lunedì 25 marzo 2013

C'era una volta la via Emilia, inseguendo il mito perduto

La strada millenaria che spacca Rimini come una mela e taglia dritta dall'arco di Augusto fino a Piacenza, è ignorata
di PAOLO RUMIZ - Repubblica
Guccini e Rumiz sulla via Emilia

"Scusi dov'è l'antica via Emilia?". Rimini. All'ufficio informazioni davanti alla stazione mi mostrano senza esitare il periplo delle mura. La strada millenaria che spacca la città come una mela e taglia dritta dall'arco di Augusto fino a Piacenza, è ignorata. Diavolo, non c'è niente di così rettilineo in tutto il Nord, la vedi persino dal satellite, ma è come se fosse sparita. Piove, il mare è immobile, il divertimentificio in letargo; in un chilometro conto 17 banche, nove negozi chiusi, centinaia di immigrati e infinite badanti.

Sono i 2200 anni della grande via romana - nel 187 a. C. il console Emilio Lepido la completava per tenere a bada i Galli della pianura - ma la regione ignora il mito fondativo della sua strada maggiore. Salvo un incontro voluto a giugno dalla soprintendenza e dall'editore Mulino in quel di Rimini, in vista c'è poco o nulla. Così vengo a dare un'occhiata, per dire cosa è diventata la più nobile delle antiche vie d'Italia. E capire perché gli emiliani la dimenticano.

Le sorprese cominciano subito. Chiedo un bus per Cesena, ma non si può, si arriva solo a Savignano, a trenta chilometri. Non c'è un Greyhound come sulla Route 66 transamericana. Per fare la strada più dritta d'Italia devo cucire coincidenze impossibili. Ho rimediato una strisciata di orari da mal di testa; me l'ha data un mago delle vie traverse di nome Paolo Merlini. Fino a Piacenza fanno quindici cambi, fra treno e bus. Dovrò armarmi di pazienza.

Linea 90, autoradio con spot martellanti, tre badanti rumene, due senegalesi che gridano al cellulare. Infiniti svincoli, rotonde fatte apposta per perdersi. Poi confluisco sulla via, e subito qualcosa si rimette a posto in me, come in un arabo che trova la Mecca. Rotta a Nordovest, ferrovia a destra, Appennino a sinistra. C'è anche una casa cantoniera, rosso pompeiano d'ordinanza. Spiragli di bella Italia.

A Santa Giustina con la via Emilia ce l'hanno a morte. È pavesata di lenzuolate ai balconi con scritto "Basta chiacchiere, circonvallazione subito", "Traffico+smog, grazie sindaco". La via è diventata Statale 9 fino a Milano, ma non taglia più i paesi: ci gira attorno. E laddove li taglia, diventa un inferno di Tir. Fabbriche, centri commercia-li, wellness, un manifesto che invita a una cena con strip maschile. Nessuna strada antica d'Europa somiglia meno di questa a ciò che è stata.

A Savignano merenda alla piadineria del ponte, con vista sulle campate romane e il Rubicone. Mi dicono che il paese pullula di cinesi negli scantinati. Il resto è anziani, e il solito gineceo romagnolo: impiegate, postine in bici, vigilesse a caccia di divieti. "Scusate, dov'è l'antica via Emilia?" chiedo alle ultime, e loro indicano perentorie la circonvallazione. Come a Rimini.

Linea 95 per Cesena, vetri sporchi da non veder fuori. Ipermercati, rotonda dedicata all'imperatore del liscio Secondo Casadei. Nella turrita Cesena patria di due papi mi raccatta Angela Arcozzi, una mora che odia le autostrade e mi porta in auto a Forlì. Piove forte, immense rotonde attorno a Forum Popili, l'attuale Forlimpopoli, patria di cuochi e briganti, Pellegrino Artusi e il Passator Cortese svaligiatore di teatri.

Forlì, fascistissimo vialone d'accesso con mega-statua della vittoria. Ora la tabella oraria mi consiglia un pezzo in treno, in fondo anche la ferrovia segue la via come un'ombra, mai più distante di duecento metri. Arriva un regionale per Imola, surriscaldato e chiacchierone, in ritardo di quaranta minuti. Edgardo, pensionato stazza Obelix, brontola che la Romagna ti infligge un rompiballe al secolo. Ieri Mussolini, oggi il riminese Moretti, rottamatore di Fs. "Scusi dov'è l'antica via Emilia? ", richiedo nella pulitissima Imola. Un tipo con valigia ventiquattr'ore mi indica la parallela. A confonderlo forse c'è il viale della stazione, che si chiama via Appia. L'incrocio col vero Decumano è una meraviglia in pietra e mattoni, ma tutto è sigillato in una teca pedonale con negozi alla moda.

Il bus Tpr 101 per Bolognafa cinquanta fermate in 33 chilometri, roba da crisi di nervi. Al capolinea un bambino grasso, una donna con un sacchetto di pesci rossi, la solita badante e un africano ben vestito; poi si parte verso la capitale dei Boi in un balletto di saliscendi alle portiere. Donne, di tutte le età. La via è massacrata dalla sua stessa geniale funzionalità trasportistica. Imola centro commerciale, Toscanella, Dozza, Osteria Grande: nessuna fermata che ricordi le legioni. Mucchi di neve sporca, frutteti spogli e l'eterna domanda: chissà dove finisce la Romagna e comincia l'Emilia? Mah.

Alle porte di Bologna già annotta. Rotaie, negozi, argini, fabbriche, canali, fari nelle pozzanghere. A bordo si discute di Grillo e del Mago Gargamella (Bersani) mentre la radio gracchia di Balotelli se gioca o non gioca e due ragazze in hijab digitano freneticamente sul telefonino. Nemmeno l'Emilia, terra di vie dritte, sa più dove andare. Al capolinea, fuggi-fuggi nella pioggia, poi camminata solitaria lungo il cardo di via Galliera solo per chiacchierare con la russa al bancone di "Kalinka", posto di vodke e caviali.

Afferro brandelli di mito solo con Gianni Brizzi, il prof di storia romana più annibalico che ci sia. Tra verdure padellate e un lambrusco, ecco venir fuori che fu il grande spavento punico a convincere Roma ad attrezzare quella strada per tenere buoni i Galli con una fascia- cuscinetto che non fosse solo militare. Una via capace di essere anche spazio di colonizzazione, mercato, e al tempo stesso un confine, l'antenato di tutti i Limes. La cena finisce con una panna cotta e un anatema: "Questa è la prima frontiera dell'Italia romana. E in Emilia non lo capiscono".
Come è vuota Bologna la notte; sento l'eco dei miei passi tra le Torri e il Nettuno. Tutto, mi dicono, è risucchiato dai centri commerciali. È incredibile: questa è l'unica regione al mondo che prende il nome da una strada, ma a quella strada non dedica una sola iscrizione turistica visibile. Nulla che proclami: qui sono passate le legioni, qui abita la nostra identità. Ma come fai a sapere dove vai, se non sai da dove vieni?

In auto per Modena con l'amico Alex Scillitani. Insegne trasparenti: Gelateria Delirius, Più compri e più risparmi, Affittasi capannoni, Compro oro. Tra Borgo Panigale e Casalecchio densità mai vista di seminude con ombrello, tacchi alti e iPod. Il consumo di suolo è terrificante, non c'è più spazio per la campagna. L'antico è disprezzato, lasciato morire. Ogni tanto un segnale dal mondo di ieri: un grandioso rudere in mattoni, una laterale di nome "Via del cantastorie".

Castelfranco è il primo paese senza tangenziale, la SS9 lo attraversa tra i portici come ai tempi della Millemiglia. Altrove ti deviano spietatamente, come a Modena, dove appena la strada si fa bella ti sparano sulla rotonda Maserati. L'unico modo di fare la via romana integrale sarebbe la bici, che però negli anni del Sol dell'Avvenire è stata bollata come retaggio della miseria, col risultato che oggi sull'Emilia ti arrotano se te la fai sul sellino.

Alla "Bruciata", oltre lo svincolo di Modena Nord, una volta c'era il West; oggi hai le signorine da marciapiede, russe o africane, a prezzi popolari. Puoi fartene una dopo una cena in pizzeria o un giro all'ipermercato. Poco prima, al ponte sul Panaro, c'erano i ruderi della discoteca Mac2, rugginosa base spaziale dimenticata. Poi fari nella pioggia, luminarie, e qualche varco di prateria. Ma la regione Emilia esiste davvero o è solo un'idea?

A Reggio il sindaco, noto per le "panchine parlanti" (fortunatamente guaste) e una mirabile rotonda attorno a una chiesa, ha pensato di ritombare un pezzo della via romana originale, in nome della modernità. In città la vivono come striscio, non come asse di collegamento. E se ti ostini a usarla come tale, ti dicono che la via è sbarrata. I bus non entrano nel granducato di Parma. Si va solo fino alla frontiera, come ai tempi delle dogane pre-unitarie.

La linea 2 verso il granducato è un bus urbano con posti in piedi. Coerente, in una via che è solo città lineare. E via, per rotonde megalitiche, in mezzo a cartelli di Vendesi e Affittasi. A Villa Cella c'è un venerabile cimelio, un cinema aperto, poi ti taglia la strada un funebre sovrappasso pedonale inaugurato con ascensore per disabili, e mai entrato in esercizio. Sembra Sicilia, ma è Emilia. Poi di nuovo campagna, monti innevati in lontananza, pavoni, oche, anatre.

Arrivo a Sant'Ilario in un bus vuoto, in un capolinea vuoto, in un quartiere vuoto. Piove anche nel chiosco d'attesa e non c'è nessuna coincidenza. Dopo le otto del mattino più niente collega il Reggiano al Parmense. Resta solo il treno, ma per arrivare alla stazione sono due chilometri a piedi. C'è solo l'autostop per passare l'Enza, gonfio e marrone, e con il ponte una nuova parata di adescatrici automunite, e una rete di sterrati
per il mestiere.

Da un capo all'altro di Parma, la via di Emilio Lepido svela la sua storia ospedaliera. Lazzaretti, ricoveri per pellegrini, vecchi manicomi, la meraviglia di un ospedale rinascimentale. "Tutti segni - mi dice al bar l'assessore grillino Laura Maria Ferraris - di una rilettura non solo verdiana della città". Ma è dura risalire la china dopo anni di sfascio e ruberie. Col disastro Parmalat è scoppiata la crisi, il commercio va male anche in centro. Chiara Cabassi, bibliotecaria, mi porta sotto il ponte di mezzo, nell'antro che contiene le campate del suo predecessore romano. Oggi il sottopasso è terra di nessuno, ieri era pieno di negozi. E via di nuovo tra capannoni in disuso come balene spiaggiate.

Ponte sul Taro, grandioso, con statue di donna; poi la bellissima Fidenza disertata dai suoi stessi abitanti. La gente va al "Fidenza Village", preferisce l'antico finto all'antico vero. I Tir non danno requie. "Con la crisi, i camionisti risparmiano sulle autostrade. Rovoleto e Pontenure sono annichilite dai passaggi", lamenta Mauro Nicoli, ufficio urbanistico di Fiorenzuola. "Ma la catastrofe vera è che la via non è più sentita come tale. Solo dall'aereo la percepisci come segno del territorio".

Ultimo caffè al bar Mocambo, ex balera sulla ferrovia, poi via in treno fino al paracarro finale: Piacenza, 197° miglio romano, piantata sull'ultimo guado del Po. Per fare tutta la strada dovrei continuare fino al dazio milanese di Porta Romana, ma sono sazio di badanti, Tir, belle-di-giorno, serrande abbassate e centri commerciali. Non ho trovato il mito; non so dove vada la regione-guida d'Italia. Piove troppo, Cristo santo, e ho pure le scarpe fradice.




mercoledì 20 marzo 2013

Francesco entra nella piazza

In quei giorni si trovava a Troade, una città portuale dell'Anatolia che s'affacciava sull'Egeo. A notte fonda una voce era risuonata nella sua mente durante un sogno: era un europeo che supplicava in greco: Diabàs eis Makedonían boétheson hemín, «Vieni in Macedonia e aiutaci!» (Atti 16,9). Protagonista di questa vicenda intima che, però, segnerà la storia dell'Occidente, è l'apostolo Paolo che, spinto da quell'appello, dal l'Asia approderà in Europa. Anni dopo la scena si ripeterà in una forma diversa, all'interno di una camera di sicurezza ove l'Apostolo era relegato: egli era in custodia cautelare nella Fortezza Antonia (ove era di stanza il presidio imperiale romano di Gerusalemme) in seguito al suo coinvolgimento in un tumulto avvenuto nel Sinedrio, la suprema assemblea giudaica. Paolo era stato sottratto a fatica da un tribuno alle contestazioni dei Sinedriti.

Ebbene, nel sonno agitato del recluso ecco apparire un volto luminoso. Era il Signore Gesù che gli diceva: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme su di me, così è necessario che tu mi dia testimonianza anche a Roma» (Atti 23,11). In queste due scene emblematiche si può idealmente rappresentare l'impegno che attende Papa Francesco e l'intera Chiesa: uscire dal grembo protetto, ove pure è necessario sostare, per entrare nelle metropoli; varcare le soglie del tempio, ove è certamente indispensabile vivere la diretta comunione con Dio, ed entrare nella piazza, anzi nella rete sociale, virtuale, economica, culturale che avvolge il nostro globo. I suoi primi atti sono stati limpidi ed essenziali proprio in questa direzione.
L'orizzonte che viene incontro non è, certo, facile da traversare. Forse non è più tenebroso e ostile come accadeva in certe epoche del passato, segnate da guerre mondiali o da negazioni teoriche assolute e radicali di ogni trascendenza. Ora spesso a dominare è una sorta di nebbia ove i contorni si confondono e si neutralizzano. È il fenomeno dell'indifferenza morale e religiosa per cui Dio è ignorato, la fede considerata irrilevante, l'etica è mobile secondo le convenienze e le circostanze e la verità è simile al disegno di una ragnatela che ciascuno produce estraendone il filo da se stessi e non ricevendolo dall'alto.

Eppure è un orizzonte che apre tanti squarci di luce. L'invocazione del macedone risuona anche ai nostri giorni in modo forse implicito ma autentico e riguarda le domande basilari di senso sulle realtà ultime della vita, della morte e dell'oltrevita, della persona e della libertà, del male e della sofferenza, del l'amore e della felicità, della giustizia e dell'ingiustizia, della verità e della menzogna, della pace e della violenza, dell'armonia con la terra. È per questo che molti provano un'attrazione quando sentono risuonare la Parola evangelica che inquieta le coscienze intorpidite, che consola, che libera, che spinge alla speranza e all'impegno fraterno, che fa conoscere la compassione e la tenerezza, che non è indifferente al male giudicandolo eppure punta soprattutto alla salvezza di ogni creatura umana, perché – come ancora ammoniva san Paolo – «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Timoteo 2,4).

La figura di Cristo riesce ancora ad attraversare le vie della modernità. Egli continua a bussare – mediante i suoi apostoli e discepoli – alle porte delle solitudini contemporanee, come suggeriva l'Apocalisse: «Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Sono molti, poi, i crocevia dove il messaggio cristiano può essere intercettato dai passanti a prima vista distratti. C'è innanzitutto proprio l'ambito della secolarizzazione che ha appiattito le culture, ma non ha potuto cancellare la verità del monito di Pascal secondo cui «l'uomo supera infinitamente l'uomo», impedendogli di eliminare la domanda religiosa e quella sul senso dell'esistenza, né tanto meno ha potuto far tacere totalmente una radicale coscienza etica. È qui che si insedia quel «Cortile dei Gentili», pensato da Benedetto XVI, spazio di dialogo e di incontro sui temi "ultimi" tra credenti e non credenti.

C'è, inoltre, il grande respiro delle culture giovanili con le loro nuove grammatiche espressive e operative che possono sconcertare e che non di rado corrono sul crinale del rischio e della degenerazione, ma che custodiscono terreni fecondi di amicizia, di volontariato, di libertà, di creatività, di musica. C'è il mondo della scienza e della tecnica che pone sul tappeto pesanti questioni di bioetica, ma che al tempo stesso trasfigura la comprensione della realtà e trasforma la qualità della vita. Il nostro sguardo, infatti, può fissarsi con stupore sulla trama dell'evoluzione globale, dal fondo cosmico primordiale fino all'elica del Dna, dal bosone di Higgs fino al multiverso, ma può anche scoprire gli straordinari esiti che la ricerca medica offre all'umanità come sostegno alla sua fragilità e finitudine.

Capitale ai nostri giorni è anche l'opera che la Chiesa deve offrire al superamento dello scontro delle civiltà, ma pure di un multiculturalismo statico che lasci lo spazio a un'interculturalità multiforme che si basa sul dialogo e sul confronto. In questa opera, le identità specifiche non devono stingersi o estinguersi in un sincretismo relativistico – come purtroppo sta accadendo a un'Europa "smemorata" e superficiale – ma quelle identità non devono neppure indurirsi in un fondamentalismo aggressivo, esclusivo e repulsivo.

Non si possono nemmeno ignorare i grandi intrecci economici che, purtroppo, spesso generano squilibri sociali, miseria, disoccupazione, persino disperazione, accumuli finanziari capaci solo di alimentare ingiustizie o illusioni. E tuttavia si tratta di uno strumento necessario per lo sviluppo sociale, per l'esercizio di una politica che sia attenta alla vita della gente e alla promozione del bene comune. Similmente è importante per la Chiesa essere sempre accanto alla famiglia, cuore della società, un cuore non di rado dissanguato o ferito, ma anche pronto a battere con la sua carica d'amore, così da tornare a essere ancora una sorta di ecclesia domestica, come accadeva alle origini del cristianesimo.

La Chiesa deve, allora, vivere con intensità l'unità nella pluralità, ancorandosi certo alla coordinata verticale del primato petrino, ma anche a quella della collegialità episcopale, dell'impegno del clero e dei religiosi e del coinvolgimento attivo ed esplicito dell'intera comunità ecclesiale, a partire dalla presenza femminile il cui contributo è spesso decisivo. E, se si vuole allargare il respiro, la comunità cristiana all'interno della sua preghiera, della sua liturgia, dei suoi ambiti di presenza deve coltivare l'amore per la bellezza in un mondo spesso segnato dalle ferite della bruttezza, inquinato e devastato: è la forza dell'arte che, dopo la parentesi del divorzio consumatosi nel secolo scorso, deve riprendere il filo d'oro del suo incontro con la fede, sua sorella nella ricerca dell'Invisibile che si cela nel visibile, anche lungo percorsi inediti, come avviene nelle espressioni estetiche contemporanee.

Ma, come ha testimoniato papa Francesco fin dai suoi inizi, per entrare in questi e in altri incroci è necessario tenere alta la purezza della Parola e della testimonianza, abbattendo nella Chiesa ogni scandalo, ogni arroganza, ogni ipocrisia, sulla scia di quanto attestano le labbra e le mani di Cristo. Infatti, le sue sono parole semplici ma incisive, non passano sopra le teste delle persone in un vago ed etereo spiritualismo, ma partono dai loro piedi che camminano nella storia, impolverandosi nei problemi quotidiani, partecipando a vicende festive e feriali, condividendo riso e lacrime degli uomini e delle donne. Le sue mani, poi, sanano i malati, accarezzano gli emarginati, non temono di sporcarsi con le lebbre di ogni genere. La semplicità del suo linguaggio e della sua azione attinge all'essenzialità della verità e dell'amore e questa semplicità è sinonimo di grandezza. È la grandezza dell'essenzialità che la Chiesa deve saper ritrovare nel suo comunicare, senza temere di inoltrarsi sulle strade informatiche, telematiche e digitali per annunciare il suo messaggio. È quella grandezza semplice che deve pervadere la compassione amorosa, l'operare ecclesiale nella storia, sapendo – col realismo della ragione e l'ottimismo della fede – che l'approdo ultimo non è il baratro del nulla, ma è la risurrezione.

Gianfranco Ravasi - Domenica Il Sole 24ore


domenica 17 marzo 2013

Elogio del compromesso

Il termine compromesso non gode di buona fama. Fa pensare ad accordi sotto banco, alla rinuncia ai propri ideali per miseri tornaconti personali. Al contrario, l’intransigenza viene elevata a valore. Salvo poi scoprire che per alcuni, anzi per molti, fingersi intransigenti è un modo sottile per avere facile successo e realizzare i propri interessi. Ciò vale, in Italia, soprattutto in politica. E non c’è da meravigliarsene. Caduta la cosiddetta «prima Repubblica», per quasi un ventennio la politica ha riprodotto un gioco a somma zero, che esigeva una scelta di campo netta a prescindere dai temi sul tappeto. O con me o contro me. La divisione antropologica o quasi fra berlusconiani e antiberlusconiani ha significato impossibilità di trovare punti di condivisione che avrebbero potuto portare a soluzione questioni che, rimaste inevase, sono poi esplose, portandoci sul ciglio del precipizio.

Anche oggi che, con il governo Monti, siamo in una nuova fase, le forze dell’antipolitica e del populismo, a destra come a sinistra, continuano a far sentire forte la loro voce e rifiutano ogni confronto, proponendo ricette non solo semplicistiche e velleitarie, ma anche pericolose. Lo stesso governo tecnico è nato dalla constatazione che i partiti non erano in grado di raggiungere un dignitoso compromesso sulle cose da fare, assumendosi direttamente le proprie responsabilità.

Guai però a pensare che l’antipolitica sia un fenomeno solo italiano. Purtroppo negli ultimi anni ha conquistato sempre più spazi in Occidente. E persino negli Stati Uniti, con l’emergere di una destra fondamentalista e ultraliberista, il dibattito pubblico si è radicalizzato, assumendo i toni di una «guerra di religione», come raccontano Giovanni Borgognone e Martino Mazzonis nel volume Tea Party, edito da Marsilio nella collana «i libri di Reset». È da questa situazione che prendono le mosse due affermati scienziati della politica americani, Amy Guttmann e Dennis Thompson, nel loro recente The Spirit of Compromise. Il libro, edito da Princeton University Press, è un elogio dell’arte della politica, che per definizione è basata sul compromesso. «La politica — scrivono i due autori — è l’arte del possibile, quindi il compromesso è l’abilità richiesta alla democrazia».

L’obiezione che di solito viene posta a tesi di questo genere è che sui principi nessun compromesso è ammissibile. È chiaro per esempio che una democrazia non può venire a patti con forze illiberali: come diceva Karl Popper, chi vuole servirsi delle regole della «società aperta» per conquistare il potere e poi abolirle va messo fuori gioco. Ma non si può giudicare indegne di partecipare al gioco politico le forze che semplicemente non la pensano come noi. La china che porta dallo Stato di diritto allo «Stato etico» è sempre scivolosa. Più interessante è l’obiezione liberale al compromesso: esso annullerebbe il conflitto nell’illusione di creare una società armoniosa. Ora, è vero che il conflitto è il sale della democrazia, ma esso, per i padri del liberalismo, deve aver corso e vita nella società civile, per poi trovare una composizione nella politica. Non parlavano di conflitto semplicemente, ma sempre di conflitto regolato.

D’altronde, discutere e raggiungere un onesto compromesso significa corrispondere all’idea che nessuno è portatore della verità. E quindi adempiere a un dettato fondamentale del liberalismo. Chiunque, anche il nostro avversario, può aver visto aspetti della verità che ci erano sfuggiti e possono essere integrati nella nostra visione. O anche farcela cambiare. Il ripensamento e l’autocritica, quando sono il frutto di un travaglio interiore, ci fanno maturare e devono essere benvenuti. D’altronde, se viene meno la forza della contraddizione, l’«immane potenza del negativo» di cui parlava Hegel, la società non progredisce, la conoscenza stessa diventa statica e alla fine inservibile.

Qui il discorso dalla politica passa alla filosofia. Non è un caso, ad esempio, che in un volumetto pubblicato da Castelvecchi con il titolo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Simone Weil contesti la logica della contrapposizione astratta. «Siamo arrivati al punto — scrive — da non pensare quasi più, in nessun ambito, se non prendendo posizione “pro” o “contro” un’opinione e cercando argomenti che, secondo i casi, la confutino o la supportino». Persino nella scuola, osserva, quando si presenta un testo agli scolari non si sollecita semplicemente una loro riflessione, ma li si invita a prendere posizione. E conclude: «Quasi dappertutto — e anche, di frequente, per problemi puramente tecnici — l’operazione di prendere partito, di prendere posizione pro o contro, si è sostituita all’operazione del pensiero». È una «lebbra che ci sta uccidendo».

Più in generale può dirsi che l’intero campo del pensiero si divida fra autori che sono consapevoli del carattere chiaroscurale della realtà e altri che invece si ritengono portatori della verità. Questo è il limite di ogni illuminismo, l’inconsapevolezza che una luce troppo accesa impedisce di vedere. Proprio come il buio. Quando Isaiah Berlin passa a studiare, e anche ad apprezzare, i tardo illuministi o protoromantici tedeschi (Hamann, Herder, Jacobi, Humboldt), non abbandona il campo del liberalismo. Si mette piuttosto alla ricerca di una razionalità più concreta e di un liberalismo più compiuto, per fare i conti con la varietà e complessità del mondo umano.

Il tardo illuminismo culminò nel pensiero di Hegel, che ripropose e portò a compimento la lunga storia della logica dialettica. È una logica che non si fonda, come quella formale, sul principio di non contraddizione, ma concepisce ogni concetto in relazione dinamica col suo opposto, in quanto parte di un insieme che entrambi li regge e giustifica. Un’anima pia come Kierkegaard capì subito che era su questo punto che andava sferrato l’attacco contro Hegel. E infatti oppose la sua logica dell’aut aut a quella dell’et et propria del maestro di Stoccarda.

Ora, mi chiedo: è solo un caso che nella nostra epoca di contrapposizioni forzate e di antipolitica diffusa la dialettica sia il grande rimosso della filosofia? E non è da qui che occorre ripartire per riabilitare la nobile arte del compromesso?

Corrado Ocone
- La Lettura Corriere della Sera

mercoledì 6 marzo 2013

Sobrietà

“Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo: limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra pragmatismo da meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità.
Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”

J. Ratzinger

domenica 3 marzo 2013

La frenata della globalizzazione

Che la Storia non fosse finita lo abbiamo saputo l’11 settembre 2001. Ora possiamo anche dire che nemmeno la Geografia è finita. Che il mondo non è «piatto» come sosteneva Thomas Friedman del «New York Times». Non solo i confini ci sono ancora: con la Grande Crisi sono diventati più difficili da valicare. La globalizzazione sta tornando indietro. Si è fermata nel 2007 e da allora ha iniziato una marcia a ritroso, non per le proteste dei sindacati, non per le manifestazioni No Global, non per il buon sapore del chilometro zero. Perché il vento che le gonfiava le vele ha cambiato direzione: nella finanza, nei commerci, nelle scelte delle aziende, ma anche nelle istituzioni, nella politica e, soprattutto, nelle idee che danno forma al mondo.

Per alcuni è un bene. Più probabilmente è un pericolo. Anche la prima globalizzazione si arrestò, e lo stop fu drammatico, cristallizzato nella Grande guerra e in quasi tre decenni di trincee, di morti e di odi nazionalisti. Non che debba finire così anche questa volta: un pianeta più chiuso, però, non promette bene.

La nostra Belle Époque è durata un quarto di secolo, forse una trentina d’anni. Anni selvaggi. Belli e spietati. Miliardi di persone sono uscite dall’indigenza: le Nazioni Unite dicono che nel 2015 sotto la linea di povertà ci saranno 920 milioni di persone, la metà che nel 1990, nonostante la popolazione del mondo sia passata dai 5,2 miliardi di allora agli oltre sette di oggi. La democrazia e la libertà hanno preso piede: i Paesi dove si vota sono 117 e l’organizzazione Freedom House calcola che nel 2012 le nazioni ad alto tasso di libertà sono state 90, contro le 44 del 1985. I viaggi si sono decuplicati. Internet ha messo in rete la Terra. La finanza e le banche globali hanno portato capitali in ogni angolo, e ciò ha fatto crescere decine di economie. La Cina, fino al 1978 del tutto chiusa, è diventata la fabbrica del mondo. L’India, nel 1990 ancora un’economia di piano in stile socialista, è il Paese emergente più giovane e con il futuro più brillante, se saprà affrontare le sue immense contraddizioni. E via così, in decine di luoghi, con il pianeta delle meraviglie.

Che naturalmente aveva anche una faccia oscura. In Occidente in quel quarto di secolo molte fabbriche hanno chiuso perché spostate dove il lavoro costa meno. Gli sweatshop del Terzo Mondo, popolati da donne e bambini sfruttati, si sono moltiplicati: anche la vergogna è diventata un fenomeno globale. Persino le malattie — ricordate la Sars? — prendevano l’aereo per spostarsi da un continente all’altro. La cultura era solo americana, uguale ovunque, senza sfumature. «Nonostante diverse culture, la gioventù della classe media di tutto il mondo sembra passare la propria vita come se fosse in un universo parallelo, scriveva nel 1999 Naomi Klein nel suo bestseller No Logo. Si svegliano al mattino, indossano i Levi’s e le Nike, afferrano i loro cappellini e i loro zaini e il Sony personal Cd e se ne vanno a scuola». Nonostante Apple abbia dato altro pane di riflessione alla signora Klein e l’i-Phone sia diventato l’oggetto di maggiore concupiscenza di massa del secolo, con la Grande Crisi questo mondo con tante luci e parecchie ombre si è fermato. Prima là dove la catastrofe è scoppiata, poi via via quasi ovunque.

Dopo il crollo della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, gli Stati sono intervenuti per salvare e spesso nazionalizzare le banche, hanno imposto nuove regole alla loro espansione, hanno spinto, soprattutto in Europa, per limitare le attività degli istituti di credito dentro i confini domestici. Il risultato è che il modello di banche con una spinta globale è tramontato. Alla fine del 2011, i prestiti non nazionali delle banche sono crollati di 799 miliardi di dollari, 584 dei quali per la ritirata in casa di quelle europee. E la tendenza è continuata nel 2012. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che entro la fine di quest’anno gli istituti di credito della Ue potrebbero ridurre le loro attività di 2.600 miliardi di dollari (il 7 per cento del totale) e che un quarto di questa cifra potrebbe venire dal taglio dei prestiti fatti fuori dai confini di casa, in aggiunta alla vendita di titoli internazionali.

In parallelo, i due grandi collanti «fisici» della globalizzazione si sono fermati. Il commercio internazionale — che nei decenni passati cresceva a ritmi impressionanti, spesso sopra al 10 per cento l’anno, e trascinava la crescita del mondo — ha rallentato dopo una certa ripresa nel 2010. L’anno scorso l’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) ha rivisto per due volte al ribasso le sue previsioni per il 2012: gli scambi mondiali non dovrebbero essere cresciuti più del 2-2,5 per cento; e il Cpb World Trade Monitor ha calcolato che nel dicembre scorso sono addirittura diminuiti, dello 0,5 per cento rispetto a novembre.

L’altro grande fenomeno dei decenni passati, il decentramento produttivo, non solo si è fermato, ma molte imprese americane e europee stanno riportando a casa le produzioni che avevano esportato nei Paesi emergenti. Un po’ perché si sono accorte che non sempre l’outsourcing è stato redditizio, un po’ perché i salari in Cina sono molto cresciuti e non sono più attraenti come quando l’onda dell’offshoring — dello spedire fabbriche e posti di lavoro nel Terzo Mondo — era il vangelo dei grandi manager, soprattutto americani, ma anche europei. Questo ritiro nazionale ha provocato la rottura della cosiddetta catena globale delle forniture, cioè di quella rete di aziende produttrici di beni intermedi che nei decenni scorsi aveva consentito il decollo di intere economie dei Paesi poveri.

La società di trasporti Dhl, che ogni anno produce un indice della connettività globale, ha calcolato che nel 2012 «il mondo è meno integrato che nel 2007»: i mercati dei capitali si sono frammentati; il commercio dei servizi è stagnante; la «connettività globale è anche più debole di quanto sia comunemente percepito»; «la distanza e i confini contano ancora», con le connessioni online che sono per lo più domestiche. Lo studio della Dhl sostiene che «i guadagni potenziali derivanti dall’incremento della connettività globale possono raggiungere miliardi di dollari»: ciò nonostante, l’opportunità non viene sfruttata.

L’indice di gradimento dei governi per la globalizzazione non è mai stato elevato, dal momento che essa erode il loro potere, rimasto nazionale. Nei tempi più recenti, spinti anche in questo caso dal dover fare qualcosa per affrontare la recessione, hanno accentuato la loro refrattarietà all’apertura e in più di un caso hanno imboccato strade protezioniste, per quanto camuffate. L’ultimo G7, due settimane fa, ha dovuto riunirsi per discutere di possibili guerre valutarie, intese come mezzi per abbassare il valore di una moneta allo scopo di favorire le esportazioni. Mercantilismo valutario, con germi da anni Trenta, insomma. I dibattiti sull’opportunità di reintrodurre vincoli ai movimenti di capitale in situazioni di crisi, d’altra parte, hanno riguadagnato quota anche nel dibattito accademico. Per riassumere le tendenze in corso nella finanza, ma non solo, l’economista britannico Howard Davies sostiene che il 2013 sarà un anno «decisivo per la deglobalization». In questa cornice, persino la democrazia arretra, come raccontano le strade repressive prese dalle rivoluzioni arabe: Freedom House calcola che nel 2012, per il settimo anno consecutivo, il numero di Paesi in cui l’indice della libertà è peggiorato supera il numero di quelli in cui è migliorato.

Non sorprende che, con queste tendenze così accentuate, anche sul piano delle idee l’internazionalismo non sia in forma. Le Nazioni Unite non solo deludono di fronte al massacro della Siria: non ispirano più e, anzi, la superburocrazia del Palazzo di Vetro deprime l’antica e nobile idea di governo mondiale. Dopo la crisi del debito, l’Unione Europea è vista, nel mondo, meno come modello di superamento delle frontiere e sempre più come aggregazione litigiosa e incapace di decidere. Il G7 si è ridotto a un ruolo marginale, ma anche il G20, che l’ha sostituito nel 2009, ha presto perso la sua capacità di dare risposte ai problemi del mondo. Persino la questione più globale che si dovrebbe affrontare, il cambiamento del clima, si trascina da vertice inutile a vertice inutile, segno dell’incapacità del mondo di accordarsi anche di fronte alle sfide più importanti.

La Wto — simbolo della globalizzazione nell’immaginario No Global fin dagli anni Novanta — da oltre dieci anni non riesce a portare a termine il Doha Round, la trattativa per liberalizzare ulteriormente il commercio mondiale che darebbe una spinta rilevante all’economia del mondo, a costo zero. L’idea stessa di multilateralismo — cioè di accordi generali aperti a tutti i Paesi su basi paritarie, pilastro della ripresa post-bellica — è in ritirata: la proposta di Obama, accettata con entusiasmo da molti leader europei, di aprire i negoziati per una zona transatlantica di libero scambio si muove in una logica bilaterale, tra Stati Uniti ed Europa, e rischia di provocare irritazioni e reazioni in altri Paesi, Cina in testa ma non solo.

L’anno scorso, l’analista geopolitico Robert Kaplan ha pubblicato un libro — The Revenge of Geography («La rivincita della geografia»), Random House — nel quale sosteneva la necessità di tornare a studiare i confini naturali, la loro influenza sulle culture e sulle politiche, le risorse del sottosuolo per capire le grandi scelte delle nazioni: mappe più rivelatrici delle dichiarazioni politiche, dei documenti top secret, delle ideologie — a suo parere. Perché — sosteneva citando Paul Bracken di Yale — la dimensione finita della Terra è una forza di instabilità. La globalizzazione, in altri termini, ha un limite nella tendenza espansiva delle nazioni, soprattutto degli imperi vecchi e nuovi: quando si raggiunge il punto in cui non è più possibile andare oltre con un grado di armonia che soddisfi tutti, perché la Terra è in qualche modo finita, si ritorna sui passi compiuti, riprendono i vecchi meccanismi che si possono sfogare solo sulla faccia del nostro pianeta.

Non siamo già arrivati al momento in cui la Terra è finita e non si può andare oltre. Sembra però sempre più difficile, nella Grande Crisi, mantenere quel livello di armonia e di apertura nel quale tutti hanno dei vantaggi, come negli anni d’oro della globalizzazione: l’ombra della somma zero — quel che guadagni tu lo perdo io — comincia a fare paura. Così, la vecchia, polverosa Geografia torna a misurare confini e distanze del nostro piccolo mondo.

Danilo Taino - Club La Lettura del Corriere della Sera


sabato 2 marzo 2013

Le virtù del buon politico

Anticipando il probabile duello finale dei prossimi mesi, Grillo ha attaccato Renzi dandogli della «faccia come il c.» (in comproprietà con Bersani) e del «politico di professione». Per lui e per una parte dei suoi elettori le due definizioni sono sinonimi. Tralascio ogni giudizio sull’uso del turpiloquio, uno dei tanti lasciti di questo ventennio che ancora prima delle tasche ci ha immiserito i cuori, portandoci a considerare normale e persino simpatico che un leader politico si esprima come un energumeno. Ma vorrei sommessamente segnalare che essere professionisti della politica non è una vergogna né una colpa. E’ colpevole, e vergognoso, essere dei professionisti della politica ladri e incapaci.

In questi ultimi decenni ne abbiamo avuti un’infinità e la stampa porta il merito ma anche la responsabilità di averli resi popolari, preferendo esibire i fenomeni acchiappa audience piuttosto che il lavoro serio ma noioso di tanti membri delle commissioni parlamentari.
Dando agli elettori la percezione che tutti i politici fossero uguali a Fiorito o a Scilipoti e che chiunque potesse fare meglio di loro. Non è così. Il «chiunquismo» è una malattia anche peggiore del qualunquismo e porta le società all’autodistruzione. Questa idea che tutti possono fare politica, scrivere articoli di giornale, gestire un’azienda o allenare una squadra di calcio è una battuta da bar che purtroppo è uscita dai bar per invaderci la vita e devastarcela.

A furia di vedere buffoni e mediocri nelle foto di gruppo della classe dirigente, ma soprattutto di vedere ovunque umiliata la meritocrazia a vantaggio della raccomandazione, siamo sprofondati in un’abulia che ci ha indotti ad accettare senza battere ciglio ogni sopruso e ogni abuso antidemocratico (a cominciare dai partiti padronali e da una oscura rockstar del capitalismo come presidente del Consiglio). E ora che ci siamo svegliati, per reazione vorremmo buttare tutto all’aria, convinti che per fare politica bastino un ideale e una fedina penale intonsa. Non è vero. Gli ideali e l’onestà sono la base per distinguere i buoni leader dai cialtroni che ci hanno ridotto in questo stato. Ma la politica è anche un mestiere con regole precise: l’attitudine all’ascolto, la conoscenza della materia trattata e delle procedure legislative, la capacità di giungere a una sintesi che in democrazia è quasi sempre un compromesso tra diversi egoismi, come ben sa chiunque abbia frequentato un’assemblea di condominio. Era così ai tempi di Pericle e delle lavagnette di creta. Lo rimarrà nell’era di Grillo e del web, con buona pace di chi pensa che la democrazia diretta possa abolire il filtro della rappresentanza. I rimpianti Cavour e De Gasperi non erano dilettanti o improvvisatori. Erano politici di professione, come lo è oggi un Obama.

Il fatto che queste ovvietà suonino eretiche testimonia l’abisso di confusione in cui ci dibattiamo. La politica, se fatta bene, è una cosa dannatamente difficile e seria, specie in giorni come quelli che ci attendono, quando si tratterà di rimettere in piedi un Paese economicamente e moralmente allo stremo. Da cittadino di una democrazia malata sarei più sereno se a occuparsi dell’infermo fossero persone selezionate da un meccanismo che garantisse scelte autorevoli. E qui già vedo un ghigno profilarsi sul volto di Grillo: i partiti sono morti, incapaci di formare una classe dirigente. Ma allora bisogna immaginarne di nuovi, diversamente strutturati. Di certo il futuro non può essere affidato a miliardari e magistrati fai-da-te. Può anche darsi che la soluzione siano movimenti di persone perbene agglomerati dal web come i Cinque Stelle, ma dovranno risolvere l’intima contraddizione fra la trasparenza della base e l’oscurità della catena di comando. A cosa serve accendere una webcam in Parlamento se poi l’ufficio della Casaleggio & Associati, in cui si scrivono le regole e si decide la strategia, rimane ostinatamente al buio?

Massimo Gramellini - La Stampa