" Talvolta le persone rimangono sole perchè sono troppo concentrate su se stesse e troppo esigenti nei confronti degli altri. "
Dalai Lama
mercoledì 28 gennaio 2009
martedì 27 gennaio 2009
Vivere l'ottimismo
Se vogliamo vivere l'ottimismo, mantenerlo, curarlo continuamente nonostante tutti i problemi e le preoccupazioni che ci circondano, soprattutto in questi momenti, occorre continuamente rinnovarsi, aprirsi al nuovo e rivitalizzarsi. Si può cominciare, ad esempio, alzandosi abbastanza presto per riempire una mezz'ora, un'ora con qualche buona lettura ispiratrice, ascoltando musica motivante e riflettere sulle cose che ci accadono, conservando nella mente ciò che emerge. Vedere sorgere il mattino dona ottimismo. Occorre incontrare gente diversa, magari scegliere quelle più positive, modificare le proprie abitudine, cambiare le cose, frequentare bar e ristoranti differenti, cambiare letture, assumere meno impegni svolgendoli meglio, modificare qualche certezza oramai superata, rimanere alzati fino a molto tardi qualche volta e così via.
Insomma ritengo che sia necessario fare qualsiasi cosa che contribuisca a far si che la mente possa diventare un frullatore, in cui tutto venga mescolato molto bene. Normalmente nascono idee e voglia di fare, almeno a me.
domenica 25 gennaio 2009
La tradizione dell'arzdora e il pollo romagnolo
“…..quand che l’arzdora la va ala campagna, la perd piò che la’n guadagna….” (quando la massaia va a lavorare nei campi è un danno per la casa…). Questa frase dialettale descrive perfettamente il ruolo che la reggitrice delle cose di casa aveva nel governo del focolare nella civiltà contadina di un passato tutto sommato non ancora troppo lontano. Ho già descritto, tempo addietro, come l’Arzdora romagnola era il simbolo positivo di un’operosità instancabile e il cardine del tradizionale nucleo famigliare. Era anche, tra le altre cose, la responsabile della gestione del pollaio che in ordine d’importanza dalla gestione familiare era secondo solo alla stalla. Accudiva alla chioccia e i pulcini, per poi portare al mercato quei capi o quel certo numero di uova che eccedevano il consumo familiare, ricavando qualcosa per le piccole spese domestiche. Provvedeva altresì alla castratura dei galletti per produrre i “capponi” che prima di Natale erano rinchiusi in una stia e alimentati con un pastone più ricco per fornire una carne più grassa e saporita da consumarsi per le feste. Sembra che l’origine del cappone risalga al II secolo a.c., quando la Legge Faunia proibiva il consumo di galline ingrassate allo scopo di economizzare le granaglie; gli allevatori romani, allora, osservando che gli eunuchi al servizio degli imperatori erano tutti grassi, pensarono di castrare i galletti raddoppiando in tal modo le loro dimensioni… Il pollaio, in campagna, era generalmente ricavato da una piccola costruzione adiacente alla casa colonica, fatta di canne o di mattoni e un paio di volte l’anno era disinfettato con latte di calce. Comunque il pollo era in grado di volare e spesso preferiva dormire all’aperto, sui rami degli alberi, anche sotto la neve. Chiunque si fosse recato fino agli anni sessanta in un podere romagnolo, avrebbe notato come costante la presenza nell’aia di un buon numero di polli che razzolavano indisturbati e che nervosamente beccavano in continuazione il terreno muovendosi a scatti. Questo era – ed è grazie ad una nuova attenzione degli allevatori - il “pollo romagnolo” di cui tanti poeti locali, da Giovanni Pascoli a Tonino Guerra, hanno cantato le lodi. Il tipo di alimentazione e il perenne movimento producevano evidentemente una carne di primissima qualità, soda e saporita, adatta a qualsiasi preparazione, ma che si sublimava cotta “alla cacciatora” nel tegame di cotto, con pomodori e patate. A questo piatto in particolare erano destinati i polli più giovani mentre la fine naturale per i più vecchi era nella pentola per essere lessati e fornire il brodo. Nel nostro territorio segnalo il ristorante Canè a Dozza, che ha mantenuto una buona tradizione di questo piatto. I galletti giovani, sino a qualche decennio fa, erano anche oggetto di regalia da parte dei mezzadri in occasione della festa di S.Pietro (30 giugno) e proprio la preparazione “alla cacciatora” coronava la festa di fine raccolto o quella della trebbiatura. Con le loro rigaglie si otteneva poi un ottimo ragù per le tagliatelle. Le carni di pollo tradizionalmente si dovrebbero accompagnare, in Romagna, al vino bianco Trebbiano e non al rosso Sangiovese come si potrebbe pensare. Spesso il pollo veniva anche lessato e riempito con un impasto di pane e formaggio grattugiati, uova e mortadella o carne di maiale, producendo lo squisito e saporito “ripieno” che poi veniva servito a parte tagliato a fette. Personalmente ne vado matto. Ogni gallina poteva deporre fino a 150 uova all’anno con il guscio di un colore particolarmente bianco - come ricorderanno le persone più anziane - e avendo maggiore quantità di tuorlo rispetto all’albume, erano l’ideale per fare una sfoglia bella soda per ogni tipo di pasta. Il “pollo romagnolo”, trattandosi di animale a lento accrescimento, si presta con la sua carne soprattutto per preparazioni di media-lunga cottura, quali la gallina e il cappone lessati e i pollastri in umido. Oltre alla citata “cacciatora”, il nostro pollo può essere servito “stufato” (con la triade classica di cipolla, sedano e carota) o lesso, dopo che nel brodo si sono fatte cuocere paste ripiene. Una variante ormai desueta sono le cotolette di pollo. Lo scrittore romagnolo Graziano Pozzetto comunque, nelle sue 600 pagine di “Cucina di Romagna”, riporta oltre dieci ricette di polli, galline e galletti in tutte le “salse”.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 25 gennaio 2009
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 25 gennaio 2009
venerdì 23 gennaio 2009
Il pericolo della routine
La routine è il nostro più grande nemico. Diminuisce e limita pesantemente la capacità creativa e l'energia di cui si dispone. In questa società, in questo mondo che cambia ad una velocità impressionante, mai verificatasi prima, uscire dagli schemi è indispensabile per poter affrontare ogni situazione nel modo più adatto. E' indispensabile mantenere: energia, entusiasmo, perseveranza, metodo, penetrazione psicologica, competenza e, soprattutto, un sano e inossidabile ottimismo.
mercoledì 21 gennaio 2009
L'insegnamento che ci viene dagli errori
Il fatto che nella vita si commettano errori è una realtà della vita, una parte della nostra esistenza a cui nessuno sfugge, anche chi si atteggia ad attento e infallibile. Ciò che conta è come si sbaglia. Gli errori ci insegnano l'umiltà mettendoci di fronte ai nostri limiti, dimostrando che può capitare a tutti, che siamo umani. Ci insegnano a correggere le nostre scelte e le nostre azioni. Gli errori mettono alla prova il nostro carattere, la nostra personalità, il nostro spirito, obbligandoci a scavare in noi stessi per attingere a nuove risorse di fronte ad una scelta che si è rilevata un insuccesso, piccolo o grande che sia. Viene altresì messa alla prova la nostra capacità di perseveranza, ponendoci di fronte alla scelta se rinunciare, ritirarsi o diventare più determinati e insistere in ulteriori tentativi. Gli errori ci insegnano anche che si può sopravvivere alle sconfitte e che non bisogna vergognarsi di avere sbagliato, non si deve temere nel rialzarsi e riprovare. Anche più volte. Splendidi insegnamenti su ciò ci vengono dal passato. Successi, carriere e fortune costruite su errori e fallimenti a ripetizione, ma che non hanno piegato la volontà delle persone che ci hanno riprovato, cambiando, modificando l'approccio. Fino a riuscire. Così come c'è chi non impara dagli errori, ma sono i caratteri più deboli, più esposti, più influenzabili. Gli errori, come le ferite, fortificano, non dobbiamo spaventarci. Di fronte alla paura di sbagliare si può diventare troppo prudenti e non accettare di correre alcun rischio. Il rischio invece è una componente essenziale per il successo di qualsiasi azione o iniziativa che intraprendiamo e una condizione necessaria per imparare a crescere. Bisognerebbe non dimenticarlo mai.
lunedì 19 gennaio 2009
Friggione, vino e piadina nella storia delle osterie
Si può dire che non ci sono più, sono scomparse per lasciare posto alla loro mutazione: i bar, i caffè, i pub, ristoranti. Le osterie erano l’espressione della civiltà mediterranea, di una civiltà contadina che aveva tempi scanditi dalle stagioni e scorreva lenta con esse, sempre e comunque legato alla terra di cui quasi tutti vivevano. Da cui il vino che non era l’unicum delle osterie, sebbene ne fosse il maggior richiamo, perché servito in maggioranza e in diverse qualità in base alla capacità di spesa degli avventori. Erano luoghi consoni al modo di vivere della maggioranza della popolazione – maschile e adulta - di un tempo, in verità gli unici luoghi di ritrovo e di svago, l’altro era rappresentato dalle chiese. Nei giorni di mercato divenivano posti in cui le persone, i mercanti, i sensali, che venivano “da fuori” potevano mangiare piatti sostanziosi tipici della nostra tradizione (piada fritta, stufati, friggioni, pancetta, carne di maiale e altro), oppure sedersi consumando il pasto portato da casa sfruttando l’osteria solo per la mescita. Mangiare in osteria comunque non era “di moda” o un vezzo, ma lo si faceva per necessità, normalmente perché ci si trovava troppo lontano da casa per farvi ritorno o perché si doveva essere sempre disponibili (come succedeva per i facchini). Le osterie offrivano anche alloggio, naturalmente ci si accontentava, nelle stanze capitava di dormire anche con degli sconosciuti, a volte lo stanzone ove si mangiava e beveva, sgombrato degli ultimi clienti, si trasformava in dormitorio collettivo. Oggi paiono situazioni impossibili, ma allora la vita non concedeva a tanti cose che a noi paiono scontate. Naturalmente non erano luoghi per educande, il linguaggio non era certo castigato, la bestemmia pronta, ma con basso numero di risse, prontamente sedate, perché ci si conosceva tutti. In questi ritrovi nascevano anche le “compagnie” o “ditte” che finivano poi per ritrovarsi anche fuori a organizzare gite e feste, ma non solo. Si diventava così riconosciuti e di un tale si diceva che “batteva” una data osteria, significando che la frequentava abitualmente. In generale ci si trovava per giocare a carte, per concludere qualche affare e per discutere, spesso di politica. E’ innegabile che come ritrovi e centri di raccolta della popolazione meno abbiente e istruita, in esse si raccoglievano e diffondevano le notizie di cronaca politica locale, in gran parte, ma anche nazionali. Non per niente, soprattutto in Romagna, il partito repubblicano, nato come partito di azione rivoluzionaria, aveva posto nelle osterie di città le proprie sezioni e i propri circoli. E si portavano a comiziare anche illustri esponenti di quel partito. E non è certo un caso che la fine delle osterie, di fatto, coincida con la presa del potere da parte del fascismo. Dal 1800 al 1930, sono state sempre considerate covi di rivoluzionari e di sovversivi, pertanto controllati e perseguiti nel tempo dai poteri costituitisi nel nostro Paese. Del resto è indiscutibile la loro funzione politica, soprattutto nei nostri territori, come fucine in cui si seminavano i grani dell’anarchia e della democrazia. A Imola, come penso sia noto a molti, l’unica vera osteria che rimane di quelle “storiche” è quella chiamata e’Parlamintè (il parlamentino), perché Andrea Costa, padre del Socialismo italiano – nato prima come anarchico - e ispiratore delle società di mutuo soccorso, allorché divenuto deputato, aveva la consuetudine di ritrovarsi in questo luogo per presentare gli avvenimenti salienti discussi, appunto, in Parlamento e commentarli creando così una sorte di piccolo parlamentino. Quest’osteria mantenne la tradizione anche negli anni successivi tant’è che forse pochi sanno che il cortiletto interno in cui si può mangiare in estate, era “la via di fuga” utilizzata per scappare durante le retate fasciste. Confesso che entro sempre con piacere in quest’osteria in cui fa bella mostra il ritratto di Andrea Costa e dove mi ritrovo a immaginare il luogo allora e, a momenti, mi pare di coglierne dei frammenti quasi che i muri potessero ancora trasmettere sensazioni. Il merito va anche ai gestori attuali, la Marta in particolare, che hanno mantenuto presenza di alcuni simboli e testimoniano, loro stessi, una continuità “spirituale” del luogo. Aiuta la frequentazione dell’osteria anche l’ottima cucina che la famiglia è in grado di esprimere, con una presenza importante di piatti della nostra tradizione molto curati a cui si aggiungono alcune pietanze “storiche” di origine bretone-normanna, lascito di una presenza, anni addietro, in cucina di una cuoca originaria di quei luoghi. Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 18 gennaio 2009
giovedì 15 gennaio 2009
Avere una vita valida
Mi importa solo una cosa veramente: avere una vita valida. Affinare continuamente la mia anima, curandola giorno dopo giorno, sorvegliandola nelle sue debolezze, esaltando le tensioni interiori con lo scopo di spargere intorno un pò di fiducia, di felicità e di affetto per il prossimo. Credo nella crescita personale basata sulla condivisione di una crescita di chi ti circonda. Tutto il resto, quando ci rifletto bene, perde significato. Se riesci in questo non importa molto quando il Destino decide che per te. E' l'anima che deve dominare tutto il resto, è il sole della nostra anima che ci deve rendere forti, duri, gioiosi, calmi e compassionevoli. Da un pò di tempo cerco di guardare chi ha meno di me e sento felicità per ciò che possiedo, anche solo attimi, ma svuoto progressivamente la mia anima di chimere. Quando riesci ad essere sereno dentro, la vita è serena. L'esercizio più duro è quello di spogliarsi del disordine interno e delle schiavitù che spesso albergano nella nostra anima e ci "costringono" in routine che finiscono con il crearci solo ansietà e tristezza per qualcosa di nuovo da raggiungere, appena arrivati al punto che precedentemente ci eravamo posti. Donarsi completamente provoca felicità e se qualcuno se ne approfitta o non comprende, giudicandoci sognatori, non importa. Ciò che importa è che la sua aridità non sia in grado di contagiare chi gli sta accanto. Siamo già attorniati da tante cose mediocri, meschine o laide che mantenersi purificati interiormente è un esercizio essenziale. Ci sono strade da percorrere incessantemente per trovare e mantenere questo salutare equilibrio interiore. L'Arte è per me forse una delle più importanti o la più importante. Pittura, scultura, poesia, architettura, lettura, musica: non importa cosa pur di evadere dal banale, sollevarsi al di sopra di una polvere involutiva indistinta che tutto sta ricoprendo e ci annulla nella nostra capacità di esatta valutazione di ciò che è utile dall'inutile, da ciò che è giusto o sbagliato, da ciò che ci manipola o ci rende liberi. Solo in questo modo forgiamo i nostri cuori: forti, impetuosi, ma ordinati. E questo ci permette "Che il Destino ci trovi sempre forti e degni" come lessi in un libro molto tempo fa.
domenica 11 gennaio 2009
Una gita fuori porta in Romagna a Casa Artusi
Siete mai stati a Forlimpopoli a Casa Artusi ? Fatelo. A giusta ragione si definisce “casa della memoria e dell’appetito”. Penso che quasi tutti abbiano sentito nominare Artusi e il libro delle sue ricette. Scrittore e gastronomo, è considerato il padre riconosciuto della cucina italiana. Nato a “Frampul” (Forlimpopoli) nei primi del 1800, si occupò inizialmente dei commerci di famiglia ma grazie al successo delle sue attività a metà del secolo abbandonò le attività e incominciò a dedicarsi a tempo pieno alle sue passioni: la letteratura e la gastronomia. Il suo libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” è ancora oggi il testo di riferimento della cucina per tante “cuoche” italiane e ha avuto in innumerevoli edizioni. Il volume è una memoria storica dei risultati dei piatti realizzati, dopo varie prove, con l’aiuto del cuoco e di una serva di casa, e trascritti in ricette. L’Artusi insomma fu un signore che a un certo punto si trovò nella condizione giusta per “godersi la vita”, esercitando corpo e mente nelle arti della cucina e della scrittura, un autodidatta comunque, e un liberale che oltre a fare l’Italia voleva evidentemente fare (grande) anche la tavola. La sua “Casa” oggi è un museo vivo della cucina, aperto di giorno a cuoche e cuochi, dilettanti, gastronomi, buongustai e a tutti quelli che, senza un titolo preciso, amano cingere un grembiule, sedersi a tavola e trovarsi al meglio. All’interno si trovano anche lettere, fogli di note, arredi, immagini, ricette e pietanze di Casa Artusi; tutto in questi spazi, dalle cantine alla biblioteca, dalle sale da pranzo al loggiato, vuole ricordare e insegnare la buona accoglienza, il gusto fine e delicato, di un padrone di casa che, seppur assente per ragioni di forza maggiore, ha lasciato le sue buone istruzioni a parlare in sua vece. Associata a Casa Artusi si sviluppa una continua azione condotta, già da molti anni, la “Festa Artusiana”, che si propone di diventare un riferimento di cultura eno-gastronomica, con valenza economica e turistica che travalichi i confini nazionali. L’obiettivo è di contribuire alla promozione della cucina romagnola, ma anche degli ottimi prodotti sia del nostro territorio – con particolare attenzione a quelli di stagione – sia di una Regione, l’Emilia-Romagna, che basa il proprio successo anche sullo straordinario mix di bellezze storiche e naturali, tradizionale ospitalità, cucina di grande richiamo, basata su una solida produzione agro-alimentare di grande qualità. Sono pochi forse a sapere che con Casa Artusi ci sono diversi collegamenti e legami al nostro territorio. In primis, questo luogo fa parte del network “I Musei del Gusto” (http://www.museidelgusto.it/) unitamente all’Enoteca Regionale Emilia Romagna, che da maggio 2008 ha inaugurato una vera e propria filiale nei locali della Casa. Appartiene a questa rete di eccellenze anche il Museo del Castagno di Castel del Rio. Inoltre il Presidente del Comitato scientifico di Casa Artusi è l’imolese Massimo Montanari (Docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna) – autore di moltissimi libri di cui l’ultimo è “Il formaggio con le pere” - e direttore anche della prima collana dei Quaderni di Casa Artusi oltre ad avere collaborato anche in altre aree del Museo. Tra l’altro Montanari è anche membro dell’Accademia Italiana della Cucina (Delegazione di Imola) alla quale io stesso appartengo. Rinnovo l’esortazione fatta all’inizio e consiglio assolutamente una visita a Casa Artusi il sabato mattina – è collocata in un antico convento ubicato nel centro storico di Forlimpopoli - per cogliere la doppia opportunità Museo-Ristorante. Il locale, che è annesso alla struttura e ne è parte integrante insieme con un’osteria (aperta solo di sera fino a tarda notte), esprime un’ottima cucina con una ricerca interessante, in cui unisce tradizione e innovazione con grande qualità nelle portate servite. La luce, gli spazi, l’arredamento, la calma che regna, le vivande proposte, vi offriranno un viaggio in cui potrete assaporare appieno la “cultura del gusto”. Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 11 gennaio 2009
giovedì 8 gennaio 2009
Se vengono meno i principi della democrazia
Norberto Bobbio, la Repubblica, 08-01-2009
Questo testo comparve nel 1958 su "Risorgimento" che, in occasione del primo decennale della Costituzione, aveva promosso un´inchiesta. Venne poi pubblicato, nello stesso anno, sul bollettino dell´Ateneo di Torino. Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non soltanto come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi a un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri.Come regime politico la democrazia moderna è fondata sul riconoscimento e la garanzia della libertà sotto tre aspetti fondamentali: la libertà civile, la libertà politica e la libertà sociale. Per libertà civile s´intende la facoltà, attribuita ad ogni cittadino, di fare scelte personali senza ingerenza da parte dei pubblici poteri, in quei campi della vita spirituale ed economica, entro i quali si spiega, si esprime, si rafforza la personalità di ciascuno. Attraverso la libertà politica, che è il diritto di partecipare direttamente o indirettamente alla formazione delle leggi, viene riconosciuto al cittadino il potere di contribuire alle scelte politiche che determinano l´orientamento del governo, e di discutere e magari di modificare le scelte politiche fatte da altri, in modo che il potere politico perda il carattere odioso di oppressione dall´alto. Inoltre, oggi siamo convinti che libertà civile e libertà politica siano nomi vani qualora non vengano integrate dalla libertà sociale, che sola può dare al cittadino un potere effettivo e non solo astratto o formale, e gli consente di soddisfare i propri bisogni fondamentali e di sviluppare le proprie capacità naturali.Queste tre libertà sono l´espressione di una compiuta concezione della vita e della storia, della più alta e umanamente più ricca concezione della vita e della storia che gli uomini abbiano creato nel corso dei secoli. Dietro la libertà civile c´è il riconoscimento dell´uomo come persona, e quindi il principio che società giusta è soltanto quella in cui il potere dello stato ha dei limiti ben stabiliti e invalicabili, e ogni abuso di potere può essere legittimamente, cioè con mezzi giuridici, respinto, e vi domina lo spirito del dialogo, il metodo della persuasione contro ogni forma di dogmatismo delle idee, di fanatismo, di oppressione spirituale, di violenza fisica e morale. Dietro la libertà politica c´è l´idea della fondamentale eguaglianza degli uomini di fronte al potere politico, il principio che dinanzi al compito di governare, essenziale per la sopravvivenza stessa e per lo sviluppo della società umana, non vi sono eletti e reprobi, governanti e governati per destinazione, potenti incontrollati e servi rassegnati, classi inferiori e classi superiori, ma tutti possono essere, a volta a volta, governanti o governati, e gli uni e gli altri si avvicendano secondo gli eventi, gli interessi, le ideologie. Infine, dietro la libertà sociale c´è il principio, tardi e faticosamente apparso, ma non più rifiutabile, che gli uomini contano, devono contare, non per quello che hanno, ma per quello che fanno, e il lavoro, non la proprietà, il contributo effettivo che ciascuno può dare secondo le proprie capacità allo sviluppo sociale, e non il possesso che ciascuno detiene senza merito o in misura non proporzionata al merito, costituisce la dignità civile dell´uomo in società.Una democrazia ha bisogno, certo, di istituzioni adatte, ma non vive se queste istituzioni non sono alimentate da saldi principi. Là dove i principi che hanno ispirato le istituzioni perdono vigore negli animi, anche le istituzioni decadono, diventano, prima, vuoti scheletri, e rischiano poi al primo urto di finire in polvere. Se oggi c´è un problema della democrazia in Italia, è più un problema di principi che di istituzioni. A dieci anni dalla promulgazione della costituzione possiamo dire che le principali istituzioni per il funzionamento di uno stato democratico esistono. Ma possiamo dire con altrettanta sicurezza che i principi delle democrazia siano diventati parte viva del nostro costume? Non posso non esprime su questo punto qualche apprensione.Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarsi al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell´umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenze sia stata necessaria per restituire l´Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme.
I dolci della Befana
Ricordo nitidamente che almeno per tutti gli anni sessanta i regali più importanti per i bambini si ricevevano per la Befana e non per Natale. Molti rammenteranno a questo proposito quanto erano “famose” le varie Befane distinte per “ceto lavorativo” e con mio padre, si andava nell’attuale sede dei Circoli in cui era consegnata quella dei dipendenti comunali (conservo ancora una foto con in mano un camion dei pompieri). Esiste naturalmente una ragione storica sulla scelta del 6 gennaio. Inizialmente non si conosceva la data del Redentore e quindi si era puntato su quella del suo battesimo nel Giordano che, essendo la prima “manifestazione divina” - in greco epifaneia - diede anche il nome alla festa. In seguito, dal momento che nell'ambito della religione mitriaca il 6 gennaio si festeggia la venuta dei Magi - sacerdoti persiani- la Chiesa di Roma modificò il ciclo natalizio dedicando quel giorno all'adorazione dei Re Magi. Il termine Befana invece è dovuto a uno storpiamento del vocabolo Epifania e la sua figura è costituita da una vecchietta, brutta e rugosa, con naso aquilino da strega e con i vestiti vecchi e rattoppati, che la notte tra il 5 e il 6 gennaio, volando nel cielo a cavallo di una scopa, dispensa dolci e caramelle ai bambini buoni, mentre a quelli cattivi lascia carbone e cipolle rosse. La leggenda più accreditata sulla festa della Befana trova la sua genesi nei riti pagani del folklore pre-cristiano legati alle tradizioni propiziatorie agrarie di inizio anno. La vecchia simboleggiava l’anno trascorso, al quale veniva dato l’addio bruciando sul rogo un fantoccio con abiti vecchi e strappati, dando così il benvenuto all’anno nuovo. I regali e i dolci erano simboli bene auguranti per l’anno nascente e quindi propiziatori per un ricco e abbondante raccolto. La civiltà contadina e la cultura della terra sono l’anima del nostro territorio e i “mangiari”, l'arte di creare cibi – cioè combinare i prodotti della terra e gli ingredienti, elaborarli creativamente, fino a ottenere un prodotto diverso dalla loro somma - sono la più antica forma di cultura popolare orale per eccellenza, dove la storia delle tradizioni e delle memorie popolari combacia straordinariamente con la storia della sua cucina. Nel giorno della Befana erano i dolci i cibi più importanti e, prima che arrivasse il panettone, era la ciambella romagnola (brazadèla) che chiudeva i ricchi pasti di queste feste. Ancora oggi rimane il dolce più caratteristico e gradito. Con la ciambella l’altro pezzo forte era la zuppa inglese, sempre presente nelle occasioni rilevanti. Questo dolce vanta diverse varianti d’ingredienti: cioccolato, mandorle, pinoli e ciliegie sotto spirito, come differenti liquori utilizzati - alchermes, rosolio, ma anche cognac - e una base che varia dal pan di spagna ai savoiardi e amaretti. Altri dolci tipici del 6 gennaio erano i tortelli, o ravioli, con marmellata, castagne e saba, anche fritti (naturalmente nello strutto), come i “sùgal” (sughi) - antichissimo dolce romagnolo - composto da mosto bollito, pane grattugiato, farina di granoturco, mela cotogna, buccia di limone e anice. Oppure il sanguinaccio o migliaccio o “burleng”, fatto con il sangue di maiale e arricchito con moltissimi elementi quali ad esempio il cioccolato, le mandorle dolci, i canditi, ancora la saba e altro. Personalmente lo trovo buonissimo, ma data l’origine, oggi è praticamente introvabile perché i “gusti” sono cambiati. Sono più caratteristici invece della provincia di Ravenna “I sabadò” – sabadoni, tortelli con la saba – composti da farina, fagioli lessi, castagne secche cotte, sale, saba e buccia di limone. In base alle località poi si potevano trovare anche budini vari - al ghiaccio, allo zabaglione, di riso - latte alla portoghese, torta di mele e “E castagnaz” (castagnaccio), nel nostro Appennino soprattutto, fatto con farina di castagne, buccia di limone e di arancia grattugiata, arricchito variamente con mandorle, pinoli, fichi secchi e altro. Infine tipici di questa festività anche il croccante, il torrone artigianale, gli zuccherini, la crema e… il carbone. Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 4 gennaio 2009
giovedì 1 gennaio 2009
Riflessione da primo dell'anno
Penso che la vita non sia possesso, ma evoluzione. Non lasciamo mai il meglio di noi stessi - che sia il campo professionale, privato o sportivo - dietro le nostre vite, ma ciò che facciamo, impariamo e sbagliamo, è per sempre nostro.
Tutte le nostre esperienze, la nostra conoscenza e la nostra maturazione si radicano nella nostra vita e ce le portiamo dentro per sempre.
Così allo stesso modo è importante nella nostra vita privata, sportiva e soprattutto professionale, risulta fondamentale la capacità di perseverare, ma, se la situazione lo richiede, anche quella di ricominciare daccapo. Lasciarsi alle spalle le navi in fiamme e ripartire, ricostruendo.
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