domenica 25 agosto 2013

Siate ottimisti, siamo oltre la crisi verso l'Era della Nuova Normalità. Senza dimenticare Darwin.

Finalmente cominciano a parlarne anche i media. Stiamo entrando nell'Era "New Normal" dopo la grande crisi del mondo occidentale apertasi nel 2008 con il disastro finanziario originato dal crac Lehman. Questa è la definizione che hanno iniziato ad usare economisti e politologi da qualche tempo. L'emergenza sta avviandosi alla fine, ci si avvia alla normalità.

Ma la Nuova Normalità non sarà un ritorno al periodo pre-crisi, bensì stiamo andando verso un equilibrio diverso dal passato. Un futuro in cui non sarà subito facile vivere. Nell'Eurozona la recessione è finita anche se non in tutti i Paesi, quelli del Sud in particolare. In Italia il PIL (Prodotto Interno Lordo) è calato per l'ottavo trimestre consecutivo, ma dello 0,2% a un ritmo inferiore che in precedenza. Ma l'ottimismo è generato da tre circostanze doverse.

La crisi ha cambiato pelle alla globalizzazione economica così come è stata sempre interpretata. Fino ad ora il canovaccio era rappresentato dalle aziende occidentali che sono andate in Cina, India e Paesi a basso costo di manodopera, per aprire fabbriche chiudendole in Europa e USA. Di fatto è avvenuto un'esportazione di posti di lavoro. Le cose stanno cambiando perchè sta cambiando il modello di crescita che non è più fondato su investimenti ed esportazioni, ma sui consumi interni. 

L'Ocse infatti calcola che nel 2030 ci saranno nel mondo cinque miliardi di cittadini appartenenti a classi medie con buona capacità di spesa. Tre miliardi più di quelli di oggi. Le imprese che sapranno sfruttare questa grande opportunità avranno un new deal assicurato. Il nostro Paese è preparato a cogliere questa occasione ? La risposta classica, e ovvia, è un coro di no. Ma nonostante le molteplici e note difficoltà di fare impresa in Italia nel 2012 le esportazioni italiane sono salite del 4,2% a 474 miliardi, e le previsioni per il 2013 sono di un'ulteriore crescita di un 3,2% quest'anno e di un ulteriore 5,3% nel 2014 per un totale di 514 miliardi. Se pensiamo che queste imprese riescono a competere non grazie allo Stato, ma nonostante lo Stato, se quest'ultimo riuscirà in qualche riforma seria i risultati potrebbero essere eclatanti. Mi sembra che ci siano i segnali di una consapevolezza anche della politica in tal senso.

Tra l'altro alcuni analisti mettono in rilievo come questa consapevolezza può essere oggi un vantaggio competitivo nei confronti di altri Paesi, come la Francia, che sono ancora in fase di negazione dei loro problemi strutturali. C'è l'opportunità per la creazione di nuove imprese e per evitare che entrino in crisi quelle che ancora tengono il mercato. 

Nulla però sarà facile nell'Era della Nuova Normalità. Gli Stati Uniti hanno ripreso a correre e i Paesi emergenti continuano a crescere, l'Europa sta uscendo lentamente dalla situazione negativa. La disoccupazione diminuirà lentamente e non sarà possibile riassorbire tutte le risorse. Gli stessi consumi non saranno più quelli di un tempo.

Non sarà facile, ma si può fare. Diventa indispensabile sapersi adattare. Parafrasando ciò che disse Darwin non saranno le società più forti che sopravviveranno, nè le più intelligenti, ma quelle che si adatteranno più velocemente al cambiamento.




sabato 24 agosto 2013

Godetevi il caffè

Un gruppo di ex studenti universitari andarono a trovare un loro vecchio Professore.
Presto si ritrovarono a parlare della vita e dello stress.
Il Professore volle offrir loro del caffè e andò in cucina, ritornando subito con molte tazze tutte diverse: alcune di porcellana, altre di vetro, altre di cristallo, alcune di aspetto molto semplice, altre che sembravano molto costose.

Quando ciascuno ebbe una tazza di caffè in mano, il Professore disse:
"Come avrete notato, tutte le tazze che sembravano belle e costose sono state prese per prime, lasciando per ultime le tazze semplici. E' normale che ciascuno di voi cerchi di ottenere le cose migliori. Ma questa è anche la fonte del vostro stress.

Quello che volevate davvero era il caffè, non le tazze: ma tutti voi vi siete affrettati a prendere le tazze migliori e ciascuno guardava le tazze prese dagli altri!
La vita è il caffè; il lavoro, lo status sociale, è la tazza.
Sono solo oggetti che contengono il caffè".

Non lasciate che le vostre "tazze" guidino le vostre scelte. Godetevi il caffè! 

giovedì 22 agosto 2013

L'EPISODIO DE LA MADELEINE DI MARCEL PROUST

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita...non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale.

 Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità...retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più...ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi...

All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio...."

Da "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust  


martedì 20 agosto 2013

Il falò delle Leadership

Si continua a citare la rapidità con la quale il Conclave dei cardinali cattolici ha eletto papa Francesco il 13 marzo scorso come un esempio invidiabile e inimitabile. È stata una sorprendente prova da parte di una Chiesa additata come lenta, in profonda crisi di identità e reduce da torbidi conflitti vaticani: una situazione così grave da avere indotto Benedetto XVI alle dimissioni, primo caso dopo oltre sei secoli. L’ammirazione è giustificata. Ma il rimpianto per l’incapacità della classe politica italiana di fare altrettanto forse non basta; né è sufficiente constatare che in Occidente molti personaggi di rilievo che guidano le loro nazioni hanno un’immagine appannata, quando non di impotenza.

D’altronde, con una crisi economica che dura da oltre un quinquennio (e in Italia, di fatto, da molto più tempo), sarebbe strano se le classi dirigenti non fossero logorate: soprattutto perché non offrono visioni nuove. L’insuccesso percepito ormai dall’opinione pubblica è associato ad alcune figure di vertice. Ma sta diventando sempre più chiaro che il problema non sono solo le persone, quanto il sistema di valori e il modello che esprimono. Senza una modifica del terreno di gioco, delle regole, dei punti di riferimento, il falò delle leadership presenti e future sarà inevitabile: o saranno distrutte o si autodistruggeranno.

Non solo: non esiste più un’«accademia» che forgi le leadership politiche. Da circa vent’anni, con rare eccezioni, l’Italia le ha prese in prestito da altri mondi di competenza, si trattasse di industria, università o magistratura. L’atteggiamento di rifiuto verso un malinteso professionismo della politica ha creato e radicato una nomenklatura di dilettanti, percepiti alla fine come professionisti solo in senso deteriore. Il risultato è sconfortante. La lezione è quella del fallimento di una democrazia e di un potere verticali e personalizzati. L’idea che una figura solitaria potesse da sola, o con pochi docili esecutori, risolvere i problemi si è rivelata un’illusione amara. Invece di ricostruire una classe dirigente, ne ha creato una caricatura, ricorrendo di volta in volta a «invenzioni» e scorciatoie che, alla fine, ne hanno impoverito il livello, e ritardato qualunque ipotesi di ripresa. Senza un progetto condiviso da una maggioranza che si fa fatica a identificare soltanto con quella elettorale o di uno schieramento, qualunque «capo», declinato al maschile o al femminile, è destinato a scontrarsi con resistenze e abitudini radicate e alla fine vincenti. Sembra difficile ripartire senza prendere atto che una stagione è finita, e che perpetuarla significa arretrare; ed eludendo una selezione dei futuri leader pensata in maniera radicalmente diversa dal passato.

Da questo punto di vista, il caso di Jorge Mario Bergoglio è molto istruttivo. Il Papa argentino è figlio di una Chiesa cattolica che si è sentita pericolosamente vicina al collasso. E rappresenta la risposta radicale, sebbene non ancora la soluzione, a questa deriva. È dunque il prodotto di una sorta di trauma salutare, di successione-choc preparata e ottenuta da quanti hanno capito che era necessario un rivolgimento totale, perché i paradigmi del passato stavano affossando il governo vaticano. Senza questa acuta consapevolezza di dover rompere col passato, non si registrerebbero l’interesse e le attese provocati dal Pontefice.

La sua elezione è stata possibile grazie a una scuola di leadership a rete, globale, non improvvisata ma forgiata nelle realtà e nell’esperienza degli episcopati locali, che hanno permesso di «pescare» il nuovo capo della Chiesa in un lembo periferico e remoto del cattolicesimo. L’ansia involontaria con la quale gli elementi più retrivi della Curia tendono a minimizzare la portata della novità fa riflettere. Conferma che la cesura è così vistosa da indurli a suggerire e quasi invocare minacciosamente una frenata, per evitare che crolli tutto. Ma la leadership di Francesco funziona e fa breccia solo se mette in discussione il sistema precedente e prosciuga le sacche dell’immobilismo; se accoglie il segnale disperato dato da Benedetto XVI con la propria rinuncia al papato.

Insomma, Francesco si consolida come leader se dimostra di avere dietro una classe dirigente ecclesiastica che ne condivide gli obiettivi e perfino i metodi. Per questo si aspetta di capire come riplasmerà il governo del Vaticano dopo avere rivoluzionato in quattro mesi l’immagine del pontificato. Senza quel passaggio, il logoramento minaccia di indebolire anche quanto ha fatto finora e, appunto, la sua stessa leadership. Ma pensare di «imitare» il Papa nella politica italiana e europea rischia di essere illusorio e fuorviante. Il carisma e i margini di comando che l’uomo all’apice delle gerarchie vaticane possiede non sono paragonabili a quelli di un leader politico. E viene da dire: per fortuna.

È indicativo che il cancelliere Angela Merkel sia avviata alla vittoria alle elezioni di autunno in Germania, eppure non escluda di dar vita a un governo di unità nazionale. Evidentemente, in una fase così ostica anche le percentuali più trionfali vanno compensate con un consenso allargato. Le difficoltà che incontra Barack Obama negli Stati Uniti nascono dal tentativo frustrato di emanciparsi da una partisanship, cioè da un’appartenenza di partito, che lo limita. Il secondo mandato presidenziale sembra accentuarla al di là della sua volontà, incattivendo la minoranza repubblicana e togliendo smalto a una leadership nata con l’ambizione di unificare il Paese; e che dopo quasi cinque anni deve constatare di non esserci riuscita.

Nella stessa Europa, dove pure le quotazioni di Obama rimangono altissime in termini di popolarità — l’80 per cento, secondo un rapporto del 2012 del Pew Global Research —, la questione delle intercettazioni a tappeto ha creato tensioni con i governi alleati, solo parzialmente riassorbite. E proprio mentre si tendono i rapporti fra la Casa Bianca e il Cremlino per l’asilo politico concesso da Vladimir Putin all’ex agente della Cia, Edward Snowden, nelle nazioni centro orientali europee, che prima gravitavano intorno alla Russia e ora si sentono Occidente, si nota una punta di delusione per il «potenziale buttato» da Obama. L’accusa è di avere rinunciato alla leadership politico-strategica su questi Paesi: dalla Polonia alla Repubblica Ceca, all’Ucraina e agli Stati baltici.

Sull’ultimo numero della rivista polacca in lingua inglese «New Eastern Europe», uno studioso della Georgetown University di Washington, Filip Mazurczak, fa notare che George W. Bush visitò per sette volte l’Europa centro orientale durante i primi quattro anni di mandato; Obama lo ha fatto solo tre volte. E che nel suo recente viaggio europeo, il segretario di Stato Usa, John Kerry, si è limitato a toccare alcune capitali occidentali. Ma l’aspetto che investe più direttamente anche l’Italia è l’appannamento delle istituzioni europee. Si tratta di una tendenza accentuata dalla rinascita di nazionalismi in Stati che in realtà sono per primi in crisi. L’Ue fa registrare una doppia carenza di guida: a livello nazionale e sovranazionale. Basta scorrere i guai che colpiscono i maggiori Paesi, dalla Spagna alla Francia, all’Italia, alla Gran Bretagna, che pure cerca di scaricarli chiamando in causa l’invadenza burocratica di Bruxelles fino a minacciare un referendum entro il 2017.

L’immagine dei leader è quella di esponenti politici costretti a inseguire e tacitare un’opinione pubblica nervosa per un livello di vita in declino; e soprattutto per l’assenza di prospettive di recupero a breve termine. L’affanno delle istituzioni politiche dell’Unione la riflette. Ed è diventata così vistosa da far dire che il «vero» leader dell’Ue non si trova a Bruxelles o a Strasburgo, ma a Francoforte. A torto o a ragione, viene citato il numero uno della Banca centrale europea, Mario Draghi, che ha la sua sede appunto nella città tedesca di Francoforte. In parte, la percezione di uno spostamento del baricentro del potere appare inevitabile.

Quelle che fino alla guerra fredda e negli anni subito successivi erano priorità strategiche e geopolitiche, oggi sono diventate economiche e finanziarie. In passato il cosiddetto «vincolo esterno», che condizionava molte scelte anche di politica interna, era la Nato, oltre all’Ue. Adesso il riferimento obbligato non è la sicurezza nazionale in termini militari, ma una sorta di «sicurezza finanziaria internazionale»: fra l’altro, l’esigenza di ridurre la spesa pubblica colpisce in modo tangibile quella militare. A guardar bene, anche nella scelta di papa Francesco di aggredire subito i misteri e le inefficienze torbide dello Ior, la cosiddetta «banca vaticana», si può avvertire un’eco simbolica di questo cambio di priorità strategiche. Ma la natura ibrida della Bce finisce per non sancire un nuovo equilibrio. Ufficializza, invece, i limiti, le contraddizioni e l’incompiutezza di quanto è stato costruito finora a livello di istituzioni.

L’Italia rappresenta, in proposito, un ottimo esempio di occasioni mancate: è la miniatura esagerata, e uno dei capri espiatori a intermittenza, delle disfunzioni europee. Lo sfarinamento della maggioranza berlusconiana del 2008, che pure era schiacciante in Parlamento, è avvenuta in meno di tre anni e per contraddizioni tutte interne alla coalizione. E quella che l’ha sostituita, prima con Mario Monti e poi con Enrico Letta, è quanto di più «innaturale» si potesse immaginare. Eppure, le cosiddette «larghe intese» rappresentano la maggioranza obbligata e insostituibile in una fase di transizione nella quale nessuno ha i voti per governare.

Più che di leader, si sente il bisogno di cambiare schema, mostrare unità di intenti, cancellare l’immagine di precarietà patologica che accompagna l’Italia. L’eterodossia delle «larghe intese» è, in realtà, la premessa per affermare un nuovo sistema e leadership inclusive, che non diventino alibi per l’immobilismo. Il dubbio è che la nomenklatura politica di oggi sia inadatta a questo compito. È cresciuta in una cultura della parzialità e della rissa che esalta «ragioni» frammentate; inoltre rispecchia una società aggrappata alle sue posizioni di rendita. I consensi sono stati costruiti intorno a blocchi di interessi che fino a pochi anni fa, forse, erano ancora un elemento di forza; oggi, invece, esprimono pezzi di società minoritari, perfino residuali.

Bisogna chiedersi perché nessun esponente della cosiddetta Seconda Repubblica sia stato un candidato vincente alla Presidenza della Repubblica. A sinistra, i nomi proposti non hanno ricevuto neppure tutti i voti dei propri parlamentari. Evidentemente, c’è uno steccato invisibile che disconosce leadership istituzionali condivise. È stato necessario prolungare il settennato di Giorgio Napolitano, che si presenta anche come il vero garante del governo Letta. E la rapidità con la quale si gonfia il fenomeno dell’astensionismo suona come bocciatura implicita dell’offerta politica. Il dramma è che non si vede chi possa ricomporre un quadro sociale, prima che partitico, a rischio di lacerazione.

Anche perché l’impopolarità è in agguato, e nessuno sembra proporre una visione che vada oltre le prossime elezioni. Anzi, c’è chi si illude di sopravvivere evocando le urne. È una miopia che si sta pagando a caro prezzo. L’ipoteca dei vecchi equilibri fa somigliare in modo preoccupante l’Italia al Vaticano: non a quello di Francesco, ma al precedente, diviso e acefalo, che per sperare di salvarsi ha dovuto sbattere contro la realtà inedita delle dimissioni di Joseph Ratzinger. La differenza è che un epilogo del genere, in Italia, dà i brividi. Nonostante ambizioni e velleità, la fabbrica delle leadership tende a produrre al massimo «esperimenti» o cloni del passato.

Massimo Franco - La Lettura - Corriere della Sera


domenica 11 agosto 2013

Change is a costant. Never surrender !

Ho preso consapevolezza di avere la capacità di unire passione, creatività e professionalità tardi, ma ora mi sento bene. In questi anni ho sviluppato una sorta di energia interiore che mi sprona a imparare continuamente, ad accettare nuove sfide e il cambiamento come normalità per essere sempre competitivo per il mercato. 
Creatività e passione dunque, ma anche entusiasmo, felicità, serietà, etica e grande senso di responsabilità verso gli altri e me stesso. Senza mollare mai ! Never surrender !

Quando prendo un impegno è perchè ci credo e lotto per arrivare a ciò che mi sono posto. Mi piace lavorare, mi piace quello che faccio, mi piace costruire giorno per giorno e vedere come si compongono i risultati, come si arriva agli obiettivi. In realtà non riesco a concepire la vita senza il lavoro in questo momento. Non riuscirei a rinunciarvi. Ho ancora molte mete che intendo raggiungere. 
Non solo lavoro però, amo avere molteplici interessi e conoscenze per essere informato il più possibile. Questo mi permette di interagire a qualsiasi livello e relazionarmi con chiunque. Entro in contatto sempre volentieri con le persone, sono empatico per piacere, mi piace conoscerle, confrontarmi, ascoltarle. Sono sempre fonte di riflessione e a volte di ispirazione.
Amo anche i momenti di silenzio, di solitudine e interiorità. Sono momenti fondamentali per fare chiarezza, per dare il giusto peso alle situazioni, per ritrovare a volte un equilibrio. E' un toccasana anche camminare da solo o con la mia Brenda soprattutto al mattino all'alba.

Ho ancora aspettative nella vita e dei sogni. Ho rubato una frase che ripeto sempre: i sogni sono degli obiettivi con una scadenza. I sogni sono importanti perché trasmettono energia anche alle persone che ti circondano.  I sogni ti permettono di credere in ciò che fai e le persone che vengono a contatto con te penso lo percepiscano e sono soddisfatte di lavorare insieme.
Ma nella vita mi sono dato anche delle regole che mi permettono di essere coerente con me stesso e il mio modo di sentire. Sono pronto a combattere sempre fino in fondo, ma sempre con un certo stile e non venendo mai meno ai valori in cui credo e al rispetto per gli altri. Se mi rendo conto che dall'altra parte non ci sono gli stessi codici, la competizione non mi interessa più. 
Ho sempre fatto molto sport a livello agonistico. La vita la interpreto come una disciplina sportiva e mi ha sempre guidato trovandoci io una speculare assonanza con essa.

Sono da sempre uno che costruisce ponti, utilizzo la diplomazia e l'empatia per questo. Non ho mai interrotto rapporti con acredine con nessuno. 
Lascio sempre una porta aperta perché il futuro mi appartiene, ma non mi è dato conoscerlo.

lunedì 5 agosto 2013

Così America ed Europa dicono addio alle fabbriche

La produzione si sposta in Cina. Ma in Occidente restano le attività ad alto valore aggiunto. Per sopravvivere dobbiamo puntare sulla tecnologia.

La cartina economica del mondo sta cambiando rapidamente e radicalmente. Nuovi centri di propulsione economica stanno soppiantando i vecchi. Città che fino a qualche decennio fa non erano che minuscoli punti a stento percepibili sulle cartine si sono trasformate in floride megalopoli con migliaia di nuove aziende e milioni di nuovi posti di lavoro.  

 

In nessun luogo al mondo tale fenomeno è più evidente che nella cinese Shenzhen. Se non l’avete mai sentita nominare, prendetene nota. È uno dei centri urbani con il più rapido ritmo di crescita a livello mondiale.  

 

In trent’anni si è trasformata da piccolo villaggio di pescatori a immane metropoli di oltre 15 milioni di persone. Shenzhen ha visto crescere la propria popolazione di 300 volte; e in questo processo è diventata una delle capitali dell’industria manifatturiera del pianeta.  

 

Il suo destino fu deciso nel 1979, quando le autorità cinesi si risolsero a farne la prima «Zona Economica Speciale» del Paese. In breve tempo le aree di questo tipo cominciarono a calamitare investimenti esteri. Il flusso degli investimenti fece sorgere migliaia di nuove fabbriche che producono una parte sempre crescente dei beni di consumo dei paesi ricchi. Una porzione consistente dell’industria manifatturiera americana si è trasferita in quelle fabbriche. Mentre Detroit e Cleveland perdevano posti di lavoro e si avviavano al declino, Shenzhen prendeva quota. Oggi è disseminata di grandi stabilimenti produttivi. È al primo posto tra i centri della Cina per volume di esportazioni e vanta uno dei porti più trafficati del mondo, pieno di gru enormi, camion imponenti e container di tutti i colori, che vengono trasferiti su navi da carico pronte a salpare per la costa occidentale degli Stati Uniti o per l’Europa. Ogni anno lasciano il porto venticinque milioni di container: quasi uno al secondo. In poche settimane la merce arriva a Los Angeles, Rotterdam o Genova e viene immediatamente caricata su un camion diretto verso un centro di distribuzione Walmart, un magazzino Ikea o un Apple store. 

 

Shenzhen è il luogo dove vengono assemblati l’iPhone e l’Ipad, esempi iconici della globalizzazione. La Apple è nota per dedicare grande attenzione e risorse alla progettazione e al design. Nel caso dell’iPhone e dell’iPad, la Apple ha dedicato la stessa attenzione alla progettazione e all’ottimizzazione della catena di produzione globale. Capire come e dove si svolge la produzione di celebri smartphone e tablet è importante per capire come la nuova economia globale stia ridisegnando la localizzazione dei posti di lavoro e quali siano le sfide del futuro per i lavoratori dei Paesi occidentali.  

 

L’iPhone e iPad sono stati concepiti e progettati dagli ingegneri della Apple a Cupertino, in California. Questa è l’unica fase del processo di produzione realizzata negli Stati Uniti. Vi rientrano il design del prodotto, lo sviluppo di software e hardware, la gestione commerciale, il marketing e altre funzioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio i costi del lavoro non rappresentano il fattore principale. Gli elementi chiave sono piuttosto la creatività e l’inventiva degli ingeneri e dei designer. I componenti elettronici dell’iPhone – sofisticati, ma non innovativi quanto il design – sono fabbricati in gran parte a Singapore e Taiwan. L’ultima fase della produzione è quella a più elevata intensità di manodopera, con gli operai che assemblano a mano le centinaia di componenti che costituiscono il telefono e lo predispongono per la distribuzione. Questo stadio, in cui il fattore essenziale è il costo del lavoro, si svolge nella periferia di Shenzhen. Lo stabilimento è uno dei più grandi al mondo e le sue dimensioni sono già in sé qualcosa di straordinario: con 400.000 dipendenti, supermercati, dormitori, campi da pallavolo e persino sale cinematografiche, più che una fabbrica sembra una città. Se comprate un iPhone online, vi viene spedito direttamente da Shenzhen. 

 

E quando raggiunge il consumatore americano il prodotto finale è stato toccato da un solo lavoratore americano: l’addetto alle consegne dell’Ups. È naturale, quindi, domandarsi che cosa resterà ai lavoratori americani (e per estensione, europei) nei prossimi decenni. L’America e l’Europa stanno entrando in una fase di irreversibile declino? La risposta, almeno per l’America, è ottimistica. Per l’Europa, un po’ meno. Nel XX secolo, la ricchezza di un Paese era in gran parte determinata dalla forza del suo settore manifatturiero. Oggi questo sta cambiano. In tutti i Paesi occidentali, l’occupazione nell’industria manifatturiera sta calando ormai da trent’anni. Come si vede dalla figura, questo trend accomuna un po’ tutte le società avanzate, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Gran Bretagna all’Italia e persino la Germania. Oggi l’impiego nell’industria rappresenta più l’eccezione che la regola: in America, meno di un lavoratore su dieci lavora in fabbrica. E’ molto più probabile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica. Dal 1985 negli Stati Uniti l’industria manifatturiera ha perso in media 372.000 posti di lavoro all’anno.  

 

Questo declino non è solo l’effetto di fenomeni a breve termine, come le recessioni: l’industria perde posti di lavoro anche durante le fasi di espansione. Le ragioni sono due forze economiche profonde: progresso tecnologico e globalizzazione. Grazie agli investimenti in sofisticati macchinari di nuova concezione, le fabbriche occidentali sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità di beni impiegano sempre meno manodopera. Oggi, in media, l’operaio americano fabbrica ogni anno beni per 180.000 dollari, oltre il triplo che nel 1978. Per l’economia in generale l’accresciuta produttività è un’ottima cosa, ma per le tute blu ha conseguenze negative. Pensiamo, per esempio, alla General Motors. Negli Anni 50, gli anni d’oro di Detroit, ogni operaio dell’azienda produceva una media di sette auto l’anno. Oggi ne produce 29 all’anno. Il calcolo dei posti di lavoro persi è molto semplice: per fabbricare ogni auto oggi la General Motors impiega un numero di operai quattro volte inferiore a quello del 1950. Gli operai dell’industria producono più che in passato, e di conseguenza guadagnano stipendi più alti, ma sono numericamente ridotti. 

 

La seconda forza che sta decimando l’occupazione manifatturiera dei paesi occidentali è la globalizzazione. Le produzioni più tradizionali sono state le prime a essere delocalizzate. L’industria tessile è l’esempio più ovvio. Provate a guardare dove sono fabbricati gli abiti che indossate. Se si tratta di capi venduti da una ditta occidentale, probabilmente sono stati prodotti da qualche terzista ubicato in Paesi come il Vietnam o il Bangladesh. I brand americani e europei godono di ottima salute, ma solo una manciata di posti di lavoro – nel design, nel marketing e nella distribuzione – sono rimasti negli Stati Uniti e in Europa.  

 

Altre parti della manifattura tradizionale hanno esattamente le stesse dinamiche. Persino la produzione di componenti elettroniche, computer e semiconduttori non è immune da questi trend. Oggi, in America, lavorano nelle fabbriche di computer meno addetti che nel 1975, quando il personal computer non era ancora stato introdotto.  

 

La ragione è che ormai fabbricare computer non è più particolarmente innovativo. L’hardware è diventata un’industria matura, quasi quanto il tessile. L’assemblaggio e la fabbricazione di molti componenti è stata trasferita in Cina o Taiwan. Il primo lotto di duecento computer Apple I fu assemblato nel 1976 da Steve Jobs e Steve Wozniak nel leggendario garage di Los Altos, nel cuore di Silicon Valley. Negli Anni 80 la Apple fabbricava la maggior parte dei suoi Mac in uno stabilimento situato poco lontano, a Fremont. Ma nel 1992 l’impianto fu chiuso e la produzione spostata, prima in aree più economiche della California orientale e del Colorado, poi in Irlanda e a Singapore. Oggi a Shenzen. È lo schema seguito da tutte le altre imprese americane. Tutti conosciamo Apple, Ibm, Dell, Sony, Hp e Toshiba. Quasi nessuno ha mai sentito parlare di Quanta, Compal, Inventec, Wistron, Asustek. Eppure il 90% dei computer portatili e dei notebook venduti con quei marchi famosi è in realtà fabbricato negli impianti di una di queste cinque aziende, a Shenzhen. 

Anche se tutte le società occidentali sono accomunate dalla contrazione strutturale del settore manifatturiero, non tutte hanno saputo reagire in maniera soddisfacente a questo declino. In questo quadro, l’economia Americana è posizionata molto meglio di molto altri paesi occidentali.  

 

A differenza della maggior parte dei Paesi Europei, e dell’Italia in particolare, negli ultimi cinquant’anni, gli Stati Uniti si sono reinventati, passando da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza. L’occupazione nel settore dell’innovazione è cresciuta a ritmi travolgenti. L’ingrediente chiave di questo settore è il capitale umano, e dunque istruzione, creatività e inventiva. Il fattore produttivo essenziale sono insomma le persone: sono loro a sfornare nuove idee. Le due forze che hanno decimato le industrie manifatturiere tradizionali – la globalizzazione e il progresso tecnologico – stanno ora determinando l’espansione dei posti di lavoro nel campo dell’innovazione.  

 

La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno trasformato molti beni materiali in prodotti a buon mercato, ma hanno anche innalzato il ritorno economico del capitale umano e dell’innovazione. Per la prima volta nella storia, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività.  

 

Non sorprende perciò che la parte più importante di valore aggiunto dei nuovi prodotti sia appannaggio degli innovatori. L’iPhone consta di 634 componenti. Anche se vi lavorano in centinaia di migliaia, il valore aggiunto generato a Shenzhen è molto basso, perché l’assemblaggio potrebbe essere effettuato in qualsiasi parte del mondo. La forte competizione globale limita anche il valore aggiunto dei componenti, comprese le parti elettroniche più sofisticate, come la flash memory o il retina display. La maggior parte del valore aggiunto dell’iPhone viene dall’originalità dell’idea, dalla formidabile progettazione ingegneristica e dall’elegante design. Quindi non deve stupire che, pur non producendo nessuna parte materiale del telefono, la Apple guadagni 321 dollari per ogni iPhone venduto, il 65% del totale, ben più che qualsiasi fornitore di componenti coinvolto nella fabbricazione fisica dell’apparecchio. Ciò è di notevole importanza non solo per i margini di profitto della Apple, ma soprattutto perché si traduce nella creazione di buoni posti di lavoro in America. 

Oggi è questa la parte dell’economia che crea valore aggiunto. Una parte dei 321 dollari incassati dalla Apple finisce nelle tasche degli azionisti della società, ma una parte va ai dipendenti di Cupertino. E l’alta redditività incentiva l’azienda a proseguire sulla via dell’innovazione e a reclutare nuovo personale. Studi economici recenti mostrano che più un’impresa è innovativa, più alti sono i salari offerti ai dipendenti. 

 

Il settore dell’innovazione comprende l’advanced manufacturing, o industria avanzata (come quella che progetta gli iPhone o gli iPad), software e servizi Internet, le biotecnologia, l’hi-tech del settore medico, la robotica, la scienza dei nuovi materiali e le nanotecnologie. Ma l’ambito dell’innovazione non è circoscritto all’alta tecnologia. Vi rientra qualsiasi occupazione capace di creare nuove idee e nuovi prodotti. Ci sono innovatori nel settore dell’intrattenimento, in quello dell’ambiente e persino nella finanza e nel marketing. L’elemento che li accomuna è la capacità di creare prodotti nuovi che non possono essere facilmente replicati. Tendiamo a concepire l’innovazione in termini di beni materiali, ma può anche trattarsi di servizi, per esempio di nuovi modi per raggiungere i consumatori o per impiegare il nostro tempo libero.  

 

Nei prossimi decenni la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative. Il numero e la forza degli hub dell’innovazione di un Paese ne decreteranno la fortuna o il declino. I luoghi in cui si fabbricano fisicamente le cose seguiteranno a perdere importanza, mentre le città popolate da lavoratori interconnessi e creativi diventeranno le nuove fabbriche del futuro. Nel prossimo articolo vedremo come l’Italia si posiziona in questo quadro globale sempre più competitivo. 

 

Enrico Moretti, docente di Economia alla University of California di Berkeley, è autore di «La nuova geografia del lavoro», per la rivista Forbes «il libro di economia più importante dell’anno»