venerdì 27 febbraio 2015

Lavoro, le ore più produttive? Il mattino presto


Gli italiani? Poco mattinieri, ma il 35% di manager, professionisti e impiegati gestisce la maggior parte delle pratiche nelle prime ore, lontano dall’ufficio tradizionale

Smartphone, tablet e connessioni in rete consentono di essere sempre operativi e collegati con il mondo del lavoro, con una sempre più crescente integrazione tra vita privata e attività professionale; di conseguenza i tradizionali orari d'ufficio (9-17) sono di fatto superati. Anche per questo, in una recente indagine Regus su 22 mila manager e professionisti a livello internazionale, il mattino presto viene indicato come la fascia oraria più produttiva della giornata.
UN ITALIANO SU DUE LEGATO ALL’ORARIO 9-17. Il 35% di manager, professionisti e impiegati (il 45% a livello globale) raggiungono la massima produttività e riescono a gestire una considerevole parte del lavoro al mattino presto, spesso lontano dall'ufficio tradizionale, prima dell'assalto di e-mail e telefonate che interrompono il flusso del lavoro e la concentrazione. La percentuale registrata nel nostro Paese è sensibilmente inferiore rispetto ai principali paesi europei (Spagna 50%, Francia 44%, Germania 39%, Regno Unito 49%); mentre il 48% degli italiani è ancora legato al tradizionale orario d'ufficio 9-17.
LE ORE PIÙ PRODUTTIVE. Gli orari dove la maggioranza dei rispondenti si ritiene meno produttiva viene indicata in tarda serata (Italia 15%) e durante la notte (Italia 2%). Percentuali più o meno allineate alla media globale e a quelle dei principali paesi europei con l'eccezione della Germania dove viene registrata una percentuale del 22%, quindi circa un quarto dei manager tedeschi, affermano di essere maggiormente produttivi nelle ore serali.
TRA CONCENTRAZIONE E PAUSA CAFFÈ. Anche il tempo durante il quale si riesce a mantenere la concentrazione svolge un importante ruolo nel determinare la produttività delle persone durante l'attività lavorativa. In media circa il 70% mantiene la concentrazione entro le tre (4% meno di un'ora, 31% tra una e due ore, 34% tra le due e le tre ore), solo un 30% dichiara di riuscire a rimanere concentrato sul lavoro senza interrompersi oltre le tre ore.
Brevi break, inoltre, sono necessari durante la lunga giornata lavorativa per mantenere il benessere psico-fisico, recuperare le energie e la capacità di rimanere concentrati. La pausa caffè rappresenta in Italia, ma anche negli altri paesi, un must delle interruzioni di relax sul lavoro, (29% Italia; 28% media globale); anche piccole passeggiate (all'interno o all'esterno degli uffici) costituiscono un'attività fisica per sgranchirsi un po' le gambe dopo essere rimasti seduti alla scrivania per molto tempo. Questa attività è più frequente all'estero (24% media globale, 21% Italia). Seguono poi il cambio di attività, passando a svolgere altri impegni e incombenze per poi riprendere (17% Italia, 14% globale) e brevi conversazioni con i colleghi (14% Italia, 11% media globale); anche guardare le notizie o navigare in rete (11% Italia e media globale) costituisce un momento di svago e relax.

giovedì 26 febbraio 2015

Il debito perpetuo

Nelle trattative a livello europeo la Grecia ha avanzato l’ipotesi (invisa ai tedeschi) di convertire parte del suo debito pubblico in perpetual bond, titoli di Stato senza scadenza. Si tratta di uno strumento finanziario che ha una lunga storia dietro di sé, visto che venne adottato inizialmente dalla Gran Bretagna nel XVIII secolo e che il governo di Londra ha deciso di rimborsare il prossimo 9 marzo una parte dei perpetual bond emessi per coprire le spese della Prima guerra mondiale. Ma il concetto di debito perenne non riguarda solo una particolare categoria di titoli, poiché gli oneri gravanti sulle finanze di alcuni Paesi, compresa l’Italia, hanno assunto da tempo un carattere che ne condiziona la vita in modo permanente. Da qualche tempo la questione è centrale per il nostro futuro: per questa ragione, al di là dei problemi economici contingenti, ci è sembrato utile esplorarne gli aspetti di natura culturale. Per esempio il retroterra storico ripercorso in queste pagine da Sergio Romano, con puntuali riferimenti alle vicende del Regno d’Italia. Oppure i risvolti di natura antropologica su cui si sofferma Adriano Favole, smentendo alcune consuete raffigurazioni della teoria economica classica. Per finire con le questioni filosofiche esaminate da Donatella Di Cesare, che ribadisce l’importanza della distinzione tra etica ed economia, ponendo in rilievo la pericolosità del nesso istituito tra debito e colpa morale.

Storia
Sella, Luzzatti & C. Il Dna dell’Italia che risana i conti si è quasi perduto
Era un affare privato dei re ma tutto cambiò con lo Stato moderno

04-boccalini_01Quello che noi chiamiamo «debito pubblico» fu per molto tempo il debito dei sovrani, vale a dire il «rosso» di un bilancio in cui era difficile separare le spese pubbliche da quelle private. Sino a quando gli Stati furono patrimoniali, i re avevano bisogno di denaro per i loro palazzi, per il corpo delle guardie reali, per le forze armate di cui sarebbero divenuti comandanti supremi allo scoppio di una guerra. Potevano contare su dazi e balzelli, sulla vendita o sull’affitto di pubbliche funzioni, sulla rendita dei feudi di cui la dinastia si era impossessata nel corso della sua storia. Ma se il denaro non bastava, occorreva rivolgersi ai banchieri, soprattutto fiorentini o tedeschi. Durante la Seconda guerra mondiale, quando l’Inghilterra, in linguaggio fascista, era la «perfida Albione», Giovacchino Forzano diresse un film (Il re d’Inghilterra non paga) sul prestito contratto da Edoardo III re d’Inghilterra, intorno al 1340, con due banchieri fiorentini, Bardi e Peruzzi. Era il denaro di cui Edoardo aveva bisogno per la guerra con cui rivendicava la corona di Francia. Vinse molte battaglie, ma non onorò il suo debito e i banchieri fiorentini fallirono.

Molto più cospicua, a quanto pare, fu la somma (800 mila fiorini) che Carlo V, re di Spagna, prese a prestito in Germania, a Firenze e a Genova per comprare i voti dei grandi elettori che nel 1519 lo avrebbero eletto sacro romano imperatore. Il suo maggiore creditore, Jacob Fugger di Augusta, volle una fideiussione per 300 mila fiorini e fu pagato con le miniere di cui Carlo, conte del Tirolo, era proprietario a nord delle Alpi. Nel Settecento la Francia era la maggiore potenza militare europea. Ma le guerre di Luigi XIV avevano svuotato le casse dello Stato e gli aiuti forniti ai ribelli americani contro la Gran Bretagna da Luigi XVI avevano ulteriormente aumentato il debito pubblico. Fu chiamato per risanare i conti pubblici un famoso banchiere ginevrino, Jacques Necker, allora padre di una graziosa ragazzina che diventerà famosa con il nome di Madame de Staël, che impinguò anzitutto le casse dello Stato con la rente viagère, una sorta di prestito a vita che fruttava al creditore una rendita del 10%. Ma ordinò anche una spending review che irritò le sue vittime (pubblici funzionari, aristocrazia) e gli costò il posto. Il suo successore, Charles-Alexandre de Colonne, propose una sorta di prestito forzoso sulle rendite fondiarie che suscitò altrettanti malumori ed ebbe per effetto la convocazione degli Stati generali. Da quel momento la storia del debito francese si intreccia con la storia politica di Francia, dalla Rivoluzione a Waterloo. È una storia in cui i passivi sono rappresentati soprattutto dalle enormi spese militari e gli attivi dal modo in cui la Francia riuscì a distribuire l’onere del debito su alleati e vassalli.

Nella storia del debito, dal 1815 al 1915, esistono almeno due buoni capitoli italiani. Il primo cominciò nel 1861. L’Italia portava sulle sue spalle, al momento della nascita, il debito contratto da Cavour, soprattutto con le banche inglesi, e quello degli Stati preunitari che il Piemonte, per legittimare l’operazione unitaria, intendeva onorare. Un ministro delle Finanze, Pietro Bastogi, creò il Grande libro del debito in cui vennero iscritti tutti i debiti vecchi e nuovi del giovane Stato. Vennero pagati con la vendita dei beni ecclesiastici, la privatizzazione del demanio degli Stati preunitari e, soprattutto, le imposte, fra cui quella particolarmente impopolare sul macinato. Il pareggio fu annunciato da Quintino Sella nel 1876 e fu l’ultimo dono della Destra al Paese prima del suo declino.

Il secondo capitolo appartiene agli anni in cui il presidente del Consiglio era un altro piemontese, Giovanni Giolitti. Per pagare il debito che si era progressivamente accumulato nei decenni precedenti, l’Italia doveva iscrivere a bilancio, ogni anno, gli interessi passivi d’una somma corrispondente a circa 16 miliardi di lire, pari, grosso modo, a 60 miliardi di euro dei nostri giorni. Di quei 16 miliardi circa la metà era rappresentata da debiti contratti a un interesse elevato (il 5%) in anni durante i quali lo stato dell’economia nazionale era alquanto peggiore. Ma agli inizi del Novecento vi erano ormai le condizioni per convertire la rendita più onerosa dal 5 al 3,5%, con un risparmio considerevole per il bilancio dello Stato. Un’Italia più prospera e più dinamica poteva legittimamente pretendere tassi meno elevati. L’operazione durò qualche anno e richiese l’avallo di una grande banca parigina (quella dei Rothschild), ma rimase sempre nelle mani di un uomo politico veneziano, Luigi Luzzatti, che la gestì magistralmente. È lecito sperare che il Dna dei Bastogi, dei Sella, dei Giolitti e dei Luzzatti non sia andato interamente perduto?

Sergio Romano (http://lettura.corriere.it/debates/il-debito-perpetuo/) - 


martedì 10 febbraio 2015

Cala la sera anche su questa giornata. Il lavoro continua sotto un'altra luce... #Capecod #istantphoto… http://ift.tt/1ATDOfs

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by Pierangelo Raffini



February 10, 2015 at 06:05PM

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Ottima qualità e fantasia nel pesce alla Taverna Dei Velai.

Ottima qualità e fantasia nel pesce alla Taverna Dei Velai ; una eccellenza nel territorio della nostra Delegazione di Lugo di Romagna dell'Accademia Italiana della Cucina. Nelle foto: una piccola entrata con baccalà mantecato e olive taggiasche, gamberi in tempura con fonduta di parmigiano e tartufo e carbonara di pesce.

by Pierangelo Raffini



February 10, 2015 at 06:54AM

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domenica 8 febbraio 2015

Personal Branding: non è un gioco o una moda http://ift.tt/1zvFzOe

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by Pierangelo Raffini

Oggi si parla molto di Personal Branding. Cos'è il Personal Branding ?
E' il vostro "marchio", un insieme di reputazione, comunicazione, competenze, capacità di rendersi visibili, portare risultati e creare relazioni.
Servono meno di 30” per formare un’impressione duratura di voi davanti a un nuovo interlocutore, mentre possono servire decine di occasioni per cambiare una percezione negativa avuta in quei primi secondi. Gestire adeguatamente il proprio Personal Branding quindi significa farsi collocare nella giusta posizione percettiva dagli altri.
Non sono solo le parole o le azioni che definiscono il risultato della nostra strategia, ma la percezione che ne ha il vostro interlocutore.
La chiave del successo è quindi quella di differenziarsi dagli altri con particolari che siano, prima di tutto, memorabili ma anche parte caratterizzante di voi e vi rappresenti realmente.
Dovete lavorarci sopra, focalizzarvi, meditarci. Per costruire un brand ci vuole tempo, dedizione e passione. Non pensate che sia un gioco o una moda. Dedicatevi a queste attività, scrivete per chiarirvi.
E’ un lavoro sartoriale, il vostro Brand è il vostro abito su misura, deve starvi bene addosso e vi deve far sentire a vostro agio.
Identificate ciò che vi rende unici in relazione all’obiettivo che vi siete dati, cosa vi differenzia dagli altri, quali valori vi appartengono e ciò che non volete essere, qual è la vostra “vision”. Imparate a comunicarlo e a ripeterlo mantenendovi sostanziali, coerenti e empatici.
In un mondo che appare sempre più povero di tempo e ricco di informazioni, riuscire ad essere essenziali, distintivi e generare fiducia è essenziale.
Oggi per costruire il vostro Personal Branding è importante darsi una chiara strategia anche di social networking e saper maneggiare l’arte dello storytelling: dovete raccontare una storia, la vostra e rendere partecipi le persone che vi ascolteranno.
Promuovete il vostro marchio. Aiutatevi con le persone che vi sono amiche e che vi stimano, fateli diventare i vostri più importanti promotori e cercate di trovare conferme dal mercato se il vostro posizionamento è corretto.
Cambiate se la percezione che hanno gli altri di voi non è quella che vorreste. Cercate di capire cosa non funziona. Probabilmente non siete chiari nel vostro posizionamento.
Quando avete trovato il vostro brand, continuate ad affinarlo, a levigarlo, a migliorarlo. Ricordate che l’attività di Personal Branding è fatta anche di comunicazione verbale, non verbale e para-verbale, di scelte dell’abbigliamento, di letture, di relazioni, di pensieri e molto altro ancora.
Un vero e proprio percorso di affinamento e completamento che non finisce mai.
Il risultato dell'attività di Personal Branding deve essere lo stesso di chi persegue l'eleganza: non è farsi notare, ma farsi ricordare.