L’Italia è sperduta in un sogno domestico. «Piccolo è bello», aziendine che non esportano, le multinazionali «rubano», vanno all’estero, meglio boicottarle. La tecnologia non paga tasse «perché» crea ricchezze immateriali, siamo popolo di Bulloni e Cravatte, roba «concreta». I «diritti» sono «diritti» e includono i «nostri» tempi, lenta giustizia, lento Stato, scarsa scuola, zero produttività, scioperi selvaggi vedi caos valigie a Fiumicino d’agosto e umilianti certificati medici che fioccano per fermare l’Etihad che compra Alitalia, come se i guai della compagnia non avessero molti complici, politici, manager, sindacati. La meritocrazia va scoraggiata, «siamo tutti uguali», dall’asilo alla pensione precoce. L’economia globale non è «all’italiana», meglio Slow Economy, chilometro 0 nel lavoro e nella vita. Tasse altissime, ma chi le paga è uno straccione o un fesso no? I nostri padri e nonni, mezzo secolo fa, varavano Autostrada del Sole e Metropolitana di Milano. 
Oggi non vogliamo infrastrutture che, si sa, creano mazzette per corrotti e mafiosi, rovinando la natura. Nel caleidoscopico sogno, l’economia italiana è la peggiore in Europa, non cresce da 14 anni, i salari sono fermi dall’euro, il presidente Bce Draghi conferma che neppure Freud investirebbe un cent in un paese onirico. Alitalia era gioiello di stile, saltata Air France chi fa la guerra a Etihad spera forse di tornare alle uniformi chic delle Sorelle Fontana? I nostri marchi vanno così ai saldi uno dopo l’altro, lusso, industria, servizi. Di chi è la «colpa»? Online, talk show, giornali e bar niente dubbi, «Dei politici», come se non li eleggessimo noi, destra, sinistra, 5 Stelle. Se qualcuno tra lettrici e lettori ha voglia di ragionare da sveglio, dopo le ultime penose notizie sul Pil, la virtuale recessione e la conferma di Draghi che se non cambiamo e subito, investimenti non ne arriveranno più (altro che certificati medici romani…), il quadro cambia. Calderon de la Barca scriveva nel 1635 che «La vida es sueño», ma l’economia – purtroppo - no. La narrazione notturna che noi italiani facciamo a noi stessi parla di qualità della vita, solidarietà, famiglia, servizi pubblici gratuiti, imprenditoria, artigianato. 
La realtà parla di disoccupazione giovanile al 47%, al Sud 60-70%: quando un ragazzo arriva a 30 anni e non ha mai avuto responsabilità integrarlo in un laboratorio di innovazione non è difficile, è impossibile. Centinaia di migliaia di giovani non studiano né lavorano, abbiamo la colpa morale di perdere una generazione, i migliori, caparbi, a cercarsi la strada da soli, i peggiori, lividi nel risentimento online. Parlate con i nostri laureati che spillano birra nei bar di Londra, affettano pane nei bistrot di Parigi e svernano da travet a Monaco per capire. La verità è semplice e durissima: l’Italia tutta, dai vertici alle periferie, ricchi e poveri, classe dirigente e lavoratori, non funziona nell’economia globale, non crea lavoro e ricchezza, perde comunità e valori. Lo so, il terzo delle piccole imprese che esporta se la cava, ma i due terzi affondano. Lo so, ci sono casi brillanti di manager e marchi, grandi o piccoli, Luxottica, Cucinelli, Cantine Settesoli, ma da soli non cambiano la corrente. Il mantra è «riforme di struttura», agenda di innovazione, giustizia, scuola e laboratori, fisco, produttività, export, apertura delle professioni, mercato del lavoro, rilancio domanda (ieri su Repubblica Federico Fubini stila con acribia il da farsi). 
Ma perché, malgrado gli sforzi di Monti e Letta, Passera e Padoan, Renzi, Padoan e Del Rio, l’«agenda» non parte? Se per voi la colpa è solo «loro», non vi convincerò ma, finalmente, davanti al Pil negativo, Grecia e Spagna che faran meglio di noi e Fiumicino in rivolta agostana da 1976 di Aquila Selvaggia, è ora di dirsi che la colpa è «nostra». Dalla Tav a Messina, dai sindacati grandi e piccini, dalle Pmi alla grande industria, dagli imprenditori alle professioni, alle lobbies e la pubblica amministrazione, noi italiani siamo imputati. Siamo come la Nazionale azzurra in Brasile, vecchie glorie e coppe impolverate in bacheca, in campo risse, niente gioco, sconfitte. 
Se Matteo Renzi ha fatto qualcosa di positivo fin qui è stato provar a scuotere i cittadini dal torpore malinconico in cui sprofondano. In un suo classico saggio del 1959 – vigilia di boom economico e Dolce Vita - «La fine del mondo antico», lo storico Santo Mazzarino ammoniva: Roma comincia a declinare assai prima dei Barbari, quando classi dirigenti e intellettuali cadono nella depressione da «declino». Secoli prima che l’Impero crolli, la sua forza morale si esaurisce, perché il «declino» si nutre di se stesso. È questo il male peggiore del Paese nella dispeptica estate 2014, siamo rassegnati a declinare senza batterci e gli appelli del premier non bastano più. Nell’amarissima predica del Venerdì Santo 2005, il futuro Papa Ratzinger disse di temere perfino per la barca della Chiesa. Bergoglio cambia l’umore subito, con sorriso e speranza, «siate felici senza far proseliti, non siate di cattivo umore!» e vara riforme radicali. Se cambia così un’istituzione che ha 2000 anni ed è, davvero, «globale» perché non un Paese che vanta la terza economia dell’Unione Europea e la sesta manifattura del pianeta? 
Le riforme non richiedono né tecnici visionari come Lord Keynes, né politici mitici come F. D. Roosevelt: richiedono a noi cittadini di accettare il cambiamento con umiltà, consapevoli che non si vendono più automobili, cibo, servizi, artigianato, turismo, biglietti aerei, abbigliamento «all’italiana», ma competendo ad armi pari nel mondo. «Riforme» vuol dire prezzo da pagare a breve e vantaggio futuro: per volerle servono speranza, entusiasmo, consapevolezza che i figli valgono quanto i padri, coraggio morale. Solo se speranza e coraggio saranno risvegliati in noi, le riforme saranno attuate, il Pil ripartirà e i giovani lavoreranno: altrimenti la recessione, il «declino» se volete, non si fermerà, nella cacofonica, isterica, furbetta, guerra di opposte propagande.