domenica 25 aprile 2010

Integrità

Dedicare ogni giorno del tempo all'analisi e alla riflessione. Ritirarsi ogni tanto "sulla montagna" per periodi di intensa meditazione. Aprirsi al cambiamento: di se stessi e del mondo che ci circonda. Sensibilità ed empatia nel cogliere le storie e gli avvenimenti, flessibilità nel presentare i propri temi essenziali. Profonda dedizione al lavoro e alla causa con modestia a dispetto del ruolo. Mantenere un coerente understatement al di là delle evoluzioni che la vita, e il benessere, ti possono portare. Dare sempre importanza al duro lavoro e al senso di responsabilità.

sabato 24 aprile 2010

L'Uomo Politico

Essere custodi dell'esistente e da qui partire per costruire. Pietra su pietra, levigando la roccia per edificare. Lentamente, costantemente, un passo dopo l'altro, in una sfida costante e continua per sottrarsi all'hic et hunc, al qui e ora.

Guardarsi intorno e quindi plasmare, modellare, impastare per coniugare la libertà con l'ordine, l'autorità con il lasseiz-faire, la lex con lo ius, mettendo insieme l'organizzazione politica della società con l'idea e l'importanza dello Stato.

Unire vigilanza con la generosità, coniugare il mercato con la solidarietà verso chi ne abbisogna, garantire l'eguaglianza della dignità e la meritocrazia. Distinguere il privato con il pubblico anche se, l'Uomo Politico, sa che non può distinguere nè disgiungere mai totalmente le due situazioni. Nel momento in cui accetta l'impegno il tutto è uno solo. Ama la difesa strenua e il confronto sereno. E' animato da un forte senso Etico, da Valori importanti e da una Morale Politica che lo contraddistingue in grado di garantire il popolo della coerenza con le idee che propugna.

Capire la gente, motivarla, ascoltarla, rispondere concretamente ai bisogni e alle aspirazioni, non essere restio a condividere le opinioni, penetrando le proprie idee. Circondarsi di persone più intelligenti, ma complementari a noi, pensare ed agire con coerenza rispetto ai propri obiettivi.

giovedì 22 aprile 2010

Credere

Credere significa vivere felici, dubitare è vivere nella tristezza. Credere è essere forti, il dubbio paralizza l'energia. La Fede è forza. Solo nella misura in cui l'uomo crede fortemente, potentemente, può agire con gioia o realizzare qualsiasi cosa che valga la pena di compiere.

F.W. Robertson

mercoledì 21 aprile 2010

A proposito della mia professione

L'Accademia Italiana dell'Auto-Id fa cultura alle Pmi sull'Rfid
L'associazione non-profit fondata nel 2008 da Gruppo Alfacod è in procinto di replicare l'incontro organizzato a fine febbraio a Milano presso Indicod

Incontri, seminari, tavole rotonde per affrontare temi anche non strettamente connessi alle tecnologie di identificazione automatica, che vanno ben oltre il barcode. Nata nel 2008 per volere di Giorgio Solferini, presidente del Gruppo Alfacod, l'Accademia Italiana dell'Auto-Id è un'associazione non-profit intenta a «diffondere cultura presso le Pmi».
A sostenerlo è Pierangelo Raffini, che in qualità di responsabile, non sottolinea solo la gratuità della formazione erogata, ma anche l'anima itinerante dell'Accademia, avvezza a organizzare almeno un evento al mese a San Lazzaro di Savena (Bo), presso la sede di Alfacod, in aggiunta a quelli realizzati nella sede di altre istituzioni.

È il caso dell'incontro tenutosi a Milano, lo scorso febbraio, presso l'Epc Lab di Indicod-Ecr (di cui Gruppo Alfacod, con la sua Accademia, funge da laboratorio barecode - ndr), a cui hanno partecipato oltre 90 aziende e che, visto l'interesse suscitato, potrebbe presto essere replicato.
«A tener banco in questa occasione - come ci ha spiegato un energico Solferini - sono stati i temi legati alla convenienza progettuale con tecnologia Rfid che, l'attrezzatura posta all'interno del laboratorio messo a punto dall'Indicod e dal Politecnico di Milano, ha permesso di toccare con mano simulando l'intera filiera del processo che va dal fine linea al retail».

Torna così una tendenza già registrata due anni fa, quando a tener banco presso l'Accademia Italiana dell'Auto-Id erano eventi dedicati ad aspetti tecnici che, nel 2009, a causa dei primi riflessi legati alla crisi finanziaria, hanno lasciato spazio alla proposizione di temi più strettamente economici.
«Oggi - continua Solferini, che prima di lasciare il testimone a Raffini si è occupato direttamente dell'Accademia da lui stesso creata - le relazioni si sono estese anche all'Università di Castellanza, Liuc, mentre stiamo dialogando con il Centro Rfid dell'Università La Sapienza di Roma».

E non poteva che essere così vista la vocazione imprenditoriale di Solferini, creatore, nel 1986, di una realtà come Alfacod, focalizzata nel reperire sul mercato soluzioni evolute che permettano di tracciare e trasmettere dati attraverso l'etichettatura di materiali, utilizzando apparecchiature di stampa, lettura e terminali portatili dei maggiori produttori mondiali, a listino all'interno di Alfadistribuzione. Negli anni, nel portfolio di quest'ultima sono, infatti, andate a consolidarsi partnership a copertura di settori quali produzione, logistica, retail, mobilità, sanità e Pa attraverso dispositivi di volta, in volta, a marchio Datalogic, Honeywell, Baracoda, Zebra Technologies, Datamax-O'Neill e Psion Teklogix.

Così, se lo scopo dell'Accademia Italiana dell'Auto-Id è, e rimane, quello di diffondere conoscenza, per Gruppo Alfacod, lo scopo è di identificare le nuove frontiere dei codici a barre uni e bidirezionali. Perché, come ha fatto notare Solferini: «Nelle diverse declinazioni, che si chiami identificazione automatica o Rfid, che faccia riferimento ai sistemi indoor e outdoor per la georeferenziazione o a quelli magnetici e biometrici, che utilizzi anche la voce o meno o si appoggi a VoIp, Bluetooth e reti di altra natura, una cosa è certa: a essere identificato non è più solo il dato, ma gli oggetti, gli individui, i pazienti e molto altro ancora».

Antonella Camisasca

Come è nato l'inno di Mameli

Nell’autunno del 1847, Goffredo Mameli scrisse il testo de «Il Canto degli Italiani». Scartò quasi subito l’idea di adattarlo a musiche già esistenti e il 10 novembre lo inviò al maestro Michele Novaro. Un suo amico, Carlo Alberto Barilli, anni dopo ricordò «una sera di mezzo settembre» del 1847, quando, a Torino, nella casa di Lorenzo Valerio, «fior di patriota e scrittore», entrò un nuovo ospite, il pittore Ulisse Borzino, che avvicinò Novaro con un foglietto che aveva in tasca: «To’, te lo manda Goffredo». Novaro, raccontò Barilli, lesse e si commosse. Scrisse di getto la musica e l’inno debuttò il 10 dicembre, quando sul piazzale del Santuario di Oregina fu presentato ai cittadini genovesi. Suonava la banda municipale di Sestri Ponente «Casimiro Corradi». C’erano trentamila persone. Impararono il testo e lo cantarono insieme. Da allora, venne esibito in ogni manifestazione. Durante le 5 Giornate di Milano gli insorti lo intonavano a squarciagola. Le autorità cercarono di evitarlo, considerandolo eversivo per via della ispirazione repubblicana del suo autore. Ma non ci riuscirono. E allora pensarono di censurarne l’ultima parte, la più dura contro gli Austriaci.

L’inno aveva dei limiti artistici, tanto che persino Giuseppe Mazzini, amico di Mameli, gli chiese di scriverne un altro. L’avrebbe musicato Giuseppe Verdi e avrebbe dovuto diventare la Marsigliese della nuova Italia. Il risultato, però, pare sia stato catastrofico: la più brutta musica scritta da Giuseppe Verdi su un testo che poi non aveva appassionato nessuno. Invece, il «Canto degli Italiani» non era un capolavoro, ma era piaciuto alle masse popolari e continuò a piacere. Dopo la dichiarazione di guerra all’Austria, persino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura dal testo. E fu proprio intonando l’inno di Mameli che i Mille di Garibaldi partirono per la conquista dell’Italia meridionale. La presa di Roma del 1870 fu salutata dai cori dei patrioti che lo cantavano accompagnati dagli ottoni dei bersaglieri. E alla fine fu proprio Giuseppe Verdi a considerarlo come l’inno nazionale quando lo inserì, accanto alla Marsigliese e a «God Save The Queen», nell’«Inno delle Nazioni», da lui composto in occasione dell’Esposizione Universale di Londra, nel 1864.

Per tutta la fine dell’800 e oltre, «Fratelli d’Italia» rimase molto popolare, anche se osteggiato dai Savoia: per il regno l’inno ufficiale era la «Marcia Reale». Ma già nella guerra libica del 1911-12 le parole di Mameli erano di gran lunga quelle più diffuse fra tutti i canti patriottici vecchi e nuovi. E la stessa cosa accadde durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Marcia su Roma assunsero grande importanza i canti fascisti. Quelli risorgimentali furono tollerati fino al 1932, quando il segretario del partito Achille Starace vietò qualunque canto che non facesse riferimento al Duce o alla Rivoluzione fascista. In seguito, nelle cerimonie ufficiali della Repubblica Sociale, però, venne intonato assieme a «Giovinezza». Il governo italiano, dopo l’8 settembre, aveva adottato come inno «La leggenda del Piave». Finita la guerra, il 14 ottobre 1946, il Consiglio dei ministri acconsentì all’uso «provvisorio» dell’inno di Mameli come inno nazionale, anche se alcuni volevano confermare «La leggenda del Piave», e altri avrebbero preferito «Va’, pensiero». Quella decisione non diventò, però, mai definitiva.

Goffredo Mameli è la splendida figura di un eroe romantico. Un giovane affascinante, dallo sguardo intenso e dai tratti gentili e regolari. Aveva preso da sua madre, una nobildonna bellissima, che aveva fatto palpitare pure il cuore di Giuseppe Mazzini, assieme a quello di quasi tutta Genova. Goffredo discendeva da una stirpe di marinai soldati, figlio di un comandante di nave da guerra. Diventò poeta a 15 anni e guerriero a 21. Morì in battaglia giovanissimo, a 22 anni, avvolto nella nuvola degli eroi. Lui è quello che rappresenta: il romanticismo, il patriottismo, la poesia che fiorisce sull’azione. Si batte nella campagna del ’48, è al fianco di Garibaldi, e dalla città eterna scrive a Mazzini: «Venite, Roma, repubblica». Muore buttandosi in una battaglia a cui non doveva partecipare. Potrà non piacere come poeta, ma come uomo era onesto, fiero e coraggioso.

lunedì 19 aprile 2010

Helsinki, i primi della classe

“Where are you from? Italy? Wow, I have an italian friend…Would you like to seat with us?” I bambini che andando a mensa si raggruppano attorno alla giornalista in visita non hanno difficoltà a farsi capire. Fanno un sacco di domande, soprattutto le femmine. Non sanno di essere loro l’oggetto dell’attenzione. Dalle aule della Jakomaki della periferia nord-est di Helsinki, insieme ai loro coetanei in tutta la Finlandia, sono i protagonisti della scuola-modello del mondo. Scienze, matematica, lettura: gli studenti finlandesi sono sempre in testa, se non al primo al secondo o terzo posto, nelle pagelle dell’Ocse. Così la Finlandia, paese poco abitato (in popolazione, è grande quanto il Lazio), per anni congelato al confine tra i due blocchi, è diventato il primo produttore al mondo della fabbrica dell’istruzione. E adesso vuole farne un modello da esportazione. Ma dove sta il segreto del suo successo?

Laptop e fai-da-te. Immersa nella neve di un inverno troppo ostinato persino per Helsinki, la scuola Jakomaki si presenta come una scuola normale: tre padiglioni abbastanza moderni, in cui si dividono circa cinquecento studenti dai 7 ai 16 anni. Il più grande è quello dei più piccoli. All’inizio, colpisce quello che non c’è: genitori, nonni o babysitter all’uscita, inservienti a mensa. Anche i bambini di sette-otto anni riempiono e svuotano i loro vassoi, li impilano negli appositi contenitori, e dopo mangiato si rimettono gli scarponi pesanti e tornano a casa da soli, a gruppetti. Dentro le aule, salta invece agli occhi quel che c’è: un computer portatile su ogni banco. “Ne abbiamo uno per alunno, da quest’anno”, dice Ulla Maija Vahasarja, la giovane direttrice di Jakomaki, che ci tiene prima di tutto a spiegare che la sua non è una scuola d’élite: piazzata com’è in mezzo a un quartiere che prima era tutto operaio, e che adesso con le sue case popolari attrae molti immigrati – il 35% di ragazzi ha origini straniere, una percentuale anomala per i finlandesi. I computer, così come tutti gli altri requisiti di un ambiente tecnologicamente accogliente – dal wi-fi agli arredi allo studio degli spazi comuni – sono solo gli ultimi arrivati, grazie al progetto Inno-school per il quale la Jakomaki è stata prescelta, entrando così in un network d’eccellenza gestito dalle università di Helsinki, Lapponia e California. Le altre cose c’erano già prima. A partire dal fatto che la scuola è unica, fino ai 16 anni: “Anche noi prima avevamo elementari e medie, il grande cambiamento c’è stato negli anni ‘70”, racconta Vahasarja, che all’epoca forse non era ancora nata. Da allora tutti i nove anni dell’obbligo sono stati unificati, con un processo lento, che ha rimandato sui banchi a studiare una generazione di insegnanti, e che è stato perfezionato solo alla fine degli anni ‘90. Ma che sta dando appieno i suoi frutti, secondo gli esperti finlandesi chiamati a spiegare i segreti del successo: “In fondo, i ragazzi che hanno scalato le classifiche dell’Ocse sono i figli della prima generazione raggiunta dalla scolarizzazione di massa”, dice Jarkko Hautamaki, professore di Scienze applicate dell’educazione all’università di Heksinki. Che aggiunge un particolare non di poco conto: “i test dell’Ocse-Pisa si fanno a campione sui quindicenni. Quindi, quando vengono chiamati a riempire quei fogli, i nostri studenti si trovano in una posizione ottima, all’apice dell’intero ciclo: sono all’ultimo anno di una scuola che è stata uguale per tutti, poco prima di dividersi verso le scuole superiori”.

Questo non vuol dire che dall’infanzia all’adolescenza gli alunni stiano sempre nella stessa classe e con la stessa maestra. “Nei primi anni le classi sono più numerose e con una sola maestra, negli ultimi anni ci sono meno studenti per classe e insegnanti specializzati per singole materie; in più, ci sono docenti ad hoc per i ragazzi che hanno bisogno di sostengo”, spiega la direttrice della Jakomaki. C’è un programma di base obbligatorio, ma poi sta alle singole scuole e soprattutto ai comuni la scelta concreta su come organizzarlo. E anche su come usare la scuola, in senso più largo. Alla Jakomaki per esempio vediamo i ragazzi andarsene a casa dopo mangiato. Ma la scuola non chiude, resta aperta fino alle nove di sera: per le riunioni, per le famiglie, per i lavori di gruppo, per i corsi di recupero, per chi voglia usarla. “L’edificio della scuola è il centro della comunità, è uno spreco tenerlo chiuso al pomeriggio”, dice Vahasarja. E al pomeriggio come al mattino nessuno paga niente: né per l’uso della scuola, né per la mensa, né per l’eventuale autobus da prendere, né per i libri. Ma non è una novità a queste latitudini. E l’istruzione resta gratis, con i connessi servizi, fino a tutta l’università: “Tasse? Rette? No, niente di tutto ciò. Gli studenti non pagano finché non escono da qui, con laurea o Phd”, dice col tono di chi afferma un’ovvietà Markuu Markkula, della Aalto University.

Il fattore I. Scuola unificata, servizi gratis, vita di quartiere, alta tecnologia, autonomia dei bambini: può bastare questo mix di Don Milani e Nokia, a spiegare il miracolo finlandese? Non parliamo dell’Italia, con i suoi problemi arretrati e i suoi tagli freschi. Ma perché altri paesi europei che hanno ingredienti simili non hanno gli stessi risultati a scuola? Qual è la ricetta segreta? “Buoni insegnanti”, dice con semplicità la direttrice Ulla. “Buoni insegnanti”, conferma l’intero staff degli esperti universitari mandati dalla Aalto a spiegare agli stranieri il futuribile progetto Innoschool. E’ da quarant’anni che in Finlandia bisogna prendere un master per poter insegnare dalle elementari in su; i relativi corsi durano tre anni sono a numero chiuso, e l’ammissione è molto ambita. Una volta finito il master, gli insegnanti entrano in un albo cittadino, dal quale le scuole scelgono chi chiamare. Quest’anno l’università di Helsinki ha accettato solo il 9,8% delle domande: la selezione è dura, gli aspiranti tanti. Quella strage di candidati, dice Hautamaki, “segnala il fatto che la carriera può essere intellettualmente e socialmente interessante e appagante”. Ma alla domanda: “guadagnate molto?”, le insegnanti della scuola Jakomaki scuotono la testa: “no, non sono i soldi la questione principale”. Non sono neanche l’ultima cosa, però: dai 2.925 euro (lordi) di una maestra, ai 3.260 di un insegnante “speciale” (materie specifiche o sostegno), ai 4.200 del dirigente, sono stipendi lontani da quelli dei nostri insegnanti, e di tutto rispetto anche rispetto ad altri prof europei. Ma sono comunque inferiori a quanto guadagna nella stessa Helsinki un laureato con master in altri posti, pubblici o privati. A fare la differenza è forse il ruolo sociale importante, tuttora attribuito a chi insegna. Ma anche la possibilità di cambiare lavoro, se lo si vuole: tutte le grandi aziende hanno dipartimenti per l’educazione, e gli insegnanti sono molto richiesti. E, più semplicemente, “il fatto che siamo libere, nel nostro lavoro: non di scegliere cosa insegnare, ma di decidere come farlo”, ci spiega un’insegnante della Jakomaki.

“Chi è che vuole diventare insegnante? Il più delle volte, chi ha avuto un buon insegnante: in fondo, quello della maestra è l’unico lavoro che i bambini conoscono davvero”. Kirsti Lonka, psicologa dell’educazione dell’università di Helsinki, si occupa proprio di studiare la motivazione degli insegnanti nella scuola del futuro. Una scuola sulla quale il governo finlandese sta puntando con molte ricerche e progetti ad alto tasso di tecnologia: che non vuol dire mettere computer e lavagne elettroniche in classe, ma saperli usare per riorganizzare l’intero ambiente della scuola. Per Lonka il successo finlandese è quasi un problema: “perché dovremmo cambiare? Non andiamo già bene così?”, si sente chiedere spesso dai docenti. Domanda non peregrina. Lonka risponde così: “Andiamo bene proprio perché vogliamo cambiare, siamo aperti al cambiamento”.

Non solo soldi. Ma quanto costa tutto questo? A prima vista, il bilancio che dà Vahasarja farebbe stramazzare a terra il dirigente di una qualsiasi scuola italiana, costretto a elemosinare soldi dalle famiglie financo per pagare i supplenti: “4 milioni e 410mila euro l’anno, tutto compreso, dagli stipendi all’affitto al riscaldamento: ma di questa somma, gestiamo direttamente solo 230mila euro. In più, la nostra scuola ha 150mila euro l’anno per prevenire gli abbandoni degli studenti a rischio”. Per avere un metro di paragone, ecco una cifra dal bilancio di una scuola romana (la Pascoli, scuola media del quartiere San Giovanni, circa 600 alunni): 8.005 euro in tutto l’anno per pagare le supplenze brevi. La distanza appare abissale. Eppure nell’insieme la scuola finlandese non è lussuosissima. La Finlandia spende in istruzione il 6,1% del Pil, e il 12,6% dell’intera spesa: certamente più dell’Italia e della media europea, qualcosa in meno dei livelli scandinavi. Ma si tratta di numeri in percentuale, se si passa ai valori assoluti le cose cambiano. “I soldi non sono tutto”, afferma deciso il professor Hautamaki, che ha preparato un grafico illuminante con il quale mette in relazione la spesa per studente e i punteggi in scienze: ne viene fuori che “non c’è una relazione, la Finlandia è da sola al top nei punteggi ma nel mucchio quanto ai livelli di spesa”. Prendendo la misura standard dei dollari a parità di potere d’acquisto, viene fuori addirittura che uno studente italiano, che deve pagarsi libri e mensa, in media riceve più di un finlandese, al quale la scuola passa anche l’apparecchio per i denti: 8.263 il primo, 8.048 il secondo.
Com’è possibile? “Non dimenticate che siamo pochissimi, 500mila studenti in tutto”, dice realisticamente Hautamaki. E organizzare i piccoli numeri è più facile. Inoltre, anche se il ciclo dell’obbligo è più lungo, si passano meno ore in classe, e ci sono più alunni per ogni insegnante. La spesa però cresce con il crescere dell’età, e sale nettamente sopra la media per gli studenti impegnati nell’università e nella ricerca. Tra i fattori di efficienza, Hautamaki mette anche il decentramento: la spesa si divide a metà tra stato e comuni, ed è gestita quasi interamente da questi. Gli stessi maestri e prof sono dipendenti comunali. Un decentramento spinto, che convive con la scuola più uniforme del mondo. Vale a dire: i famosi e celebrati test Pisa hanno gli stessi risultati in tutte le scuole e in tutte le zone del paese, le differenze tra migliori e peggiori si spalmano all’interno delle scuole, non tra una scuola e l’altra. Hautamaki la semplifica così: “puoi iscrivere i tuoi figli dove vuoi, sai che avranno le stesse opportunità”.

(réportage pubblicato su L’espresso n. 15, 15 aprile 2010)

mercoledì 14 aprile 2010

Il Destino

Il nostro destino esercita la sua influenza su di noi, anche quando non ne abbiamo ancora appresa la natura: il nostro futuro detta le leggi del nostro oggi.

F. Nietzsche

domenica 11 aprile 2010

Ristorante Insolito

Ha aperto da soli quattro mesi questo ristorante a Russi, vicino a Ravenna nel cuore della Romagna. Un locale molto ben curato che si presenta con una veranda chiusa, con un tocco marinaro, e che occupa una parte di una via laterale del centro storico del paese. All'interno, oltre ai posti in veranda, c'è anche una saletta con alcuni altri tavoli. Un certo gusto dell'arredo ne fanno un ristorante che risulterebbe interssante anche in una grande città italiana o estera. Si mischiano luci soffuse con modernità, tradizione e artigianato. Belle certe balaustre e altri articoli eseguiti da un giovane fabbro artigiano del luogo. Alcuni gradini conducono ad una piccola cantina ben fornita, con una temperatura naturale ottimale per i vini. Il servizio è cortese e il titolare molto attento. Curati anche i bagni a conferma di quanto già sostenuto in un precedente mio articolo. Lo Chef e  il suo aiuto hanno tra le esperienze più significative anche un certo periodo al Tivoli di Cortina. La carta del menù è limitata, ma tenuta aggiornata nella stagionalità a garanzia della qualità. Tra i piatti provati: insalata di puntarelle, alici marinate e vinegrette di pane e pomodoro; tortino di carciofi, fave e fomduta di parmigiano; Spaghjetti De Cecco n° 12 con bottarga di Muggine; gnocchetti di patate al pesto con seppioline saltate e fagiolini verdi; trancio di baccala' con verdure alla catalana; tempura di gamberi, verdure ed erbe aromatiche con salsa agrodolce. Interessante la proposta dei piatti anche nelle mezze porzioni. I piatti sono generalmente innovativi seppur legati ai prodotti locali. E' presente anche una selezione di minestre classiche rimagnole. Buono il rapporto qualità/prezzo. Vale la pena andarci.

Ristorante Insolito - Via Emilio Babini, 22 - Russi (RA) 48026 - 0544 582954 - Chiuso mercoledì

Ritrovare se stessi

Voglia di semplicità, di uno stile di vita più autentico, di un maggior senso Etico, di un ritorno agli affetti e ai piaceri più spontanei. Sostituire il falso credo politico-economico del "capitalismo egoista" con Valori più forti e veri. Ritrovare se stessi guardandosi dentro chiedendosi cosa conta veramente per noi. Meno cene fuori, ma più socialità tra le mura domestiche. Desiderio delle serate in casa davanti alla tv o a un buon libro. Questa crisi qualche beneficio lo porta per tornare a comportamenti più naturali, veri, con la conseguenza naturale di essere più soddisfacenti: una passeggiata con i cani, una corsa, riflessione, più attenzione agli altri. Momenti in cui il lavoro non è il solo esercizio utile su cui concentrarsi. Ricominciare a volte. Rimettersi in gioco, anche a cinquant'anni. Sollevando la testa e guardandosi attorno, focalizzandosi sulle proprie eccellenze, sulle proprie capacità. Si può fare. Il benessere, il "successo", la felicità si possono trovare anche in altri luoghi. Si impara ad pensare maggiormente al proprio benessere interiore, perchè poi si sta meglio con gli altri. Si rinuncia un pò al supefluo, anche psicologicamente è un esercizio utile: si spende un pò meno, si fa più attenzione prima si acquistare qualcosa, si cerca un libro magari che possa trasmetterci e lasciarci qualcosa oppure si decide per fare un viaggio. Sempre per ritrovarsi. Si cerca l'evasione mentale dalla situazione critica in cui viviamo in questi ultimi anni. C'è la necessità di ricaricarci. In qualche modo diventiamo più selettivi e valorizziamo maggiormente ciò che ci circond o il tempo libero che rischia di andare perduto a volte per sovraccarico di attività non così essenziali per il nostro benesse interiore.


sabato 10 aprile 2010

Coerenza

Credere è una bella  cosa, ma mettere in atto le cose in cui si crede è una prova di forza. Sono molti coloro che parlano come il fragore del mare, ma la loro vita è poco profonda e stagnante come una putrida palude. Sono molti coloro che levano il capo al di sopra delle cime delle montagne, ma il loro spirito rimane addormentato nell'oscurità delle caverne.

K.Gibran 

giovedì 8 aprile 2010

Vecchio bar addio

di Stefano Bonilli  - Papero Giallo

Voglio parlare ancora della colazione del mattino perché secondo me sul tema ci sono grandi equivoci.
Sono appena rientrato da New York e praticamente mi sono curato poco dei ristoranti e invece molto della colazione del mattino perché per me è il più importante momento della giornata.
Là dove Broadway sbocca in Columbus Circle ho fatto colazione all' AQ Kafé, il nuovo locale aperto dagli svedesi di Aquavit.
All'ingresso c'è la panetteria e poi una grande sala di colore chiaro, diciamo è Svezia + Ikea, dove si mangia ai tavolini e a due grandi tavoli comuni.
C'è il Wi-Fi, sono gentili, la colazione è buona e i prezzi sono tranquilli vista la zona centralissima nella quale è l'AQ Kafé.
Ci andrei se il locale fosse a Roma?
Di corsa perché ho voglia di pulizia, cortesia, materie prime di qualità e magari un bel Wi-Fi che non mi sembra un bisogno così singolare nel 2010.
Questo porta a parlare delle mie colazioni al bar di Barnes & Noble gestito da Starbucks e al bar di Border's gestito da Dean & De Luca al primo piano del Time Warner di Columbus Circle.
Ogni mattina la mia sosta di un'oretta in questi bar newyorkesi dentro le enormi librerie mi rimandava col pensiero al bar della Feltrinelli di piazza Argentina a Roma o a quello della Feltrinelli di piazza Colonna: mediocri cornetti, cappuccino medio, panini tristi, pochi tavoli, Wi-Fi a pagamento.
Mi rimandava più in generale ai bar italiani delle grandi città sempre più mordi e fuggi, consumazioni in due o tre minuti, mentre io concepisco il bar come un luogo dove ci si può anche fermare per consumare, leggere e scrivere e avere il Wi-Fi.
E mentre nel resto del mondo gli altri si ristrutturano per creare bar accoglienti, con divani, musica e Wi-Fi, noi stiamo trasformando i bar in luoghi rumorosi dove si mangia di tutto a tutte le ore ma in piedi.
Chi si siede ai tavoli delle città d'arte, infatti, è certamente un turista e va spennato, così in Piazza Navona, così a Firenze e così a Venezia.
La cultura del bar sta sparendo proprio a casa nostra che questa cultura l'abbiamo inventata e il paradosso Starbucks - il modello della catena americana è frutto di uno studio del bar-tipo italiano - è un esempio della nostra capacità di sprecare le tradizioni.
E mentre McDonald's e Starbucks e altre catene cercano di creare un format sempre più accogliente, noi trasformiamo i bar del centro delle città in luoghi sempre meno accoglienti, che negano un bicchiere d'acqua al turista e negano il bagno se non si ordina qualcosa al banco.

mercoledì 7 aprile 2010

L'eccellenza

L'eccellenza in un campo qualsiasi può essere raggiunta solo attraverso il lavoro di una vita: non si può acquistare ad un prezzo inferiore.

S. Johnson

I confini dell'anima

Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni via, non giungerai mai ai confini dell'anima, tanto  profonda è la sua essenza.

Eraclito

domenica 4 aprile 2010

Ripartire dai valori dimenticati

Si può pensare a un'economia buona, animata da valori particolari, espressione di un'etica consapevole e condivisa, diversa e specifica rispetto a quella corrente? Insomma ci può essere un'economia "più buona" della società che la circonda? Difficile rispondere a questa domanda: ovviamente, non esistono un'economia "buona"e una "cattiva".Semmai esistono economie più o meno efficienti, più o meno produttive, più o meno competitive, più o meno sostenibili. E imprenditori e manager più o meno bravi, più o meno corretti, più o meno responsabili; dico responsabili a riguardo non solo delle aziende, ma del rapporto tra le aziende e la società. Il "come" (male o bene) le risorse vengono prodotte, amministrate, distribuite, riflette i chiaroscuri dell'ambiente sociale complessivo, i suoi valori di riferimento, le sue priorità, la sua cultura e i suoi costumi consolidati e come tutto questo viene in qualche modo regolato, indirizzato, governato da leggi, istituzioni, classi dirigenti.

Non è questione di buoni e cattivi (in via di principio). Alla fine, la vera differenza la fa il senso civico, la consapevolezza di essere cittadini di una comunità, con diritti e doveri chiari e condivisi; cittadini che hanno rispetto per lo stato, le sue istituzioni e per i propri simili. È una questione di educazione. Voglio dire: ci sono più probabilità che un'economia funzioni bene, al servizio di tutti, dove tutti sanno che cosa vuol dire rispettare, che so, le strisce pedonali. E perché è conveniente rispettarle. «Nessun sistema - capitalismo, socialismo o che altro - può funzionare senza un senso di etica e di valori al proprio centro»: così scrive Fareed Zakaria nel suo manifesto capitalista Greed is good.

Come si fa a contestare l'opinione di Zakaria? Perché avvertiamo una caduta dell'etica e dei valori? Che cosa l'ha provocata? Lo stesso Zakaria ha provato a dare delle spiegazioni: sostiene che è il risultato di un mondo degli affari (in particolare, le banche) che si è trovato a fare i conti con l'apertura dei mercati e col formidabile incremento della competizione; il che avrebbe messo in crisi le prospettive lunghe su cui si taravano monopoli e cartelli, avrebbe minato la sicurezza delle élite nei propri privilegi; avrebbe schiacciato tutto e tutti sull'ansietà e l'insicurezza di dover essere giudicati trimestre su trimestre. L'ossessione dei profitti e del breve termine avrebbe volatilizzato l'antico senso di responsabilità verso tutte le constituencies , alimentando solo quello verso le proprie aziende.

Che cosa ha dunque indebolito la credenza in principi etici oggettivi e condivisi? La mia personale sensazione è che più o meno dalla metà degli anni Sessanta nella società occidentale si sia innescata una trasformazione profondissima. Ma accanto a ciò c'è stato un indebolimento delle strutture che sovrintendevano alle frontiere morali: la famiglia, innanzitutto, ma anche le istituzioni, la scuola, le università, le chiese, gli stessi mass media quando hanno cominciato a fare a gara tra loro per veicolare modelli di consumo e stili di vita cavalcando l'audience. L'educazione, compresa la dura ma lungimirante educazione alle regole e alle regole della libertà, ha sempre meno interpreti che la sappiamo assicurare con autorevolezza. Parlo, ovviamente, di quell'autorevolezza che è fondata sulla serietà, sul rigore morale,sull'esperienza, sul sacrificio personale, sulla fatica dello studio, dell'impegno, delle conquiste passo dopo passo. Questo genere di autorevolezza conta poco.

In ogni caso, per quanto riguarda i valori di riferimento, credo che nella storia siano emersi chiaramente quelli irrinunciabili per la società di oggi e di domani: il rispetto del prossimo, la solidarietà, la correttezza, la trasparenza, il senso di responsabilità e il senso del limite che sono i veri fondamenti della libertà. Per quanto riguarda le azioni che possono aiutarci per lo meno a difendere questi valori, continuo a pensare che il vero pilastro sia quello dell'educazione e della formazione, per la quale mi pare indispensabile un vero salto di qualità del sistema, compreso l'insegnamento (non residuale e non rituale) dell'educazione civica. Intervenire sull'educazione e sulla formazione (e sulle loro agenzie, famiglia e scuola in primis) è tutt'altro che facile in qualsiasi parte del mondo. Ma è un passaggio che non si può evitare se vogliamo costruire una società sostenibile.

Il rischio altrimenti è l'ulteriore diffusione dello stereotipo che considera l'economia di mercato luogo dell'anarchia e della sopraffazione. L'arcivescovo Reinhard Marx ha parlato recentemente di «capitalismo primitivo governato costitutivamente e illimitatamente dalla sfrenatezza e dalla cupidigia del singolo uomo». Ma è davvero così? Io sono convinto che ci fosse molta più sopraffazione prima che il mercato venisse istituzionalizzato. Mi pare che fosse stato già Plauto a parlare di homo homini lupus, poi ripreso da Hobbes. Ora a me pare che ci sia molta più giustizia oggi e soprattutto nelle economie di mercato, e nelle economie di mercato quando queste si coniugano con la democrazia, che è lo strumento che ci siamo dati per far partecipare il maggior numero di persone possibile ai dividendi della crescita economica. È dove c'è meno democrazia che sono forti anarchia e sopraffazione. Non del mercato; di tutti.

In sostanza, non so se lo spirito originario dell'uomo, come di qualunque animale, si esprima nella sopraffazione e nel potere. Nella lotta per la sopravvivenza sì, nell'aggressione egoistica non credo. Di certo è proprio l'introduzione delle regole (e della più efficace forma politica di amministrazione delle regole: la democrazia) che ha permesso il passaggio da una società della sopraffazione a una società civile, con indubbi vantaggi per il benessere collettivo. Il mercato non può da solo produrre principi etici. Il mercato "respira" i valori etici (o i disvalori) in cui la società crede, che le istituzioni praticano e difendono, che la classe dirigente (ma forse sarebbe meglio dire le diverse componenti della classe dirigente - la "classe dirigente" mi pare un astratto) praticano.

È stato scritto che occorre ripensare «il contratto sociale tra stato e mercato» (Michael Skapinker) ma francamente non so dire se occorra ripensare il contratto sociale stato-mercato. Per quel che mi riguarda, sono del parere che il mercato non si autoregoli, e lo dimostrano le recenti vicende della tempesta finanziaria internazionale. Per meglio dire: è possibile e auspicabile che in una società complessa come la nostra ci sia ampia facoltà di autoregolazione. La libertà è il sale della vita e anche dell'economia. Ma maggiore è l'autonomia concessa, maggiore deve essere la capacità dello stato di controllare ed eventualmente d'intervenire. Senza il bilanciamento tra due forze non c'èequilibrio.E salta tutto. Siamo arrivati infine alla questione dell'indipendenza della politica dall'economia. È evidente che finché dalla politica dipenderanno conseguenze economiche rilevanti (autorizzazioni, contratti e così via) e i politici o, per meglio dire, i pubblici amministratori saranno mediamente pagati molto meno degli operatori economici, il rischio di corruzione è elevatissimo. Quando si dà un enorme potere a persone economicamente fragili, i guai sono dietro l'angolo. Si possono evitare? Non è facile. Credo che l'educazione morale possa fare molto. Ma a parte questo, forse sarebbe bene trovare il modo di agevolare lo scambio di esperienze tra politica, società e mondo economico e creare le condizioni per un maggior equilibrio retributivo tra le classi dirigenti.

Come? Un contenimento dei guadagni più elevati, correlandoli ai risultati di creazione di valore nel medio-lungo termine, può essere un passaggio utile. Ma credo anche che una maggiore osmosi, una maggiore fluidità di posizioni di responsabilità tra pubblico e privato possa aiutare. Voglio dire: se un professore d'università è chiamato a ricoprire un incarico ministeriale e terminato questo va a dirigere un'impresa, una banca (sempre, ovviamente, che ne abbia le capacità, non gli "appoggi giusti") e poi magari torna nella pubblica amministrazione; se un meccanismo del genere potesse essere attivato, probabilmente ci sarebbero un po' meno avidità e corruzione in giro. Negli Stati Uniti mi pare che funzioni così. E funziona abbastanza bene.

di Gabriele Galateri di Genola (Presidente di Telecom Italia)

sabato 3 aprile 2010

Il vantaggio delle rotondità a tavola

Il ritorno del tavolo rotondo. Al ristorante senza gerarchie

L’indecisione su chi far sedere a capotavola. Le lunghe tavolate (con le temibili varianti a L o a U) dove la conversazione non supera il vicino di sedia. Inconvenienti che si dileguano davanti alla nuova frontiera della socialità: il tavolo rotondo. Annulla le gerarchie, è democratico e favorisce il dialogo: nei ristoranti la lista per prenotarlo è affollata. «Una volta ti chiamavano per sapere cosa c’era nel menu, oggi vogliono la certezza di cenare al tavolo tondo», dice Alfredo Tomaselli, patron del Bolognese, che sia a Roma che a Milano asseconda da anni il piacere del tavolo circolare. «Il principe Ruspoli era un fanatico e Mario D’Urso cena preferibilmente in tavoli tondi. Quando non riesci ad accontentarli e li sistemi in un tavolo quadrato, i clienti si sentono trattati da serie B». Piace alle comitive, si addice alle coppie («si sta più vicini, senza spigoli e barriere», osserva Tomaselli) ed è adatto per le rimpatriate familiari. Al ristorante Rigolo di Milano, lo stesso tavolo rotondo è prenotato ogni domenica, da 40 anni, dalla stessa famiglia. «Ha iniziato la bisnonna, oggi siamo arrivati ai pronipoti», dice il proprietario Renato Simoncini. «Mano a mano che la famiglia si allarga il posto a tavola si restringe».
Tanto meglio, perché più la tavola è compressa più la riuscita della conversazione è assicurata. «A tavola si deve stare ben bene appiccicati, a garanzia di una godibile chiacchierata», suggerisce la marchesa Bona Frescobaldi. Le regole del galateo non cambiano, anzi in qualche caso la buona educazione ne guadagna. «Non si alza più di tanto la voce per attirare l’attenzione e i gomiti rimangono sospesi in aria, invece che comodamente adagiati sui bordi». Intanto anche il termometro sociale Facebook registra la tendenza: nel social network è nato lo sparuto gruppo «Chi rompe per il tavolo rotondo e poi pacca». «Segno concreto di come tra le comitive, ormai il tavolo rotondo sia la regola», dice Enrico Roffi, proprietario del ristorante milanese il Giardinetto. I tavoli rotondi del suo locale ospitano 3, 5 o 7 persone «perché è proprio il numero dispari ad essere problematico», dice Roffi.
Tra gli affezionati anche clienti anziani («accostando l’orecchio eliminano i problemi d’udito) e uomini d’affari. «Parlare di business guardandosi in faccia è più rassicurante: e quando l’affare va in porto, per scaramanzia, prenotano per la volta successiva». Dopo l’esordio in sordina nei ristoranti orientali — tra i primi a far sedere la gente in cerchio — ora il nuovo modo di mangiare travalica i confini dell’Oriente. Il ristorante Mandarin di Milano riceve prenotazioni di settimana in settimana per i soli due tavoli tondi disponibili. «Le persone si guardano in faccia ed è più facile "pescare" tutti dallo stesso piatto», dice il proprietario. E anche Andrea Berton, chef stellato del Trussardi Alla Scala, riconosce la «circolarità» delle vivande grazie al tavolo tondo. «È più facile degustare nei piatti dei vicini senza dare troppo nell’occhio: così ne guadagna il gusto e la familiarità»
Con la filosofia dell’atmosfera rilassata a Rimini è nato il circolo enogastronomico Empty Space, dove i tavoli sono solo tondi: «lo stile èminimal, ma la scelta dei tavoli fa sentire tutti a casa», dicono i proprietari. Anche il dandy-ristoratore Italo Manca asseconda la nuova mania: i due tavoli tondi del suo bistrot «La Libera», vengono prenotati con largo anticipo dai clienti. «La gente si sente in famiglia, come nel cucinotto di casa: è un po’ lo specchio della società del tinello, ma va bene così», ironizza Manca, che confida nella buona educazione dei clienti, per non trasgredire troppo alle vecchie regole di Monsignor Della Casa. «Ma alcuni trucchi ci sono anche nel tavolo tondo», spiegano Ivan e Masa, celebre coppia del catering. «La persona più "importante" della comitiva dovrebbe conquistare la posizione di visuale che domina la stanza. Le signore, invece, dovrebbero volgere le spalle alla sala, per non svelare troppo velocemente la loro identità».

Michela Proietti - Corriere della Sera