiare”, NdR). Poi l’azienda è andata oltre inventando l’Ethernet e oggi compete in aree come i sistemi di emissione dei biglietti per il trasporto di massa e le soluzioni di e-discovery. Solo 10 anni fa Samsung era nota solo per l’elettronica di consumo; oggi si estende su tecnologie avanzate, costruzioni, petrolchimica, moda, medicina, finanza e alberghi.
In Abbott questo tipo di reinvenzione ha rappresentato il nostro obiettivo. Quindici anni fa ci siamo resi conto che occorreva cambiare e, da allora, la capacità di adattamento è stata al cuore della nostra strategia. Come risultato, i nostri ricavi sono più che triplicati e abbiamo generato una crescita dei profitti e un rendimento per gli azionisti più elevati del settore.

Cosa abbiamo imparato dalla nostra esperienza? Soprattutto quanto sia importante travalicare il nostro orgoglio per “ciò in cui siamo davvero bravi” – che può rendere le persone cieche rispetto ai cambiamenti per le cose di cui il mondo ha bisogno e per quelle che i clienti apprezzano maggiormente; e che possono trasformare una passata capacità di differenziazione in una palla al piede del tipo”il modo in cui l’abbiamo sempre fatto”.

Due elementi correlati della reinvenzione sono ugualmente difficili e dipendenti dal nostro giudizio. Le persone che scrutano l’orizzonte per intravvedere segnali di cambiamento devono riuscire a separare le tendenze importanti e durevoli da quelle di breve respiro e alla fine irrilevanti. (Scambiare dei cambiamenti fondamentali per turbolenze effimere può essere fatale). E chi prende le decisioni deve essere disposto ad accettare danni temporanei alla performance per preparare il terreno a vantaggi di lungo termine. Le pressioni dei mercati azionari perché si producano risultati nel trimestre a venire è un dato di fatto. Il vostro lavoro, come leader d’impresa, è contrastarle con un punto di vista che mostri dove andrà il settore nei 5-10 anni successivi. Se la vostra strategia colpisce gli osservatori in quanto del tutto inattesa è ottima cosa. Non conoscono il vostro business bene quanto voi.
Sono considerazioni di questo genere a continuare a guidare le nostre reinvenzioni. Di recente abbiamo compiuto la mossa più radicale nei nostri 125 anni di storia: abbiamo rilanciato il nostro business proprietario nella farmaceutica – il nostro più importante singolo business – presso la nostra azienda biofarmaceutica AbbVie. E il nostro processo di reinvenzione prosegue. Siamo un’azienda più globalizzata e orientata al cliente di quanto non siamo mai stati e in quanto tale riconosciamo che il nostro modo di andare sul mercato deve distaccarsi dal nostro precedente modello orientato al farmaco. Non possiamo più basarci su programmi standardizzati globali e dobbiamo invece adattare il nostro approccio Paese per Paese. Analogamente, è ormai tempo di lasciare un orientamento al brand di prodotto e di investire in un brand aziendale più forte e significativo.

Sono cambiamenti che comportano rischi non banali. Ma dopo 15 anni di reinvenzione continua, Abbott è convinta di poterli affrontare. John Wooden ha qualcosa da dire anche su questo: «Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale. Ciò che conta è avere coraggio».

Di Miles D. White è presidente e CEO di Abbott Laboratories dal 1999 su Harward Business Review 

Il piacere del barbiere

Erano aperti anche la domenica mattina, i barbieri, per quelli che si azzimavano in vista delle imprese pomeridiane, andare a ballare, portare la morosa al cine, fare bella figura al bar con gli amici aspettando l’ora delle partite. Stavano poi chiusi il lunedì, come oggi, ma non aprono più la domenica mattina. Non ci sono più clienti domenicali?

Oggi molti barbieri si sono trasformati in parrucchieri, per uomo e per donna; il salone è unisex, si dice. Tu entri e, se non sei cliente abituale, uno di casa, ti muovi imbarazzato fra signore che, mentre rifanno la tintura (accompagnate dalle frasi da piccolo chimico delle inservienti), si fanno acconciare, applicare le “extension” o altre diavolerie, ti guardano con sospetto come se tu fossi capitato, volgare intruso, in un proibito gineceo. Tu stesso, una volta preso posto, devi stare molto attento, perché in quei locali il parrucchiere non si accontenterà di un normale shampoo o di un banale taglio («Mi raccomando, solo una spuntatina!»), ma vorrà farti provare il “peeling” col nuovo magico prodotto («Rivitalizza il cuoio capelluto!»), o la lozione che ridà lucentezza («Vede come sono opachi i suoi capelli?») e rinvigorisce il bulbo. Sul taglio, poi, non devi rilassarti un secondo («Ma cosa taglia?», «Non si preoccupi, solo una sfoltitina», «Sfoltitina un cavolo, mi sta pelando!») per non correre il rischio di ritrovarti coi capelli alla mohicana o ritti sulla testa con ciuffetti intrisi di gel più o meno profumato. Quando poi, con faccia improntata a profondo disgusto, l’«hair stylist» osa la domanda: «Scusi, non dovrei dirlo, ma chi è che le ha tagliato i capelli prima?», rispondo come rispondo all’idraulico o all’elettricista capitati per caso la prima volta in casa mia. 

Se chiedono, scuotendo mestamente il capo: «Scusi sa, non dovrei dirlo, ma chi è che le ha fatto questo impianto?», io rispondo sempre: «Un pastore sardo. Appena ho un rubinetto che perde o un cortocircuito io chiamo sempre un pastore sardo a metterci una mano».
So benissimo che esistono anche oggi barbieri normali, come quelli di un tempo. Bisogna forse cercarli in periferia, o nei piccoli paesi, ma ci sono, pure se nessuno usa più la gloriosa macchinetta per tosarti. Perché una volta, quando si andava dal barbiere, lo scopo era farsi tosare, in modo che tutti potessero dire: «Ve’, sei andato dal barbiere, oggi?».

Ci sono. Solo l’atmosfera e l’arredamento sono un po’ diversi. Già le sedie. Adesso, se il barbiere tiene alla modernità del suo negozio, ha certe sedie che sembrano quelle – tragiche, da un certo punto di vista – che trovi dal dentista, plastica ceramica e acciaio, e la cosa non ti lascia tranquillo. Le sedie di un tempo erano più casalinghe, più familiari, di legno, con qualche ghirigoro liberty, qualche imbottitura ai braccioli, l’appoggiatesta in pelle, reclinabili e girevoli. Le puoi scovare ancora, dopo essere state svendute dal barbiere in vena di modernità e recuperate da un astuto antiquario, nello studio di un artista alla moda o nell’atelier di un famoso architetto.

È cambiata anche la stampa offerta dal negozio. Nei saloni unisex, oltre al quotidiano locale, sono a disposizione tutte le riviste di gossip esistenti sul piano nazionale, quelle riviste che faranno esclamare a una signora informatissima sul figlio segreto dell’ultima divetta o sul divorzio della coppia famosa: «Come lo so? L’ho letto dal parrucchiere», mentendo per la gola sul fatto che ne è una ghiotta divoratrice a casa, perché nessuna donna ammetterà mai di averle golosamente comperate.
Dal barbiere normale, invece, una volta si trovava pure il quotidiano sportivo, perché il salone era spesso luogo di maschi sfaccendati, o che aspettavano il proprio turno; infatti non si prendevano appuntamenti come dal dentista (celebre la frase: «Arrivo subito da lei, solo cinque minuti!». I famosi cinque minuti da barbiere), e anche era un posto come un altro per oziare, discutere di calcio, di politica, di donne. A questo proposito alcuni tenevano delle riviste osé, tirate fuori solo a richiesta del cliente, perché ogni tanto poteva entrare un bambino con relativa madre.

Oggi nessun figaro fa più la barba; mi hanno detto che non vale la pena per il tempo che si deve usare e il prezzo che si può esigere. Ma ci sono ancora barbieri che sanno radere una barba? Personalmente, per ragioni di onor del mento, la cosa non mi tocca, ma era bello vedere tutte le complesse operazioni che precedevano la rasatura.

Lo sbarbando si accomodava sulla sedia e appoggiava mollemente il capo sull’appoggiatesta, offrendo viso e soprattutto gola con la stoica sicurezza che avrebbe esibito un imperatore romano esposto al rischio dello sgolamento da parte di uno schiavo impazzito o partecipante a un complotto. Nei saloni più raffinati sul volto del, diciamo così, paziente, veniva applicato un pannicello tiepido e umido, che serviva a dilatare i pori, chiamando in superficie anche i peli più nascosti e restii. A parte si preparava l’acqua per la saponata, scaldata sulla stufa, in inverno, o sul fornelletto a resistenza elettrica, in estate. Si procedeva quindi all’insaponatura. Il pennello veniva tuffato nell’acqua e con esso si vellicava uno stick, oppure lo si immergeva in una scatola metallica contenente una misteriosa miscela galenica e traslucida di saponi. La schiuma così ottenuta passava e ripassava sul viso del cliente per rendere quella pelle, a volte rugosa e impervia come un sentiero di campagna, più morbida ed elastica di quella di un bambino o di una giovinetta impubere. Il barbiere allora, con gesto sapiente e ieratico, da chirurgo, afferrava il rasoio a mano libera e ne rifaceva il filo passandolo e ripassandolo con elegante energia sulla correggia di cuoio appesa al muro o addirittura sul palmo della mano. La schiuma levata dal viso e intrisa di peluzzi di barba veniva poi depositata con grazia su quadratini di carta di giornale approntati all’uopo o su schedine vecchie della Sisal. A richiesta si procedeva al contropelo. Finita l’operazione, dopo aver cauterizzato un’eventuale piccola ferita con l’allume di rocca, si irrorava il viso dello sbarbato con una profumata soluzione alcolica conservata in una preziosa ampolla e spruzzata con una pompetta, spesso terminante con un vezzoso fiocco.

Per Natale i barbieri regalavano un oggetto di grande importanza, un calendarietto, oggi ricercato dai collezionisti. Detto così, calendarietto, sembra roba da poco. Ma solo per chi non lo ha visto mai, perché era un cimelio quanto mai prezioso.
Anzitutto, avvolto in una carta semitrasparente, veniva alluvionato da un profumo di incerta e inquietante provenienza (Notti d’Oriente? Fascino slavo?) e di straordinaria e testarda persistenza, tale da dare contezza di sé anche secoli dopo. Messo nel portafoglio da rudi mediatori di bestiame, olezzava non solo nel portafoglio stesso, ma nei vestimenti tutti e nella persona dell’individuo, che profumava fino al Natale successivo come una ballerina d’avanspettacolo di quart’ordine.
I calendarietti erano colmi di immagini le più varie: scene di opere liriche, di film famosi, ritratti di attrici, ma i più portavano disegni o foto di ragazze discinte, discinte come si può pensare a una ragazza discinta negli anni Cinquanta, oggi quindi ragionevolmente casta come appena uscita da un collegio delle Orsoline. Ma pare che, proprio per questa ragione – la fama osé per quei tempi –, si gridò allo scandalo e i calendarietti furono aboliti. Io però credo invece che siano scomparsi per quella ventata di assurdo modernismo che ha colpito l’Italia alla fine di quegli anni, e quei piccoli calendari, profumati, protetti dal cellophane, spesso anche cosparsi di porporina dorata che si attaccava dappertutto, furono ritenuti cosa vile, di un passato da dimenticare.

Però, il prossimo Natale, mi piacerebbe riceverne ancora uno e, alzandomi dalla poltrona, sentire il barbiere che dice: «Il signore è servito. Ragazzo, spazzola» e vedere il cinno che premuroso si avvicina, ti spazzola e attende, fiducioso, una lauta mancia.

Francesco Guccini - Domenica Il Sole 24 Ore 11.01.14