sabato 24 maggio 2014

Silenzio Le parole, il brusio, le persone che si muovono in...





Silenzio


Le parole, il brusio, le persone che si muovono in certi momenti devono far spazio al silenzio e allo spettacolo delle stagioni.

Sotto una quercia vedi il grano, ormai alto, che si piega leggermente al vento che scende dalla collina.

In lontananza il cuculo che ripete il suo verso.

Vorresti che questi attimi si prolungassero in eterno. Fissare il momento e fermarlo, con queste luci, con questi odori, con lo stesso stato d’animo che provi in questo istante.

Riuscire a fermarlo e metterlo via per usarlo durante il lavoro, quando tutto sembra complicato. Tirar fuori un po’ di semplicità e di calma.

Lo fisso nella memoria, mi servirà sicuramente prima o poi…




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martedì 20 maggio 2014

L'altra guerra dei trent'anni - La Grande Guerra 1914-1918

Il primo conflitto mondiale segnò la caduta di quattro imperi, rinnovò la tecnologia, moltipilcò i fronti. E finì nel '45, non nel '18.

Per molti anni, dopo la fine della Grande guerra, il tema centrale dell’immensa letteratura storica apparsa sul conflitto fu quello delle responsabilità. In una prima fase quasi tutti gli storici furono patriottici e giustificarono il proprio Paese, cercando altrove il capro espiatorio. Qualcuno dette la colpa all’impero asburgico, ossessionato dall’incubo del proprio declino. Altri dettero la colpa a Guglielmo II, imperatore di Germania; altri al revanscismo francese; altri ancora all’opacità e alle titubanze della diplomazia britannica. In una seconda fase gli storici divennero revisionisti e non esitarono a sottolineare le responsabilità del proprio Paese, come lo storico tedesco Fritz Fischer in un libro intitolato Assalto al potere mondiale, pubblicato da Einaudi nel 1965, sulle ambizioni egemoniche del Secondo Reich. Più recentemente la tesi prevalente mi è parsa essere quella di un diffuso sonno della ragione che, come nei Sonnambuli di Christopher Clark, pubblicato recentemente da Laterza, avrebbe reso tutti i Paesi corresponsabili di un’«inutile strage».

Per quasi un secolo, quindi, la storia della Grande guerra è una «storia della colpa». Molti studiosi, con maggiore o minore distacco, hanno continuato a descrivere le diverse politiche nazionali prima del conflitto; e il libro di Luigi Albertini sulle Origini della guerra del 1914, nuovamente pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana nel 2010, resta una delle opere migliori. Ma al centro di ogni studio vi era il problema della responsabilità. La Schuldfrage, come fu chiamata in Germania, fu la guerra fredda fra opposte verità che venne combattuta in Europa nel lungo intervallo fra due conflitti mondiali.

Il tema della colpa era collegato alla durata del conflitto e alle sue disastrose conseguenze politiche. Una guerra più breve, nello stile di quelle che erano state combattute dagli Stati europei dopo la guerra dei Trent’anni (1618-1648), non avrebbe provocato il crollo di quattro imperi — austro-ungarico, tedesco, russo e ottomano —, una dozzina di rivoluzioni e la catastrofe demografica che colpì la generazione dei combattenti. Vi sarebbero stati mutamenti territoriali e altre guerre, ma dopo più o meno lunghi intervalli di pace. È il problema della durata quindi che occorre oggi approfondire. Perché la guerra del 1914 fu così diversa da quelle che l’avevano preceduta?

La prima ragione concerne gli effetti dei conflitti sulla stabilità degli Stati. Nel 1859 e nel 1866 l’Austria-Ungheria aveva perduto due guerre: la prima contro la Francia e il regno di Sardegna nel 1859, la seconda contro la Prussia e i suoi alleati tedeschi nel 1866. Ma la sconfitta non aveva impedito a Francesco Giuseppe di conservare il trono. La guerra franco-prussiana del 1870, invece, aveva provocato l’abdicazione di Napoleone III, la Comune e l’avvento della Terza Repubblica. Luigi Napoleone era un sovrano plebiscitario, creato dal colpo di Stato del 2 dicembre 1851 e dal voto popolare del 21 dicembre. La corona gli era stata data dai francesi e dagli stessi francesi poteva essergli tolta. Ma neppure le grandi dinastie potevano dormire sonni tranquilli. La Comune aveva rivelato l’esistenza in Europa di una sinistra rivoluzionaria, pronta ad approfittare della sconfitta per tentare la conquista del potere. Nel 1914 tutti i sovrani europei sapevano quindi che i loro troni potevano essere perduti. Fra i motivi della guerra vi era stata anche la speranza che il conflitto avrebbe compattato le loro società nazionali contro il pericolo anarchico e socialista. Ma una guerra perduta, o conclusa mediocremente con un compromesso insoddisfacente, li avrebbe esposti al rischio di una rivoluzione.

La seconda ragione della guerra lunga fu la pluralità dei conflitti. Non vi fu un solo conflitto tra coalizioni che avevano obiettivi comuni. Vi furono almeno cinque guerre: quella franco-tedesca per la supremazia nel continente europeo, quella anglo-tedesca per il governo degli oceani, quella austro-russa per la supremazia nei Balcani, quella italo-austriaca per la supremazia nell’Adriatico e quella russo-turca per il controllo degli Stretti; per non parlare di quella che fu contemporaneamente combattuta dal Giappone per la creazione di un impero nipponico dell’Asia orientale. Nelle guerre tradizionali le regole del gioco volevano che si combattesse finché i danni subiti erano tollerabili e la speranza di un vantaggio compensava il timore di nuove perdite. Non appena la speranza della vittoria impallidiva, lo Stato che avrebbe corso rischi maggiori usciva dal gioco e cominciava a negoziare la pace. Avrebbe perso qualche provincia, ma il suo sovrano avrebbe conservato il trono. Durante la Grande guerra la manovra fu tentata dalla Romania e sarebbe stata forse tentata dall’Italia dopo Caporetto, ma la posta, con il passare del tempo, era diventata sempre più alta e la prospettiva di una pace separata sempre più difficilmente praticabile. Anziché essere combattuta soltanto sui campi di battaglia da militari di mestiere, la guerra era diventata «totale».

I fattori che contribuirono a renderla tale furono sociali ed economici. I mutamenti democratici del secolo precedente avevano creato società di massa in cui tutti, grazie alla coscrizione obbligatoria, potevano essere chiamati alle armi. I combattenti furono circa 65 milioni, i morti 9, i feriti 21. Gli effettivi dell’esercito russo, in particolare, ammontarono complessivamente a 12 milioni di uomini. Il costo diretto del conflitto superò i 180 miliardi di dollari, quello indiretto oltrepassò i 165 miliardi.

La rivoluzione industriale moltiplicò la potenza degli eserciti combattenti. La fanteria e la cavalleria francese andarono al fronte nella tarda estate del 1914 in giacca blu, calzoni rossi e senza elmetto. Il primo Natale di guerra fu festeggiato con una tregua e scambi di doni da una trincea all’altra. Ma nei mesi successivi tutto cambiò: le uniformi, i copricapi (i soldati ebbero in dotazione l’elmetto) e, soprattutto, le armi.

Le industrie di ogni nazione adattarono al campo di battaglia gli straordinari progressi compiuti dalla tecnologia nel secolo precedente. Furono costruiti cannoni sempre più grossi e potenti. Fu accelerato lo sviluppo dell’industria automobilistica. Furono progettati aeroplani che potevano combattere nei cieli e scaricare le loro bombe sul territorio nemico. La competizione tra la corazza e il cannone creò navi sempre più corazzate e, naturalmente, i carri armati. I sottomarini rivoluzionarono la guerra marittima, i camion rivoluzionarono la logistica della guerra e la telefonia cambiò radicalmente il sistema delle comunicazioni. L’industria chimica si mise al lavoro per creare un’arma nuova: i gas asfissianti. La celebrazione in comune di una festa religiosa divenne impossibile.

Quanto più cresceva il numero dei morti e dei feriti tanto più si allontanava paradossalmente la prospettiva di una pace negoziata. Vi furono tentativi di mettere fine al conflitto fra cui la lettera ai capi dei popoli belligeranti inviata dal Pontefice romano Benedetto XV il 1° agosto 1917, in cui la guerra fu definita una «inutile strage». Ma l’invito, nel quale vi erano generiche proposte per la soluzione di alcuni conflitti, fu considerato una molesta ingerenza della Chiesa negli affari degli Stati e non venne preso in alcuna considerazione. I 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson, annunciati al mondo l’8 gennaio dell’anno seguente, erano molto più articolati della lettera papale, ma presupponevano la vittoria degli Alleati e non potevano essere graditi agli Imperi centrali. Fu quello il momento in cui cominciarono ad apparire nel linguaggio politico militare espressioni che avrebbero dominato il secolo: guerra a oltranza, resa senza condizioni, vittoria totale.

È particolarmente paradossale, in questo clima di duello all’ultimo sangue, che la Germania abbia firmato l’armistizio di Compiègne quando era pur sempre vincitrice all’Est, occupava ancora territori delle potenze alleate sul fronte occidentale e nessun soldato straniero aveva attraversato la sua frontiera. Non perdette la guerra sul campo di battaglia, combattendo contro gli eserciti alleati. La perdette a Kiel, dove la sua flotta si era ammutinata, ad Amburgo, Brema e Lubecca, dove la protesta aveva contagiato altri corpi militari, a Monaco, dove il re di Baviera fu costretto ad abdicare, e infine a Berlino, dove il leader socialista Philipp Scheidemann annunciò l’abdicazione di Guglielmo II e proclamò la Repubblica tedesca. Perdette la guerra sul fronte interno perché il Paese era affamato dal blocco continentale. Ma la teoria della colpa, elaborata dai vincitori per meglio giustificare una guerra che aveva richiesto enormi sacrifici, produsse una pace troppo duramente punitiva.

Il diktat della Galleria degli specchi nel palazzo di Versailles, dove si firmò il trattato di pace, non serviva soltanto a stroncare le ambizioni egemoniche della Germania guglielmina. Serviva anche a impedire che i francesi, i britannici e gli italiani trattassero i loro governi nelle stesso modo in cui i tedeschi avevano trattato il loro imperatore. Ma una guerra perduta senza una reale sconfitta militare e le insensate clausole economiche del trattato di pace crearono nei tedeschi il sentimento di una ingiustizia che altri uomini politici, negli anni seguenti, avrebbero usato per riaprire la partita. La guerra non terminò nel novembre del 1918. In quella data, che viene ancora immeritatamente commemorata, calò il sipario sul primo atto di una tragedia che si sarebbe conclusa soltanto nel maggio del 1945.

Sergio Romano su La Lettura del Corriere della Sera (http://lettura.corriere.it/debates/l’altra-guerra-dei-trent’anni/)


La tua vita





Davanti a queste scene ti fermi a riflettere sulla vita e se la tua la stai vivendo nella giusta direzione.


domenica 18 maggio 2014

Startup a 20 anni o a 40?

Chi fa startup in Italia? Le nuove frontiere imprenditoriali sono ambite solo dai ventenni? Non proprio. A lanciarsi nel mondo delle neoimprese sono sempre più spesso ex manager sulla quarantina che, abbandonate carriera e vecchia vita, si accettano nuove sfide professionali. Ecco alcuni casi esemplari

a cura di Concetta Desando

Dici startup e pensi alla gioventù: un ragazzo sulla ventina, un po' sognatore e un po' coraggioso, uno disposto a tutto pur di realizzare un progetto e mettere su una vera impresa. Generalmente preparato, spesso con esperienze di lavoro e studio all'estero ma tipicamente romantico e disposto ad essere etichettato come precario e sfigato pur di tornare nel Belpaese. E, soprattutto, convinto che basti l'idea giusta, un investimento e un pizzico di fortuna per mettere le ali a una startup. Nell'immaginario collettivo l'aspirante imprenditore italiano è così: uno alla Mark Zuckerber per intenderci che, grazie a un'idea geniale, non ancora trentenne può ritrovarsi con un conto in banca stratosferico.

Ma è davvero così? Chi fa startup in Italia? È roba da ventenni? Non proprio o, almeno, non sempre. A lanciarsi nel mondo delle nuove imprese sono sempre più spesso ex manager che, abbandonata carriera e vecchia vita, si sono lanciati in nuovi progetti e nuove sfide professionali. Non hanno certo la freschezza dei ventenni, sono meno disposti a dormire sotto un ponte e sono, forse, meno creativi. Ma hanno dalla loro parte esperienza e background professionale molto più elevati, maggiore conoscenza del mondo del lavoro, capacità tecniche E, spesso, una buona base economica dalla quale partire. Non solo. Chi fa startup a 40 anni e oltre  non insegue gloria o riconoscimenti: c'è chi lo fa per insegnare ai figli che cambiare rotta è sempre possibile, chi per costruire qualcosa che possa essere davvero utile, chi semplicemente, per provare la soddisfazione di aver fatto la cosa giusta e dormire sereno di notte.

Abbiamo raccolto alcune storie di nuovi imprenditori che spiegano bene quali sono le differenze nel fare startup a 20 anni e farla a 40 e di chi ha rivestito il ruolo di dirigente d'azienda prima di ritrovarsi startupper.

Claudio Cubito founder di Growish. Classe 1967, è passato dal ruolo di manager a founder di una piattaforma per acquistare un regalo tramite colletta online. “Voglio dimostrare ai miei figli che non è mai tardi per invertire la rotta” dice. E spiega le differenze nel fare impresa a 20 anni e farla alla soglia dei 50: "A 20 anni sei creativo, affamato di conoscenza e disposto a dormire sotto i ponti pur di raggiungere un obiettivo; a 40 hai maggiore competenza, esperienza, professionalità e preparazione. Elementi, questi, fondamentali per avviare un’impresa ma che possono arrivare solo con l’età e con i sacrifici: io mi sono fatto un 'mazzo' così per arrivare dove sono, non guardo la televisione per mesi pur di dedicarmi alla mia preparazione professionale, investo sulla mia formazione frequentando corsi anche all’estero”
 

Chiara Burberi, founder di Redooc. Laurea con lode in economia alla Bocconi, docente alla stessa università, poi consulente e manager in McKinsey e in Unicredit, a 47 anni e con due figli ha mollato fama, successo e aspirazioni professionali per fondare una piattaforma di education online di materie scientifiche per i ragazzi del liceo. “Dopo 40 anni è bello svegliarsi la mattina e pensare di aver fatto qualcosa che possa restare ai propri figli e anche agli altri. Come potevo andare a dormire la sera pensando di non aver utilizzato le mie energie per il futuro dei giovani? Ma, vi prego, non chiamatemi startupperin Italia fare impresa è considerato solo un tentativo, un ‘chissà se ce la farò’. Io, invece, sono sicura di quello che sto facendo, so che è un lavoro, che porterà dei risultati e che realizzerò i miei obiettivi. Io non ci sto provando, non mi sto buttando. Io ci riesco”.

Massimo Bocchi, founder di Cellply. Ingegnere elettronico di Bologna, 36 anni, ha fondato la startup specializzata nella diagnostica molecolare che ha ottenuto un investimento di oltre due milioni di euro da Italian Angels for Growth (IAG), Zernike META Ventures e Atlante Seed. Il suo spirito imprenditoriale nasce durante un'esperienza in America, "un ambiente pro-startup, dove è facile essere contagiati dalla voglia di fare impresa" racconta. E dà un consiglio agli aspiranti imprenditori italiani: "Non guardate solo al digitale. In Italia c'è tantissimo rumore attorno alle startup digitali, ma abbiamo bisogno di altro: siamo fortissimi nella biotecnologia, nella moda, nel food e nel design. Bisogna imparare a fare impresa anche in questi settori"

- Il team di pptArt. È la prima startup italiana di crowdsourcing per l’arte. Propone opere su misura per il cliente, che può scegliere tra quelle realizzate ad hoc dagli artisti della piattaforma. A guidarla manager di esperienza ventennale nella finanza e nell'arte: Luca Desiata, dirigente dell’Enel e docente di Corporate Art al Master of Art della Luiss Business School di Roma; Chiara Compostella, storica dell’arte con ventennale esperienza internazionale di gestione di progetti nel campo dell’arte figurativa e un master in Arts Administration alla Columbia University di New York;  Mircea Flore, esperienza ventennale come investment banker ed esperta finanziaria; Milena Marucci, architetto presso uno dei principali studi di architettura al mondo; Stefania Barbier , fotografa professionista, già consulente di strategia per Bai; e Giuseppe Ariano, Project Manager press il Ministero dei Beni Culturali.

Antonio Ranaldo, presidente e fondatore di Chef Dovunque. Non appartiene alla schiera dei giovanissimi neanche Antonio Ranaldo, presidente e fondatoredella startup del food che ha brevettato i primi piatti della cucina nostrana bio, predosati e confezionati in un comodo kit, e che ha ricevuto un investimento di 1,2 milioni di euro da Vertis Capital e tre Business Angel. Grazie a lui, spaghetti aglio, olio e peperoncino, spaghetti pomodoro e basilico e pennette all’arrabbiata oggi valgono milioni di euro.

Roberto Mircoli, amministratore delegato di Eco4Cloud. Lui è il classico esempio di ex top manager che entra nel mondo delle startup: 45 anni, per 13 anni a Cisco, ora è alla guida della startup che aiuta Telecom a risparmiare. Tl, infatti, ha firmato un contratto triennale con la neo-impresa fornitrice di una soluzione in grado di abbattere dal 30 al 60% la bolletta energetica (e le relative emissioni equivalenti di CO2) dei data center ad elevata virtualizzazione.

Il team di GlassUp. Hanno tra i 40 e i 50 anni i componenti del team degli occhiali del futuro che costituiscono l’alternativa italiana ai Google Glass. Francesco Giartosio, modenese che si autodefinisce “startupper seriale”, un bresciano laureato in fisica e medicina psicosomatica, Gianluigi Tregnaghi, e il padovano Andrea Tellatin stanno realizzando occhiali a realtà aumentata che grazie al Bluetooth, diventano un secondo schermo dello smartphone e permettono di leggere email, sms o messaggi direttamente sugli occhiali.

Pietro Carratù, ceo di Youbiquo.  Non è giovanissimo neanche il ceo della società finanziata da Invitalia con Smart&Start che ha creato occhiali hi-tech a realtà aumentata. Il suo obiettivo è cerare prodotti su misura per i piccoli o per grandi aziende con particolari esigenze
 

Concetta Desando su Economyup (http://www.economyup.it/startup/1100_startup-a-20-anni-o-a-40.htm)

giovedì 15 maggio 2014

Combattere la burocrazia in Italia

Il vero ostacolo per l'attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi, che per quanto siano bravi, non sono in grado di compierla da soli. 

(Luigi Einaudi)

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domenica 11 maggio 2014

Cosa non fa un Leader

@pier61: Un #Leader non ammaestra. Educa, eleva, fa crescere le persone attorno a lui. Non cerca di creare delle brutte copie di se stesso. #leadership

by Pierangelo Raffini

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domenica 4 maggio 2014

5 cose da sapere sul sacrificio nel lavoro per avviare la vostra impresa o startup

Non si può evitare un certo sacrificio di tempo, a scapito di tutto il resto, durante la partenza e l'espansione di una società. Tuttavia, si può essere più intelligente di come ci si comporta solitamente ed evitare privazioni inutili che finiscono per portare stress negativo. 

Di seguito cinque punti da tenere presente per mantenere un certo equilibrio psico-fisico:

Impostare un numero di ore normali (se possibile).

La gestione di un'impresa, sia nuova ma anche già sul mercato, può significare dedicare ad essa lunghe ore. Ma non dovrebbe trasformarsi in una serie infinita di giornate da 16/18 ore o di nottate. Si finisce per bruciarsi mentalmente e fisicamente. E' importante prendersi dei periodi di pausa per ricaricarsi, per mantenere il pensiero chiaro ed elastico. Adottare questa strategia aiuta moltissimo e si torna più carichi e aumentano le possibilità di avere successo. Impostate orari, per quanto possibili, normali. Ci saranno certamente momenti in cui non si può lasciare quando si è pianificato, ma fate del vostro meglio per mantenere questa regola.

Mantenere il giusto equilibrio.
Una delle idee che spingono gli imprenditori a passare tutto il loro tempo al lavoro è il pensiero che questo sia indispensabile se si vuole che l'azienda proceda. Spesso questo è vero fino ad un certo punto. Si concentrano su ogni singolo particolare perdendo di vista un disegno più grande. Di solito soddisfano un bisogno interiore che li spinge a pensare di essere gli unici che possono fare bene determinate cose. 
Per combattere questa "mania" e mantenere il giusto rapporto con il lavoro è una sana abitudine dedicare il tempo libero a qualche hobby e alle persone che si amano, vivendo con loro il tempo per mantenere contatto con la realtà quotidiana e mantenere un certo equilibrio di giudizio e di tolleranza. A volte, attraverso i particolari della vita quotidiana, si sviluppano riflessioni utili per un giusto atteggiamento sul lavoro.
Non vivere nel pensiero negativo costante.
Comprendo che a volte è difficile, soprattutto quando si parte con una startup o si cerca di risollevarsi da una situazione di mercato difficile. Ma affrontare la vita d'impresa con una visione costantemente negativa, con la paura che qualsiasi notizia non positiva sia il preludio della fine, non giova né all'imprenditore, né alla società. Un clima di continua fibrillazione per ogni minima notizia alla lunga destabilizza la mente del boss, ma anche quella dei dipendenti. Creano spesso una inutile confusione nel lavoro e sugli obiettivi. La riflessione e la meditazione vengono in aiuto di questi atteggiamenti non produttivi. E' utile fare ogni tanto delle passeggiate quando arrivano notizie di cui avremmo fatto volentieri a meno. Servono a decomprimere e aiutano a ristabilire un atteggiamento positivo e di reazione corretta alle notizie. Mai essere impulsivi.
Non occorre essere sempre l'eroe.
Molti imprenditori vogliono essere visti sempre come gli unici che possono risolvere un problema. Purtroppo, questo è qualcosa che alimenta il loro ego, ma non aiuta ad espandere il business. Molte volte si deve essere quello che prende l'ultima decisione o che lavora su un progetto particolarmente importante. Altre volte però altre persone possono essere più adatte a fare ciò che deve essere fatto. Bisognerebbe non dimenticarsi di dare anche ai dipendenti, familiari, o chi collabora, la possibilità di "brillare" qualche volta sotto i riflettori. Le persone non rimangono in una società solo per i soldi.
Ricordare sempre che le cose cambiano.
Questa può essere una delle cose più difficili da attuare. Appena l'azienda inizia ad avviarsi, è facile cadere nelle abitudini su come deve funzionare la società e che cosa può o non può permettersi l'imprenditore. Ad esempio a volte pensare di prendersi una settimana di vacanza, o anche due, diventa difficile perché si pensa di mettere in pericolo il business. Invece occorre mantenere sempre a mente i punti precedenti per essere sempre freschi, efficaci ed efficienti. Niente è immutabile. Ricordarsi sempre che i sacrifici personali sono necessari in certi momenti, ma non devono diventare la regola se si vuole crescere.

venerdì 2 maggio 2014

Coinvolgere per avere successo

Se mi dici una cosa la dimenticherò, se me la mostri potrei ricordarmela, se mi coinvolgi la capirò. (B.Franklin)

by Pierangelo Raffini
May 02, 2014 at 07:43PM

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