domenica 29 agosto 2010

Sentirsi "completi"

Per sentirsi completi, felici di se stessi, penso che non bisogna rifuggire la partecipazione ad eventi mondani, ad aperitivi, a cene ed altre cose "in società". E' importante però affiancare e trovare i giusti spazi per la lettura, la riflessione, l'autoanalisi, la meditazione e, per chi crede come il sottoscritto, anche per la preghiera e il dialogo con Dio.

venerdì 27 agosto 2010

Bianco Latte

Ci sono capitato per caso, ma devo ammettere che questo locale, ristorante, bar, caffetteria e non solo, mi è piaciuto molto. Ritengo che sia il primo, o uno dei primi, di una catena che si sta sviluppando nelle città più importanti in Italia. La filosofia è chiara: "Bianco come il latte, latte come ritorno alla genuinità, latte come ricordo della nostra infanzia, latte come ingrediente dei nostri prodotti più gustosi: il cappuccino, la cioccolata, lo yogurt, i formaggi freschi e il nostro inconfondibile gelato. Biancolatte come prima colazione, pranzo, merenda e cena… dal sapore di casa! Biancolatte è Italia con il suo gelato, Biancolatte è Italia con il suo Caffè, Biancolatteè Italia con la sua Cucina golosa".
Molto curato l'arredamento, con prevalenza di legno e colore bianco, che rende l'ambiente molto naturale e solare. Locale con quel gusto "minimal", sobrio, ma con una grande attenzione e cura in tutti i particolari: dalle tazze, agli arredi, agli accessori. Tutto concorre a farti attrarre dal luogo. Interessante e studiato anche il menù.

Ricco di piatti adatti a chi lavora e quindi equilibrati, ma sostanziosi, belli nella presentazione e buoni nella degustazione. E' un locale adatto anche alle prime colazioni per chi vuole partire con il "ritmo giusto" al mattino, ma anche per ritrovarsi a pomeriggio parlando magari anche d'affari in un luogo molto confortevole. Ricca la proposta di variazioni del caffè.
Mi ha ricordato nell'atmosfera, nel messaggio che sottende, nella proposta gastronomica la catena dei "Le Pain Quotidienne" che ho trovato sia a New York che a Parigi e che ho frequentato varie volte con grande soddisfazione.

Consiglio di provarlo.

Bianco Latte - Via Filippo Turati, 30, 20121 Milano - Tel. 02 62086177 (www.biancolattemialno.it)

lunedì 23 agosto 2010

Matteotti, la politica al servizio dei più deboli

Dimentichiamoci la sua morte: massacrato di botte da quattro o cinque energumeni in un pomeriggio romano del giugno 1924, colpito da una pugnalata al cuore, trasportato cadavere in una boscaglia lungo la via Flaminia, occultato alla benemeglio sotto pochi centimetri di terra, fatto ritrovare un paio di mesi più tardi. Così pure, dimentichiamoci la sua esistenza d'oltretomba: il culto quasi religioso che un'Italia soggiogata e impaurita, ma non domata, scelse di votargli per vent'anni dopo il delitto, nell'interminabile attesa di una rivincita.

Dimentichiamo tutto questo, e pensiamo alla vita di Giacomo Matteotti. Guardiamo all'uomo, non al martire. E domandiamoci se non ci sarebbe gran bisogno - qui e adesso - di un politico come lui. Della sua idea di militanza come servizio dell'interesse pubblico anziché del vantaggio privato. Della sua pratica di un riformismo concreto, attuoso, costruito sui fatti anziché sulle parole. Del suo carisma personale, tanto evidente quanto poco sbandierato. E anche (come no?) della sua scommessa sul futuro della socialdemocrazia: della sua battaglia per un mondo più giusto perché meno diseguale.

Nell'Italia di oggi, il nome di Giacomo Matteotti vive soltanto nella toponomastica: viale Matteotti, corso Matteotti, largo Matteotti, piazza Matteotti, non c'è quasi città italiana dove non si sia voluto rendere omaggio - subito dopo la Liberazione - alla figura del martire antifascista.
Ma se non fosse per questo, cioè per la sopravvivenza che gli viene garantita dai postini, dai navigatori satellitari e da Google Maps, Matteotti sarebbe scomparso dalla nostra vita pubblica e privata. Come don Abbondio di Carneade, potremmo dire di Matteotti: chi era costui? Non se ne sono ricordati neppure i fondatori del Partito democratico, quando hanno discusso (o hanno fatto finta di discutere) chi più meritasse di far parte del loro "pantheon".

Eppure, una volta ripulita dallo smog delle strade e dalla polvere della storia, la figura di Matteotti sembrerebbe fatta apposta per servire all'Italia del 2010: ogni singolo ingrediente dell'esperienza politica di quest'uomo ci tornerebbe assai utile. A cominciare dal famoso «radicamento sul territorio» di cui oggi tanto si parla o si straparla, e che Matteotti interpretò in modo esemplare dapprima quale amministratore locale di vari comuni del Polesine, poi quale deputato di Rovigo al parlamento nazionale.
Il suo fu radicamento economico e sociale, nella misura in cui - rampollo di una famiglia della borghesia agraria - doveva quotidianamente misurarsi con la miseria dei braccianti del delta del Po. Fu anche radicamento intellettuale e morale, nella misura in cui lo studente di legge nella vicina Bologna ritornava appena possibile nella sua Fratta Polesine per studiarne, in biblioteca e in parrocchia, la storia locale. O per rifarsi gli occhi con le meraviglie artistiche del luogo: le tele di Tintoretto e di Tiepolo, la villa Badoer di Palladio.


Da amministratore di Fratta e di altri comuni della provincia di Rovigo, tra il 1912 e il 1920, Matteotti si fece soprattutto la fama dello spulciatore di bilanci: quanti sindaci e segretari comunali se lo sognavano di notte... Il suo primo criterio d'intervento era fondato sulla compatibilità necessaria fra i preventivi di spesa e le risorse finanziarie del municipio. Niente debiti per i comuni: se non c'erano soldi in cassa, si rinunciava alla spesa. Il secondo criterio riguardava non le uscite ma le entrate. Se per le opere pubbliche mancavano i soldi, bisognava aumentare l'imposizione locale.
I contratti per i grandi lavori pubblici andavano scrutinati con la lente d'ingrandimento: nelle stipule con le imprese private, gli amministratori locali di un secolo fa non erano necessariamente più onesti degli amministratori d'oggidì. Bersaglio fisso di Matteotti anche le delibere d'urgenza delle giunte comunali: un'altra fonte di abusi per cent'anni ancora della storia d'Italia.

Al tempo nostro - il tempo della "casta" - l'immagine del brillante giurista trentenne chino sulle carte di minuscoli comuni rodigini (oltre a Fratta, Villamarzana, Villanova del Ghebbo, Fiesso Umbertiano, Frassinelle Polesine) per verificare che non un soldo pubblico facesse una brutta fine, quell'immagine rischia di apparire tanto strana da riuscire surreale. Ma questo era Matteotti, e anche perciò si può avvertire, oggi, un tanto acuto bisogno di lui.

Ci manca come il pane la sua interpretazione della militanza politica quale etica del lavoro e della conoscenza: la medesima forma di militanza che proseguì a Roma, deputato socialista, dal 1919 al '24. «Passava ore e ore - ricorderà un compagno di partito - nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose».

Fondato sulle cose: e la cosa che più turbava Matteotti era la diseguaglianza sociale. Di suo, era molto ricco: aveva ereditato dal padre oltre 150 ettari di terra, gli avversari - da destra o da sinistra - lo irridevano come il «socialista milionario». Più che dei profitti dei suoi terreni, Matteotti si preoccupava dei diseredati del Polesine, analfabeti al 60-70 per cento.
Da deputato, le sue battaglie per maggiori finanziamenti alla pubblica istruzione (edilizia scolastica, biblioteche popolari, corsi serali per adulti) fecero tutt'uno con le sue accuse contro gli insegnanti meno scrupolosi, quelli che un ministro veneto di oggi chiamerebbe i "fannulloni".
Del resto, nel 1920, quando un ministro della Pubblica istruzione chiamato Benedetto Croce gli parve discutere dei problemi della scuola restando sempre sul vago, senza padroneggiare i dossier, dallo scranno di Montecitorio Matteotti non fece sconti neppure a lui: «Voi state speculando filosoficamente sulle nuvole. Qui non si viene con i libri di estetica, ma con dei programmi pratici e questi si ha il dovere di assolvere».

Alla sua maniera, il socialista Matteotti era un liberale. Dopo l'avvento al potere di Mussolini, nel 1922, gli capitò di rimproverare al governo certi interventi di sostegno statale all'economia privata, come pure certe misure protezionistiche in materia di dazi doganali. Con Filippo Turati, Matteotti lasciò il Psi e fondò il Psu (Partito socialista unitario) quando si convinse che il filo-sovietismo dei massimalisti avrebbe consegnato l'Italia alle destre, mentre serviva un riformismo socialdemocratico. A quel punto, era comunque troppo tardi. L'ex socialista Mussolini aveva ormai in mano il governo del paese, e non l'avrebbe più mollato per vent'anni, a prezzo di infinite sciagure.

Il radicamento di Matteotti sul territorio del suo Polesine contribuì a rendergli chiara la natura di classe del fenomeno fascista: l'alleanza dei ceti medi con gli agrari, contro i diritti acquisiti dal bracciantato in decenni di sacrifici e di lotte. Dopodiché, a quest'uomo delle istituzioni non restò che battersi puntigliosamente, coraggiosamente, disperatamente, per tutelare le ultime vestigia del santuario democratico.
Dal 1923 al '24, l'emiciclo di Montecitorio risuonò delle sue denunce contro il ricorso sistematico del governo Mussolini allo strumento dei decreti-legge; contro la tentazione mussoliniana di limitare la libertà di stampa dei giornali antifascisti; contro i numeri truccati della propaganda governativa riguardo alla situazione economica.Il 10 giugno 1924, Matteotti fu ucciso per volontà di Mussolini (o per suo ordine) anche perché si preparava a denunciare un affare di corruzione: una sporca connection ai vertici del potere, concessioni petrolifere all'impresa americana Sinclair Oil in cambio di tangenti a una "cricca" vicinissima al duce e ai massimi dirigenti del Partito nazionale fascista. Sicari al soldo di Mussolini ebbero paura che le rivelazioni di Matteotti sulla "convenzione Sinclair" suscitassero un tale scandalo nel paese da provocare la caduta del governo, e assassinarono il deputato socialista alla vigilia del giorno in cui ne avrebbe parlato alla Camera.

Nell'Italia del 2010, possiamo stare sicuri che un uomo come Giacomo Matteotti si meriterebbe l'appellativo - parlandone da vivo - di «giustizialista». È infatti questa la parola con cui si suole oggi definire chi ancora crede che la magistratura debba esercitare sino in fondo il suo ruolo di ordine indipendente: perseguendo senza fallo le violazioni del codice penale, quand'anche vengano compiute dalle massime cariche dello stato.

Ma è proprio in nome di un'idea nobile, alta, severa della giustizia, che alcuni di noi possono tanto più rimpiangere l'assenza, qui e adesso, di un nuovo Matteotti.

Il profilo

LA VITA

Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine, in provincia di Rovigo, nel 1885. Dopo la militanza nella gioventù socialista, nel 1904 prende la tessera del partito. Dottore in giurisprudenza a Bologna, ricopre il primo incarico politico nel 1910 come consigliere provinciale di Rovigo, per la sezione di Occhiobello. Sindaco di Villamarzana nel 1912 e di Boara Polesine nel 1914, guida l'opposizione socialista e diventa segretario di partito nel 1916. Per il suo impegno antibellicista durante la Grande guerra, viene condannato a 30 giorni di reclusione. Eletto in parlamento nel 1919, prende parte alla commissione Finanza e tesoro della Camera. Critico intransigente del fenomeno fascista, denuncia la violenza squadrista nella famosa Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia durante la campagna elettorale del '21. Con la scissione della corrente riformista, diviene segretario del nuovo Psu. Nel '24 in parlamento denuncia i brogli elettorali e il clima di illegalità. Il 10 giugno dello stesso anno viene rapito e ucciso da sicari fascisti. Il suo corpo viene trovato il 16 agosto successivo in un bosco nel comune di Riano nei dintorni di Roma. Due sono i libri da lui pubblicati a Londra nel 1924 per denunciare le pericolosità del regime: Machiavelli, Mussolini and fascism (English Life, 1924) e The fascisti exposed; a year of fascist domination (ristampato da H. Fertig, 1969).

LA SUA MORTE

Il rapimento e successivo assassinio di Matteotti presentano ancora numerosi lati oscuri. L'opinione pubblica attribuì la responsabilità a Mussolini, che in un noto discorso tenuto alla Camera il 3 gennaio 1925 respinse l'accusa (pur affermando: «Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto»). Rimase famosa una vignetta del giornale satirico Il becco giallo, nella quale il Duce siede sulla bara di Matteotti. Diverse sono le pubblicazioni che tentano di ricostruire la vicenda, da Matteotti: una vita per il socialismo di Antonio Casanova (Milano, Bompiani, 1971) a Il delitto Matteotti di Mauro Canali (Il Mulino, Bologna, 2004). Con lo stesso titolo nel 1956 esce il film diretto da Nelo Risi, ripreso nel '73 anche da Florestano Vancini.

LA MEMORIA

Con la legge n. 255 del 2004, a 80 anni dalla sua morte, il parlamento ha finanziato il restauro della casa natale a Fratta Polesine, spazio espositivo permanente con gli arredi originali. Presso la presidenza del Consiglio è stato istituito un premio annuale intitolato a Giacomo Matteotti. Il centro espositivo Sandro Pertini custodisce l'archivio storico: il fondo raccoglie un insieme di carte rimaste a Fratta Polesine, la documentazione, i cimeli e un'ampia rassegna stampa.

www.pertini.it

www.fondazionematteottiroma.org

Sergio Luzzatto - Il Sole 24ore

domenica 22 agosto 2010

Sulla vita

La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lamenta per l’avarizia della natura, perché veniamo al mondo per un periodo troppo breve di tempo, perché questi intervalli di tempo a noi concessi scorrono tanto velocemente, tanto rapidamente, al tal punto che, se si fa eccezione per pochissimi, la vita abbandona gli altri proprio mentre si stanno preparando a vivere. Né di questo male comune a tutti, come ritengono, non si lamentano solo la massa e il volgo sciocco; questo stato d’animo suscitò le lamentazioni anche di uomini illustri. ...
... Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perso molto. Ci è stata data un vita abbastanza lunga e per il compimento di cose grandissime, se venisse spesa tutta bene; ma quando si perde tra il lusso e la trascuratezza, quando non la si spende per nessuna cosa utile, quando infine ci costringe la necessità suprema, ci accorgiamo che è gia passata essa che non capivano che stesse passando. È così: non abbiamo ricevuto una vita breve, ma l’abbiamo resa tale, e non siamo poveri di essa ma prodighi. Come ricchezze notevoli e regali, quando sono giunte ad un cattivo padrone, in un attimo si dissipano, ma, sebbene modeste, se sono state consegnate ad un buon amministratore, crescono con l’uso, così la nostra vita dura molto di più per chi la dispone bene. ...

... la vita, se tu sai usarla, è lunga. Uno lo tiene l’avarizia insaziabile, un altro lo zelo faticoso per le occupazioni inutili; uno è pieno di vino, un altro è intorpidito dall’inerzia, uno lo sfinisce l’ambizione sempre preoccupata dai giudizi altrui, un altro il desiderio frenetico di commerciare lo porta attraverso ogni terra, ogni mare, con la speranza del guadagno, certi li tormenta la passione per la vita militare sempre o attenti ai pericoli altrui o ansiosi per i propri; ci sono quelli che l’ossequio accolto senza riconoscenza verso i superiori consuma tanto quanto una schiavitù volontaria; molti li tien occupati l’aspirazione a raggiungere la bellezza altrui o la preoccupazione della propria; i più, senza avere mai uno scopo preciso, li spinge attraverso progetti sempre nuovi una volubilità scontenta di sé. Ad alcuni non piace nulla dove dirigano l’interessa, ma li sorprende il destino mentre sono annoiati e sbadiglianti, a tal punto che io non dubito che sia vero ciò che in forma di oracolo è stato detto presso il più grande dei poeti: "è breve la parte della vita che viviamo". Certamente tutto lo spazio rimanente non è vita ma tempo. I vizi incalzano e circondano gli uomini da ogni parte e non gli permettono di rialzarsi o di levare gli occhi all’esame del vero, ma li tengono immersi nelle passioni. A loro non è mai consentito rifugiarsi presso di sé; se talvolta per caso capita capita loro una certa quiete, ondeggiano, come in un mare profondo, nel quale, anche dopo che è caduto il vento, rimane l’agitazione delle onde, e non esiste pace per loro un luogo di pace, al riparo dalle passioni. Credi tu che io parli di costoro i cui mali sono palesi? Guarda quelli la cui prosperità fa accorrere la gente: sono soffocati dai loro beni. A quanti le ricchezze sono di peso! A quanti l’eloquenza e la quotidiana preoccupazione di ostentare il proprio ingegno cava il sangue! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti la folla dei clienti accalcata intorno non lascia libertà! Insomma, passa in rassegna tutti costoro, dagli infimi sino ai più potenti: questo chiama aiuto, questo lo presta, quello si trova in pericolo, quello difende, quello giudica, nessuno rivendica il possesso di sé per sé stesso, l’uno si logora per l’altro. Chiedi di costoro, i cui nomi si imparano a memoria, vedrai che questi si distinguono per questi segni: quello è amico di quell’altro, questo di quello, nessuno appartiene a sé stesso. Quindi è assai stolta l’indignazione di certuni: si lamentano della boria dei superiori, perché non hanno avuto tempo quando essi volevano chiedere udienza. Osa lamentarsi della superbia di un altro uno, che mai egli stesso ha tempo per sé? Tuttavia quello, chiunque sia tu, sia pure con atteggiamento certo arrogante, una volta ti ha guardato in faccia, lui ha porto orecchio alle tue parole, lui ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare te stesso, di stare ad ascoltarti. Non è dunque il caso che tu metta nel conto ad alcuno queste tue attività, perché le compivi, tu non volevi stare con altro, piuttosto non potevi stare con te stesso. ...

... Richiama al tuo ricordo quando sei stato sicuro nelle tue decisioni, quanti giorni sono trascorsi come tu avevi prestabilito, quando hai avuto la disponibilità di te stesso, quando il tuo volto è rimasto impassibile, quando il tuo animo intrepido, che cosa tu abbia veramente compiuto in una vita così lunga, quanti hanno saccheggiato la tua vita, senza che tu ti rendessi conto di cosa perdevi, quanto tempo ti ha sottratto il vano dolore, la stolta allegrezza, la bramosa avidità, i lusinghevoli rapporti umani, quanto poco ti è stato lasciato di ciò che ti appartiene: ti renderai conto che tu muori immaturamente. Qual è il motivo? Voi vivete come se foste destinati a vivere per sempre, non vi viene mai in mente la vostra fragilità, non pensate a quanto tempo è già trascorso; voi sprecate come attingendo a una botte piena e abbondante mentre forse proprio quel giorno, che donate a qualcosa o a qualcuno, è l’ultimo della vostra vita. Di tutto avete timore, come mortali, di tutto avete brama, come se foste immortali. Sentirai molti dire: "A cinquant’anni mi ritirerò a vita privata. A sessant’anni mi dimetterò da ogni incarico". E chi prendi come garante di una vita più lunga? Chi permetterà che queste cose vadano come tu le programmi? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della tua vita e di destinare al retto vivere solo quel tempo che non può essere impiegato in nessun’altra attività? Com’è tardi mettersi a vivere proprio quando è tempo di concludere la vita! Quale stolto oblio della propria condizione di mortali rinviare al cinquantesimo e al sessantesimo anno i retti propositi, e voler cominciare la vita dal punto al quale pochi l’hanno portata. ...

Seneca - De brevitate vitae


venerdì 20 agosto 2010

Osteria La Baita

Amo particolramente questa Osteria sita in zona centro a Faenza, accanto alla sede delle Poste. Nata 27 anni fa come negozio di alimentari, La Baita nel tempo ha acquisito celebrità anche per la sua enoteca con cucina. Nella parte ancora adibita a pizzicheria si possono reperire prodotti ottimi, ne ho assaggiati parecchi, di varie regioni italiane. La cucina e' molto varia, composta da un menù contenuto modificato con una certa frequenza con piatti molto curati e abbondanti (si mangia anche solo con una portata), che ruota su una carta di formaggi (270 tipi)  e salumi (80 tipologie) enorme. La cantina e' veramente abbondante (1800 etichette alla carta) e la competenza di Robertone, figura di oste per eccellenza, molto alta e professionale. Anche sui rum e altri superalcolici c'è una scelta di grande qualità e vengono abbinati bene con cioccolata e altro. L'Osteria si compone di quattro ambienti, tre a servizio di osteria e uno nella corte interna. La cucina è composta da piatti della tradizione di Romagna, primi eccezzionali e alcuni ormai introvabili in altri locali oltre a stufati, involtini, trippa, ciccioli e alcune proposte di pesce molto mirate e di grande qualità.
I prezzi sono onesti in rapporto sia alla qualità servita e al servizio. Ci vado da anni e direi che il livello si mantiene su standard molto buoni.

La Baita - Via Naviglio, 25/C - Faenza (RA) - 0546 21584 - Chiuso domenica e lunedì.

giovedì 19 agosto 2010

Il mondo non cambia mai

Si apprende più facilmente e ci si ricorda più volentieri di ciò che stimola il senso del ridicolo che ciò che merita stima e rispetto.

Orazio Flacco

mercoledì 18 agosto 2010

Il limite dell'indecenza




C'è un modo razionale, scientifico per prendere atto che la terra è troppo piccola per il numero crescente di uomini che ci vivono su. Il modo per esempio di Giovanni Sartori che scrive sul "Corriere" per informarci che se tutti consumassero i prodotti della terra come gli americani o i francesi o anche noi italiani, ci vorrebbero non uno ma tre pianeti come il nostro per sopravvivere. Ma questo modo scientifico, razionale, lascia, a quanto pare, il tempo che trova: leggiamo, ci pensiamo un attimo, ma dimentichiamo come se fosse passata una nube, un buio subito cancellato dallo splendore dei consumi trionfanti. 

Forse più della ragione e della buona informazione conta l'arcano istinto di sopravvivenza per cui fra gli esseri umani va pian piano diffondendosi una crescente nausea per il consumismo dissennato, non certo fra chi deve vincere la fame e la sete, ma almeno fra noi dei paesi ricchi e spreconi. 
Lo dico perché sono sazio e vecchio? Può essere, ma credo che ci sia altro, che fra i sazi vada diffondendosi o tornando un bisogno socratico o evangelico di leggerezza fisica e mentale, una nausea per questa soffocante abbondanza, un desiderio di magrezza che forse viene dallo spettacolo dell'umanità super sazia e ultra pingue visibile in qualsiasi bagno di folla televisivo: pance enormi, seni deformi, culi straripanti, esseri traballanti sotto il loro peso, ansimanti sotto i loro grassi. Giovanni Sartori scrive che nei paesi ricchi la superficie bioproduttiva necessaria a mantenere i super consumi è ormai arrivata a 2,2 ettari a persona, ma anche chi non lo sa deve aver capito che c'è qualcosa di sbagliato in questa corsa a consumare pur di consumare, che l'uomo ha bisogno di cibo e di panni ma anche di leggerezza, non di restare soffocato, schiacciato sotto il numero e il peso delle cose. Nel sonno della morale pubblica, nella corsa generale delle classi dirigenti al furto e al privilegio forse la nausea da consumismo può giocare il ruolo che in passato ebbero le religioni. 

Forse l'unico freno, l'unico rimedio alla follia consumistica degli uomini del fare e del consumare è il rifiuto dell'attivismo frenetico.Una delle ragioni per cui dovunque nel mondo dei consumi trionfanti e della finanza divorante sta tornando un bisogno di misura, di moderazione, di etica è lo spettacolo indecente della società come l'hanno voluta e imposta gli adoratori del vitello d'oro. Filippo Ceccarelli ha scritto un saggio per Feltrinelli che ha per titolo: "La Suburra. Sesso e potere. Storia breve di due anni indecenti". Ceccarelli è uno scrittore erudito e brillante, non un Savonarola o uno Jacopone da Todi, ma il ritratto della nostra società, dell'Italia come la vogliono gli uomini del fare e del rubare è quasi incredibile nella sua assurdità. 

Ci vuole molto a capire che la vita dei ladri, dei prosseneti, dei servi, dei ruffiani è una vita infame? Ci vuole molto a capire che far parte della Cricca ha un prezzo altissimo anche fisico, che i ladri come i mafiosi sempre in attesa di carcere o di vergogna hanno vita breve e disonorata? Cresce la noia, il fastidio, la ripugnanza per la Suburra, per questa Italia miserabile per cui si aggirano come topi di fogna affaristi, avventurieri, profittatori. C'è qualcosa che viene prima della morale, prima del rispetto delle leggi, prima dell'onorabilità: il disgusto per la Suburra, cioè per la servitù agli appetiti, ai vizi più degradanti. Ha ragione Ceccarelli. L'aggettivo giusto, calzante per questo tipo di classe dirigente è: indecente. Anche il demonio, anche i peccati mortali non possono superare il limite dell'indecenza, del gusto pessimo, del ripugnante.

martedì 17 agosto 2010

Perché le buone maniere fanno vendere di più. E salvano dalla crisi

Foto: http://www.thesartorialist.com/
Quanti secondi ti bastano per fare una buona o una cattiva impressione? Sette. E quante delle tue prime parole cattureranno l'attenzione del tuo interlocutore? Dodici. Sembra una formula matematica questa "business etiquette", il galateo degli affari, una complessa scienza che richiede uno studio appassionato. «Garantisco: applicare la business etiquette a un incontro di lavoro lo renderà molto più proficuo», dice Lydia Ramsey, una delle più note esperte del tema degli Stati Uniti, "etiquette consultant" che nel 1998 ha fondato "Manners that sell" a Savannah, Georgia, sede dalla quale pubblica tutti i suoi libri, i dvd e parte per tenere conferenze in aziende, come la Deloitte & Touche, università, come la Columbia Business School, scuole e agenzie del governo. 

Sono suoi i calcoli dei secondi e delle parole necessarie per fare una buona impressione, come suo è anche un libro – "Dining for profit" - sulle buone maniere da usare nei pranzi e nelle cene di lavoro per renderle, appunto, più profittevoli. In quelle pagine Lydia consiglia di arrivare nel ristorante scelto prima degli altri per dare la propria carta di credito al cameriere ed evitare poi quegli sgradevoli "pago-io-no-ti-prego-lascia-pago-io" che concludono tradizionalmente gli incontri di lavoro a tavola.

«È soprattutto in questi tempi di crisi che diventa fondamentale essere ben educati negli affari - spiega l'esperta - Quando le cose vanno bene, si sottovaluta l'importanza di trattare i propri clienti con cortesia e rispetto. Si pensa che basti offrire un buon prodotto o un buon servizio. Invece, trattare bene la gente è essenziale per un buon business. E quando gli affari vanno male, la gente li farà con chi gli piace, con chi li apprezza, con coloro con cui si sente meglio. Essere ben educati porta più clienti alla tua porta. E quei business che oggi riescono a sopravvivere sono quelli che dimostrano più cura e cortesia».

Insomma, per essere efficaci non basta solo avere buoni prezzi o bilanci da proporre. Addirittura, pare che il 93% degli interlocutori d'affari sia influenzato da espressioni non verbali più che da quello che si dice, almeno al primo impatto. Ecco quindi, consiglia sempre Lydia, l'importanza di vestirsi adeguatamente, per gli uomini con scarpe e cintura coordinate, cravatte di seta, completi di colori classici come il blu, il nero e il grigio, ed evitare assolutamente gioielli che non siano un orologio (classico) e la fede nuziale; per le donne saranno perfetti tacchi di media altezza, tailleur gonne e al massimo un anello per mano e un orecchino per lobo. «E poi, vestiti così, camminate velocemente - suggerisce l'esperta – sembrerete più efficienti e più importanti. Mettere in pratica le regole della business etiquette dimostra ai clienti che siamo professionali. Prendere tempo per sorridere, entrare in contatto con gli occhi, chiamare le persone per nome, sono tutti comportamenti molto attraenti. E gli affari sono favoriti se l'altro si sente apprezzato».
Ma gli italiani, così attenti all'estetica e alle relazioni, sono bravi seguaci di questo galateo? «Beh, fare affari in Italia può essere complicato soprattutto per chi viene dagli Usa, dal Regno Unito, dall'Europa occidentale, ma anche dal Giappone e dalla Cina. Queste nazioni sono abituate a fare affari in maniera più formale e con un approccio più diretto. Gli uomini d'affari italiani hanno un atteggiamento più rilassato, flemmatico, che è concentrato sulla famiglia e sull'appartenenza regionale. Devono fare più attenzione alla strutttra e alla gerarchia quando trattano con persone che vengono da quei paesi. Però, visto che lo stile della business etiquette sta diventando in tutto il mondo più rilassato, forse gli italiani potrebbero trarne vantaggio». E una cosa in cui gli italiani sarebbero particolarmente bravi è l'organizzazione della "business entertaining", la parte di divertimento di corollario al mero affare, che sta acquistando sempre più importanza.

Se però l'errore è dietro l'angolo per tutti, come parlare troppo velocemente oppure prendere appunti con una penna presa due minuti prima dall'hotel, lo sbaglio peggiore è un altro: «Non conoscere affatto la cultura e le tradizioni del paese dove si sta trattando. È sempre molto evidente quando qualcuno non si è preparato abbastanza», dice Ramsey. Una regola d'oro per i businessmen, ma perfetta anche per i politici.

di Chiara Beghelli - Il Sole 24ore Economia

lunedì 16 agosto 2010

Il consumo

Nei Paesi ricchi il consumo consiste in persone che spendono soldi che non hanno, per comprare beni che non vogliono, per impressionare persone che non ci amano.

Joachim Spangenberg - Vicepresidente del SERI, Sustainable Europe Research Institute)

domenica 15 agosto 2010

CADUTA LIBERA

Leggendo questo libro scritto da Nicolai Lilin,  mi sono tornati alla mente i romanzi di guerra di Swen Hassel  ( Maledetti da Dio,...) letti a fine anni '60 primi '70, probabilmente per un certo stile diretto, crudo, tagliente e disincantato nel raccontare la guerra. Hassel combatteva forzatamente nella Wehrmacht contro i russi, Lilin è un ragazzo siberiano, allora diciottenne, arruolato e costretto a combattere anche lui in uno dei reparti più pericolosi, quello dei sabotatori, con il compito "di fare il cecchino", durante il servizio di leva obbligatorio di due anni. Destino che ha accomunato molti giovani soldati russi al tempo della seconda guerra cecena dal 1999-2006. Scrive della sua esperienza in quella guerra e descrive in modo molto realistico quello che accade in guerra, soprattutto in quelle "non troppo convenzionali" dove il nemico spesso adotta tattiche di guerriglia e sfrutta i boschi e le città. Un libro che ho letto a "spron battuto" perchè la tecnica descrittiva ti porta a leggere al ritmo delle azioni descritte. E' stata certamente, come tutte le guerre, un'esperienza durissima che ha segnato Lilin e lo ha quasi condotto all'emarginazione sociale al suo ritorno. E' un'esperienza forte anche per il lettore. A me il libro è piaciuto.

sabato 14 agosto 2010

«Senza libertà di pensiero l'uomo è perduto». Simone Weil appassionata del bene comune

Nella devozione di certi suoi adepti e adepte di oggi Simone Weil prende spesso una fisionomia caricaturale. Quella di una sorta di santa laica che, nascosta dietro monastiche vesti scure, praticava un impeccabile distacco dal mondo. Niente di più inesatto: per tutto l'arco della sua non lunga vita Simone aveva coltivato contatti col mondo costanti, intensi e avventurosi.

Certo, il suo aspetto era ascetico e colpiva quelli che la conoscevano da vicino, come il poeta Jean Tortel, che nel 1940 a Marsiglia, quando partecipava alle riunioni della rivista «Cahiers du Sud», la descrive così: «Una specie di uccello senza corpo, piegato su se stesso. In un'ampia mantellina nera che non lasciava mai, lunga fino ai polpacci; immobile, silenziosa, sedeva da sola - estranea e attenta, indagatrice e insieme lontana - all'estremità di un vecchio canapé sovraccarico di libri e riviste. Una presenza. Presente. Inconsueta».

Ma anche quel suo corpo consumato era frutto di un preciso impegno cui Simone era fedele fin dall'adolescenza: quello di rifiutare ogni privilegio. Di privilegi avrebbe potuto averne: i suoi genitori erano agiati, colti, di ampie vedute, affettuosi e generosi. Ma il privilegio faceva orrore a Simone, come uno di quei misfatti che spezzano la relazione tra lo spirito dell'uomo e quello dell'universo, e da quando a vent'anni cominciò il suo mestiere d'insegnante nelle cittadine della provincia francese scelse non solo di essere sempre dalla parte dei diseredati, ma anche di condividere le angustie le fatiche e i rischi della loro vita in una militanza che, se toccò ambiti diversi e contrari, dalla politica alle religione, non venne meno neppure sul letto di morte, nell'agosto del '43 in Inghilterra dove era andata a lavorare, nella speranza di raggiungere la Resistenza francese, per il Commissariato per gli Interni e il Lavoro di "France Libre", l'altra Francia in esilio capeggiata da Charles de Gaulle.

A leggere le opere, frammentarie quanto coerenti, quasi tutte pubblicate postume, che Simone Weil ha lasciato, oppure l'ampia biografia che la sua compagna di studi Simone Pétrement le ha dedicato, ci si chiede non che cosa potrebbe servire all'Italia di oggi ma che cosa non potrebbe, tanto i suoi scritti, la sua azione e la sua stessa figura disegnano sul fondo scuro del 900 le parole di una lezione indimenticabile. Per fare qualche esempio. Fin dal suo primo impiego si attira l'ostilità delle autorità perché partecipa alle manifestazioni dei disoccupati e collabora con i sindacati rivoluzionari, con la sicurezza di chi ha frequentato Marx e i classici del pensiero socialista dai banchi di scuola. Ma a 25 anni, nel 1934, quando decide di prendere congedo dall'insegnamento per passare un anno in fabbrica e conoscere dall'interno la vera vita operaia, è già in grado di tracciare un bilancio intellettuale della sua intensa attività di militante.
In quell'anno, Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale è un'inesorabile critica non soltanto dell'azione politica ma anche dei fondamenti teorici del comunismo rivoluzionario e soprattutto del "fanatismo della Storia", sul quale tornerà in altri scritti sempre con la convinzione che sia l'unica, temibile fede del tempo presente.

Simone non si lascia intimidire dalle opinioni prevalenti, del vertice o della base - in un congresso sindacale davanti agli insegnanti anticlericali fa un appassionato elogio delle suore così come non teme di polemizzare con Trotzkij. Né si lascia ammaliare dai circoli culturali che dettano legge. Invitata da Georges Bataille ad entrare nel Circolo comunista democratico (fondato nel '30 come reazione al culto della personalità dei filosovietici) così argomentò il suo rifiuto: «Bataille mi ha scritto che desiderava che io aderissi al Cercle. Ma la rivoluzione è per lui il trionfo dell'irrazionale, per me del razionale; per lui la liberazione degli istinti e in particolare di quelli considerati di solito come patologici, per me una moralità superiore».

Detesta gli schieramenti. Benché il suo fisico sia infragilito dalle emicranie e dalle fatiche dell'anno in fabbrica, nel '36 parte per la Spagna per partecipare alla guerra civile e sulle rive dell'Ebro si unisce alla colonna dell'anarchico Durruti. Non uccide e non è uccisa, ma vede e pensa. Quando nel 1938 legge I grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos, che aveva osservato, da monarchico conservatore, le violenze dei fascisti in Spagna e ne era inorridito, scrive allo scrittore della sua esperienza analoga nel campo avverso.

Simone era convinta insomma che se non c'è libertà di pensiero l'uomo è perduto. Ma era anche convinta di qualcosa di altrettanto importante, un vero monito da quei cupi anni in cui è vissuta al dopoguerra: che se non c'è pensiero non c'è libertà. Per questo smonta con mitezza e infrangibile precisione tutte le mitologie che il 900 veniva assemblando dalle idee ereditate dall'800, trasformandole in pesanti macigni ideologici: dal mito della rivoluzione a quello del progresso a tutti i costi (l'unico vero progresso è per lei «un progresso nell'ordine dei valori umani»), dal mito della tecnica a quello del relativismo culturale e morale, dal mito dell'avanguardia a quello dell'onnipotenza scientifica. E smaschera - per questo sarà impopolare nell'intellighenzia postbellica - una società in cui la secolarizzazione e la perdita della fede non comportavano un aumento di lucidità, ma al contrario sempre nuove superstizioni e divoranti idolatrie e un terribile devastante naufragio dello "spirito di verità".

Tutto, dunque, nell'impianto del suo pensiero, così antiaccademico e antiidelogico, così genialemente etico può essere un ricostituente per la variamente debilitata Italia del nuovo secolo. Ma c'è qualcosa che sembra diretto esplicitamente al nostro smarrito oggi, su due materie scottanti: il senso del dovere e l'amor di patria. In Italia si è ormai radicata una "cultura dei diritti" sbandierata dai piani alti e da quelli bassi, e per ogni categoria e ambito della vita comune o privata. Non altrettanto, nella nostra nazione insidiata da un antico demone "uncivic", si può dire di una "cultura dei doveri", in una sordità che non conosce distinzioni di classe o di casta.

L'appello ai diritti appare nobile e progressista, l'appello ai doveri retorico e antiquato. Su questo complicato tema esiste una riflessione che Simone Weil scrisse negli ultimi mesi londinesi, forse considerandola una sorta di testamento. Si intitolerà, postumo nel '49, L'enracinement, cioè il radicamento, ed è tradotto in italiano con il più poetico e fuorviante La prima radice. L'incipit del libro è già una dichiarazione di guerra: «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata». Per poi precisare: «Un uomo, che fosse solo nell'universo, non avrebbe nessun diritto, ma avrebbe degli obblighi».

Gli obblighi, cioè i doveri che precedono i diritti, nascono dalle necessità degli uomini, quelle palesi del corpo e quelle non meno importanti dell'anima, che attengono al «destino eterno dell'essere umano». A volte sembrano coppie di opposti, ma il loro equilibrio serve a proteggere da arbitrii e semplificazioni faziose. Enumerandoli, Weil li commenta lungamente, ma anche il loro nudo elenco ci può fornire un'utile base di riflessione: ordine, libertà, ubbidienza, responsabilità, uguaglianza, gerarchia, onore, punizione, libertà di opinione, sicurezza, rischio, proprietà privata, proprietà collettiva, verità. Il più importante è l'ultimo: la verità. «Il bisogno di verità è il più sacro di tutti». Un ottimo slogan per l'Italia contemporanea, senza distinzioni di parte.

Solo assumendosi i propri doveri prima d'inalberare i propri diritti, l'uomo potrà sfuggire al terribile sradicamento, anche etico, che corrode la modernità. È per questa via che a Simone Weil riesce un'impresa difficile, quella di dare un nuovo senso alla parola patriottismo, screditata da fascismo, nazismo e nazionalismo staliniano. La patria, scrive, può semplicemente essere definita un «dato ambiente vitale», evitando le contraddizioni e le menzogne che corrodono il patriottismo: «Quest'ambiente esiste, e così com'è deve essere difeso come un tesoro, per il bene che ha in sé».

È necessario che la patria sia degna, sia nobile per amarla? No, risponde Simone, al contrario: può esserci un patriottismo che nasce dal più puro dei sentimenti, la compassione. Anche e soprattutto un paese in crisi, materiale e morale, com'è l'Italia contemporanea, ha dunque bisogno di amor di patria. Non eroismo, sogni di gloria, vanterie d'orgoglio, ma un amor di patria purgato di retorica: umano, terrestre, quotidiano. Che, naturalmente, solo un diffuso senso del dovere e lo splendore della verità rendono possibile.

Terrazza Einaudi

Una felice sorpresa questo locale nel centro di Ravenna, aperto ormai da cinque anni, ma scoperto solo recentemente. Ivan Gherardi, titolare del locale e pallavolista della serie maggiore, ha ricavato in un palazzotto stile Liberty, affacciato su Piazzetta Einaudi (da qui il nome), un ristorante che risulta molto gradevole già all'occhio. E' stata prestata molta attenzione all'ambiente, con atmosfera "minimal chic", che rivela un cerro gusto e passione. La terrazza con vista dei tetti e delle piazzette attigue, accanto al Teatro Alighieri,  fanno del locale un luogo per una cena differente e, se si vuole, molto romantica.
La cucina presenta menù di carne e di pesce rivisitati a prezzi medi con una buona qualità dei piatti serviti, anche generosi nelle porzioni. Buoni anche i dolci. Gamberi con cous cous, mazzancolle in letto di rucola, fritto misto di pesce, catalana fredda con crema di croccante, alcuni dei piatti assaggiati. La carta dei vini è curata e con ottime referenze. Un buon locale consigliato per l'atmosfera. Tra qualche mese dovrebbe essere permessa anche la copertura della terrazza per l'inverno, diversamente il locale offre un'unica sala interna con 20/25 posti in una sala interna molto curata anch'essa, ma piccola.

Ristorante Terrazza Einaudi - P.zza L.Eiunaudi, 1 - 48100 Ravenna - Tel. 0544 33133 (www.terrazzaeinaudi.it)

venerdì 13 agosto 2010

Servono uomini nuovi

«Un paese maturo, che deve mirare allo sviluppo e alla pacifica convivenza dei cittadini, non può continuare con uomini che hanno scelto la politica per sistemare se stessi e le proprie pendenze»: lo scrive Famiglia cristiana nell'editoriale del prossimo numero in edicola. «Siamo lontani dall`idea di Paolo VI, che concepiva la politica «come una forma di carità verso la comunità, capace di aiutare tutti a crescere».

«Ha sollevato una grande bagarre la recente denuncia della Chiesa circa l'assenza in Italia di una classe dirigente all'altezza della situazione», scrive il settimanale dei paolini. «In una stagione densa di sfide e problemi, essa lamenta un vuoto di leadership. In tutti i settori. La politica, anzitutto, non svolge la funzione che dovrebbe competerle. Ma analoghe carenze si riscontrano nel mondo imprenditoriale, nella comunicazione e nella cultura. Persino nella società civile e nell'ssociazionismo».

Per Famiglia cristiana «mancano persone capaci di offrire alla nazione obiettivi condivisi. E condivisibili. Non esistono programmi di medio e lungo termine. Non emerge un'idea di bene comune, che permetta di superare divisioni e interessi di parte. Se non personali. Si propone un federalismo che sa di secessione. Senz'anima e solidarietà». In questo quadro, «l'opinione pubblica, sebbene narcotizzata dalle Tv, è disgustata dallo spettacolo poco edificante che, quasi ogni giorno, ci viene offerto da una classe politica che litiga su tutto. Lontana dalla gente e impotente a risolvere i gravi problemi del Paese».

La Chiesa «è chiamata a valutare quanto, di fatto, i propri quadri più alti rappresentino dei punti di riferimento etico e spirituale per tutta la nazione». L'esortazione del settimanale conclude così l'editoriale dedicato alla crisi della politica italiana.

«Da tempo, Papa e vescovi hanno lanciato l`appello: «Giovani politici cattolici cercansi», ricorda il settimanale dei paolini «per invitare i credenti più impegnati a misurarsi con il destino della nazione. In ruoli di grande responsabilità pubblica, così come sono ben

presenti nel volontariato e nell`associativismo. Sono molte le figure autorevoli nella comunità ecclesiale. Tanto più queste cresceranno, tanto più se ne gioverà l'intero Paese. Ma la Chiesa - afferma Famiglia cristiana - è anche chiamata a valutare quanto, di fatto, i propri quadri più alti rappresentino dei punti di riferimento etico e spirituale per tutta la nazione».

«La richiesta della Chiesa di uomini nuovi - scrive ancora il giornale - trova ampi consensi tra la gente. Anche se non sono mancate critiche, da chi si sente nel mirino della denuncia. C`è chi ha parlato di mancanza di gratitudine, per il sostegno che una parte politica dà ai «valori irrinunciabili» e alle opere della religione. Soprattutto in un Paese difficile da governare. E refrattario a qualsiasi riforma di grande respiro. Tra le reazioni più forti, c`è chi s'è chiesto da che pulpito venga la predica. Perché mai la Chiesa si chiama fuori dalle responsabilità? Non fa parte, essa stessa, della classe dirigente del Paese? E perché non guarda alle carenze di quel mondo cattolico fortemente intrecciato nelle vicende nazionali? Accuse solo in parte giustificate. Nel richiamare al senso del bene comune quanti occupano posti di alta responsabilità, la Chiesa è cosciente che anche il mondo cattolico deve fare la sua parte. E - conclude Famiglia cristiana - assumersi di più i ruoli che contano».

lunedì 9 agosto 2010

Venuto al mondo


Un romanzo duro e commovente che attraversa fatti storici a noi vicini, la guerra nella ex Yugoslavia e l'assedio di Sarajevo, ma lontani nella capacità di coglierne tutta la brutalità e i controsensi. La Mazzantini è bravissima, molto documentata sui fatti accaduti, è riuscita a scrivere, tra l'altro in modo stupendo, un romanzo ricco fino alla fine di colpi di scena con intrecci di storie incredibili che rivelano una mente ed una capacità incredibile. Non mi vergogno a confessare che mi sono commosso e ho pianto in molti punti. Ho letto molto su quella guerra e lei riesce a trasferire bene al lettore le situazioni, i sentimenti e le emozioni. Brava comunque in tutto il romanzo nella descrizione delle diverse situazioni e dei profili dei personaggi. Buon sangue non mente, avevo già letto i libri di suo padre (il primo fu "A cercar la bella morte"), ma la figlia Margaret è veramente straordinaria.
Consiglio assolutamente la lettura.

domenica 8 agosto 2010

Cercare continuamente nuove strade, nuove opportunità.

Mi interrogo continuamente su come creare nuove opportunità, come riconoscerle, come trovarle e sulle azioni che occorre intraprendere. Mi sono dato anche alcune risposte. Non rispettare le regole che ci sono date, ignorarle e procedere a volte a caso, con occhi differenti, ti può portare a scoprire ciò che diversamente non avresti mai trovato. Quando faccio queste elucubrazioni spesso mi aiuto con le mappe mentali. Si può fare utilizzando anche un foglio bianco, ma io mi sono attrezzato con Mindjet Mind Manager perchè poi mi piace conservare i miei pensieri, lavorarci sopra per "levigarli" e, a volte, interconnetterli tra loro. Le mappe mentali mi aiutano molto a vedere in modo più chiaro tutte le soluzioni possibili e i diversi risvolti di ogni punto. Cerco in questi casi di privilegiare la quantità alla qualità, l'originalità al conformismo, disegno a volte, in qualche modo, l'incertezza di un'opportunità. E' fonte di entusiasmo perchè ti permette di vedere le cose da un punto di vista differente.
Lo considero da un certo punto di vista anche un gioco. Mi rilassa. E' importante per stimolare la propria fantasia. Aumenta la vision. Lo stress e la tensione invece impediscono questa modalità perchè rinchiudono il cervello in una griglia che impedisce di vedere oltre. Troppa serietà vincolano il cervello.
Posso affermare che per me funziona questo approccio. Mi ha liberato da vecchi lacci e mi fa sentire assolutamente meglio.

sabato 7 agosto 2010

Sen, l'amore e l'odio

Allampanato, vestito in una giacca nera troppo grande e una camicia rosa, occhi vivacissimi e belli dietro le spesse lenti degli occhiali, Amartya Sen non dimostra i suoi 77 anni. Seduto a un tavolino della terrazza dell'Hotel Bauer a Venezia: una vista da cartolina, tra il cielo azzurro leggermente velato e le gondole coi soliti turisti americani, il Nobel per l'economia è allegro e ironico. Qualche settimana fa Mondadori ha pubblicato in italiano 'L'idea di giustizia', il suo libro che segna una rivoluzione nella storia della filosofia politica e che pone al centro del dibattito concetti come equità e libertà, le pratiche concrete che portano al cambiamento sociale, a scapito di ogni utopia di perfezione. Fondamentale la distizione, presa dalla tradizione filosofica indiana, tra la giustizia come ideale da realizzare a ogni costo ('Niti') e la giustizia come un combinato disposto di azione e delle conseguenze di tale azione ('Nyaya'). Tra le tante curiosità: uno scoop storico-filosofico su come Gramsci abbia influenzato, tramite il comune amico Sraffa, la teoria del linguaggio di Wittgenstein. Ma quando il discorso cade sull'Italia, Sen dice di conoscere troppo poco la situazione nel nostro Paese, per poi confessare di non capire come una nazione che ha dato i natali a Gramsci non sia in grado di produrre una sinistra degna di questo nome. Non si sottrae invece al ragionamento sul ruolo delle opposizioni e spiega perché non basta essere una maggioranza per avere ragione.

Professor Sen. Lei dice spesso che la democrazia significa prima di tutto dibattito pubblico...

'Un dibattito che non deve cessare mai, che deve proseguire anche quando la decisione è stata presa e una delle parti è stata sconfitta. Coloro che si trovano in minoranza non debbono arrendersi. Se i loro argomenti erano validi, rimangono validi anche dopo le elezioni e i referendum. È sempre legittimo dire che chi è stato eletto o chi ha vinto una consultazione sbaglia nel merito. In una democrazia, la discussione è sempre aperta, se non altro perché l'essenza della democrazia è che il potere viene esercitato tramite il pubblico dibattito'.

Alla base di ogni democrazia c'è l'idea di giustizia. Perché ci indignamo di fronte a una palese ingiustizia?

'Perché la giustizia è riflessiva: riguarda cioè i rapporti tra gli umani. L'idea della giustiza è strettamente legata all'equità. E se mi chiede che cosa è l'equità, rispondo dicendo che ne parlano perfino i bambini in tenera età. Secondo Noam Chomsky, le nostre capacità linguistiche (grammatica, sintassi) sono innate. Io penso che anche il senso dell'equità sia innato. È una questione biologica. Ma non mi interessa l'aspetto biologico di questa storia'.

Perché non le interessa?

'Perché la questione dell'equità va posta sul piano etico, non su quello dell'evoluzione della specie. Faccio un esempio: agli uomini e alle donne piace fare l'amore. E l'origine biologica del desiderio è probabilmente la sopravvivenza della specie. Ma quando seduciamo o siamo sedotti non lo facciamo perché pensiamo a come dare continuità alla specie umana'.

Dove vuole arrivare?

'Voglio dire che i nostri comportamenti non sempre sono dettati da un calcolo razionale: causa-effetto. Ecco perché è importante che tutti noi abbiamo il senso della giustizia. È meno importante invece capire perché lo abbiamo'.

Se il desiderio di giustizia e di equità è innato ed è riflessivo, vuol dire che sono innati anche valori come solidarietà ed empatia: la capacità di mettersi nei panni altrui.

'Sì. Ma attenzione, dobbiamo sempre sottoporre il nostro desiderio di giustizia ed equità a un esame critico. Esistono degli istinti di base che provocano sentimenti come rabbia e odio. Ma ogni volta che li proviamo dobbiamo chiederci: sono sentimenti giustificati? E che tipo di argomenti potrei opporre a questi sentimenti?'.

Lei come risponde?

'Che dobbiamo trattare gli altri nella stessa maniera in cui vorremmo essere trattati noi. Ecco spiegato il senso della giustizia. Ma c'è dell'altro'.

Sta per introdurre il concetto di razionalità?

'Sì. Stavamo parlando di rabbia e odio, come di sentimenti che rispondono a certi istinti. E anche del fatto che non sempre i nostri comportamenti sono razionali. Ma sarebbe un errore dire che queste sensazioni sono buone e giuste perché, appunto, primordiali. Noi umani abbiamo infatti non solo istinti, ma anche la capacità di ragionare e di mettere in dubbio tutto. Siamo in grado di trovare le ragioni per rifiutare l'odio e la rabbia'.

Concretamente?

'Dobbiamo sempre chiederci: che tipo di ragione posso adottare per giustifcare il mio comportamento? E dobbiamo trovare la forza per non seguire quegli istinti a cui non trovo una giustificazione razionale. È una cosa meravigliosa il fatto che la natura ci abbia dato la capacità di ragionare. Un importante imperatore moghul del Sedicesimo secolo, Akbar il Grande diceva: per respingere un argomento ragionevole, devi averne un altro, ancora più ragionevole. Il mondo della ragione e della discussione è l'unico in cui vale la pena di vivere'.

Qualche decennio dopo Akbar, il francese Pascal spiegava però che esistono anche 'le ragioni del cuore', una ragione non razionale. Per esempio desideriamo essere felici. Perché vogliamo esserlo? Ed è la ragione a decidere se lo siamo o no?

'La vera ragione per cui vogliamo essere felici la troviamo quando riflettiamo se abbiamo agito bene. Non dico che facciamo determinate cose per creare la felicità nel mondo. Però, quando le abbiamo fatte e bene, ne troviamo una fonte di felicità'.

Vuole dire, sono felice se faccio felice mia moglie o mio figlio?

'È un buon esempio. Il Nobel norvegese Ragnar Frisch diceva di non comprendere perché gli economisti insistono a sostenere che lo scopo della vita sia cercare la felicità individuale e non quella degli altri, mentre per la verità succede il contrario. Quando porto a cena mia moglie non ordino il cibo e il vino che fa felice me, ma cibo e vino che spero possa fare felice lei. O per tornare al discorso sulla seduzione e la riproduzione: quando facciamo l'amore, la felicità è vedere il nostro partner soddisfatto'.

La felicità è quindi un fatto sociale?

'Sì, ma anche un indicatore. Lo dice un classico dell'economia come Adam Smith in 'Teoria del sentimento morale''.

Abbiamo parlato di giustizia e di felicità. Il terzo elemento di ogni sua teoria è la libertà. Perché la vogliamo? Uno schiavo può essere contento se ha da mangiare, un tetto e dei vestiti.

'Perché vogliamo la libertà? Perché essa è in rapporto diretto con la nostra capacità di ragionare. E in quanto animali pensanti siamo sempre preoccupati per come il nostro ragionamento si riflette nell'azione'.

Lo può spiegare?

'Elementare. Se vogliamo che le nostre azioni corrispondano al nostro pensiero dobbiamo avere la libertà di scelta. O rovesciando il discorso: senza la libertà di scegliere, non possiamo trasformare le nostre idee in fatti concreti'.

Con quello che ha finora detto di giustizia, felicità, libertà e il loro rapporto con la ragione, ha dato la definizione di cosa sia la dignità.

'Il richiamo alla dignità ha talvolta una grande forza. Penso all'uso che ne ha fatto Gandhi nella lotta contro l'Impero britannico e per affermare l'unità del popolo indiano. Però la parola diginità è ambigua, e può essere usata per scopi meno nobili'.

Per esempio?

'Parliamo della politica. Torniamo all'Ottocento. C'erano persone scontente del capitalismo e che volevano cambiare le istituzioni, come Marx o John Stuart Mills. Qualcuno pensava che occorresse riconoscere 'la dignità del lavoro'. Per alcuni riconoscere la diginità del lavoro significa l'emancipazione dei lavoratori. Ma può voler invece dire ai lavoratori: riconosciamo la vostra dignità, e ora state zitti. Il concetto della dignità può essere usato per impedire il dibattito, per lasciare le cose come sono. Sono invece la libertà e la ragione gli strumenti per cambiare la società'.

Cambiare come? Lei dice che è sbagliato sognare una società perfetta.

'Non è sbagliato sognare. Ma quando ci si immagina una società perfetta si fa poesia. Per carità, io amo la poesia. Se non altro, perché alla mia età mi è rimasto troppo poco tempo per leggere i romanzi. Ora, la parola d'ordine 'Liberté Égalité Fraternité' è pura poesia. Ma certamente non avrei consigliato i rivoluzionari francesi di sostituirla con una di tipo riformista: 'Un po' più di libertà, un po' più di ugaglianza, un po' più di fratellanza!'. Sarebbe ridicolo. Però, quando occorre prendere decisioni concrete, bisogna partire dal presupposto che ognuno di noi ha una visione differente della società, e che ogni visione è legittima. E qui torniamo alla questione del dibattito. Non occorre avere un'identica idea di cosa sia una società perfetta per mettersi d'accordo su quali sono i passi da fare, per migliorare la situazione. La scelta è sempre tra soluzioni parziali'.

Parliamo allora del rapporto tra gli scopi da raggiungere e i mezzi. In 'Idea di giustizia' lei cita la lite tra Krishna e Arjuna della mitologia indiana. Krishna dice ad Arjuna che il suo dovere di guerriero è combattere. Arjuna gli risponde che anche se vincesse la battaglia, il prezzo della vittoria sarebbe troppo alto: i morti, la distruzione. Non pensa che la posizione di Arjuna, con cui lei simpatizza, corrisponde a quella di certi pacifisti che dicevano 'Better red than dead', meglio rossi che morti?

'Durante il dibattito sull'abolizione della schiavitù in America, gli schiavisti dicevano: non è una situazione ideale quella attuale, ma se diamo la libertà a questi uomini e donne, li condanniamo alla morte per fame. Era un modo, simile a quello che lei ha descritto, di presentare le cose, da parte di certi pacifisti, oggi. Ma è un modo sbagliato. Non ci sono mai due sole alternative, per esempio o statalismo o liberismo. Ce ne sono altre: dipende da noi se siamo capaci di immaginarle'.

Parlando delle alternative: c'è chi dice che non possiamo imporre alle donne afghane di non portare il burqa, dato che questa è la loro tradizione.

'Se le donne afghane avessero la possibilità di conoscere l'alternativa, anzi tutte le alternative al burqa, allora potremmo parlare di una loro libera scelta. Ma non è così. Rimane la questione dei costi e benefici dell'intevento armato in Afghanistan'.

Ultima domanda. Lei citando Buddha dice che gli umani hanno responsabilità per gli animali, mentre gli animali non ne hanno alcuna per gli umani...

'Voglio dire che il rapporto tra chi ha il potere e chi lo subisce non è simmetrico. Chi ha i mezzi per decidere le sorti altrui, ne porta la responsabilità, e deve ricordarsi, e qui torniamo all'inizio di questa conversazione, che le sue decisioni devono avere come riferimento una pluralità di idee e di interessi presentati nella pubblica discussione. Si è all'opposizione contro il potere, non è normale né giusto essere al potere contro l'opposizione.
 
colloquio con Amartya Sen di Wlodek Goldkorn

domenica 1 agosto 2010

ADESSO BASTA di Simone Perotti

"Un uomo libero che non sappia cosa fare della sua libertà e' schiavo e disperato tanto quanto un uomo che non possa mettere in pratica i suoi progetti, i suoi sogni."

Ho appena terminato di leggere il libro "Adesso basta" di Simone Perotti e mi e' piaciuto. Un libro indirizzato in particolar modo a professionisti, manager e imprenditori che svolgono normalmente un'attività molto frenetica. Pertanto mi ci sono ritrovato. Penso che chi vive in una grande città, soprattutto al nord, sia in grado di godere ogni momento del libro. Per me che mi muovo sull'asse Milano-Roma per lavoro, ma vivo in provincia e nella fattispecie in Emilia Romagna, la qualità di vita e' decisamente superiore. Questo pero' non toglie nulla al tema trattato nel libro, veramente interessante e ricco di spunti di riflessione. Ho condiviso la grande parte delle considerazioni fatte, sia sul tema del lavoro, della vita e della società. Ho trovato nel libro anche una "segreta funzione", la trattazione e' svolta con un incedere che e' propedeutica al messaggio contenuto nel libro stesso di riappropriarsi del tempo e della propria vita. Ci sono parti intere da incorniciare e tenere sul comodino per rileggerle. Consiglio assolutamente.