venerdì 31 gennaio 2014
Le 5 capacità che un leader deve possedere
mercoledì 29 gennaio 2014
Crisi è anche opportunità
I valori fondamentali di Amazon
martedì 28 gennaio 2014
Il coraggio di rischiare
domenica 26 gennaio 2014
Smarfle, fare start up non è un hobby e non è roba da fighetti. Per chi pensa sia una moda.
“Ho passato le pause pranzo in macchina a lavorare alla mia idea e ho rinunciato a un lavoro fisso. Ma se va male rivaluto la laurea in ingegneria”. Massimo Michetti, founder della mobile app che rivoluziona il modo di ascoltare musica, racconta la vita degli startupper italiani. “È difficile, bisogna smuovere pachidermi”
Il team di Smarfle“Sia chiaro: fare una start up non è un gioco. Non si fa impresa nel weekend e non è il passatempo della domenica pomeriggio. Chi fa start up deve lavorare giorno e notte, compresi i finesettimana”. Per Massimo Michetti ‘start up’ non è solo roba da fighetti o qualcosa che fa tendenza. E lui lo sa bene: quando ha iniziato a lavorare a Smarfle, una mobile app che riconosce le preferenze musicali e seleziona la musica adatta per la specifica situazione, creando playlist speciali per ogni momento della vita degli utenti, Massimo lavorava per un’azienda di Bari. Per lui un contratto a tempo indeterminato e un futuro tranquillo. “Nelle pausa pranzo, invece di andare a mangiare con i colleghi, mi chiudevo in macchina per lavorare al progetto. Così, prima ho messo a rischio affetti e vita sociale, poi mi sono licenziato per buttarmi a capofitto in ciò in cui credevo” racconta. Non a caso, Smarfle è una delle start up che non è passata inosservata a Working Capital, il programma di accelerazione di Telecom Italia, e si è aggiudicatail grant d’impresa di 25 mila euro. “Al di là del contributo economico, Working Capital mi ha convinto del fatto che stessi andando nella direzione giusta” racconta questo 31enne pugliese, ingegnere informatico, laureato al Politecnico di Bari.
E proprio al Politecnico, Massimo Michettii conosce Francesco Capozzi, 29 anni, una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni e un dottorato di ricerca. Francesco ha collaborato con una società di social gaming a Bari e ora è assistente di ricerca al CNR.
Insieme, i due ragazzi hanno pensato di creare qualcosa di innovativo nel mondo della musica. “Quello musicale è uno spazio inflazionato, ci sono grossi competitor, da Apple ad Amazon, ma abbiamo notato che mancava qualcosa di preciso: uno strumento capace di interpretare le preferenze musicali dell’utente. L’obiettivo di Smarfle è rivoluzionare il modo in cui si ascolta la musica. Il nostro motto, infatti è Your music, Smarter”.
Ai due ragazzi si sono uniti, poi, Emiliano Mancini, 40 anni di Roma, laurea in Scienze dell’Informazione alla Sapienza ed esperienza come consulente in diverse società, ha lasciato la capitale dopo aver capito il potenziale di Smarfle trasferendosi definitivamente a Bari; eGiovanni Talesco, 36 anni, ingegnere informatico di Bari, esperto di social game.
Tra settembre e ottobre del 2012 i quattro decidono di provarci sul serio: “Mi danno tutti del pazzo perché ho rinunciato a un posto di lavoro per un’idea: se la mia fidanzata mi sostenuto fin dall’inizio, la mia famiglia ha fatto fatica a capire che non era una follia. Ho convinto i miei genitori a sostenermi dicendo che, nel caso in cui la start up dovesse andare male, posso sempre rigiocarmi la carta della laurea in ingegneria informatica. Ma questa è davvero l’unica cosa che voglio fare ed il modo per massimizzare le mie capacità. Il mio sogno è sempre stato quello di creare un prodotto mio e metterlo a disposizione della gente” continua Massimo.
E proprio per realizzare questo sogno il team si riunisce tutti i giorni in uno spazio di coworking messo a disposizione dalla fiera di Bari. Ogni lunedì c’è la riunione per pianificare il lavoro fatto in precedenza e valutare quello da svolgere in futuro e ogni giorno c’è uno scambio di mail per aggiornare i colleghi su eventuali problemi e sui risultati raggiunti. “Siamo una squadra, ma anche una macchina di lavoro – continua il founder –. Del resto se in Italia vuoi fare impresa non puoi che muoverti in questo modo. Nel nostro Paese chi vuole fare innovazione deve smuovere pachidermi fatti di pregiudizi e impicci burocratici. Bisogna lavorare a pieno ritmo per emergere e non fermarsi mai”.
Le ambizioni di Smarfle sono altissime: “Puntiamo a un progetto di respiro internazionale, fatto su misura per gli utenti, che non miri a sostituirsi a quanto già esistente nel pianeta musicale, ma a stringere partnership con i grossi competitors (Amazon, Google, Apple)”. Strategie e business plan sono chiari: “Creare un prodotto di qualità cercando di seguire il feedback degli utenti, sperimentare e verificare il corretto funzionamento delle applicazioni e crescere lentamente. Almeno in un primo momento, infatti, vogliamo captare l’attenzione del pubblico sul prodotto, a quel punto possiamo prendere la rincorsa. Non a caso, per quest’anno abbiamo deciso di rendere forte il prodotto solo sull’iphone, poi punteremo a conquistare le altre piattaforme. È ovvio che da idee così chiare non possiamo che aspirare al massimo: un fatturato a doppia cifra con tanti zeri. Forse non alla fine del primo anno, ma sicuramente molto presto” conclude Massimo Michetti.
Concetta Desando - Economyup - gennaio
Inglass, ecco come raddoppiare gli affari durante la crisi
L’azienda veneta specializzata in stampi e camere calde per la plastica è passata dai 45 milioni di fatturato del 2009 agli 85 del 2013. Interpretando le opportunità della globalizzazione, aprendo uno stabilimento in Cina e diversificando l’offerta
La sede di Inglass a San Polo di Piave (Treviso)Raddoppiare il volume d’affari in cinque anni è un’impresa proibitiva durante la Grande Crisi. Ed è ancora più difficile per un’azienda che lavora soprattutto nella filiera del settore automotive. Eppure la Inglass di San Polo di Piave (Treviso), attiva nella progettazione e costruzione di stampi e sistemi di iniezione a canale caldo per manufatti plastici, ci è riuscita, passando dai 45 milioni di fatturato del 2009 agli 85 milioni del 2013.
La chiave di questo successo? Un insieme di strategie caratterizzate da un denominatore comune: saper interpretare le opportunità offerte dall’economia globalizzata senza restare sulla difensiva. «Abbiamo seguito la globalizzazione anche da un punto di vista culturale», dice Alessandra Bosco, global business development manager di Inglass. «Il forte investimento sulle filiali anche nei mercati emergenti ci ha portato ad avere nella maggioranza dei casi personale diretto che potesse occuparsi dei clienti utilizzando la lingua e la cultura del posto».
Per portare avanti questa filosofia, l’azienda veneta, che opera in circa 50 Paesi del mondo e ha tra i suoi 1600 clienti sia i fornitori di componentistica primo equipaggiamento per l’automotive che le stesse case automobilistiche, ha fatto importanti investimenti in ambito Ict. Uno degli strumenti più all’avanguardia adottati e sviluppati internamente è una piattaforma web per la gestione del rapporto con i clienti «che ci permette di gestire ogni singolo sistema durante il suo intero ciclo di vita. Con questa soluzione possiamo monitorare in modo capillare le esigenze del cliente, l'affidabilità dei nostri prodotti e la qualità dei servizi offerti a livello globale».
La storia della Inglass inizia nel 1987 alle porte di Treviso dall’idea di Maurizio Bazzo. All’epoca, il nome dell’azienda era Incos.Alessandra Bosco, global business development manager di Inglass E da allora, procedendo a suon di innovazioni e brevetti, il principale punto di forza dell’impresa è stato il compiere piccole “rivoluzioni” nei mercati in cui operava. La prima è stata il focalizzarsi, nei primi anni, sulla costruzione di stampi rotativi per l’illuminazione delle auto. Una scelta che ha portato la Inglass a posizioni di vertice a livello mondiale. Ma il patron, classe 1961 con un breve passato come responsabile di una divisione stampaggio della Electrolux, non si accontenta di essere tra i primi nel produrre gli stampi per la fanaleria delle macchine.
Ecco allora che arriva la seconda svolta. Corre l’anno 2001 e l’azienda guidata da Bazzo dà vita a HRSflow (Hot Runner System), una divisione dedicata alla realizzazione di sistemi a canale caldo per lo stampaggio ad iniezione di materiale plastico. «È principalmente il processo di iniezione che dà la qualità al modo in cui viene stampata la plastica», spiega Bosco. «Abbiamo cominciato a produrre sistemi di iniezione per i nostri stampi e poi, con il tempo, ci siamo specializzati in sistemi anche per tutti gli altri componenti del settore automotive».
Grazie a questo doppio know how, anche questa novità viene premiata dal mercato e Inglass – il gruppo assumerà questo nome dal 2006 – diventa in pochi anni uno dei maggiori player su scala globale nel proprio comparto. Tanto che al momento, quasi un terzo del fatturato (circa 25 milioni) arriva dagli stampi, mentre il resto arriva dai sistemi a canale caldo. Una terza rivoluzione, datata 2004, è la brevettazione del “plastic glazing”, una tecnologia che utilizza l’iniettocompressione per stampare grandi superfici in policarbonato, un materiale plastico a basso peso specifico con cui sostituire le parti vetrate dell’automobile (tra cui il tetto e i finestrini). L’innovazione sta prendendo sempre più piede, specialmente se si considera che il peso della vettura è coinvolto direttamente nella riduzione dell’emissione di CO2 richiesta dalle normative internazionali.
Nel 2009 arriva la svolta che fa da volano a tutte le strategie anti-recessione: Inglass apre uno stabilmento di 12mila metri quadri a Hangzhou, nei pressi di Shanghai, per servire meglio la clientela asiatica. «Produrre in Cina ha dato ossigeno al gruppo proprio all’inizio della crisi e ha rafforzato il nostro business su mercati emergenti dove eravamo marginalmente presenti: al momento la nostra quota export è dell’80% circa», afferma la global business development manager. «In quattro anni abbiamo quadruplicato le vendite in Asia, passando da 4 a 16 milioni. Questo perché molte case automobilistiche occidentali hanno cominciato a produrre vetture localmente in joint venture e le stesse compagnie del posto stanno crescendo bene ed apprezzano il nostro prodotto italiano».
Ma se sei un leader in una nicchia dell’automotive e servi le principali case del mondo (Bmw, Toyota, Mercedes-Benz, Fiat-Chrysler, Porsche, Ford…) aprire in Cina non basta a fronteggiare il calo di tutto il settore. La parola d’ordine deve diventare un’altra: diversificazione. «Mentre altri hanno cercato di difendersi, noi abbiamo investito e cominciato a produrre sistemi di iniezione anche per comparti alternativi all’automotive», spiega Bosco. È così che nel 2009 viene introdotta la linea Multitech, dedicata alla produzione di canali caldi per settori come medicale, beverage e cosmetica. Diversificare, in questo caso, ha previsto anche la creazione di una nuova divisione di ricerca & sviluppo, oltre a quelle già presenti che hanno portato alle varie innovazioni degli anni passati.
Per il 2014 e i prossimi anni, Inglass prevede di aumentare la quota di mercato dei sistemi di iniezione non dedicati all’automotive e di consolidarsi sui mercati emergenti con obiettivi principali la Russia, l’India e il Nordafrica. «Abbiamo un piano strategico innovativo e molto ambizioso che arriva fino al 2017», conclude Bosco. «È una sfida, ma siamo certi di vincerla».
Maurizio Di Lucchio - Economyup - 24 gennaio
venerdì 24 gennaio 2014
Nuove dittature: il simbolicamente corretto
Puoi fare ben poco stando al governo oppure operando dall’opposizione? Male, ma puoi sempre scegliere una strada sostitutiva: «Mandare un segnale». È l’apoteosi del gesto carico di significati, è il predominio del simbolico sul concreto. Che cosa può fare Obama per contrastare lo strapotere di Putin, che comprime e mortifica i diritti umani e civili in Russia? Niente, non può fare praticamente niente. Però può sempre mandare un segnale e nominare come portabandiera degli Stati Uniti alla prossima Olimpiade invernale russa di Sochi due icone della battaglia gay. A Mosca gli omosessuali continueranno ad essere discriminati, ma il mondo avrà certamente ricevuto un segnale simbolico molto forte.
È la dittatura del simbolico. Che compensa il collasso della realtà, semplicemente surrogandola. La tragedia dell’impotenza politica che, in un mondo sempre più interconnesso e regolato da leggi non scritte, cerca di riscattarsi trasfigurandosi in pura gestualità, in atto spettacolare. I politici dei governi e delle opposizioni, delle maggioranze e delle minoranze, di destra e di sinistra, hanno del resto ricevuto da una figura carismatica come papa Francesco un formidabile repertorio di simbolismo gestuale: il semplice e colloquiale «buona sera» dal balcone di piazza San Pietro, il bagaglio a mano sull’aereo, le scarpe sformate, il piccolo alloggio a Santa Marta anziché gli sfarzosi appartamenti papali, la bibita sorseggiata in Brasile, eccetera. Ma il Vaticano, per quanto titolare di una potentissima valenza politica, non ha in mano concretamente le redini di un governo democratico. Gli eletti invece hanno ricevuto un mandato dai loro elettori, ma, non sapendo destreggiarsi in una sfera politica sempre più complessa e paralizzata da procedure farraginose, si rifugiano nella retorica del gesto squillante.
A Roma il sindaco sembra totalmente privo di qualunque efficacia, mentre l’immondizia deborda e rischia di sommergere la città. In compenso il sindaco Marino manda un segnale: pedonalizza (o quasi, perché i pullman turistici e le macchine a noleggio invadono la strada) qualche centinaio di metri dei Fori Imperiali. I trasporti pubblici a Roma versano in una condizione catastrofica e desolante per un Paese civile. In compenso arriva un segnale simbolico: il sindaco si muove in bicicletta.
Basta fare attenzione alle ripetute risse sulla toponomastica, che impegnano con un fervore davvero inusitato le amministrazioni locali. Si manda un segnale intestando una via a qualche illustre esponente della parte politica vincente, oppure si monta un caso se viene intestata una piazza a un illustre esponente della parte politica opposta. E le condizioni delle strade, dei trasporti, degli asili nido, delle scuole, della viabilità, della pulizia, degli appalti, della manutenzione, insomma che ne è della politica concreta che opera scelte, impone soluzioni, dà una risposta alla cittadinanza? Tutto in secondo piano. Bisogna sottomettersi alla dittatura del simbolico. Bisogna pur mandare un segnale.
Beninteso, da sempre il potere predilige l’ostentazione dei simboli, il legare un nome a un gesto, un appuntamento, una data da celebrare, una retorica da rispettare. Il simbolico è strettamente connesso al politico, deve mandare segnali, offrire un orientamento, riempire di senso e di significati la vita dei popoli, vivificando il loro spirito di appartenenza e di devozione. Da sempre gli statisti e i condottieri hanno voluto intestarsi il prestigio di una grande opera come simbolo di grandezza e di gloria: strade, ponti, acquedotti, biblioteche, stadi o la piramide che Mitterrand ha voluto al Louvre per celebrare una nuova grandeur. I simboli della regalità, della maestà. Oppure i simboli del rinnovamento. Ma i simboli hanno un valore se accompagnano misure politiche, provvedimenti concreti, non se sostituiscono la decisione (impossibile) con la rappresentazione. E invece è proprio come se nel villaggio mediatico ci fosse fame insaziabile di simboli come vetrina della nuova politica.
In contrapposizione ai fasti delle «cene eleganti» berlusconiane, Mario Monti volle mandare un segnale presentandosi con un sobrio loden alla stazione per prendere il treno che da Milano lo avrebbe portato a Palazzo Chigi (e anche Enrico Letta si è presentato alla convocazione del Quirinale con la sua automobile privata: doveva mandare un segnale di normalità). Per mostrarsi un benevolo padrone del mondo, severo ma capace di gesti caritatevoli, Putin ha mandato un segnale di moderazione liberando l’oligarca dissidente Khodorkovskij proprio alla vigilia dei Giochi olimpici (e anche pochi giorni prima, ma questo non lo poteva sapere, della recrudescenza terroristica a Volgograd). Per mandare un segnale, i maggiorenti del Partito comunista cinese hanno formalmente aperto al libero mercato, quando tutti sanno già che in Cina il capital-comunismo non è esattamente l’applicazione di un programma economico marxista-leninista puro. Per dimostrare sensibilità al «diverso» il sindaco democratico di New York Bill de Blasio si è presentato con la sua multicolore e multiforme famiglia come simbolo di multiculturalità. E poi, grazie a una colossale nevicata che ha coperto la grande metropoli, si è offerto ai fotografi di tutto il mondo spazzando con una pala i cumuli bianchi e gelidi. Fanno oramai così i sindaci sotto la neve, anche Gianni Alemanno si fece immortalare con una pala per mandare un segnale di fattività: anche se la città era completamente paralizzata, il simbolo rischiava di funzionare come compensazione dei disagi patiti dalla cittadinanza.
In Italia la «casta» politica per mandare un segnale gira a piedi, compra il biglietto delle partite, fa la fila al cinema, si slaccia il colletto della camicia rigorosamente senza cravatta per mostrarsi alla mano e alla portata dei cittadini normali. Peccato che la stessa casta non riesca a rinunciare concretamente nemmeno a una manciata di quattrini del finanziamento pubblico. Fanno una legge sull’omofobia che concretamente non raggiunge nessun risultato (fortunatamente in Italia l’aggressione e il pestaggio sono già reati perseguibili per legge), ma manda il segnale che gli omosessuali potrebbero finalmente sentirsi protetti. Purtroppo, grazie ai veti contrapposti e a un eccesso di subalternità della politica ai (presunti) desiderata del Vaticano, le coppie gay non possono contrarre matrimonio e almeno godere dei diritti che spetterebbero loro attraverso una ragionevole disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. In compenso, per mandare il solito segnale, si escogitano cervellotiche formule burocratiche su un asessuato genitore, pur di non nominare il padre e la madre. Per la stessa ragione, in mancanza di diritti concreti e di un riconoscimento legale che oramai è acquisizione irreversibile di tutte le nazioni liberaldemocratiche, si scatena la guerra santa del boicottaggio contro Guido Barilla, reo di aver rilasciato dichiarazioni non proprio brillanti circa il tipo di marketing sulla famiglia tradizionale attuata dalla sua stranota azienda di pasta e biscotti.
Nel Mezzogiorno, si spreca la retorica sulle risorse del meraviglioso Meridione e per mandare un segnale si creano a getto continuo fantasmagorici «partiti del Sud». In compenso, nella realtà e non nell’atmosfera colorata e gratificante dei simboli, nel Mezzogiorno i treni non funzionano, le strade crollano, le autostrade non si finiscono mai. I sindaci si adeguano. La Napoli di Bassolino non è stata un gioiello di favolosa amministrazione (anche se una sentenza ha scagionato l’ex sindaco da tutte le accuse con cui la magistratura lo aveva bersagliato), ma tutti ricordano la grande bolla (e la grande balla) del «Rinascimento napoletano» perché Bassolino aveva ripulito piazza del Plebiscito, facendone un vanto per tutta l’Italia: sul piano simbolico, almeno.
Il governatore della Sicilia Crocetta ha portato, per mandare un segnale di discontinuità, una ventata di novità e di informalità: nella realtà tutti i portaborse dei politici sono stati assunti stabilmente dalla pubblica amministrazione, altro che discontinuità. Il sindaco di Genova Doria si è presentato come «uno di noi»: simbolicamente il segnale è arrivato forte e chiaro, in compenso nella realtà il trasporto locale si è bloccato e le corporazioni (vincenti) hanno messo in ginocchio la città. Per mandare un segnale il neoleader della Lega Salvini si presenta in tuta, per dare un’immagine di disponibilità informale e di predisposizione alla battaglia. Ma nella realtà, oltre al segnale da spedire all’opinione pubblica, cosa c’è di rilevante e di importante che la Lega può fare? Per mandare un segnale, la Lega aveva già imposto la devolution, con gli splendidi risultati che conosciamo.
Per dare un segnale di ritrovato patriottismo e di coesione nazionale attorno alla bandiera e ai suoi simboli, abbiamo reintrodotto in Italia l’esibizione militare ai Fori Imperiali per il 2 giugno: ma ogni anno c’è una contestazione. Per dare un segnale di compunta e inflessibile severità, si sono predisposte sanzioni draconiane contro le curve che durante le partite si abbandonano a biechi cori razzisti o, come si dice con espressione della neolingua burocratica, a manifestazioni di «discriminazione territoriale». Questo nella sfera simbolica, perché nella sfera pratica l’impossibilità di dar seguito a quelle sanzioni ha vieppiù rafforzato l’inclinazione barbarica delle tifoserie scatenate al dileggio razziale o al linciaggio «territoriale».
La dittatura del simbolico si impone nelle piccole realtà e sulla grande scena mondiale. In Siria Assad continua a massacrare il popolo siriano, ma l’Onu manda un segnale contro l’uso di armi chimiche. Un richiamo puramente simbolico che non risolve niente nella realtà, ma appaga il desiderio di un gesto, bello o brutto che sia, purché sia un gesto dal forte impatto sul piano della comunicazione. Oppure si prendono i funerali di Mandela in Sudafrica per dare l’occasione ai leader del mondo di scambiarsi gesti, strette di mano, o persino giochi un po’ infantili con i telefoni cellulari. Solo un segnale, come omaggio non a un vero grande simbolo come Mandela, ma ai tanti simboli che hanno sostituito la realtà sul palcoscenico mediatico.
È la dittatura del simbolico. Che compensa il collasso della realtà, semplicemente surrogandola. La tragedia dell’impotenza politica che, in un mondo sempre più interconnesso e regolato da leggi non scritte, cerca di riscattarsi trasfigurandosi in pura gestualità, in atto spettacolare. I politici dei governi e delle opposizioni, delle maggioranze e delle minoranze, di destra e di sinistra, hanno del resto ricevuto da una figura carismatica come papa Francesco un formidabile repertorio di simbolismo gestuale: il semplice e colloquiale «buona sera» dal balcone di piazza San Pietro, il bagaglio a mano sull’aereo, le scarpe sformate, il piccolo alloggio a Santa Marta anziché gli sfarzosi appartamenti papali, la bibita sorseggiata in Brasile, eccetera. Ma il Vaticano, per quanto titolare di una potentissima valenza politica, non ha in mano concretamente le redini di un governo democratico. Gli eletti invece hanno ricevuto un mandato dai loro elettori, ma, non sapendo destreggiarsi in una sfera politica sempre più complessa e paralizzata da procedure farraginose, si rifugiano nella retorica del gesto squillante.
A Roma il sindaco sembra totalmente privo di qualunque efficacia, mentre l’immondizia deborda e rischia di sommergere la città. In compenso il sindaco Marino manda un segnale: pedonalizza (o quasi, perché i pullman turistici e le macchine a noleggio invadono la strada) qualche centinaio di metri dei Fori Imperiali. I trasporti pubblici a Roma versano in una condizione catastrofica e desolante per un Paese civile. In compenso arriva un segnale simbolico: il sindaco si muove in bicicletta.
Basta fare attenzione alle ripetute risse sulla toponomastica, che impegnano con un fervore davvero inusitato le amministrazioni locali. Si manda un segnale intestando una via a qualche illustre esponente della parte politica vincente, oppure si monta un caso se viene intestata una piazza a un illustre esponente della parte politica opposta. E le condizioni delle strade, dei trasporti, degli asili nido, delle scuole, della viabilità, della pulizia, degli appalti, della manutenzione, insomma che ne è della politica concreta che opera scelte, impone soluzioni, dà una risposta alla cittadinanza? Tutto in secondo piano. Bisogna sottomettersi alla dittatura del simbolico. Bisogna pur mandare un segnale.
Beninteso, da sempre il potere predilige l’ostentazione dei simboli, il legare un nome a un gesto, un appuntamento, una data da celebrare, una retorica da rispettare. Il simbolico è strettamente connesso al politico, deve mandare segnali, offrire un orientamento, riempire di senso e di significati la vita dei popoli, vivificando il loro spirito di appartenenza e di devozione. Da sempre gli statisti e i condottieri hanno voluto intestarsi il prestigio di una grande opera come simbolo di grandezza e di gloria: strade, ponti, acquedotti, biblioteche, stadi o la piramide che Mitterrand ha voluto al Louvre per celebrare una nuova grandeur. I simboli della regalità, della maestà. Oppure i simboli del rinnovamento. Ma i simboli hanno un valore se accompagnano misure politiche, provvedimenti concreti, non se sostituiscono la decisione (impossibile) con la rappresentazione. E invece è proprio come se nel villaggio mediatico ci fosse fame insaziabile di simboli come vetrina della nuova politica.
In contrapposizione ai fasti delle «cene eleganti» berlusconiane, Mario Monti volle mandare un segnale presentandosi con un sobrio loden alla stazione per prendere il treno che da Milano lo avrebbe portato a Palazzo Chigi (e anche Enrico Letta si è presentato alla convocazione del Quirinale con la sua automobile privata: doveva mandare un segnale di normalità). Per mostrarsi un benevolo padrone del mondo, severo ma capace di gesti caritatevoli, Putin ha mandato un segnale di moderazione liberando l’oligarca dissidente Khodorkovskij proprio alla vigilia dei Giochi olimpici (e anche pochi giorni prima, ma questo non lo poteva sapere, della recrudescenza terroristica a Volgograd). Per mandare un segnale, i maggiorenti del Partito comunista cinese hanno formalmente aperto al libero mercato, quando tutti sanno già che in Cina il capital-comunismo non è esattamente l’applicazione di un programma economico marxista-leninista puro. Per dimostrare sensibilità al «diverso» il sindaco democratico di New York Bill de Blasio si è presentato con la sua multicolore e multiforme famiglia come simbolo di multiculturalità. E poi, grazie a una colossale nevicata che ha coperto la grande metropoli, si è offerto ai fotografi di tutto il mondo spazzando con una pala i cumuli bianchi e gelidi. Fanno oramai così i sindaci sotto la neve, anche Gianni Alemanno si fece immortalare con una pala per mandare un segnale di fattività: anche se la città era completamente paralizzata, il simbolo rischiava di funzionare come compensazione dei disagi patiti dalla cittadinanza.
In Italia la «casta» politica per mandare un segnale gira a piedi, compra il biglietto delle partite, fa la fila al cinema, si slaccia il colletto della camicia rigorosamente senza cravatta per mostrarsi alla mano e alla portata dei cittadini normali. Peccato che la stessa casta non riesca a rinunciare concretamente nemmeno a una manciata di quattrini del finanziamento pubblico. Fanno una legge sull’omofobia che concretamente non raggiunge nessun risultato (fortunatamente in Italia l’aggressione e il pestaggio sono già reati perseguibili per legge), ma manda il segnale che gli omosessuali potrebbero finalmente sentirsi protetti. Purtroppo, grazie ai veti contrapposti e a un eccesso di subalternità della politica ai (presunti) desiderata del Vaticano, le coppie gay non possono contrarre matrimonio e almeno godere dei diritti che spetterebbero loro attraverso una ragionevole disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. In compenso, per mandare il solito segnale, si escogitano cervellotiche formule burocratiche su un asessuato genitore, pur di non nominare il padre e la madre. Per la stessa ragione, in mancanza di diritti concreti e di un riconoscimento legale che oramai è acquisizione irreversibile di tutte le nazioni liberaldemocratiche, si scatena la guerra santa del boicottaggio contro Guido Barilla, reo di aver rilasciato dichiarazioni non proprio brillanti circa il tipo di marketing sulla famiglia tradizionale attuata dalla sua stranota azienda di pasta e biscotti.
Nel Mezzogiorno, si spreca la retorica sulle risorse del meraviglioso Meridione e per mandare un segnale si creano a getto continuo fantasmagorici «partiti del Sud». In compenso, nella realtà e non nell’atmosfera colorata e gratificante dei simboli, nel Mezzogiorno i treni non funzionano, le strade crollano, le autostrade non si finiscono mai. I sindaci si adeguano. La Napoli di Bassolino non è stata un gioiello di favolosa amministrazione (anche se una sentenza ha scagionato l’ex sindaco da tutte le accuse con cui la magistratura lo aveva bersagliato), ma tutti ricordano la grande bolla (e la grande balla) del «Rinascimento napoletano» perché Bassolino aveva ripulito piazza del Plebiscito, facendone un vanto per tutta l’Italia: sul piano simbolico, almeno.
Il governatore della Sicilia Crocetta ha portato, per mandare un segnale di discontinuità, una ventata di novità e di informalità: nella realtà tutti i portaborse dei politici sono stati assunti stabilmente dalla pubblica amministrazione, altro che discontinuità. Il sindaco di Genova Doria si è presentato come «uno di noi»: simbolicamente il segnale è arrivato forte e chiaro, in compenso nella realtà il trasporto locale si è bloccato e le corporazioni (vincenti) hanno messo in ginocchio la città. Per mandare un segnale il neoleader della Lega Salvini si presenta in tuta, per dare un’immagine di disponibilità informale e di predisposizione alla battaglia. Ma nella realtà, oltre al segnale da spedire all’opinione pubblica, cosa c’è di rilevante e di importante che la Lega può fare? Per mandare un segnale, la Lega aveva già imposto la devolution, con gli splendidi risultati che conosciamo.
Per dare un segnale di ritrovato patriottismo e di coesione nazionale attorno alla bandiera e ai suoi simboli, abbiamo reintrodotto in Italia l’esibizione militare ai Fori Imperiali per il 2 giugno: ma ogni anno c’è una contestazione. Per dare un segnale di compunta e inflessibile severità, si sono predisposte sanzioni draconiane contro le curve che durante le partite si abbandonano a biechi cori razzisti o, come si dice con espressione della neolingua burocratica, a manifestazioni di «discriminazione territoriale». Questo nella sfera simbolica, perché nella sfera pratica l’impossibilità di dar seguito a quelle sanzioni ha vieppiù rafforzato l’inclinazione barbarica delle tifoserie scatenate al dileggio razziale o al linciaggio «territoriale».
La dittatura del simbolico si impone nelle piccole realtà e sulla grande scena mondiale. In Siria Assad continua a massacrare il popolo siriano, ma l’Onu manda un segnale contro l’uso di armi chimiche. Un richiamo puramente simbolico che non risolve niente nella realtà, ma appaga il desiderio di un gesto, bello o brutto che sia, purché sia un gesto dal forte impatto sul piano della comunicazione. Oppure si prendono i funerali di Mandela in Sudafrica per dare l’occasione ai leader del mondo di scambiarsi gesti, strette di mano, o persino giochi un po’ infantili con i telefoni cellulari. Solo un segnale, come omaggio non a un vero grande simbolo come Mandela, ma ai tanti simboli che hanno sostituito la realtà sul palcoscenico mediatico.
Pierluigi Battista - La Lettura - Corriere della Sera - 12 gennaio
giovedì 23 gennaio 2014
PERSUASIONE, SAI COME USARLA?
mercoledì 22 gennaio 2014
Loro costruirono il califfato, noi vili capaci solo di sperare
Ovvero di volta in volta distaccata e integrata, ricca e povera; della povertà di ieri fare la ricchezza di domani. Il suo libro, i suoi articoli sull’urgere assassino di un Islam guerriero sono un documento irrimediabile che porta l’orribile palpitazione di un attimo. Ha fatto urlare, ci fa urlare. Quante righe vorremmo modificare. Ma è impossibile.
Allora... Nel deserto, ai confini dell’Eufrate, forsennati dominati da vizi e passioni senza scampo, ancorati ai binari fissi della lotta brutale, le fermentazioni di un Islamismo decomposto, ricostruiscono il califfato di Omar. Califfato: la parola formidabile è in voga dal Vicino Oriente al Maghreb. E si preparano, sotto i nostri occhi transigenti e accomodanti, a riempire i giorni futuri, generosamente, fino all’orlo, di fumo di martiri di orrore. Gli appelli occidentali al cessate il fuoco, alla diplomazia, appaiono timidi tentativi di mettere argini di sabbia a un uragano.
Il califfato non è un sogno di fanatici antiquati che si sberrettano a un dio crudele. È un progetto politico preciso che divampa con sfacciata petulanza, ha mezzi economici, scadenze. E un esercito. Dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica c’era una sola potenza in grado di muovere una armata in diversi luoghi del pianeta, rapidamente: gli Stati Uniti. Non la Cina, non le minuscole ex potenze europee, che hanno ancora la stolta voglia di fare i terribili, i feroci, i prepotenti, ma al massimo sono capaci di combattere piccole guerre post-coloniali. Ora quest’altra forza è: il jihadismo planetario. Può spostare migliaia di sperimentati nelle scienze della morte dall’Asia centrale alla Libia, dal Sahel alla Siria, dalla Somalia all’Iraq. Nella Mezzaluna fertile dove ovunque si cammina si calpesta la Storia, nella Siria decrepita degli Assad hanno individuato il primo possibile nucleo dello Stato Islamico. Qui i confini sono ancora quelli disegnati dalla prima guerra mondiale, le spartizioni fatte a tavolino dalle mani frettolose dei diplomatici inglesi e francesi. I jihadisti decompongono pezzo a pezzo quella umiliazione remota. Annettono, eliminano, ricompongono in unità, l’unica regola dell’Islam. Qui vivono uomini minacciati, quasi sopraffatti dal Male, in un mondo che non conosce più il senso della Pietà e della Carità. Andate in Siria, invece di impancarvi da profeti, al calduccio dei caffè d’Occidente: guardate, verificate, inorridite!
Poi, verrà la seconda fase: l’annessione dei Paesi delle Primavere, inceppate o già convertite al Corano. Il waabitismo, il sordo rigorismo ritualistico nato in Arabia un secolo fa, guadagna consensi nella delusione e nella miseria di quei paesi, si fa subito armato e prepotente. La parola di Dio! Un ferro rovente. Le intelligenze carnivore, le bestie feroci e astute che credono di lavorare per il guadagno di Dio, la razzia degli uomini che vivono degli uomini sono al lavoro in Libia, nel Sud della Tunisia, in Somalia, in Nigeria, in Mauritania, nell’Algeria dove l’uscita di scena del presidente Bouteflika innescherà nuove turbolenze. In Marocco la controrivoluzione preventiva del re ha solo permesso di guadagnare tempo. Nel Sahel il ritiro dei francesi riapre le porte ai gruppi dei Tuareg convertiti alla fede militante, sconfitti ma non annientati, indomabili.
E poi l’Egitto, innanzitutto e soprattutto: ottanta milioni di abitanti, il Paese dove passa la storia di tutto il mondo arabo, che anticipa prova contagia da sempre, dove la condizione umana dell’Islam appare più spoglia, quasi a nudo. Il terrorismo e la rabbia delle masse dilagano dopo il golpe dei militari contro la «democrazia» dei Fratelli musulmani. Ancora errori dell’Occidente. Sostenitore di Mubarak, il faraone corrotto, ha applaudito l’Islam conservatore come a un accomodamento da comari, per poi inneggiare al Contrario, il ritorno dei carri armati, il dispotismo in uniforme che ci fa ancor più comodo.
Ecco il problema: decenni di interessata e distratta convivenza con i tiranni, che tenevano sotto chiave gli Islamisti e badavano per conto nostro alla fiumana dei poveri emigranti, ci hanno tolto ogni autorità morale, abbiamo stretto troppe mani per suggerire modelli, per autorizzare democrazie. L’hanno tolta anche ai terzomondisti, che trovavano «interessante» la laicità di qualche tiranno, purché abbaiasse contro gli americani. L’Occidente è diventato marginale, inutile, debole, in un mondo che ha dominato quasi sempre senza giustizia. E la nostra viltà è permanente, non uno stato d’animo passeggero, non una sorta di raffreddore da cui si guarisce facilmente.
Certo, non tutti i musulmani sono fanatici, che banalità! Il problema è che gli altri sono i tiepidi, i «mi faccio gli affari miei», i sudditi obbedienti di tutte le dittature e le prepotenze: fasciste, comuniste, tribali, Islamiche. Certo all’altro capo di quel mondo, nella piccola Tunisia dove tutto iniziò tre anni fa, altri musulmani scrivono, zitti e fieri, dopo prometeiche fatiche, una Costituzione che, ancorandosi disperatamente alla laicità e alla differenza, vuol gridare che l’Islam non è un universo immobile di capi spietati e indiscutibili, impastoiato a verità uniche, interdizioni fanatiche: che l’Islam non obbedisce sempre alla voce del Padrone. Forse quei giovani protagonisti non sono, dopo tre anni, anime asciutte, esausti come bambini dopo la fiera annuale, con volgarissimi rombi, stridori e squilli. Chi ha fatto una rivoluzione è virtuosamente contagiato, non può dimenticare ciò che ha vissuto, l’intolleranza alla rassegnazione, il «terra terra», la scoperta di un nuovo continente. E, forse, è capace di una risposta biblica al dispotismo: mai più!
Ecco: per evitare di doverci battere, militarmente, contro i ricostruttori del califfato dobbiamo sperare, un’altra volta, senza merito, nel coraggio, nel gusto di cenere di una gioventù sciupata dall’oppressione, ma in piccola parte, e ancora per poco, insensibile alle strimpellature Islamiste, che scrive in Tunisia, oggi, domani forse in altri luoghi, miracolose Costituzioni: di carta.
martedì 21 gennaio 2014
15 cose da fare per avere successo
lunedì 20 gennaio 2014
L’imperativo della reinvenzione
Così si è espresso John Wooden, il leggendario allenatore di basket dell’UCLA, che ha vinto 10 titoli in 12 stagioni del campionato nazionale universitario NCAA, grazie alla sua abilità nell’adattarsi costantemente: a nuovi giocatori, nuovi avversari e nuovi stili di gioco.
Anche nel mondo degli affari i leader devono continuamente affrontare cambiamenti complessi: una popolazione che invecchia, la crescita della classe media nei Paesi emergenti, i costanti progressi delle tecnologie. In un contesto che cambia, una buona performance dell’impresa non basta a garantire che si perpetui. Per mantenere l’organizzazione su alti livelli, i CEO e gli altri leader devono curare strettamente l’imperativo della reinvenzione.
È quanto è accaduto ad aziende leader nel lungo periodo come IBM, Xerox e Samsung. Nell’ultimo secolo, IBM è passata dal fabbricare macchine da calcolo a inventare il PC al guadagnare la maggioranza dei ricavi con i servizi. Quando Xerox iniziò, era talmente identificata con le fotocopiatrici che il suo nome divenne non solo sinonimo della sua categoria di prodotto, ma un verbo comunemente usato (in inglese “to xerox” è spesso usato per “fotocopiare”, NdR). Poi l’azienda è andata oltre inventando l’Ethernet e oggi compete in aree come i sistemi di emissione dei biglietti per il trasporto di massa e le soluzioni di e-discovery. Solo 10 anni fa Samsung era nota solo per l’elettronica di consumo; oggi si estende su tecnologie avanzate, costruzioni, petrolchimica, moda, medicina, finanza e alberghi.
In Abbott questo tipo di reinvenzione ha rappresentato il nostro obiettivo. Quindici anni fa ci siamo resi conto che occorreva cambiare e, da allora, la capacità di adattamento è stata al cuore della nostra strategia. Come risultato, i nostri ricavi sono più che triplicati e abbiamo generato una crescita dei profitti e un rendimento per gli azionisti più elevati del settore.
Cosa abbiamo imparato dalla nostra esperienza? Soprattutto quanto sia importante travalicare il nostro orgoglio per “ciò in cui siamo davvero bravi” – che può rendere le persone cieche rispetto ai cambiamenti per le cose di cui il mondo ha bisogno e per quelle che i clienti apprezzano maggiormente; e che possono trasformare una passata capacità di differenziazione in una palla al piede del tipo”il modo in cui l’abbiamo sempre fatto”.
Due elementi correlati della reinvenzione sono ugualmente difficili e dipendenti dal nostro giudizio. Le persone che scrutano l’orizzonte per intravvedere segnali di cambiamento devono riuscire a separare le tendenze importanti e durevoli da quelle di breve respiro e alla fine irrilevanti. (Scambiare dei cambiamenti fondamentali per turbolenze effimere può essere fatale). E chi prende le decisioni deve essere disposto ad accettare danni temporanei alla performance per preparare il terreno a vantaggi di lungo termine. Le pressioni dei mercati azionari perché si producano risultati nel trimestre a venire è un dato di fatto. Il vostro lavoro, come leader d’impresa, è contrastarle con un punto di vista che mostri dove andrà il settore nei 5-10 anni successivi. Se la vostra strategia colpisce gli osservatori in quanto del tutto inattesa è ottima cosa. Non conoscono il vostro business bene quanto voi.
Sono considerazioni di questo genere a continuare a guidare le nostre reinvenzioni. Di recente abbiamo compiuto la mossa più radicale nei nostri 125 anni di storia: abbiamo rilanciato il nostro business proprietario nella farmaceutica – il nostro più importante singolo business – presso la nostra azienda biofarmaceutica AbbVie. E il nostro processo di reinvenzione prosegue. Siamo un’azienda più globalizzata e orientata al cliente di quanto non siamo mai stati e in quanto tale riconosciamo che il nostro modo di andare sul mercato deve distaccarsi dal nostro precedente modello orientato al farmaco. Non possiamo più basarci su programmi standardizzati globali e dobbiamo invece adattare il nostro approccio Paese per Paese. Analogamente, è ormai tempo di lasciare un orientamento al brand di prodotto e di investire in un brand aziendale più forte e significativo.
Sono cambiamenti che comportano rischi non banali. Ma dopo 15 anni di reinvenzione continua, Abbott è convinta di poterli affrontare. John Wooden ha qualcosa da dire anche su questo: «Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale. Ciò che conta è avere coraggio».
Di Miles D. White è presidente e CEO di Abbott Laboratories dal 1999 su Harward Business Review
Il piacere del barbiere
Francesco Guccini - Domenica Il Sole 24 Ore 11.01.14