venerdì 25 marzo 2011

Quel business chiamato qualità spinto da tradizione e innovazione

Forse in pochi lo sanno che il formaggio "Piacentinu Ennese" il 14 febbraio scorso è stato il millesimo prodotto di qualità riconosciuto dalla Ue. Un traguardo che conferma un trend: il nostro Paese, con le sue 221 specialità di qualità protette, è leader in Europa nel settore agroalimentare davanti alla Francia e alla Spagna per numero di prodotti a Denominazione controllata (Dop), Indicazione geografica prodotta (Igp) e Specialità tradizionali garantite (Stg). I prodotti italiani di qualità, protetti dal riconoscimento comunitario, hanno sviluppato lo scorso anno un fatturato al consumo superiore ai 9 miliardi di euro, dei quali circa 1,5 realizzati sui mercati esteri. E’ la testimonianza che molti prodotti nazionali rappresentano il fiore all’occhiello, in termini di qualità, del panorama agroalimentare internazionale. Il caso del formaggio "Piacentinu Ennese" è emblematico: «E’ una specialità di nicchia, prodotta ancora con tecniche tradizionali — spiega Gaetano Nicoletti, proprietario del più grande caseificio di Enna, il Cavalcatore, con un giro di affari di 3 milioni di euro l’anno — Le tecnologie e le attrezzature sono quelle utilizzate dal pecorino, con la sola aggiunta dello zafferano al latte prima di essere coagulato. E proprio lo zafferano, che costa 10 euro al chilo, rende il prodotto pregiato ma piuttosto caro».
Nel nostro Paese, nel settore Dop e delle Igp, operano 98.200 aziende agricole e allevamenti e 7.600 strutture di trasformazione artigianali. In genere, i più venduti sono i formaggi (in testa Parmigiano Reggiano e Grana Padano) e i salumi (guidano la classifica il prosciutto crudo di Parma e il San Daniele), ma sono cresciute anche altre categorie di prodotto come gli ortofrutticoli (in particolare, mele della Val di Non e dell’Alto Adige, arance rosse di Sicilia e pesche nettarine della Romagna) e gli oli extravergini. In particolare, secondo gli ultimi dati diffusi dalla Coldiretti, il giro di affari dei formaggi è cresciuto nel 2010 grazie alla ripresa del Grana Padano che ha riportato un valore complessivo al consumo di quasi 2,4 miliardi di euro per effetto dell’aumento del 5,3 per cento dei consumi familiari e del boom nell’export cresciuto del 7,1 per cento in Europa, del 14,8 per cento in America e del 27 per cento in Asia. Buoni risultati anche per il Prosciutto di Parma, che ha riportato lo scorso anno il record delle vendite negli Usa, con un incremento del 17 per cento rispetto all’anno precedente.
Sono numeri, questi, che danno nuova linfa all’industria agroalimentare italiana che ha subito i contraccolpi della crisi, seppure con dinamiche meno pesanti rispetto ad altri comparti. Da un dossier di Federalimentare, relativo alla spesa dei consumatori in tempo di crisi, emerge infatti che sono pochi gli italiani che hanno ridotto la propria spesa alimentare, a fronte di tagli ben più importanti per altre voci del budget familiare. Non solo, secondo un’indagine Coldiretti/Sgw, la vittoria dei prodotti legati al territorio è confermata dal fatto che quasi due terzi degli italiani (65 per cento) si sentirebbero più garantiti da un marchio degli agricoltori italiani rispetto al marchio industriale (13 per cento) e a quello della distribuzione commerciale (8 per cento).
Fin qui, tutto bene. I problemi iniziano quando ci si addentra nello spinoso mondo delle frodi alimentari, che non sono un fenomeno circoscritto: a fronte di esportazioni per 20 miliardi di euro, la contraffazione nei paesi stranieri, giocata su nomi e marchi che richiamano l’Italia, è stimata in oltre 60 miliardi di euro (dati Coldiretti). Oltre al danno economico per il nostro Paese, la contraffazione comporta un danno d’immagine: perché il prodotto contraffatto non avrà mai i requisiti di qualità e sicurezza del vero made in Italy. La contraffazione è solo una parte del problema, l’altra è relativa alla mancanza di trasparenza nella vendita dei prodotti e i troppi passaggi dal produttore al consumatore, soprattutto riguardo alla merce venduta dalla grande distribuzione.
Contraffazione e poca trasparenza, due facce della stessa medaglia. Ma questi due problemi possono essere risolti? La prima risposta è arrivata a gennaio con il via libera al ddl che impone l’obbligo dell’etichettatura sui prodotti alimentari. Secondo il rapporto ColdirettiEurispes, circa un terzo (33 per cento) della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, per un valore di 51 miliardi di euro di fatturato, deriva da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio made in Italy, in quanto la legislazione, sino ad oggi, lo consentiva. Ora, invece, per vendere prodotti agroalimentari diventa obbligatorio indicare su tutti i cibi nell’etichetta luogo di origine e di provenienza. La seconda risposta al quesito la fornisce la Coldiretti: «E’ necessario costruire — sottolinea il presidente Sergio Marini — un grande sistema agroalimentare, che premi i produttori e offra ai consumatori prodotti di qualità».
In attesa di realizzare questo ambizioso progetto, permane il rischio che i prodotti made in Italy trovino sempre meno spazio sugli scaffali di supermercati ed ipermercati nazionali, in favore dei prodotti stranieri. E il cavallo di Troia per l’invasione sembra essere proprio la grande distribuzione estera che, negli anni, ha colonizzato il territorio facendo dell’Italia un paese che nell’alimentare dipende ormai per oltre il 65 per cento dalle maxicatene straniere. «E’ un ostacolo per la vendita dei nostri prodotti, perché la Gdo straniera fa poca differenza e privilegia i propri fornitori — sottolinea Salvatore Giardina, presidente della Azienda Agricola Fratelli Giardina di Siracusa, produttrice di agrumi e ortaggi — Noi siamo riusciti a stringere una rapporto diretto, senza intermediari, con la Coop da 20 anni. Ma non basta: abbiamo bisogno di più sbocchi».

Vito De Ceglia

domenica 20 marzo 2011

La Tradizione come Diritto


L a condanna del 2009 per il crocifisso in classe è cancellata. Per la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell' uomo, l' esposizione del crocifisso non ha violato la coscienza dei giovani studenti e l' orientamento educativo dei loro genitori. L' Italia è assolta. Due i passaggi chiave della sentenza. Anzitutto, i ricorrenti non hanno provato di aver subito una lesione. Non sono stati oggetto di indottrinamento. La loro «percezione soggettiva» di disagio non è sufficiente a configurare un' offesa giuridicamente rilevante. Accogliendo la tesi del governo italiano, la Corte ha infatti riconosciuto nel crocifisso «un simbolo passivo». Qui, il secondo passaggio chiave. La Corte ha rilevato le contraddizioni della giurisprudenza italiana, ma ha aderito alla versione fornita dal nostro governo: l' Italia ha il diritto di custodire le proprie tradizioni, di considerare il crocifisso un simbolo al contempo religioso e civile, e di riservare alla «religione della maggioranza, preponderante visibilità in ambito scolastico». Abbiamo dunque il diritto di tenerci le nostre ambiguità: il giudice Tosti ha potuto disporre di un' aula senza crocifisso, ed è stato sanzionato solo perché ha preteso che il crocifisso venisse tolto ovunque. Nel 2009, i giudici europei imposero una laicità modellata sulla neutralità pluralista delle grandi liberal democrazie occidentali. Per questo ci condannarono. Per questo Spagna e Germania, Regno Unito e Svizzera, Paesi Bassi e Belgio, Francia e Portogallo non hanno sostenuto il ricorso del governo italiano. Ora la Grande Camera disegna un' Europa in cui ogni Paese è più libero di decidere «quale posto accordare alla religione» e di favorire il cristianesimo, ovvero le chiese dominanti. Per questo ci hanno appoggiato i Paesi più confessionisti, in particolare quegli stati ortodossi, Russia e Grecia, Bulgaria e Cipro, che la Corte europea ha ripetutamente condannato per l' oppressione delle fedi minoritarie. Da oggi, l' Italia è il Paese che ha difeso l' Europa centro-orientale delle tradizioni contro l' Europa occidentale della neutralità pluralista. 
Ventura Marco - Corriere della Sera

Successo e insuccesso

L'insuccesso è un avvenimento, non una persona, riuscire è frutto di un processo e non di qualcosa che si realizza magicamente. Così come c'è un'enorme differenza tra il fallire in una determinata circostanza e fallire nella propria vita. I vincitori sono quelle persone che si rialzano da terra una volta in più di quante siano cadute.
Per questo è importante allenarsi a dominare, ad esempio, la rabbia nutrendosi di pensieri positivi, piacevoli, mantenere il ricordo di esperienza felici. Ci aiuta nel trasformare l'ira in reazione postiva ed energetica. In stress positivo che ci aiuta a costruire.
Non si è mai finiti anche quando si è sconfitti, ma lo si diventa se dentro di noi non crediamo più e ci si da per vinti. La strada per il successo a volte richiede di allontanarsi per percorrere un lungo tratto di stada, a volte impervio, per ritrovare il proprio percorso.

giovedì 17 marzo 2011

ITALIA: 150 di storia, un solo Paese


A parole chiare, risposta chiara. Non cederemo. Noi siamo forti e ostinati. Abbiamo per noi l'istinto della gioventù, del popolo d'Italia.
Giuseppe Mazzini

La patria è la fede nella patria. Dio che creandola sorrise sovra ad essa, le assegnò per confine le due più sublimi cose ch'ei ponesse in Europa, simboli dell'eterna forza e dell'eterno moto, l'Alpi e il mare. Dalla cerchia immensa dell'Alpi, simile alla colonna di vertebre che costituisce l'unità della forma umana, scende una catena mirabile di continue giogaie che si stende sin dove il mare la bagna e più oltre nella divelta Sicilia. E il mare la ricinge quasi d'abbraccio amoroso ovunque l'Alpi non la ricingono: quel mare che i padri dei padri chiamarono Mare Nostro. E come gemme cadute dal suo diadema stanno disseminate intorno ad essa in quel mare Corsica, Sardegna, Sicilia, ed altre minori isole dove natura di suolo e ossatura di monti e lingua e palpito d'anime parlan d'Italia.
Giuseppe Mazzini

Ammetto [...] di aver svolto, sia anteriormente che posteriormente allo scoppio della guerra con l'Italia, in tutti i modi - a voce, in iscritto, con stampati- la più intensa propaganda per la causa d'Italia e per l'annessione a quest'ultima dei territori italiani dell'Austria; ammetto d'essermi arruolato come volontario nell'esercito italiano, di esservi stato nominato sottotenente e tenente, di aver combattuto contro l'Austria e d'essere stato fatto prigioniero con le armi alla mano. Rilevo che ho agito perseguendo il mio ideale politico che consisteva nell'indipendenza delle province italiane dell'Austria e nella loro unione al Regno d'Italia.
Viva Trento italiana! Viva l'Italia!

Cesare Battisti

L'Inno di Goffredo Mameli, fu composto l'otto settembre del quarantasette, all'occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica; e fu ben presto l'inno d'Italia, l'inno dell'unione e dell' indipendenza, che risonò per tutte le terre e in tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 49.
Giosuè Carducci
 
Vertú contra furore prenderà l'arme, et fia'l combatter corto: ché l'antiquo valore ne gli italici cor' non è anchor morto. Italia mia, benché parlar l'sia indarno
Francesco Petrarca


I nomi del Risorgimento sono vivi, sono dentro di noi, ci appartengono. Ovunque vada, in questo lungo viaggio in Italia, mi rendo conto che gli italiani sono sempre orgogliosi della loro storia.
Carlo Azeglio Ciampi


E quest'Italia, un'Italia che c'è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade.
Oriana Fallaci


L'Italia ha un grande elemento di esportazione che è il suo marchio, il suo stile di vita, il suo gusto.
Luca Cordero di Montezemolo

martedì 15 marzo 2011

«Non è una questione di soglie di fatturato Non si insegna la passione per l’impresa»

La decisione degli eredi del fondatore Sotirio Bulgari di cedere il controllo della propria azienda merita rispetto. Eppure, quando la famiglia di uno dei gruppi italiani giunto a superare il miliardo di euro di ricavi (nel 2010) decide di cedere il controllo, abbiamo il dovere di cercare di capirne le ragioni. Qualcuno sostiene che la ragione della cessione è solo un tema di strategia aziendale: Bulgari non aveva le dimensioni sufficienti per competere nel settore del lusso a differenza di Hermès, un’altra azienda che, come noto, interessa a Lvmh. Ma come si calcolano esattamente le dimensioni necessarie per competere con successo in un settore? Non credo che sia così facile definire una soglia minima necessaria. Se lo fosse, allora dovremmo ipotizzare che quasi tutte le aziende del lusso italiano sono in vendita perché non potranno essere competitive. Il che mi pare palesemente irragionevole.
In verità non esistono soglie minime puntualmente definibili e la dimensione è una variabile strategica da inserire in una equazione a più variabili che porta a definire soglie diverse a seconda del posizionamento, dei mercati presidiati, del profitto atteso e così via. Come sto insegnando in questi giorni ai miei studenti in Bocconi, Campari quando ha iniziato il suo percorso di crescita tramite acquisizioni nel 1994 aveva una dimensione pari a un ventesimo di quella del leader e oggi è grande un decimo del leader (che, tra l’altro, non è più lo stesso), ma non ho mai sentito il presidente Luca Garavoglia sostenere di non avere le dimensioni sufficienti per competere con soddisfazione nel settore degli spirit .
Avanzo, allora, un’altra ipotesi.
Molti osservatori in questi anni si sono battuti contro il familismo di alcune famiglie imprenditoriali che blocca lo sviluppo possibile delle aziende controllate. Se per familismo intendiamo una logica che induce ad affidare la gestione dell’azienda a familiari incapaci, a depauperare l’azienda con distribuzione di risorse ingenti ai soci sottraendole allo sviluppo dell’azienda o a impegnarsi in costosi piani di diversificazione solo per impegnare qualche familiare, la battaglia è del tutto opportuna.
Un po’ di commentatori però hanno sostenuto che proprio per evitare il rischio che si affermi una logica familistica all’interno delle imprese familiari la soluzione migliore sarebbe quella di allontanare il più possibile i familiari dall’azienda. Così ragionando, si arriva a capire perché Hermès ha resistito alle proposte del gruppo Lvmh e perché la famiglia Bulgari ha deciso di cedere il controllo dell’azienda fondata e controllata per decenni. In una intervista a questo giornale, Francesco Trapani ha detto: «La nostra è una famiglia unita ma composta da persone con età molto diverse e che, dopo me e i miei zii, non hanno il desiderio di fare gli imprenditori». Se in una famiglia imprenditoriale non c’è nessuno che sia innamorato del «mestiere» dell’imprenditore, che non sia innamorato dell’azienda della famiglia, è impossibile rifiutare l’offerta di un concorrente disposto a pagare 30 o 40 anni di dividendi futuri.
Se non vogliamo ritrovarci tra qualche anno senza un buon numero di aziende familiari a controllo italiano allora dobbiamo finirla di chiedere che le famiglie facciano un passo indietro, ma dobbiamo chiedere alle famiglie di educare i propri figli e figlie a svolgere il ruolo di «azionisti informati e partecipi», a essere orgogliosi della storia della propria famiglia, a essere consapevoli della loro responsabilità anche sociale. Dobbiamo fare di tutto perché questi giovani arrivino a dire: «Mi interessa vedere come una impresa familiare può svilupparsi nel lungo termine. L’orgoglio per le proprie radici non è un ostacolo per la crescita. Ci sono tante opportunità nel futuro, dobbiamo prepararci per affrontarle con successo». Sono le parole di John Elkann nella sua recente intervista al Financial Times.

Guido Corbetta - Professore di Strategia delle aziende familiari università

sabato 12 marzo 2011

Ristorante Casa Conti Guidi

Il Ristorante Casa Conti Guidi trova dimora in una vecchia casa contadina di fine '800: la stalla, il granaio, l'aia e il giardino sono oggi, dopo un restauro preciso e attento offre spazi da vivere al servi-zio della buona tavola.
Casa Conti Guidi che conserva la storia e la tradizione romagnola locale, è un centro di aggregazione di convivialità e di cultura rurale dove l'attenzione verso l'ambiente e le coltivazioni fornisce contri-buti per l'alimentazione. E' un prezioso contenitore di iniziative per la conoscenza e la valorizzazione del territorio rurale e dei prodotti agricoli per riscoprire storia e tradizioni attraverso la ristorazione romagnola oltre che offrire servizi legati al turismo, al mondo del lavoro e della cultura. Complesso situato tra centro urbano e rurale di Bagnacavallo, caratteristica città d'arte della provincia di Ra-venna, offre ospitalità, tranquillità e la cordiale accoglienza delle genti di Romagna
Il Ristorante è ricavato, nella parte più utilizzata nel periodo invernale, dai locali che erano destinati alla stalla. A testionianza le numerose colonnine, i soffitti a volta e una parte della sala, lasciata con i box che caratterizzavano le stalle romagnole. Una delle cene migliori, per qualità dei piatti, che abbia fatto negli ultimi mesi. Giudizio unanime anche delle persone che erano con me. Cura del servizio, disponibilità e attenzione sono di casa. Segnalo l’ottima cucina espressa dal Maestro Alessandro Pireddu, giovane ventiduenne molto promettente e già vincitore di alcuni premi in quest’arte. Mi auguro che continui il suo processo di ricerca e miglioramento. Buono anche il rapporto qualità/prezzo.
Ho provato l'aperitivo con Prosecco di Valdobbiadene e stuzzicheria calda e fredda, gustoso il fritto di verdurine e il pan brioche, lantipasto con Culatello di Zibello, piadina alle erbe con Crem Brulè di Squaquerone e fiori d’arancio. Sottolineo quest'ultimo per la qualità e l'originalità. Primo di maltagliati di pasta e fagioli. Consigliata la forca del Passatore: bocconcini di carne sulla forca con patate al forno, verdure grigliate, pancetta e salse. Provato un pre-dessert: gelato alle rape rosse e coulis di frutti di bosco e la Catalana alla vaniglia. Buona anche la carta dei vini.
Consiglio la visita.

Pierangelo Raffini

mercoledì 9 marzo 2011

Tamara De Lempicka: La seduzione della modernità

Una delle artiste preferite: Tamara De Lempicka, sofisticata, ribelle ed eclettica, fu la ritrattista del jet set  degli Anni 30.
Estrosa, trasgressiva, emancipata, anticonformista, seduttrice nell’intreccio di amori e disamori bisessuali, insofferente ai vincoli, insomma una donna moderna già ai tempi suoi, gli anni folli ‘20 e ‘30 del secolo scorso: questo era Tamara de Lempicka. Nata a Varsavia in data incerta, forse 1898, Tamara Rosalia Gurwik-Gorska, poliglotta, cresciuta tra i fasti morenti della Russia zarista, profuga a Parigi nel ‘18, scelse di presentarsi al Salon d’Automne nel ‘22 come il russo signor Lempitzki (dal cognome del marito Tadeusz Lempicki): era convinta che per un uomo le vie dell’arte fossero più facili, proprio mentre la moda russa imperversava a Parigi. Poi divenne cittadina del mondo, protagonista del jet set cosmopolita che oscillava fra l’Europa e l’America (a Beverly Hills approdò in compagnia del secondo marito barone Raul Kuffner). Il successo della sua arte dall’acuta e ambigua sensibilità divenne planetario: era la ritrattista del bel mondo internazionale.

«Regina della modernità» venne definita per la capacità di unire lo sguardo contemporaneo all’antico, nonché per l’attenzione al «marketing» e alla visibilità della propria immagine in anticipo sui tempi. Appassionata di cinema, foto, grafica pubblicitaria, moda, si calò in tutto da ammiratrice e protagonista. Riuscì ad ammaliare personaggi come Marinetti, Prampolini (è una scoperta), D'Annunzio, poi Gide che lei ritrae, Dalí, star di Hollywood come Greta Garbo, Marlene Dietrich, Louise Brooks. E nel dopoguerra anche Andy Warhol fu soggiogato dai suoi aspetti moderni. Ora il Complesso del Vittoriano a Roma la celebra con una preziosa mostra che su due piani schiera in campo 80 dipinti, una prima parte dagli esordi al ‘39, la seconda dal ‘40 al ‘57. Li affiancano 30 disegni, 50 foto in parte inedite, due film, e le opere di 13 artisti polacchi a lei vicini. Un omaggio curato con passione da Gioia Mori (autrice della personale a Palazzo Reale di Milano nel 2006), promosso e realizzato da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicolosi. Le opere, poderosi ritratti, voluttuosi nudi femminili, pregevoli nature morte, interni di case, qualche concessione all’umanità sofferente che da profuga sapeva catturare e apprezzare, accanto a nobili, ricchi, famosi, provengono da musei internazionali e collezionisti gelosi come gli attori Jack Nicholson e Anjelica Huston. Di Nicholson è (con altri 4 dipinti) l’inquietante ritratto in alta uniforme del Gran Duca Gabriele, 1926, dal cadaverico volto consunto da malattia, a contrasto con il rosso sfolgorante della giacca ricoperta di alamari e medaglie.

La sua pittura oscilla è influenzata da avanguardie e movimenti contemporanei (Costruttivismo russo, Futurismo, Cubismo, Realismo Magico). Frequenta le lezioni di Maurice Denis e di André Lothe, con lo sguardo spalancato ai maestri italiani del Rinascimento, scrive a D’Annunzio di studiare Pontormo, cita Carpaccio, ripensa Botticelli, né trascura la statuaria romana o le levigatezze di Hayez, ma soprattutto attinge a Ingres, maestro di linee e forme. È lui all’origine di dipinti come i nudi del ‘23-25, quando non incrocia il Vermeer de La ragazza con l’orecchino, rinverdito in Ragazza con le viole, 1945. Il suo estro sta proprio nel mescolare maniere e stili diversi come in un calderone ribollente trasformandoli in cifra personale che tutto domina e avvolge, fino a renderla unica come icona del Déco.

Le linee sinuose, i volumi scultorei, le superfici smaltate, i colori splendenti, i blu e verdi si esaltano nelle amazzoni da lei amate, Ira Perrot in Il telefono II 1930, e nei 5 nudi provocanti di Rafaela, per la prima volta presentati insieme. Caschetto alla garçonne, occhi di ghiaccio, labbra rosse carnose, lunghe dita dalle unghie verniciate (nutriva un’ossessione per le mani), le sue eroine muovono al volante di una Bugatti (lei girava in una Renault gialla) con sciarpe svolazzanti, sigaretta in bocca, sedotte dalla velocità e dai miti del progresso, come i grattacieli che vediamo sul fondo dei dipinti dopo il soggiorno negli Usa del ‘29. Riservava tenerezza, tinte rosate o il bianco, per la figlia Kizette, immortalata a Cannes nel 1936 in Kizette in rosa. Agli uomini concedeva eleganza, disinvoltura, pose o atteggiamenti studiati, un certo mistero come nel memorabile Ritratto del principe Eristoff dal fondo allusivo, o quello del marchese d'Affitto. Morì a Cuernava nel 1980, onori e successi alle spalle, distribuendo parte cospicua dell’eredità a orfanotrofi o bisognosi.

FIORELLA MINERVINO - La Stampa

domenica 6 marzo 2011

Messaggio per un aquila che si credeva un pollo

Il maestro accoglieva con gioia i progressi della tecnologia, ma era profondamente consapevole dei suoi limiti.
Quando un industriale gli chiese quale lavoro facesse, rispose: "Sono nell'industria della gente"... "E sarebbe, se permetti ?", chiese l'industriale.
"Guarda te stesso", disse il maestro, "I tuoi sforzi producono cose migliori, i miei gente migliore".
Ai suoi discepoli disse poi: "Lo scopo della vita è il fiorire delle persone. Al giorno d'oggi la gente sembra maggiormente interessata al perfezionamento delle cose".

Anthony De Mello

Credere

Se tu puoi, credi, tutto è possibile a chi crede.

Sacre Scritture

L'abitudine

Ogni abitudine rende la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno.

Friedrich Nietzsche

Ossimoro

Nella figura retorica chiamata ossimoro, si applica ad una parola un'aggettivo che sembra contraddirla, così come gli gnostici parlavano di luce oscura; gli alchimisti di un sole nero.

Jorge Luis Borge

sabato 5 marzo 2011

Autodisciplina

Autodisciplina. Il termine greco, equivale ad autocontrollo e deriva da una parola radice che significa "fare presa" o "afferrare". Descrive le persone che sono disposte a dominare la loro vita e ad assumere il controllo delle aree che determineranno il loro successo o meno.
L'autodisciplina è un viaggio all'esterno, che non possiamo compiere se prima non abbiamo realizzato il nostro viaggio interiore. Lavorare sulla propria anima, sul proprio spirito, levigando la pietra che è in noi per costruire il nostro tempio interiore.

Pensieri e atteggiamenti

Impara a sintonizzare la mente sui diversi tipi di opportunità che vuoi incontrare, o sui problemi che vuoi risolvere: Concedigli il tempo e la libertà di esaminare l'ambiente che ti circonda e in cui operi, alla ricerca di possibili opportuità o soluzioni.
Se il tuo cervello è predisposto ad affronatre un problema, passerà inconsciamente al setaccio ogni imput e si concentrerà con calma sulla questione. Poi, ogni tanto, ti accorgerai che scoprirà una soluzione, un'opportunità, un'occasione che altrimenti avrebbe trascurato.
E' fondamentale alimentare la propria mente con idee nuove e differenti, nuove esperienze, guardare cose mai viste. Viaggiare, sfogliare riviste o giornali mai letti, anche navigare a caso su internet stimola la mente e porta a trovare soluzioni, cogliere opportunità, comprendere situazioni. Il cervello in questi casi naviga esso stesso e crea legami che ritorneranno utili.
Lavorando sul nostro modo di pensare possiamo riuscire a vedere positivamente i fatti e le situazioni che affrontiamo quotidianamente. Ma non è automatico questo processo. Occorre impegnarsi quotidianamente su questo aspetto. Se inizi a cambiare il tuo modo di pensare, cominci automaticamente a cambiare il tuo comportamento. Puoi diventare la persona che hai sempre voluto essere.
Lavora sul cervello permette di cambiare atteggiamento. Gli atteggiamenti sono abitudini di pensiero e possono essere acquisiti. Un'azione ripetuta diventa un atteggiamento realizzato.