mercoledì 29 ottobre 2008

Le cose più difficili

Rimettersi costantemente in gioco mantenendo lo stesso entusiasmo di un tempo, avere sempre fiducia nel futuro nonostante le difficoltà del presente, avere il coraggio di cambiare quello che si è sempre fatto o che non funziona. Non vivere di paure. Mantenere la fiducia nelle persone sebbene ti possano deludere. Non tradire mai i propri ideali, la propria fede, ciò in cui si crede e che si ama. Essere se stessi, più leggeri nell'affrontare la vita senza mortificarsi, pensare a ciò che si è fatto e per chi sei importante. Amare ciò che si fa e farlo con professionalità, esercitandosi, preparandosi con continuità. Non mollare mai, ricercare continuamente la "via migliore", rianalizzando e rivalutando le proprie caratteristiche. Avere il coraggio di osare sempre tenendo a mente che solo i migliori combattono tutta la vita.
Queste sono le cose su cui rifletto e mi accorgo più difficili da applicare costantemente nella mia vita.

martedì 28 ottobre 2008

Un buon ristorante si vede dai bagni



Negli Stati Uniti esiste addirittura un sito che stila la classifica dei ristoranti in base alle loro toilette, ma senza arrivare alla spettacolarizzazione tipica degli americani sarà capitato a tutti di trovarsi in un locale e rimanere negativamente colpiti dalla “visita” ai bagni. Viaggiando in Italia e all'estero mi capita, come penso a voi, di frequentare locali con servizi scadenti e poco decorosi.
Un ristorante si giudica senz’altro, in primis, dalla qualità della proposta gastronomica, ma concorrono anche altri elementi. Se difetta nei bagni, sorge spontaneo qualche sospetto in generale sulla qualità della cucina e la cura dell'igiene in generale. Chi intraprende l’attività dell’arte culinaria dovrebbe profondere un amore e una passione per il proprio lavoro che si dovrebbero cogliere in ogni aspetto e in tutti i particolari del locale. In generale chiunque accolga nella sua casa degli ospiti, e tali dovete essere considerati in un ristorante, oltre a comportarsi da vero “anfitrione” dovrebbe preoccuparsi di accogliervi in un ambiente ordinato, curato e pulito.
Trovare una toilette sporca o semplicemente trascurata, manca la carta o il sapone, le porte non si chiudono, tutto offre un senso di “precario” o di disattenzione, inficia il giudizio complessivo, è come se mancasse un tassello o mancasse la pennellata finale. E’ una nota stonata.
La toilette deve essere un luogo ameno e rilassante, dove l'ospite si possa trattenere piacevolmente per alcuni minuti e provare, anche qui, sensazioni gradevoli che contribuiranno a fargli ricordare il locale. La differenza la fanno tanti piccoli particolari concepiti però nel desiderio di procurare piacere ai clienti e fargli vivere un'esperienza da ricordare. Le differenze le fanno ad esempio il sapone liquido o gli oli essenziali, la saponetta viene toccata da tutti meglio evitarla, i piccoli asciugamani di stoffa usa e getta, ma vanno ugualmente bene le salviette in carta riposte in un bel cesto, un tavolinetto con qualche giornale, il profumatore per ambiente e per i servizi femminili un latte detergente e un'acqua di colonia, una certa cura nella disposizione degli oggetti come l’attenzione alle luci e agli specchi. Tutto concorre a fare della toilette un luogo in sintonia con il ristorante, non importano tanto le dimensioni o l’originalità, le cose semplici sono sempre le migliori, ma certamente il bagno deve risultare in armonia con il luogo, assecondandone stile e atmosfere.
Queste considerazioni, applicando il giusto metro in base al locale, hanno una valenza per tutti gli esercizi che fanno cucina: dal ristorante alla trattoria, dall’agriturismo alla pizzeria. Un bagno deve essere ordinato, curato e mantenuto pulito. 
Sembrerebbe un'ovvietà, ma non è sempre così scontato.


Pierangelo Raffini su Leggilanotizia.it

domenica 26 ottobre 2008

Tutti al bar per la colazione. Ma ci aspetta la "Luisona"

Il rito della prima colazione al bar è ormai una “tradizione” anche se relativamente recente, fine degli anni ’60 più o meno, e venne immortalato in modo mirabile da Nanni Loi nella prima trasmissione italiana di “candid-camera” trasmessa sulla TV nazionale – in bianco e nero allora – dove in un bar appunto, inzuppava il suo cornetto nel cappuccino di un altro signore che lo osservava sbalordito.
A conferma del fenomeno evidenzio che ogni anno 22 milioni di persone - dato del 2006 – consumano la colazione al bar. Su questo totale il 16% che lo fa almeno una volta alla settimana, mentre il 3,4% tutti i giorni. Inoltre il 53% predilige il caffè e il 48% il cappuccino, l'82% ordina anche una brioche – di questi il 50% senza ripieno - e questo business genera un giro di affari di circa 2 miliardi di euro.
Si sono modificate le preferenze nel tempo e, anche se la formula vincente rimane sempre cappuccino o caffè e brioche, troviamo oggi nella maggioranza dei bar un’offerta molto ampia che spazia dalle bevande al caffè – mokino, con panna, marocchino, ecc. – alle spremute e succhi; dalle paste dolci molto diverse nella lavorazione e nel ripieno fino ad arrivare al “ritorno” del pane, burro e marmellata con filoncini freschi o fette tostate, a una scelta di non-dolce che varia dalla semplice brioche salata fino ai piccoli panini variamente farciti con mortadella, prosciutto, formaggi e verdure.
Il caffè e la colazione al bar sono un fenomeno talmente radicato in Italia, da suscitare la curiosità e l’interesse nel mondo tanto che – per citare il caso più famoso – “l’inventore” della catena americana degli Starbucks prese ispirazione, anche nella capillarità della presenza, da un viaggio nel nostro paese.
Se è vero che la colazione al bar è sempre più un rito per gli italiani, si tratta senza dubbio di un rito divenuto più costoso. Rispetto al 2007 – secondo l’Adoc - cappuccino e brioche costano fino al 14% in più e se la confrontiamo al 2001 siamo a un più 19,7% che, sulla base di 5 consumazioni settimanali, determinano per ogni cittadino un maggior esborso di 67,2 euro l’anno.
Evidenzio altresì il dato economico poiché noto che, nonostante aumentino i prezzi, la qualità dei prodotti offerti in molti esercizi, sta invece progressivamente degenerando. E la nostra città non fa eccezione. Escludendo alcuni bar e pasticcerie che producono o offrono prodotti freschi, materie di prima qualità, una lavorazione accurata e quindi una godibilità e digeribilità massima, nella maggioranza degli esercizi le brioche che addentiamo quotidianamente sono, come dire, di tutt´altra pasta: abbondantemente farcite di chimica (tra acceleratori di lievitazione, conservanti e aromi che imitano penosamente i profumi degli ingredienti d´antàn), precotte, surgelate, scaldate malamente nei fornetti.
Rifletteteci un attimo, passate in rassegna ai bar che vi capita di frequentare o poneteci attenzione le prossime volte. Questi prodotti ormai li mangiamo per abitudine, o per fame, col cappuccino d´ordinanza o il nostro primo – fuori di casa - caffè quotidiano. Quando vedo questo tipo di “briochesina” la mia mente corre immediatamente alla “mitica Luisona” descritta nel libro “Bar Sport” di Stefano Benni e ai suoi effetti. Ce la ritroviamo nello stomaco, come un bel mattoncino untuoso che il fegato non gradisce per nulla (nel libro la descrizione è più pittoresca). Eppure riescono a propinarcele e le mangiamo pure. Con il salato andiamo già meglio. Negli stessi esercizi di cui sopra troviamo sì brioche salate con o senza sesamo, con prosciutto o altro, sempre un po’ dozzinali e industriali, ma solitamente viene affiancata una piccola offerta di piccoli panini freschi di panetteria variamente farciti. Nulla a che vedere con certi bar dove, abbinato al pane un po’ ricercato, vengono proposte fette di profumatissima mortadella o San Daniele, che ti mettono veramente nell’imbarazzo della scelta fra dolce e salato. Negli ultimi anni sia le associazioni di categoria che i produttori di caffè più importanti propongono, esortano, offrono corsi agli esercenti dei bar per permettere loro di stare al passo con le nuove esigenze e preferenze dei consumatori. Cercano di trasmettere metodologie di preparazione e presentazione dei prodotti per aumentare il gradimento dei clienti e la frequentazione del locale. Nonostante questi sforzi, a parte la proposta di brioche e panini, rilevo che ancora oggi in certi bar perfino il caffè non è preparato con quella cura e attenzione che permettono, ad esempio, di avere una certa “crema” naturale nella tazzina che ti consentono di assaporare pienamente questa meravigliosa bevanda (segnalo che il bicchierino d’acqua proposto in accompagnamento al caffè andrebbe bevuto prima – non dopo – per pulirsi la bocca e gustarne appieno la qualità). Pure il cappuccino subisce lavorazioni approssimative e provo sempre tristezza quando mi viene spacciato per tale una bevanda che dovrebbe avere una schiuma di latte in grado di trattenere per alcuni secondi lo zucchero in superficie, invece “flia via come l’olio” nel fondo della tazza. A quel punto meglio chiedere un latte macchiato.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 26 ottobre 2008

lunedì 20 ottobre 2008

La ricchezza deglia alberi del pane torna sulle tavole

In questo periodo autunnale – in verità dalla temperatura non si direbbe - tutti i fine settimana c’è un programma molto fitto e vasto di sagre dedicate ai prodotti più o meno tipici del territorio. Certamente nella nostra zona un ruolo centrale, oltre l’uva e il vino, ce l’ha la castagna o il marrone. La differenza sostanziale sta nel fatto che il marrone, più grosso, è un tipo di castagna derivante da determinate “famiglie” o “gruppi” d’origine.
Castel del Rio in particolare, ha nobilitato ulteriormente tale frutto facendo divenire il proprio Marrone un prodotto IGP (Indicazione Geografica Protetta) e DOP (Denominazione d’Origine Protetta) brevettando, di fatto, il prodotto e valorizzando contemporaneamente il nostro territorio anche ai fini del turismo.
Il castagno ha rappresentato dal Medioevo e per lungo tempo la principale fonte di alimentazione delle popolazioni delle aree collinari e di media montagna, tanto da essere soprannominato "L'albero del pane". Essendo una pianta molto longeva – può raggiungere fino ai 400-500 anni di età – e donando frutti dal contenuto molto calorico, era una vera benedizione per le popolazioni locali che svolgevano una intensa e faticosa attività manuale nei campi, lottando quotidianamente con la miseria e la fame. Tra l’altro, contrariamente ad altri alimenti tipici della nostre zone come la polenta, erano un completo ed eccellente alimento per combattere la stanchezza, rinforzare i muscoli e arricchire il sangue.
Il declino del castagno iniziò dopo la seconda guerra mondiale a causa, principalmente, sia dello spopolamento delle aree rurali con conseguente riduzione della manodopera disponibile, sia del progressivo benessere che ridusse l’importanza alimentare del frutto, per proseguire fino ad un po’ di anni fa quando è iniziato un recupero a tutto tondo del prodotto, dalla sua coltivazione fino alla promozione e alla tutela.
Questo ritorno e recupero del marrone ci offre così oggi una golosissima opportunità di assaggiare, nelle sagre e nei ristoranti dell’Appennino tosco-romagnolo della Valle del Santerno, tutta una serie di specialità gastronomiche ad esso legate .
Voglio ricordare, a questo proposito, le infinite utilizzazioni delle castagne e della farina di castagne, che vanno dalla realizzazione dei “Capaltéz” (Cappellacci) al fagiano ai marroni, passando dai numerosissimi dolci tra cui vale la pena citare il “Castagnaccio”, il budino di marroni, le frittelle e i marroni al rhum, fino al Montebianco e alla Meringata di marroni. Su quest’ultimo dolce, mi perdonerete, non posso fare a meno di consigliare una visita al Ristorante “Gallo” di Castel del Rio, chiarisco che la qualità è ottima in generale, ma tenetevi “un buco” per ordinare la loro meringata di marroni. E’ qualcosa di veramente unico e delicato, lo raccomando anche a chi ritiene il marrone un po’ “pesante” come gusto e tende ad evitare i vari piatti che lo prevedono: rimarrà piacevolmente stupito dalla bontà.
Anche se oggi ritroviamo le castagne proposte per tutto l’anno, sono comunque un prodotto tipico dell’autunno e recano “il profumo” dell’inverno alle porte o riscaldano, allegramente accompagnate da un’Albana o da una Cagnina, le serate invernali di un “fine trebbo” con gli amici o un momento di intimità in casa di fronte al fuoco.
Mi preme segnalare, sempre a proposito di Castel del Rio, un’iniziativa legata ai marroni che si terrà martedì sera prossimo nel castello degli Alidosi a cura della ProLoco dal titolo: “La veggia de dolz” (la veglia del dolce). Di fatto un concorso a premi dei tre dolci migliori a base di marroni a cui tutti possono partecipare, previa iscrizione, con conseguente assaggio dei prodotti dei concorrenti, per il pubblico, a fine concorso. Nell’occasione la presidente della giuria, l’amica Alessandra Spisni ormai famosa perché ospite fissa a “La prova del cuoco” della Clerici, presenterà il suo ultimo libro di ricette. E’ un invito a partecipare a questo gustoso appuntamento.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 19 ottobre 2008

lunedì 13 ottobre 2008

Vendemmia, tempo di vino. I nuovi usi sulle tavole imolesi

Tempo di vendemmia, tempo di vino, che rimane protagonista delle tavole e degli aperitivi in Italia, ma non solo. Prepariamoci dunque alle nuove recensioni, alle nuove guide, alle etichette emergenti, alle degustazioni, senza mai perdere d’occhio il portafoglio. Soprattutto di questi tempi.
Ma non sempre è per forza l’annata o il prestigio del nome che ci devono far propendere per la scelta e conseguentemente la sua bontà, piuttosto un vino dovrebbe piacere per la sua capacità di emozionare, stupire, evocare pensieri, sensazioni, suscitare un ricordo. Non per nulla ci sono anche vini cosi detti “da meditazione”.
Parimenti non siamo tutti esperti enologi o fini sommeliers e non dobbiamo vergognarcene, se riteniamo di avere gusto e sensi un poco affinati siamo certamente in grado di capire se un vino è di nostro gradimento e ci trasmette qualche cosa o meno. Così come al ristorante non dobbiamo temere di fare brutte figure quando ci portano la bottiglia al tavolo e ce lo fanno assaggiare: se sa di tappo lo si dice, così come se non ci sembra a temperatura, tanto per fare qualche esempio.
A proposito di ristorante, segnalo che cambiano le abitudini anche nel bere e avanzano, giustamente, nuove usanze – all’estero più normali - come quella di portare via la bottiglia se ancora mezza piena, oppure di ordinare vino solo a bicchiere. A Imola il fenomeno, soprattutto il primo, non è ancora evidente. Un po’ perché, si sa, nelle città più piccole queste novità arrivano dopo, un poco perché proprio le dimensioni della città possono suscitare una certa vergogna nella richiesta: “Se provo a chiederla me la danno, ma poi con che coraggio me ne vado...”. Sarà però capitato a tutti qualche volta di ordinare una bottiglia - magari costosa – e di berne solo un paio di bicchieri. La tentazione di portarsela a casa l’avete certamente avuta. Nasce il problema di chiederlo. Sarebbe simpatico se fossero i ristoratori a fare il primo passo, senza bisogno di troppe parole. Basterebbe una piccola attenzione da “customer care” (leggi attenzione al Cliente), quando si sta per andare via ti viene consegnato un sacchetto cartonato con un bel sorriso.
L’altra buona pratica, come dicevo, che si sta diffondendo sempre di più è quella di servire il “vino al bicchiere” senza l'obbligo di acquistare l'intera bottiglia. Ritengo l’alternativa molto valida quando si va al ristorante da soli, oppure se si ha voglia di abbinare il giusto vino ad ogni piatto o ancora, più semplicemente, se si intende pasteggiare con un solo buon bicchiere. Evidentemente la scelta dei vini proposti non può essere vasta quanto quella dei vini presentati in bottiglia, ma noto che molti ristoratori offrono comunque una scelta di una certa qualità. Il problema principale, al ristorante, rimane la questione del prezzo. In molti casi non si spiegano certi aumenti dalla cantina al ristoratore, tenendo conto che ci sono cantine in difficoltà nonostante il mercato del vino continui a crescere.
Il vino rimane il miglior accompagnamento di un buon piatto per gli italiani e rappresenta una vera e propria passione anche in casa e con gli amici. Un piacere personale che conquista sempre più gente e tra cui molte sono donne, che si informano, partecipano a degustazioni, leggono e amano il vino. Rosso naturalente. Il rosso infatti si conferma il “re” incontrastato, anche se i bianchi avanzano. Un popolo quindi, quello degli amanti del vino, in continua crescita ed evoluzione, tanto che a livello internazionale si inizia già a parlare di una vera e propria “tribù”, quella dei Wine Lover, ovvero dei super appassionati che tutti i giorni o quasi accompagnano i pasti con il vino, degustano, acquistano guide per tenersi aggiornati e che per una bottiglia “speciale” sembrano disposti a spendere.Ma possiamo coltivare questa passione in altro modo, sdoganando l’aura di lusso che sembra pervadere l’ambiente. Basta (ri)scoprire tutti quei produttori che fanno vino “quotidiano” di ottima qualità, che racconta del nostro territorio.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 12 ottobre 2008

venerdì 10 ottobre 2008

“Specialità Pesce”

Probabilmente l’occhio si è abituato e non notiamo più la frase nelle insegne dei ristoranti o nei menù, ma ormai la troviamo dappertutto: specialità pesce. Forse sarebbe meglio iniziare a sostituirla con “Non solo pesce”, visto che non è più un titolo distintivo, semmai è al contrario un appiattimento alla richiesta del mercato. Qualsiasi esercizio che abbia qualche parvenza di licenza per la cucina – ristoranti, trattorie, osterie, pizzerie, case del popolo, circoli sportivi o ricreativi – oggi ha un menù, più o meno ricco di pesce. Tutti vediamo che cambiano le abitudini della società per tanti aspetti e l’enogastronomia non fa eccezione. Negli ultimi 10-15 anni si è esplosa la “mania” per il pesce. Se fino a metà degli anni ’90 era difficile trovare nella “terra di mezzo” (quel territorio come il nostro che sta tra la collina e il mare) oppure negli Appennini, esercizi che proponessero menù ittici – se non quelli di una certa “caratura” – oggi la situazione è completamente mutata. La rendita di posizione dei ristoranti della riviera è praticamente sfumata. Il pesce si è “fatto strada” e le persone desiderano trovarlo pure sotto casa, senza dover fare troppi chilometri. Di conseguenza si è adeguata la ristorazione – pure sul prezzo - per soddisfare l’aumentata richiesta a cui ha contribuito , in parte, anche la moda per il “famoso” Sushi giapponese. Devo dire che a tavola la scelta di piatti di pesce sviluppa una comunicazione molto divertente, in cui si confrontano “esperti” che manifestano certezze elargendo, tra luoghi comuni e “falsi storici”, consigli, su cui primeggia sempre come più importante la disquisizione sul come riconoscere se il pesce servito sia fresco (sebbene il cameriere ci fornisca ampie assicurazioni). Il problema però resta: quanti ristoranti possono avere pesce veramente fresco ? Agli “esperti” la dotta risposta.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Sabato Sera DUE l'11 ottobre 2008

giovedì 9 ottobre 2008

Quei regali ai signori delle autostrade

La privatizzazione delle autostrade italiane è stata una sequela di regali ad un gruppo di imprenditori privati che, investendo cifre minime, hanno costruito imperi da miliardi di euro. Rischi prossimi allo zero per loro e vantaggi nulli per gli utenti. Lo denuncia Giorgio Ragazzi nel libro "I signori delle Autostrade" edito in questi giorni dal Mulino e di cui ampi estratti saranno disponibili sul sito lavoce.info. Ragazzi, professore di Economia Politica all' Univesità di Bergamo, con esperienze alla Banca Mondiale e all' Fmi, premette: «Non esiste nessun settore dove un governo, o addirittura un solo un ministro possa fare "regali" così imponenti, senza che gli utenti ne percepiscano nemmeno i costi addizionali». Una pratica che viene da lontano: gran parte del network attuale è stato costruito tra gli anni '60 e ' 70, se i pedaggi servissero al concessionario per ammortizzare nel tempo il capitale investito, le tariffe su larghi tratti dovrebbero essere molto più basse delle attuali o addirittura pari a zero. Invece, sin dal '76, quando la proprietà era totalmente pubblica, alla concessionarie è stato permesso a più riprese di attualizzare il valore delle infrastrutture. L' aumento del patrimonio conseguito veniva riconosciuto dall' Anas come se fosse nuovo capitale immesso dai soci. Ai proprietari privati è stata riconosciuta la stessa prerogativa: la concessionaria deliberava che l' autostrada posseduta valeva di più (pur in mancanza di modifiche) e lo Stato riconosceva tariffe proporzionali al nuovo valore. Ecco il segreto di rendimenti esplosivi: «Per citare solo i casi più rilevanti, in sei anni la Schemaventotto dei Benetton ha moltiplicato per sei/sette volte il valore del suo investimento - rincara Ragazzi - l' imprenditore Gavio entrato nel settore meno di dieci anni addietro con un piccolissimo investimento e controlla oggi un impero che vale 4 miliardi». Non solo: per rendere più attraente le privatizzazioni il governo ha concesso una serie di proroghe alla durata delle concessioni in cambio di impegni a nuovi investimenti. Il risultato è che le tariffe sono salite regolarmente, mentre i nuovi tratti non sono stati realizzati se non in minima parte. Anche senza considerare le nuove opere promesse, gli extraprofitti sono stati garantiti da adeguamenti tariffari molto generosi (grazie a parametri arbitrari come premi-qualità, previsioni di crescita traffico irrealistiche). L' ultimo intervento del governo Berlusconi, che riconosce il recupero del 70% dell' inflazione ogni anno, rende ancora più certo e progressivo l' aumento delle entrate. L' ex ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro ha tentato ad opporsi alla «cuccagna», come la definì lui stesso, con una riforma radicale: «Di Pietro ha fallito - dice Ragazzi a Repubblica - perché ha tentato di azzerare la normativa esistente e l' Europa non lo poteva permettere». È possibile una soluzione diversa? Il libro ne indica due. Si potrebbe istituire una nuova autorità indipendente che definisca una tariffa unica nazionale per tutta la rete, ma alle concessionarie ne rimarrebbe solo una parte, cioè la quota sufficiente a remunerare il capitale effettivamente investito nelle opere esistenti. Gli incassi extra andrebbero in un fondo statale per finanziare nuove opere. «Si potrebbe fare già a legislazione vigente», spiega il professore. Improbabile che una tale soluzione venga presa in considerazione visto l' ottimo rapporto dei concessionari con l' attuale maggioranza, come testimonia l' ingresso in Cai di Atlantia e Gavio. L' altra riforma necessita che scadano le convenzioni (quella più importante con Atlantia/Autostrade scade solo nel 2038). A quel punto le tre funzioni connesse alla concessione come costruzione, manutenzione e raccolta dei pedaggi potrebbero essere assegnate ai privati separatamente. Un unbundling che può ridurre i costi per gli utenti e i vantaggi per i privati.
Luca Iezzi - Repubblica

mercoledì 8 ottobre 2008

La saggezza del dubbio

"In ogni cosa è salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato."
Bertrand Russel

domenica 5 ottobre 2008

Quando l'ospitalità diventa arte del ricevere

Negli ultimi anni è stato un fiorire di libri di cucina, trasmissioni culinarie, riviste, eventi e molto altro ancora che hanno dato risalto all'arte del mangiar bene. I più attenti e interessati avranno compreso che a tale arte è legata anche una giusta concezione dell'ospitalità. La Romagna è una delle terre più votate a questo e sono un partigiano della valorizzazione di ciò che contribuisce alla realizzazione di uno dei momenti fondamentali della giornata, in cui, seduti a tavola si gustano cose buone insieme agli altri, che siano componenti della famiglia, amici, conoscenti o altri, per esaltare il gusto dello stare insieme in armonia. Non mi stancherò mai di ripeterlo che la tavola unisce e non divide.
Anche l’ospitalità, l’arte del ricevere, è composta di alcune regole generali a cui attenersi quando si decide di invitare qualcuno a casa per colazione (non la prima, quella del mattino per intenderci), pranzo o cena. Conoscerle può aiutare a trascorrere ore piacevoli con una punta di orgoglio per il risultato ottenuto. Un grande personaggio francese del secolo scorso disse: "Invitare qualcuno a pranzo significa occuparsi della sua felicità finché sarà sotto il nostro tetto". Naturalmente senza troppe ansie, la cosa dovrebbe sempre essere tenuta ben presente quando si pensa di invitare i propri ospiti. Questo significa preparare con cura non solo le pietanze, ma anche la tavola, scegliere con cura il servizio di piatti, posaterie e bicchieri, creando altresì una certa atmosfera ambientale fatta di musica, profumi e una certa scenografia al fine di creare nei commensali il giusto piacere di sedersi a tavola e un buon ricordo di quelle ore.
Tutto dovrà essere in tono per il tipo di persone che intendete ricevere. Per i colori consiglio senz’altro il bianco per incontri importanti, mentre si può dare più spazio ai colori o a fantasie allegre per inviti informali. La decorazione della tavola ha la sua importanza e la regola aurea è: non deve mai essere d’intralcio alla comunicazione durante il convivio, perciò qualsiasi cosa scegliate di utilizzare non deve mai sovrastare il viso dei commensali. Pertanto nel caso si decida di usare fiori prendeteli con il gambo corto, non in contrasto con l’ambiente e senza profumo per non coprire gli aromi delle portate. Una variante ai fiori è costituita da composizioni di frutta fresca e verdura. Bene parimenti candelabri o candele, ma vigono le stesse regole.
La tavola deve essere dimensionata al numero di invitati per evitare un gomito a gomito dei commensali con il rischio di scene fantozziane. La tovaglia meglio se di cotone, immacolata, oppure con motivi decorativi se adatta al tipo di convivio. Un’alternativa sono le tovagliette dette “all’americana”. La tavola deve essere già apparecchiata all'arrivo degli ospiti e la diposizione dei piatti è la seguente: un sottopiatto – un tocco di raffinatezza è costituito da sottopiatti in argento o ceramica (la cooperativa ceramica di Imola ne fa dei bellissimi), un piatto piano, un piatto fondo o un piatto piccolo per gli antipasti e un piattino per il pane. Le posate devono sempre essere disposte nell'ordine in cui vengono utilizzate, partendo da quelle più esterne per l'antipasto arrivando ai secondi. I coltelli vanno a destra con la lama rivolta verso i piatti, il cucchiaio se necessario, alla destra dei coltelli. In caso serviate pesce, le apposite posate vanno posizionate ancora più esternamente. Centralmente in alto rispetto al piatto vanno le posate da frutta e da dessert. Il coltello con la lama rivolta verso il piatto e l'impugnatura a destra, mentre la forchetta con l’impugnatura a sinistra e più esternamente il cucchiaio con il manico sempre verso destra. Posizionate i bicchieri davanti al piatto a destra, i più grandi e vicini al piatto sono quello per l'acqua e quello per il vino rosso, leggermente più a destra mettete quello per il vino bianco e dietro la flute per il vino da dessert. Sopra le posate a sinistra il piattino del pane. Il tovagliolo, che sia generoso nelle dimensioni, va collocato generalmente sul piatto. I padroni di casa devono sedersi ai due lati opposti della tavola, tenendo alla propria destra ognuno gli invitati di maggior importanza, ma di sesso opposto. Evitare assolutamente di proporre tavole “alla romagnola”: tutti gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Le donne normalmente, e a ragione , non apprezzano, per cui alternate uomo e donna. Un “tocco di classe” conclusivo è quello di diffondere durante tutta la durata del convivio piacevole “Musica da Tavola” o “Tafelmusik” (dalla terra d’origine, la Germania, 1600 – 1700) come accade nei ristoranti importanti (vedi ad Imola il San Domenico).
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 5 ottobre 2008

mercoledì 1 ottobre 2008

I Padroni dell'Universo


«Dove sono finiti i Padroni dell’Universo, quei giovanotti ambiziosi capaci di mettersi in tasca milioni di dollari all’anno in premi di produttività operando in banche di investimento? In pochi giorni questo mondo è sprofondato. Ma non versate lacrime. La maggior parte di loro ha già il suo gruzzolo al sicuro con interessi adeguati per vivere comodamente».

Tom Wolfe, autore de «Il Falò delle Vanità» sul mondo della finanza, New York Times