mercoledì 31 luglio 2013

I segreti per essere felice al lavoro

L’autrice del best-seller “The Happiness Project”, Gretchen Rubin, fornisce dalle colonne di LinkedIn alcuni semplici consigli per migliorare il proprio livello di felicità durante le ore di lavoro. Si tratta di piccole cose, capaci, a dire dell’esperta in felicità, di dare una sterzata all’umore, conducendolo verso territori più "soleggiati".

Per quel che riguarda la propria postazione, la Rubin consiglia di fare attenzione nel rendere quanto più piacevole e confortevole l’ambiente di lavoro. Anche rimpiazzare una lampada troppo forte, oppure investire in una cassettiera che vi aiuti a mettere ordine e non soccombere sotto pile di scartoffie possono essere buoni tentativi.

Per quel che riguarda invece l’organizzazione della propria giornata, un consiglio interessante è quello diaffrontare di petto telefonate e e-mail difficili e/o noiose. Procrastinare, sottolinea infatti la Rubin, non fa altro che caricare il tutto di tensione, mentre togliersi velocemente il pensiero darà quella sferzata di energia che può cambiare il corso di una giornata.

Altro gradino verso la felicità è rappresentato dall’onestà verso se stessi. Tutti infatti ci lamentiamo del troppo lavoro, a qualsiasi livello, ma quanti sono davvero onesti e nel computo delle ore lavorate non mettono in conto il tempo passato a navigare in rete, sui social network, o a cercare l’offerta giusta per le vacanze estive? Essere limpidi verso se stessi, senza barare, contribuirà a rendere più felici le vostre giornate, a detta di Gretchen Rubin.

Infine, il consiglio che somiglia tanto ai rimedi della nonna: non dimenticate di fare una passeggiata all’aperto ogni giorno. Migliorerà l’umore, e insieme aiuterà a mettere ordine nei pensieri.

Chiara Basciano - www.manageronline.it



martedì 30 luglio 2013

Non mi interessa...

Non mi interessa sapere qual è il tuo mestiere. Voglio sapere per cosa si
strugge il tuo cuore e se hai il coraggio di sognare l'incontro con ciò che esso desidera.

Non mi interessa sapere quanti anni tu abbia. Mi interessa sapere se
correrai il rischio di fare la figura del pazzo per amore, per il tuo sogno, per l'avventura di
essere vivo.

Non mi interessa sapere quali pianeti quadrano con la tua luna, voglio
sapere se hai toccato il centro del tuo dolore, se le difficoltà della vita ti hanno
portato ad aprirti oppure... a chiuderti in te stesso nel timore di soffrire ancora!
Voglio sapere se sei capace di stare nel dolore, tuo o mio, senza far nulla per nasconderlo,
o allontanarlo, o cristallizzarlo. Voglio sapere se sei capace di stare nella gioia, tua o
mia; se puoi scatenarti nella danza e lasciare che l'estasi t'invada fino alla punta
delle dita dei piedi o delle mani, senza esortarci ad essere prudenti, realistici o consapevoli
dei limiti umani.

Non mi interessa sapere se la storia che racconti è vera. Voglio sapere se
sei capace di deludere un altro per restare fedele a te stesso, e di non tradire mai
la tua anima a costo di lasciare che altri ti chiamino traditore. Voglio sapere se puoi essere
di parola, e quindi degno di fiducia. Voglio sapere se sei capace di trovare la bellezza anche
nei giorni in cui il sole non splende, e se puoi dare inizio alla vita sulle sponde di un
lago, gridando "SI" al bagliore d'argento della luna piena.

Non mi interessa sapere dove vivi, né quanto denaro possiedi. Voglio sapere
se dopo una
notte disperata di pianto sei capace di alzarti, così come sei, sfinito e
con l'anima coperta
di lividi, per metterti a fare quello che c'è da fare per i bambini.

Non mi interessa sapere chi conosci, né come mai ti trovi qui. Voglio
sapere se starai in piedi con me al centro del fuoco, senza tirarti indietro.

Non mi interessa sapere che cosa hai studiato, né con chi e neppure dove.
Voglio sapere cosa ti sostiene da dentro quando tutto il resto viene a mancare. Voglio
sapere se puoi stare solo con te stesso, e se la tua stessa compagnia ti piace veramente,
nei momenti di vuoto."

Mountain Dremer, Indian Elder

domenica 28 luglio 2013

L’America riparte da Internet Le città hi-tech creano più lavoro

Istruzione e innovazione fanno la differenza. L’indotto di Facebook e Google supera quello dell’industria
ENRICO MORETTI Prof alla University of California di Berkeley - La Stampa  

 

L’economia americana sta ripartendo. A differenza di quella italiana, negli Stati Uniti occupazione e salari medi sono in crescita da più di un anno. Il quadro economico, però, è profondamente diverso in aree differenti degli Stati Uniti. Mentre alcune regioni del Paese sono ancora in piena recessione, altre sono in piena espansione.  

Molte delle città della vecchia Rust Belt industriale hanno ancora tassi di disoccupazione alti. L’economia di Detroit, per esempio, continua a contrarsi e da questa settimana è ufficialmente in bancarotta, schiacciata da miliardi di dollari di debiti pubblici non pagati. Il mercato del lavoro in città ad alto tasso di innovazione, invece, è in piena espansione.  

 

Il modello San Francisco  

L’esempio principale è San Francisco, la città dove vivo, che in questo momento è l’economia più dinamica in America. I posti di lavoro nel settore del software, Internet, semiconduttori, ricerca medica e farmacologica (in particolare biotecnologica), sono in crescita costante da anni e hanno nettamente ripreso forza dopo una breve pausa dovuta alla recessione. A questi settori tradizionali dell’hi-tech si sono aggiunti settori nuovi come il clean-tech, digital entertainement e i nuovi materiali (per esempio il nano-tech). 

L’occupazione sta crescendo così rapidamente che le imprese cominciano ad avere difficoltà a trovare lavoratori. Facebook e Apple stanno assumendo a ritmi senza precedenti. Google, che aveva già tra i salari più alti del settore, li ha dovuti alzare ulteriormente per evitare che i suoi dipendenti cercassero altri posti di lavoro meglio remunerati. Twitter ha raddoppiato la forza lavoro in meno di un anno. Nell’aria si percepisce un ottimismo tangibile e un senso di opportunità senza confini. I ristoranti, i caffè e i pub sono pieni. Le strade e le piazze sono affollate da giovani trasferitisi da poco dal resto degli Stati Uniti, che vengono a cercare lavoro o a creare lavoro. Centinaia di nuove start-up impegnate a disegnare le tecnologie del futuro vengono create ogni mese. 

 

L’indotto dell’hi-tech  

A beneficiare di questa crescita non sono solo scienziati ed ingegneri. L’aspetto più importante di questa crescita è il suo effetto indiretto su chi non è impiegato nel settore. Questo aspetto è fondamentale, perché il lavoratore medio non sarà mai un impiegato di Apple, Google o di una startup della biotecnologia. Le industrie dell’innovazione portano a San Francisco buoni posti di lavoro, non solo direttamente nel settore dell’innovazione, ma anche indirettamente in altri settori, specialmente nei servizi locali e così incidono sull’economia locale, molto più in profondità di quanto risulti dal loro effetto immediato. Attrarre in una città uno scienziato o un ingegnere informatico significa innescare un effetto moltiplicatore che va ad aumentare i posti di lavoro e i salari di chi fornisce servizi locali.  

La mia ricerca dimostra che per ogni nuovo posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico creatosi in una città vengono a prodursi cinque nuovi posti, frutto indiretto del settore hi-tech di quella città. Si tratta sia di occupazioni qualificate (avvocati, insegnanti, infermieri) sia di occupazioni non qualificate (camerieri, parrucchieri, meccanici, muratori). Per esempio, per ogni nuovo software designer reclutato da Twitter o da Google, a San Francisco si creano cinque nuove opportunità di lavoro per baristi, personal trainer, medici e tassisti. Nella prospettiva di una città, insomma, un posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico è molto più che un singolo posto di lavoro.  

 

Le tre Americhe  

Questi trend non sono passeggeri ma riflettono un cambiamento strutturale nel mercato del lavoro americano e mondiale in atto da 40 anni. Siamo abituati a pensare all’America come un Paese unico. In realtà oggi esistono tre Americhe, molto distinte l’una dall’altra. A un estremo troviamo gli hub mondiali dell’innovazione: San Francisco, appunto, ma anche San Jose, Seattle, Austin, Boston, Raleigh e Washington. Sono città con una solida base di capitale umano e un’economia fondata su creatività e ricerca – città che da decenni continuano ad attrarre un numero sempre crescente di imprese di successo e di posti di lavoro con salari elevati. Queste città hanno una delle forze lavoro più istruite, creative e produttive del mondo.  

All’estremo opposto si collocano le città dove un tempo dominava l’industria tradizionale, ridotte a centri in rapido declino che continuano a perdere posti di lavoro e abitanti: Cleveland, Flint, Buffalo, Philadelphia e ovviamente Detroit. L’economia qui è caratterizzata da attività produttive tradizionali, livelli di capitale umano molto più bassi, e ovviamente retribuzioni modeste. Chi lavora nelle città nel primo gruppo guadagna il doppio o il triplo di chi svolge lo stesso lavoro nelle città nel secondo gruppo, a parità di qualifiche professionali. Il resto d’America si trova in mezzo a questi due estremi, e potrebbe evolversi in una direzione o involvere nell’altra.  

 

Manifattura e innovazione  

Le città con economie più forti si vanno rafforzando, mentre le città con economie più fragili vanno indebolendosi. Questa «grande divergenza» è in atto in tutto il mondo occidentale, ed è uno degli sviluppi più importanti nella storia economica e sociale dal dopoguerra a oggi. Il divario crescente tra città nel livello di sviluppo economico non è un fenomeno accidentale, ma l’ineluttabile risultato di forze economiche con radici profonde. Le sue cause ultime risiedono in un cambiamento profondo e strutturale nei modi di produzione che sta investendo, seppure a velocità diverse, tutte le società post-industriali.  

Negli Anni 50 e 60, il successo economico di una città o di una regione dipendeva dalla manifattura. Città come Detroit e Cleveland erano tra le più ricche al mondo perché avevano i settori industriali più dinamici, e questo si traduceva in occupazione fiorente e salari tra i più alti sulla faccia della terra. Lo stesso, anche se su scala minore, accadeva a Torino, Milano e Genova.  

Negli ultimi cinquant’anni, tutto questo è cambiato. Gli Stati Uniti sono passati da un’economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza. L’occupazione nel settore manifatturiero si è dimezzata e continua a calare anno dopo anno. L’occupazione nel settore dell’innovazione è cresciuta a ritmi travolgenti. L’ingrediente chiave di questo settore è il capitale umano, e dunque istruzione, creatività e inventiva. Il fattore produttivo essenziale non sono più i macchinari ed infrastrutture fisiche, ma le persone: sono loro a sfornare nuove idee.  

 

Il valore dell’istruzione  

La mia ricerca mostra che a partire dagli Anni Settanta il destino economico delle città americane comincia a dipendere in misura sempre maggiore dal livello di istruzione dei loro abitanti. Le città con un più alto numero di lavoratori provvisti di formazione universitaria hanno cominciato ad attirarne sempre di più, mentre le città con una forza lavoro meno istruita hanno iniziato a perdere terreno.  

È un trend in accelerazione: l’effetto è che la distribuzione geografica dei lavoratori americani va sempre più configurandosi in base al profilo professionale. Proprio mentre stanno assistendo alla scomparsa delle segregazione razziale, le comunità americane vedono crescere la segregazione socioeconomica. Questa tendenza si osserva anche in Gran Bretagna, sebbene in misura minore, e nell’Europa continentale, Italia inclusa. La scolarità è divenuta la nuova discriminante sociale, sia a livello individuale che di comunità. 

L’economia post-industriale, basata sul sapere e sull’innovazione, ha una tendenza intrinseca molto forte verso l’agglomerazione geografica. Città e regioni in grado di attirare lavoratori qualificati e imprese innovative, tendono ad attirarne sempre più; le comunità che non riescono ad attrarre lavoratori qualificati e imprese innovative, invece, perdono sempre più terreno. In questa realtà, il successo propizia ulteriore successo, mentre l’insuccesso condanna ad altri insuccessi. 

 

L’ecosistema produttivo  

La ragione è un cambiamento profondo nel modo in cui si produce oggi. Nella nuova economia dell’innovazione il successo di un’azienda o di una città non dipende soltanto dalla qualità dei suoi lavoratori, ma anche dall’ecosistema produttivo in cui è inserita. Un insieme sempre più nutrito di studi economici sta rivelando che le città non sono una mera concentrazione di individui, ma un ambiente complesso e ricco di interrelazioni che favorisce la creazione di nuove idee e nuovi modi di fare impresa. L’interazione sociale tra gli imprenditori, per esempio, tende a generare opportunità di apprendimento che vanno a beneficio dell’innovazione e della produttività. Stare tra persone intelligenti ci rende più intelligenti, più innovativi e più creativi. Operando in contiguità geografica, gli innovatori rafforzano reciprocamente il proprio potenziale creativo e accrescono le proprie possibilità di successo. Questo è un aspetto importante, perché fa sì che mentre l’industria tradizionale continua a delocalizzarsi in Paesi in via di sviluppo, l’industria dell’innovazione continua a concentrarsi in poche aree chiave del mondo. Per esempio, uno stabilimento tessile è un’entità autonoma che può essere collocata più o meno in qualsiasi parte del mondo dove ci sia abbondanza di manodopera. È facile per un produttore americano o europeo delocalizzare in Bangladesh o in Romania. Ma un laboratorio biotecnologico o elettronico è piuttosto difficile da trasferire altrove, perché non si tratta di spostare solo un’azienda, ma un intero ecosistema.  

 

La grande divergenza  

Per rimanere creativo e innovativo, deve stare vicino ad altre imprese high tech. Quindi una città che già possiede lavoratori creativi e aziende innovative vedrà evolvere la propria economia in direzioni che la renderanno ancora più attraente per gli innovatori. È questo, in definitiva, ciò che determina la «grande divergenza», per cui alcune città vedono aumentare la concentrazione di buoni impieghi, talento e investimenti, mentre altre vanno in caduta libera. 

Queste dinamiche, già molto chiare in America e ancora in nuce in gran parte d’Europa, hanno importanti implicazioni per il futuro di molti Paesi europei. In questo quadro, l’Italia non è messa molto bene. Con una struttura industriale vecchia e poco innovativa, l’Italia è più vicina a Detroit che a San Francisco. Nei prossimi articoli esploreremo in dettaglio che cosa causa queste dinamiche e che cosa implicano per il futuro dell’Italia.  

 

 


sabato 27 luglio 2013

Crowdfunding, le “collette” per il rilancio

Da oggi arriva in Italia il regolamento Consob sul finanziamento delle start-up col «crowdfunding». È il primo regolamento del genere in Europa. I cittadini potranno finanziare le nuove imprese innovative che abbiamo determinati requisiti. «Crowdfunding» e «crowdsourcing» sono due tra le parole più di moda del momento. Indicano, rispettivamente, finanziamenti (funding) o contributi di altra natura (outsourcing) provenienti da semplici individui (crowd, ovvero, la folla).  

 

Ma se entrambe le parole hanno solo pochi anni di vita (sono state coniate nel 2006), i due concetti sono antichi di secoli. I più disincantati infatti potrebbero dire che invece di «crowdfunding» si potrebbe semplicemente dire colletta e citare le raccolte di fondi che hanno permesso di realizzare, per esempio, sia molti monumenti (da quelli dedicati a eroi del Risorgimento alla Statua della Libertà) sia numerosi libri (come l’edizione dei lavori di Martin Lutero pubblicata da Johann Heinrich Zedler nel ’700). E potrebbero ridimensionare anche la novità del «crowdsourcing» ricordando, per esempio, i 6 milioni di contributi inviati da persone di tutto il mondo per arricchire l’Oxford English Dictionary a partire dalla metà dell’800. 

 

Tutto vero. Eppure rispetto al passato qualcosa di nuovo c’è davvero e quel qualcosa è, come spesso capita in questi anni, una conseguenza della rivoluzione digitale. Grazie a Internet, infatti, raccogliere sia fondi sia contributi di altra natura (purché rappresentabili sotto forma di bit) è diventato immensamente più facile rispetti ai tempi di Johann Zedler o dell’Oxford English Dictionary. 

 

E’, infatti, diventato più facile comunicare, raccogliere i contributi e restare in contatto con i contributori. E’ diventato più facile comunicare che cosa si chiede e perché lo si chiede: basta un sito web, magari arricchito da video accattivanti. E’ diventato più facile ricevere i contributi: per i soldi basta saper accettare carte di credito o bonifici, mentre per i contributi basta la posta elettronica, un «wiki» o una cartella condivisa. E’ diventato più facile rimanere in contatto con la comunità dei contributori: basta un sito web o anche solo Facebook. 

 

Processi vecchi di secoli vengono dunque fortemente democratizzati, permettendo a chiunque in grado di usare con un minimo di abilità la Rete di chiedere a una platea potenzialmente mondiale aiuto per la realizzazione di un proprio progetto. Per fare cosa? I campi di applicazioni del crowdfunding sono moltissimi. 

Nel 2008 Obama nel corso della sua prima campagna elettorale sfrutta con sapienza il Web per raccogliere milioni di piccoli contributi; un chiaro segnale, fortemente politico, di affrancamento dai poteri forti e dai loro assegni. L’anno dopo viene fondata Kickstarter.com, che diventa in breve tempo la più famosa piattaforma di «crowdfunding». Grazie a Kickstarter vengono incisi album, girati film, scritti libri, realizzati prototipi innovativi e molto altro ancora. Parliamo di oltre centomila progetti, di cui quasi la metà realizzati, per contributi che ammontano complessivamente a 717 milioni di dollari (quasi 540 milioni di euro). 

 

L’evoluzione continua e oggi le piattaforme di crowdfunding si stima che siano quasi cinquecento, tra cui alcune italiane, per un giro di contributi di circa tre miliardi di euro nel 2012, e di circa il doppio, secondo alcune stime, per il 2013. Si è, quindi, stabilmente affermato un nuovo, importante canale per il finanziamento di iniziative di vario tipo, che si affianca ai canali tradizionali, come il finanziamento pubblico e gli sponsor. E’, però, bene aver presente che il crowdfunding richiede non solo una generica competenza nell’uso degli strumenti digitali, ma anche e soprattutto la capacità di catturare l’attenzione dei navigatori e di convincerli a contribuire. 

 

Obiettivo non facile in generale, ma che col crescere del numero dei progetti, e quindi della competizione, diventerà per forza di cose sempre più difficile da raggiungere. Tanto più se l’economia non riprenderà a girare, rimettendo qualche soldo in tasca a tutti noi, folla di potenziali finanziatori di poeti e ricercatori. 


JUAN CARLOS DE MARTIN


giovedì 18 luglio 2013

Gli snob della cultura

Mario Vargas Llosa, uno dei più grandi e meritatamente celebrati scrittori contemporanei, un paio di secoli fa sarebbe stato considerato uno scribacchino intento ad attentare alla purezza della Grande Cultura. Nel suo ultimo libro La civiltà dello spettacolo (Einaudi) Vargas Llosa tuona contro le nefandezze della cultura di massa, irride quell’insieme di abitudini degradate che connotano apocalitticamente la democrazia culturale fatta «esclusivamente di film, programmi televisivi, videogiochi, concerti rock, pop e rap, video e tablet». Praticamente i suoi colleghi romanzieri nell’Europa all’inizio dell’Ottocento erano considerati allo stesso modo: dei poco di buono, sabotatori della nostra civiltà. Cambiano i bersagli dell’invettiva, ma il lamento sulle brutture della democrazia culturale, quello non cambia mai.
Vargas Llosa sostiene che la cultura contemporanea, a differenza del passato, ha assunto le forme di un gigantesco e abietto videogioco. C’è un bellissimo passaggio de La cultura degli europei di Donald Sassoon che però dovrebbe farlo riflettere. Anche il romanzo «è stato infatti considerato un genere inferiore: la preoccupazione per le conseguenze dell’allargamento del mercato culturale è sempre presente nella storia della cultura. Ogni passo avanti nella divulgazione, ogni rivoluzione tecnologica, ogni innovazione sono accompagnati da crisi di panico per l’imminente crollo della civiltà». E Sassoon continua, con esempi che sono esattamente quelli evocati da Vargas Llosa: «Al giorno d’oggi genitori e insegnanti piangono lacrime di gioia se un bambino preferisce i romanzi alla televisione o ai videogiochi; all’inizio dell’Ottocento invece molti letterati guardavano con preoccupazione alla crescente passione per i romanzi nelle famiglie borghesi, temendone i possibili effetti sui soggetti più impressionabili, cioè donne e bambini». E infatti lo stesso Flaubert, che conMadame Bovary ha descritto le conseguenze rovinose della lettura di storie sentimentali nella mente «impressionabile» dei nuovi lettori, ha voluto scolpire nel Dizionario dei luoghi comuni la massima simbolo di tutti i detrattori della democrazia culturale: «I romanzi corrompono le masse».
La critica alla democrazia culturale è un campionario di luoghi comuni, spiace notarlo nel commento a un libro di un grandissimo scrittore. I puristi della cultura ammonivano sulle nefaste conseguenze dell’invenzione del pianoforte, destinato a soppiantare la sacralità della musica d’organo. Poi se la sono presa con il pianoforte amuro, versione piccolo borghese di quello a coda. Poi se la sono presa con il fonografo, che avrebbe distrutto, grazie alla «riproducibilità tecnica» descritta da Walter Benjamin, ogni «aura» artistica alla musica. Se l’erano presa con l’opera lirica e il melodramma, e invece i nuovi borghesi dell’Ottocento, che beneficiavano delle nuove opportunità della democrazia culturale insegnarono ai fanfaroni dell’aristocrazia la buona educazione e la regola del silenzio a teatro, prima usato come esibizione volgare di superiorità sociale (nei palchi nobiliari si chiacchierava durante lo spettacolo, si mangiava, si flirtava, si orinava addirittura). Altro che degradazione portata dal mercato. Grazie al mercato, Mozart, vessato da mecenati meschini e filistei ma che erano stati la sua unica fonte di sostentamento, poté comporre Il flauto magico: sarebbe diventato ricco grazie al suo ingegno, se la morte precoce non avesse strappato quel genio dal palcoscenico del mondo. Persino l’invenzione «gutenberghiana» dei caratteri a stampa incitò i conservatori ai soliti sospiri malmostosi sull’imminente «fine della civiltà». C’è sempre la fine di qualcosa ogni volta che si allarga la platea dei lettori, degli ascoltatori, degli spettatori. C’è sempre la fine di qualcosa quando una barriera si infrange, un privilegio santificato dalla Tradizione viene meno. Con l’invenzione della fotografia si gridò alla fine dell’arte. Con l’invenzione del cinema si pianse sulla fine del teatro. Con l’irrompere del romanzo, tra l’altro contaminato con il giornalismo popolare, si lamentò la fine delle Lettere.
Chi grida alla fine di qualcosa ha un’idea hegeliana nella testa. Pensa che lo Spirito del Mondo si incarni in una forma, e in una forma soltanto, escludendo tutte le altre. L’hegelismo culturale presta attenzione solo alla forma dominante e ne fa l’unica espressione di un’epoca. Non tollera la varietà, la pluralità, la coesistenza. Non concepisce che la democrazia culturale sia una sfida continua, uno stimolo pressante al cambiamento. Pensa che la competizione sia un Male, uno stress inutile, una profanazione nel Tempio della Cultura. E infatti a gridare alla «fine» di qualcosa di eccelso sono sempre i nemici della democrazia culturale, quelli che pensano che il mercato sia qualcosa di inverecondo, qualcosa che involgarisce e corrompe gli autori e i fruitori della cultura. Ma il loro è un pregiudizio: le cose nella storia non sono andate assecondando le loro fosche e ripetitive profezie apocalittiche.
Senza l’invenzione della fotografia non avremmo avuto l’Impressionismo e forse tutte quelle forme dell’arte che vogliono rappresentare qualcosa di diverso dalla «realtà» e dal realismo fotografici. Quando venne inventato il cinema, il mondo ha conosciuto una stagione fertilissima nella drammaturgia e nel teatro. Quando venne introdotto il sonoro nel cinema Luigi Pirandello proclamò perentoriamente che era la «fine» della settima arte. Poi è arrivata la televisione, che non ha provocato l’esaurimento del cinema. Teatro, cinema e televisione «convivono ». Con le stesse tecniche che hanno consentito l’invasione dei videogiochi deplorati da Vargas Llosa, con pochi clic è possibile visitare i più bei musei del mondo, con una riproduzione meravigliosa delle opere d’arte e spiegazioni di ottimo livello. È una degradazione culturale? Oppure ad affollare i musei, il British Museum, gli Uffizi, il Louvre, il MoMa a New York sono persone, classi, popoli che mai prima di adesso hanno potuto apprezzare anche l’ombra di un’opera d’arte? Degradazione rispetto a quale standard precedente?
Le persone più colte e più sofisticate hanno tutte le possibilità di non uscire da una dimensione raffinata ed elitaria della loro esistenza: tenendo la tv rigorosamente spenta possono continuare e leggere tutti i libri che desiderano, andare ai concerti, visitare musei ancora non raggiunti dallo scalpiccio e dal cattivo odore delle grandi masse corrotte e volgari, avere in casa una fantastica cineteca di film rari e pressoché sconosciuti al popolo succube della tv, frequentare i ristorantini raffinati dove si servono i prodotti Doc consigliati da Slow Food senza mai mettere piede in una fetentissima hamburgeria tanto amata da sciami di giovani incolti e schiavi della civiltà dei consumi frivoli. Chi glielo impedisce? Gli hegeliani nemici della democrazia culturale sono dei paranoici inveterati: hanno paura di tutto e soprattutto si ribellano preventivamente all’ondata della cultura di massa che potrebbe sommergerli. Ma nessuno vuole toccarli. Loro conoscevano perfettamente l’opera omnia di Cajkovskij, ma non dovrebbero deplorare il fatto chemilioni di spettatori siano arrivati al suo Concerto per violino e orchestra attraverso la visione di quel film straordinario e commovente che è Il concerto di Radu Mihaileanu. Certo, la confusione è sempre in agguato e può capitare, come è capitato realmente, che si confonda Mozart con un jingle di Carosello e che qualcuno, ascoltando per caso le note della Nona di Beethoven, abbia esclamato: «Questa è la colonna sonora di Arancia Meccanica!». Ma in fondo anche Kubrick è stato un grande artista, l’equivoco può essere dissipato.
Si è perduta l’«aura», certo. Ma solo per chi ne apprezzava la presenza. E non è sempre colpa della «tecnica» che riproduce serialmente un’opera, attentando alla sua irriducibile «unicità». Se le chiesemoderne sono mediamente più brutte e incolori di quelle costruite in passato non è colpa della civiltà degradata dalla democrazia culturale, ma dall’indebolirsi della fede e delle convinzioni religiose. Si pubblicano romanzi peggiori di decenni fa come pure, con encomiabile ironia autocritica, suggerisce Vargas Llosa? Può darsi, ma non è detto che la colpa sia degli editori troppo attaccati al quattrino e al guadagno facile. Chi è preoccupato per le sorti della civiltà dovrebbe angosciarsi perché la scuola non funziona, o perché i giovani ricercatori sono asfissiati dalle caste baronali. Invece di invocare i finanziamenti pubblici a pioggia e indiscriminati per la cultura, dovrebbe concentrarsi in quei settori (sale da concerto, orchestre, teatri lirici) che non riescono a reggere con i soli proventi del mercato e dunque rischiano di morire, impoverendo, qui davvero, il patrimonio culturale dell’umanità. Ma senza dimenticare — lo spiega sempre Sassoon con dovizia di particolari — che proprio l’istituzione di quelle orchestre, di quei teatri aperti alla borghesia, fu interpretata come la fine di un mondo, quella in cui imperversava la musica sacra o la musica da camera.
Ma è difficile per gli intellettuali, così propensi a fustigare la corruzione del mercato e le novità della democrazia culturale, accettare questa realtà. Victor Hugo era uno scrittore celebrato come un monumento nazionale e i suoi funerali furono maestosi e commoventi. Eppure Hugo era malvisto dai suoi colleghi perché troppo «popolare» con i suoi Miserabili e quando chiesero ad André Gide chi fosse a suo parere il più grande scrittore moderno lui rispose, sconfortato: «Hugo, purtroppo!». Tutta la storia si concentra in quel «purtroppo». Purtroppo Arthur Conan Doylemalediceva il suo editore accusato di voler pubblicare soltanto i suoi libri con Sherlock Holmes, una miniera d’oro: si sentiva schiavo del successo ottenuto con la letteratura «minore» e voleva che gli venisse pubblicata un’opera d’arte di rango «superiore» e che nessuno, presumibilmente, avrebbe letto. Forse considerava le avventure di Sherlock Holmes la «fine della letteratura»: l’orrore della democrazia culturale.
Pierluigi Battista - La Lettura - Corriere della Sera

lunedì 15 luglio 2013

Le migliori lezioni

Alcune delle lezioni migliori si imparano dagli errori passati.
L'errore del passato è la saggezza e il successo del futuro.
(D. Turner)

Il nostro passato ci indica la strada per il futuro. Dobbiamo essere attenti a cogliere le indicazioni.

giovedì 11 luglio 2013

Cucinelli: ecco il vero valore aggiunto

VALORIZZANDO “IL TESORO NASCOSTO DELL’ANTICA VOCAZIONE DEL BELLO”, DICE IL RE DEL CACHEMIRE, IL PAESE SI SALVERÀ 


 Il capitalista visionario Brunello Cucinelli è convinto che sì, l’Italia ce la farà: perché è il paese più bello del mondo, patria di Leonardo, Michelangelo, Tiziano. Deve solo abbandonare il segmento medio e concentrarsi sui prodotti ad alto valore aggiunto, che incorporano stile, design, creatività. Insomma, «l’Italia deve fare l’Italia, la bella Italia» e smetterla di ripararsi dietro la crisi, il debito, la politica. Quanto a lui, con l’Ipo (il titolo ha guadagnato in un anno il 110%) ha azzerato il debito e concentrato le risorse nell’apertura di nuovi negozi. Oggi sono 80 nelle grandi città e nelle località del glamour: Aspen, Capri, St. Tropez, Porto Cervo. I ricavi 2012 sono cresciuti del 15% a 279 milioni, e il primo trimestre si è chiuso a 88,8 milioni (+14% sullo stesso periodo). Il marchio produce interamente in Italia e realizza il 20% delle vendite nel Belpaese: il 32% in Europa, il 31% negli Usa, il 6% in Cina e il resto negli altri Paesi del mondo. Nel 2012 Cucinelli ha investito 27,3 milioni (e altri 16,4 nel primo trimestre 2013) nello sviluppo della rete dei monomarca e nell’ampliamento del polo di Solomeo, in provincia di Perugia, cuore dell’azienda. Lo incontriamo a Treviso dove partecipa a Modesign, un progetto a supporto di Venezia Nordest capitale europea della cultura 2019, e ha voluto omaggiare i Benetton, «ai quali sono legato perché a loro mi sono ispirato quando ho deciso di fareil cachemire colorato ». 


Cucinelli, dove stiamo andando? «Come nel ‘500 i mercanti che tornavano dalle Americhe hanno portato il mais, la patata e il pomodoro cambiando il nostro modo di produrre, ci troviamo alla vigilia di un’altra rivoluzione, quella della conoscenza. Vede, mio babbo faceva l’operaio e così i miei fratelli. Nessuno di loro sapeva nulla dei profitti dell’imprenditore per cui lavoravano. Al massimo si sapeva che s’era comprato la Mercedes. Oggi non è più così: basta un clic dal più sperduto paese e chiunque può sapere dove abiti, quanto guadagni, cosa fai. E’ un cambiamento epocale perché ha messo in rete la conoscenza». Il mondo finanziario è pieno di bucanieri: pensa che questa stagione sia finita? «Con la circolazione della conoscenza, per essere credibile devi essere vero, non si può ingannare nessuno. Io credo che sia finito questo tipo di capitalismo. E che sia in arrivo una sorta di capitalismo umanistico contemporaneo. Aristotele sosteneva che l’etica è la parte più alta della filosofia. Abbiamo pensato di governare il mondo con la matematica e la finanza, ma è dall’unione con i saperi umanistici che sono nate le grandi università. È con le conoscenze umanistiche che ne usciremo». 


Oggi però la disoccupazione è ai record e l’Italia somiglia più a un paese in declino che a una potenza industriale. Non crede? «La nostra, prima che una crisi economica, è una crisi di civiltà, di valori, di cultura. Adesso stiamo ridisegnando la mappa del mondo: sul breve soffriremo ancora un po’, ci sarà crisi di lavoro. Ma grazie ai nostri saperi umanistici ne usciremo prima e meglio degli altri, ne sono convinto: il mondo è affascinato dal prodotto italiano, dalla nostra storia, dal nostro stile. Cerca e vuole i nostri prodotti. Come si fa a pensare che non abbiamo un futuro? Il problema che abbiamo davanti è come realizzare prodotti di grande qualità se non investiamo nel capitale umano. Le persone sono il fulcro. Bisogna tornare a dare dignità al lavoro: un giusto salario, l’ascolto delle persone che lavorano con noi, la condivisione ». 


Cosa fare in pratica? «Ci sono prodotti che non trovano più mercato. Non diamo la colpa alla crisi, alla politica: il mercato cambia, deve cambiare l’impresa. Se domani il cachemire italiano non lo comprasse più nessuno, bisognerà prenderne atto e mettersi a fare altro. Senza la parola fallimento: io abolirei questa parola dal codice civile, a meno che non vi sia del dolo. I ragazzi della Silicon Valley hanno chiuso cinque volte prima di sfondare». Gli imprenditori italiani sono maturi per cambiare il proprio modello industriale? «In un mondo come il nostro, il mercato cambia rapidamente: dobbiamo lasciare il segmento medio, che non è più di nostra competenza ma di altri, e salire di livello, cercando di produrre made in Italy, che peraltro nel mondo è ricercato. Cinesi, americani, russi adorano il prodotto italiano. E noi lo sappiamo fare meglio di tutti ». Dopo la quotazione, che programmi ha? «Sto investendo nel brand di segmento molto alto, e nei negozi: pochi, selezionati, nei posti giusti. Nessuno dei miei investitori mi ha chiesto di cambiare: voglio continuare così, a fare il cachemire più bello del mondo, nella mia Solomeo, con gli amici del circolo del paese».


Daniele Ferrazza - Affari & Finanza - Repubblica 


giovedì 4 luglio 2013

Determinazione

Penso che la vita non ci chiede di essere i più forti o il migliori, ci chiede soltanto di provarci. 
Le occasioni a volte si condensano in pochi minuti e bisogna avere il coraggio di scegliere. 
Questa si chiama determinazione.

martedì 2 luglio 2013

Dieci piccoli gesti quotidiani scacciacrisi, scientificamente provati

L'estate è soprattutto il tempo di prendersi una pausa dallo stress, dal tran tran quotidiano e per rinnovare se stessi. Ma ci sono, oltre alle meritate ferie, alcuni piccoli accorgimenti da sfruttare anche dopo le vacanze, tutti scientificamente testati, che fanno bene all'anima e aumentano la felicità, anche in assenza di dolce far niente.

1- Donare- Fare un piccolo regalo ad amici e parenti o sconosciuti, soprattutto se improvvisato, dona serenità.

2 -Autoterapia da grafomane- Scrivere o appuntare in un quaderno ogni sera tre piccoli eventi piacevoli (la moglie che vi ha cucinato il vostro piatto preferito, un disegno di vostro figlio, la telefonata di un amico) moltiplica esponenzialmente il loro beneficio.

3- Fare ogni giorno qualcosa di nuovo. Non per forza un'avventura ma una semplice variazione nella routine. Cambiare mezzo o itinerario per andare al lavoro, fare la pausa pranzo in un altro bar, comprare qualcosa in un nuovo negozio può aiutare a spezzare delle catene invisibili che pesano e intristiscono più di quanto pensiamo.

4- Immergersi nel blu. Esporre il prorpio corpo al colore blu di un ambiente naturale aumenta l'autostima, la propensione al sorriso e azzera lo stress.

5- Porsi degli obiettivi a breve o lungo termine. Promettere a se stessi di mangiare un po' meno, fare più esercizio fisico, senza chiedere enormi sacrifici ma con l'obiettivo di raggiungerli, sopprime le emozioni negative.

6- Abbandonate il vostro punto di vista. Difendere la proprie posizioni ad oltranza fa disperdere moltissime energie ed esaurisce. Al contrario la neutralità o la ricerca di un compromesso giovano moltissimo.

7 - Andare in chiesa. Più studi scientifici hanno dimostrato che credere e frequentare una chiesa rende più sereni di chi si dichiara ateo.

8- Anticipare un evento piacevole. Preparare una festa (meglio se a sopresa) o passare del tempo pianificando eventi piacevoli attesi regala serenità.

9- Dormire 6 ore e 15 minuti senza interruzioni ogni notte. Al di sotto di questo intervallo di tempo l'umore ne risente.

10- Avete almeno dieci amici veri? Chi ha meno di cinque amici è più solo e meno felice, lo certifica l'università di Nottingham.

Nova 24tech - Il Sole 24 Ore


lunedì 1 luglio 2013

CONFORMISMO DEI SENZA CRAVATTA UN’ALTRA FORMA DI DEMAGOGIA

Scandalo tra i benpensanti, perché al recente G8 i potenti della terra uomini si sono presentati tutti senza cravatta! Per me invece il fatto è positivo. Finalmente i Grandi, senza nulla perdere del loro ruolo, si avvicinano alla gente comune e distruggono l’assurda tutela sociale di cui gode la cravatta, riconoscendola per quell’accessorio inutile e fastidioso che è, e di cui non appena possibile è una gioia privarsi. E se là faceva caldo, lo faceva per tutti! Come giudica lei la novità?

Antonio Massioni, Milano

CONFORMISMO DEI SENZA CRAVATTA UN’ALTRA FORMA DI DEMAGOGIACaro Massioni, negli scorsi giorni, quando è salito su un grande palco di fronte alla porta di Brandeburgo per parlare ai berlinesi che affollavano il Viale dei tigli, Barack Obama era già senza cravatta. Ma di lì a pochi secondi, prima d’iniziare il suo discorso, disse: «Fa così caldo e io sto così bene che ho deciso di togliermi la giacca; e chiunque, se lo desidera, può fare altrettanto». Christopher Caldwell, intellettuale della destra neoconservatrice americana, ha scritto sul Financial Times che una tale battuta, negli Stati Uniti, sarebbe indice di spigliatezza, ma al di fuori dell’America, ha aggiunto, è piuttosto grossolana. So che i tempi cambiano, ma mi sembra che non abbia torto. Credo che un uomo politico, soprattutto quando ha funzioni pubbliche, debba dare prova di decoro e serietà anche negli abiti che indossa. Ha un incarico importante e deve trasmetterlo intatto ai suoi successori. Agli albori della radio, gli annunciatori della Bbc leggevano il notiziario indossando uno smoking. Nessuno li vedeva e avrebbero potuto farlo, teoricamente, in costume da bagno, ma l’azienda riteneva che la lettura delle notizie fosse un servizio pubblico e che un abito dimesso o stravagante sarebbe stato una mancanza di rispetto per gli ascoltatori. Aggiungo che il problema è anche estetico. Se l’uomo politico indossa un «completo» (giacca e calzoni dello stesso colore) la mancanza della cravatta è un pugno nell’occhio. L’abitudine non mi piace anche perché mi sembra demagogica e populista. Non è vero che l’uomo pubblico, quando si toglie la cravatta, dimostri di essere spigliato, amico del popolo, alla buona. Negli incontri al vertice i partecipanti ricevono cartoni d’invito in cui la mancanza della cravatta, per certe occasioni, non è meno obbligatoria di quanto siano, per altre cerimonie, lo smoking, il frac e il tight. L’importante è che nessuno sgarri, che tutti giochino la partita dell’immagine con le stesse regole. Un’ultima osservazione, caro Massioni. Le cravatte italiane (chiedo scusa per il nazionalismo) sono le più belle del mondo. La stoffa, i disegni, la combinazione dei colori e la confezione le rendono, almeno per il momento, ineguagliabili. Dovremmo distruggere noi stessi questo primato della moda italiana? Come tutti i suoi colleghi, Enrico Letta, all’ultimo G8, è stato costretto dal conformismo imperante a togliersi la cravatta. Spero che alla fine dell’incontro abbia regalato a ciascuno dei suoi colleghi una cravatta italiana.

Sergio Romano - Corriere della Sera