domenica 30 ottobre 2011

Un Paese che dimentica il futuro


L’Italia comincerà a vendere titoli di Stato anche su internet, con una campagna pubblicitaria ad hoc, a partire dalla primavera 2012. Il successo di analoghe iniziative di banche private (Mediobanca tra le altre) spinge online il ministero del Tesoro, impegnato l’anno venturo in un safari a caccia di 250 miliardi di euro, per sostenere il famelico debito dei 1900 miliardi. Sembrerebbe una notizia positiva, anche le nuove tecnologie mobilitate per salvare il Paese e l’euro, se non cadesse, nelle stesse ore, l’occhio sul Punto D, della «Lettera di intenti» che il governo ha inviato all’Unione europea promettendo riforme strutturali contro la crisi e per la crescita. Il Punto D si ammanta di un titolo cruciale «Sostegno all’imprenditorialità e all’innovazione», è lungo appena 16 righe, e non ha il tono un po’ da vecchio notaio del resto del documento, tra un antiquato «Resesi» e un burocratico «Efficientamento». Il «sostegno all’imprenditorialità» è replica dell’agenda proposta dal 2008, ma la vera sorpresa - negativa - è sull’«innovazione». Perché delle 16 righe non una, anzi neppure una parola, è spesa su progetti, proposte, impegni a favore dell’economia digitale.

Andremo sul web cercando di piazzare qualche Bot, ma non abbiamo nulla da dire sul web per creare ricchezza, lavoro, start up, ricerca. Tv, giornali e internet ancora grondano commozione per il genio perduto di Steve Jobs, ma le lacrime italiane sono di coccodrillo digitale, perché non un euro, non un’idea, neppure una banale promessa elettorale, è spesa sulla Digital economy. E se ieri i mercati hanno confermato lo scetticismo sulle nostre riforme, mandando i Bot decennali al record negativo, anche i silenzi del Punto D hanno di certo contato. Il mercato sa che chi non innova muore. La Rete si è accorta per prima della mancanza di un progetto digitale e sul «Daily Wired» Marina Pennisi ha dato voce alle preoccupazioni di aziende e operatori. In un Paese che da un decennio non cresce, con la disoccupazione giovanile cronica, specie al Sud e tra le donne, con un bastione però formidabile di ricchezza privata alto 9.000 miliardi di euro, fra quadri informatici spesso di ottima qualità, davvero non era possibile far di meglio? Per comprendere il valore della nuova frontiera per lavoro e sapere, il lettore dia un’occhiata, anche frettolosa, alRapporto McKinsey: «Già oggi, se misurati come settore indipendente, i consumi e le spese relative a internet sono superiori all’agricoltura o all’energia. Internet rappresenta il 3,4% del prodotto interno lordo dei Paesi G8, Brasile, Cina, India, Sud Corea e Svezia». L’economia internet eguaglia la potenza economica del Canada, ma cresce a un ritmo più veloce del Brasile. Il settore che l’Italia non considera nelle sue promesse all’Unione Europea è il solo che sia in crescita ovunque. Se il mercato globale riduce l’occupazione nel mondo occidentale, il web invece crea 2,6 posti di lavoro per ognuno che si è perduto, chiudendo il gap che semina rancore nell’opinione pubblica. Una ricerca mondiale su un campione di 4.800 piccole e medie imprese stima la crescita legata al web al 21% negli ultimi dieci anni, il doppio del decennio precedente e malgrado la crisi paralizzante del 2007.Le speranze che gli Stati Uniti nutrono di mantenere la leadership economica sono tutte legate all’innovazione, di cui detengono ancora il 30% del mercato e il 40% dei profitti, grazie a un buon equilibrio fra hardware, software e comunicazione e a un formidabile network di laboratori e aziende. Regno Unito e Svezia incalzano, soprattutto sulle telecomunicazioni, India e Cina crescono «nell’ecosistema internet a un tasso del 20% annuo». Inseguono Francia, Germania e Canada, più indietro Giappone, Russia, Brasile.E l’Italia? I rapporti a disposizione (Digital advisory group, Akamai) concordano sul 2% del Pil legato alle nuove tecnologie, 700.000 posti creati, 1,8% in più di quelli perduti. Per comprendere il potenziale di crescita della nuova economia su cui il governo tace, in Francia internet crea già 2,4 posti per ognuno perduto. Il nostro Paese, la seconda manifattura europea invidiata anche dal Financial Times, reticolo di piccole e medie imprese, non sembra realizzare che le tecnologie sono il solo passaggio al futuro, la sola salvezza per i piccoli nel mercato globale. McKinsey (2011) stima che i due miliardi di esseri umani che lavorano su internet producono effetti immediati e clamorosi sulle Pmi: le piccole aziende che innovano a partire da internet, e-commerce e software hanno un aumento della produttività del +10%. E in un confronto diretto fra Pmi dello stesso settore, quelle che scelgono di ideare e produrre con sistemi web 2.0 hanno una crescita doppia sui concorrenti legati a modelli tradizionali.Inutile ripetere la tiritera sui mancati investimenti per la banda larga, gli 800 milioni promessi e mai spesi, i 4.300.000 cittadini costretti a collegamenti lumaca, la rincorsa sulla fibra ottica, sul mobile, su Lte4g, su Wimax. Inutile fare l’elenco delle assenze, siamo indietro, non rafforziamo scuola, università, start up, Pmi e nessuno sembra scaldarsi più di tanto.Si deve augurare ogni fortuna al safari del Tesoro per vendere Bot online in primavera. Ma il silenzio sul punto D della «Lettera di intenti» è la resa insieme del governo e della classe dirigente tutta, paralizzati davanti alla rivoluzione digitale tra l’Arsenico delle polemiche politiche e i Vecchi Merletti di un modo di fare industria decrepito. Ogni riforma economica, ogni dibattito culturale, ogni manifesto di maggioranza o opposizione, dovrebbe partire dalla proposta di un nuovo Punto D: D come futuro, ricchezza, cultura Digitale.

Gianni Riotta

giovedì 20 ottobre 2011

Non basta il PIL a fare la felicità


Uno studio di Barilla propone nuovi indicatori per il benessere. L'Italia? In crisi, ma non troppo

E se invece di considerare solo il Pil dei vari Paesi ragionassimo sul benessere di chi ci vive? Considerando, oltre al reddito, il tasso di scolarizzazione, il rispetto per l’ambiente, lo stile di vita e perfino dettagli piccoli ma significativi come il tempo che si passa a tavola? Come diceva Heine: non chiedermi cos’ho, chiedimi cosa sono.
L’idea è venuta alla Barilla, per la precisione al Barilla Center for Food & Nutrition (Bcfn), che presenta oggi a Parigi il Bcfn Index 2011 di «Misurazione del benessere e della sua sostenibilità», un grande studio curato dall’economista francese JeanPaul Fitoussi su dieci Paesi, otto europei (Italia, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, Grecia, Svezia e Danimarca), più Stati Uniti e Giappone. Il linguaggio è piuttosto tecnico, ma le innumerevoli tabelle propongono qualche sorpresa e molte conferme.Prendete l’Italia. 

Come indice di «benessere attuale», non siamo messi bene: settimo posto, con un punteggio, da uno a dieci, di 4,9: in testa ci sono, manco a dirlo, Danimarca e Svezia, in coda Spagna e Grecia. Come indice di sostenibilità del benessere, cioè il benessere in prospettiva futura, siamo messi peggio: penultimi a 5,1, meglio solo della Grecia e lontani dai soliti scandinavi, questa volta con la Svezia che batte la Danimarca. E poi: male come benessere materiale (4,9 su 10), ambientale (5,5), educativo (ultimi con 1,9!), sociale (4,5) e, manco a dirlo, politico (1,5: peggio di noi solo la Grecia, ma la terz’ultima, che è poi la Francia, ci stacca con il 3,6).E però forse il Belpaese non è tutto da buttare, a conferma di quel che molti pensano, cioè che l’Italia è un disastro, ma gli italiani no. Prendete i suicidi. Su 100 mila italiani, la fanno finita poco meno di 5, più dei greci, nonostante la crisi (2,6) ma meno di tutti gli altri, e di gran lunga: i giapponesi sono a quota 19,4, i francesi al 13,5, gli svedesi al 10,6. Siamo penultimi, per fortuna, anche come spesa per gli antidepressivi: 7,7 euro a testa all’anno, con gli americani a 36 e rotti. Siamo in testa come benessere psico-fisico (7,7 su 10, ultimi gli americani a 2,5) e secondi come stile di vita (6,6, a ridosso degli svedesi).Insomma, siamo in crisi ma non viviamo male. E con i piedi sotto la tavola: gli italiani sono terzi per il tempo medio dedicato ai pasti, 117 minuti al giorno contro i 76 degli americani. Ci superano solo i francesi (136 minuti, un record) e i giapponesi. Mangia che ti passa.

sabato 15 ottobre 2011

Quelle aziende che pagano la difficoltà di innovare

Motorola invento' i cellulari, ora è fuori gioco. Commodore è sparita. Quelle aziende che pagano la difficoltà di innovare. Da Kodak a BlackBerry, il rischio di diventare ex colossi Il caso Apple Prima del ritorno di Steve Jobs, nel 1997, il gruppo era in crisi L' Asia La concorrenza asiatica ha spazzato via molti grossi gruppi europei «Non è come un iPhone ma per le email è una bomba» dicevano dei BlackBerry gli esperti fino a tre giorni fa. La bomba però è esplosa e Research in Motion (Rim), l' azienda che produce i BlackBerry, è colpita al cuore nella sua roccaforte, la gestione della posta elettronica. Un' abitudine, quella all' email in mobilità, che ha fatto la fortuna di Rim ma che ora le si è ritorta contro. Ieri i disservizi sono lentamente rientrati e il fondatore Mike Lazaradis è comparso in video con aria visibilmente contrita, chiedendo scusa per i disagi che per tre giorni hanno flagellato i proprietari di uno smartphone con la mora sopra. I problemi per i BlackBerry non sono del tutto terminati, ma i guai forse sono appena iniziati. Non solo perché gli utenti furiosi potrebbero chiedere i danni in tutto il mondo, a suon di class action . Ma anche perché il rovescio arriva per Rim in un periodo delicato, con il crollo delle azioni al Nasdaq e i BlackBerry che non tirano più come una volta, schiacciati dall' ascesa di iPhone e Android-Google. «È come un colpo sopra un livido» ha commentato l' analista Richard Winsdor, facendo intendere che la situazione della società canadese rischia ora di precipitare. Ma Rim è in buona, anzi cattiva, compagnia. La storia è costellata di colossi tecnologici passati dalla prosperità al fallimento. O che hanno sfiorato il baratro per poi risollevarsi con una piroetta. Per restare alla telefonia, il boom di Apple e Google nella telefonia ha mandato in crisi nomi storici. Come Motorola, che il cellulare l' ha inventato: era il 1973, si chiamava DynaTac e pesava un chilo e mezzo. Dopo un paio di decenni di alti e bassi e dopo aver dilapidato in un amen, 5-6 anni fa, il successo stratosferico del sottilissimo Razr V3, Motorola ha deciso in agosto di cedere la sua divisione di telefonini proprio a Google. Ma anche Nokia non se la passa benissimo. Nel 2007, uno smartphone su due venduto nel mondo era finlandese. Ora la quota di mercato è scesa a poco più del 20%. Il 2007 è, non a caso, l' anno del debutto dell' iPhone di Apple. Che i manager di Nokia liquidarono come poco più di un giocattolo. Salvo poi correre ai ripari producendo in tutta fretta telefoni con il touchscreen, che però non hanno mai convinto. Da qui l' abbraccio con Microsoft per produrre cellulari con Windows Phone 7: i primi esemplari si vedranno tra due settimane. Per i finlandesi un «piano B» non c' è: o funziona l' intesa con il gigante americano o il futuro si tingerà di toni scuri. Solo pochi mesi fa Hp ha annunciato lo stop al suo settore tablet e smartphone. L' ultimo chiodo sulla bara di Palm, un marchio che ha fatto la storia dell' informatica negli anni Novanta con i suoi palmari (la versione evoluta delle agende elettroniche del decennio precedente) ma che non ha saputo fare il salto nel mercato della telefonia. Ed è di pochi giorni fa il turbinio di voci che vuole Kodak molto vicina a portare i libri in tribunale. «You press the button, we do the rest» («Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto»): uno slogan che per decenni ha sostenuto il business dell' azienda, quasi monopolista nelle pellicole per fotocamere. Ma ora siamo nell' era del digitale, dove si scatta di più ma si stampa molto meno. I fotografi vogliono fare da sé e non lasciar fare a Kodak. Risale invece a metà anni Novanta l' uscita di scena di Commodore, che ha fatto scoprire i videogame a mezzo mondo con il C64 e l' Amiga ma non è sopravvissuta a errori societari e strategici. Era il 1994 e proprio in quell' anno debuttava la Playstation di Sony, in un simbolico passaggio di testimone nel mondo dei giochi elettronici. È stata invece l' avanzata irresistibile dei produttori asiatici a spezzare le reni ai signori degli elettrodomestici europei, come la tedesca Grundig o la francese Thomson. E anche i tv Philips non se la passano benissimo. Spostandosi dagli atomi ai bit, è Internet il territorio dei cambiamenti di scenario più repentini e selvaggi. Qui i «cadaveri» sono innumerevoli. Dal primo grande motore di ricerca, Altavista, destinazione obbligata dei navigatori a metà anni Novanta poi soppiantata dall' onnipresente Google, allo stesso Yahoo, che sta a galla ma che perde terreno, a MySpace, social network oscurato da Facebook. Anche Apple, prima del ritorno di Jobs nel 1997, era con le spalle al muro. Una storia che insegna che nella tecnologia c' è speranza per tutti. Peccato che non tutti abbiano un Jobs. Paolo Ottolina

venerdì 7 ottobre 2011

Quanto vale l'economia del sommerso in Italia

Dopo un’estate passata a discutere sull’entità e la portata dell’evasione fiscale nel nostro paese può essere utile dare un’occhiata ai dati che riguardano l’impatto complessivo dell’economia sommersa e del lavoro irregolare sulla ricchezza (Pil) prodotta in Italia negli ultimi dieci anni. Lo studio è stato condotto nel primo semestre 2011 dal gruppo di lavoro “economia non osservata e flussi finanziari”, istituito presso il ministero dell'economia in previsione della tanto attesa (e probabilmente ancora a lungo) riforma fiscale, e guidato da Enrico Giovannini, presidente dell'Istat. Dai dati emerge un valore complessivo dell’economia sommersa (2008) che oscilla tra 255 e i 275 miliardi di euro, pari rispettivamente al 16,3% e al 17,5% del Pil. Rispetto al 2000 (217-228 miliardi) il sommerso è in crescita ma paradossalmente costituisce una fetta inferiore della ricchezza (il Pil nel frattempo è cresciuto). In valore assoluto quindi il sommerso economico è aumentato di quasi 40 miliardi di euro in otto anni. Nel 2008 la ricchezza prodotta nell’area dell’economia irregolare dal solo settore dell’agricoltura è stato pari al 31% del valore aggiunto ai prezzi del produttore. In pratica grazie alla violazione delle norme fiscali e contributive sono stati intascati più di 9 miliardi di euro. Un parte considerevole dell’economia sommersa è rappresentata quindi dal valore aggiunto non dichiarato, alla cui produzione partecipano lavoratori non regolari. Nel 2009 erano 2 milioni e 966mila unità, occupate in prevalenza come dipendenti (2 milioni e 326mila contro i 640 mila indipendenti). Nel 2001 il lavoro non regolare contava 3milioni e 280mila unità, il livello è quindi diminuito sensibilmente e paradossalmente grazie alle forme di lavoro flessibile che in Italia sono state regolamentate e modificate soprattutto a partire dai primi anni 2000. A questo risultato ha contribuito anche la progressiva regolarizzazione dei lavoratori stranieri, attraverso le quote di ingresso introdotte nel 2007. Passando ai settori, il comparto con la maggiore incidenza di lavoratori irregolari è l’agricoltura , dove il tasso è cresciuto dal 20,9% del 2001 al 24,5% del 2009, questo grazie al carattere stagionale dell’attività e al’’utilizzo del lavoro a giornata. Seguono i servizi, in calo dal 15,8 al 13,7% e  l’industria, passata dal 7,4% del 2001 al 6,2% del 2009. A livello territoriale, il tasso di irregolarità delle unità di lavoro presente al Sud è più del doppio di quello presente al Nord. Se nel Veneto ed in Lombardia è rispettivamente pari al 9,4% e 9,6%, in Campania raggiunge il 15,3%, in Puglia il 18,7%, in Sicilia il 19,2% ed in Calabria addirittura il 29,2%. Nelle infografiche i dati relativi all’evoluzione dal 2001 al 2009 delle unità di lavoro irregolari per settore e regione. Carlo Di Foggia

lunedì 3 ottobre 2011

Dove sta il coraggio di essere ottimisti

Moisés Naim In Italia, tutto il dibattito politico nazionale è condizionato dalla certezza che il passato era migliore del presente e sarà migliore del futuro. Forse è vero, forse l'Italia è condannata al declino. Ma prima di giungere a questa conclusione è utile tenere presente tre cose: la prima è che forse questo pessimismo è infondato e che il futuro potrebbe essere molto migliore del passato; la seconda è che la maggior parte degli abitanti del pianeta oggi se la passano meglio che in qualsiasi altro momento storico; la terza è che se altri Paesi sono riusciti a superare crisi croniche e a progredire a ritmo sostenuto, perché l'Italia non dovrebbe riuscire a fare altrettanto? Cominciamo col ricordare che la percentuale di popolazione mondiale che vive in condizioni di estrema povertà è drasticamente diminuita: dal 63 per cento del 1950 al 35 per cento del 1980 e al 12 per cento del 1999; e continua a diminuire, nonostante la crisi. Secondo il Rapporto sullo sviluppo umano dell'Onu, solo tra il 1990 e il 2010 la maggioranza dell'umanità è progredita al punto che ora è più sana, vive più a lungo, ha un livello di istruzione più alto e ha accesso a più beni e più servizi di tutte le generazioni precedenti. E sono anche diventati più numerosi gli abitanti del pianeta che hanno il potere di scegliere i propri leader e mandarli a casa quando perdono il consenso popolare. L'obiezione ovvia a questa visione rosea del mondo è che il progresso non avanza allo stesso modo ovunque. È vero: in Africa e nell'ex Unione Sovietica la povertà è diminuita meno che in altre zone del mondo. Altri indicatori sociali ed economici, però, sono migliorati ovunque: la mortalità infantile è diminuita e l'aspettativa di vita è cresciuta. A metà degli anni Settanta, una persona viveva in media 72 anni nei Paesi sviluppati e 59 nei Paesi più poveri: ora nel primo gruppo siamo arrivati a 74 anni e nel secondo a 62,4. Gli abitanti del pianeta che soffrono la fame (cioè che assumono meno di 2.200 calorie al giorno) sono diminuiti dal 56 per cento degli anni 60 a meno del 10 per cento oggi. Negli anni 50 la metà della popolazione mondiale non sapeva leggere e scrivere: oggi l'analfabetismo interessa il 19 per cento degli esseri umani, e continua a scendere. Tutto questo vale soprattutto per le donne: nel 1970 per ogni 100 uomini capaci di leggere e scrivere c'erano 59 donne, oggi sono 80. Nelle aule scolastiche di tutto il mondo capita sempre più spesso che le bambine siano più numerose dei maschi, e il divario di istruzione fra i due sessi è ai livelli più bassi nella storia dell'umanità. Nel 1960, il 25 per cento dei bambini in età scolare svolgeva un lavoro a tempo pieno: oggi i bambini lavoratori sono solo il 10 per cento. Il progresso è ancora più evidente se si prendono in considerazione altri indicatori: l'accesso all'energia elettrica e all'acqua potabile, ai telefoni, alla televisione, alla radio, alle automobili e ad altri beni materiali. In generale, il numero di persone che dispongono di questi servizi e prodotti è aumentato enormemente negli ultimi trent'anni, e in alcuni casi questo aumento non è avvenuto solo in cifre assolute, ma anche in percentuale, nonostante il rapido incremento della popolazione. Francis Heylighen e Jan Bernheim, due ricercatori belgi, hanno sviluppato un modello che incorpora un elevato numero di variabili: probabilità di morte per incidente, omicidio o guerra, libertà politiche ed economiche, difesa dei diritti umani, accesso all'informazione ecc. L'analisi dei due ricercatori giunge alla conclusione che oltre a un progresso quantitativo su tutti i fronti ci sono anche dati che segnalano un incremento del coefficiente intellettuale medio della popolazione mondiale. Dal Brasile alla Turchia, dal Cile alla Cina, dal Camerun alla Colombia, le sorprese positive si susseguono. Da Internet alla decodificazione del genoma umano, la scienza e la tecnologia aprono porte di cui non sospettavamo nemmeno l'esistenza. Il mondo progredisce. Ovviamente, questo brevissimo resoconto di quello che è successo nel mondo negli ultimi decenni ha un taglio deliberatamente positivo e ottimista. Sussistono molti problemi gravi, e l'elenco lo conosciamo tutti. Un'altra obiezione comune è che è più facile far uscire dalla povertà estrema centinaia di milioni di persone che risolvere i problemi strutturali di un Paese avanzato, maturo e complesso come l'Italia. Non è necessariamente così. Non c'è niente di più difficile che rompere le catene che imprigionano una famiglia in una situazione di povertà estrema. E non c'è motivo per supporre che i problemi del Cile o della Malaysia fossero più facili da risolvere dei problemi dell'Italia odierna. So che è facile tacciare questa tesi di un'Italia in grado di trasformarsi in modo rapido e nella direzione giusta come una visione ingenua e semplicistica. Ma so anche che è ancora più ingenuo e semplicistico arrendersi all'idea che l'Italia sia condannata a non riuscirci. E soprattutto, dovrebbe essere inaccettabile.

Spogliarsi del disordine per vivere in felicità

Occorre prima di tutto, spogliarsi del disordine di tutte le schiavitù, per trovare alla fine la gioia, che fiorisce solo nella anime nude. Mantenere sempre il cuore puro e l'occhio sereno. Che il Destino co colga sempre forti e degni ! Amare la felicità è importante, come si ama il cantar del vento per quanto sfuggevole o i colori del tramonto, anche sapendo che stanno per morire. Essere felici al termine di tutto significa tenderai in avanti, donarsi completamente. Sulla terra esistono tante cose mediocri, meschine o laide, che un giorno potrebbero finire per sommergerci. L'arte è la nostra salute interiore, il nostro giardino segreto che continuamente ci rinfresca. Poesia, pittura, scultura, musica. Non importa cosa pur di evadere dal banale, sollevarsi al dis sopra della polvere, creare grandi cose, far scaturire quella scintilla di "straordinario" che ciascuno di noi possiede, convertendola in un grandioso incendio che divora tutto il brutto e purifica. Le uniche ve gioie sono quelle che portiamo dentro di noi, che è la nostra fede a creare, il nostro dinamismo a nutrire. E che ci permette do creare qualcosa di grande e di bello. Le disfatte, le vittorie, i sogni o i successi materiali passano, si dimenticano. L'unica cosa che rimane in noi è la grande illuminazione spirituale, senza la quale il mondo è nulla. Nella vita tutto è questione di fede e di tenacia. La fiducia non la si mendica, la si conquista. Il modo migliore per conquistarla e donarsi completamente. Che importa soffrire se vi è stata nella nostra vita qualche ora immortale ? Quanto meno si è vissuto !

domenica 2 ottobre 2011

Einaudi: smitizzare la "patrimoniale" - Italia 1946


«Se noi daremo la sensazione netta precisa si- cura al contribuente che il letto di Procuste in cui egli ora è costretto dal grottesco cumulo di imposte vigenti sarà allungato ed appianato; che ad ogni anno non si rinnoverà il tormento del taglio minacciato di qualche membro del suo corpo vivo; se gli si assicurerà che, saltato il fosso, egli si ritroverà sul terreno solo e respirerà di nuovo liberamente, anche il contribuente italiano salterà il fosso; ossia pagherà la im- posta straordinaria patri- moniale». 

E’ l’Italia postbellica quella a cui fa appello Luigi Einaudi nel suo volumetto del 1946 "L’imposta patrimoniale". Ma le aspettative - regolarmente deluse - sul fisco, il senso di emergenza di fronte a conti pubblici fuori controllo, il dibattito su quale sia la «giustizia in materia d’imposta», potrebbero riguardare con minimi aggiornamenti anche l’Italia di oggi che ri- schia di scivolare ai margini dell’Europa. A riportare una voce ve- ra del liberalismo - lontana anni luce dalle versioni talvolta caricaturali della dottrina cui siamo abituati - nel dibattito attualissimo sul ruolo della politica fiscale in situazioni d’emergenza è Chiarelettere editore nella sua collana di «Instant Book». Testi che per l’appunto arrivano il libreria sull’onda dell’attualità. E forse proprio la formula edi- toriale veloce spiega qualche refuso che nelle 62 pagi- ne dello snello libriccino, corredate dalla prefazione di Francesco Giavazzi, si sarebbe potuto evitare. All’imposta patrimoniale straordinaria che secondo le sinistre dovrebbe contribuire ad aggredire i profitti illeciti ottenuti durante la guerra, Einaudi - all’epoca Governatore della Banca d’Italia ma anche deputato della Costituente - dedica la sua prosa minuziosa e chiarissima. Spiegando subito che la patrimoniale come strumento di giustizia sociale, preferibile ad esempio a un’imposta straordinaria sui redditi, va smitizzata. «Giustizia in materia di imposta vuol dire uguaglianza di trattamento per le persone le quali si trovino in condizioni uguali. Ma giustizia non si fa ricorrendo soltanto all’imposta patrimoniale ovvero a quella sul reddito; ma si fa, in ambo le ipotesi guardando all’insieme delle situazioni complessive dei contribuenti». Dunque «la imposta patrimoniale per se stessa non è atta a far giustizia; ossia non è per se stessa "democratica"». 

L’economista e il divulgatore che convivono in Einaudi spiegano chiaramente come di fronte a una patrimoniale di grande durezza («L’imposta patrimoniale straordinaria non avrebbe ra- gion d’essere se non fosse rilevante»), l’effetto perverso sarebbe quello di costringere i contribuenti con patrimoni di una certa consistenza rispetto al proprio reddito o alla rendita che il patrimonio stesso garantisce a «pagare in un anno un’imposta superiore all’intiero loro reddito». «Certo è - scrive - che la massima parte dei contribuenti non ha i mezzi di pagare "col reddito", né in uno né in due anni, una straordinaria patri- moniale che voglia essere ta- le sul serio». Per la cronaca, nel marzo 1947 la patrimoniale passa in versione assai «soft». Lo stesso Einaudi, sul Corriere della Sera, replicherà l’invito a non coltivare grandi speranze sugli effetti dell’imposta.

Ma al di là della questione di attualità nell’Italia del ‘46 come in quella del 2011, quel che colpisce nel testo è il proporsi anche come manifesto per una fiscalità equa: «Semplificare il groviglio, ridurre il numero, abbassare la scala delle aliquote delle imposte sul reddito è la condizione essenziale perché gli accertamenti e le riscossioni cessino di essere un inganno, anzi una farsa». Einaudi ammette che «oggi la frode è provoca- ta dalla legge» e vorrebbe ap- punto un modello diverso nel rapporto tra contribuente e Stato. Quale? Il faro, ovvia- mente, è quello dell’Inghilterra, con la sua «income tax»; un Paese dove «non si parla di imposte straordinarie patrimoniali» perché «gli inglesi col loro solido buon senso hanno preferito di manovrare l’arma dell’imposta sul reddito: abbassarla in tempo di pace, rialzarla sino quasi a toccare l’intero reddito (per i ricchissimi) in tempo di guerra e tenerla alta, sebbene un po’ meno alta, nei primi anni del dopo guerra». E’ il sogno destinato a rimanere tale per un Paese dove invece «gli italiani hanno sentito gran bei discorsi sulla necessità di sgravare i contribuenti, ma i fatti hanno insegnato ad essi che le imposte crescono sempre». Italia, 1946.

sabato 1 ottobre 2011

La solitudine

Tante volte la compagnia diventa agitazione, rumore, disturbo della propria solitudine. Quanti temono di ritrovarsi soli con se stessi e sono alla continua ricerca della compagnia. La felicità forse risiede unicamente nello stare insieme agli altri ? Non credo. C'è una grande differenza tra il piacere superficiale che si prova insieme in mezzo ad altri e quella profonda, essenziale, del convivere con sé stessi, analizzando i propri pensieri intimi, la propria anima, i sentimenti più segreti.
La solitudine rappresenta per noi una magnifica occasione per conoscersi, controllarsi, analizzarsi, formarsi. Questi sono i momenti del cuore, in cui si vede se i sentimenti sono tenaci oppure se sono solo rumore, che si confonde con l'esterno. I sentimenti elevati possono vivere da soli, senza necessità di una presenza fisica. L'isolamento li purifica, li innalza, li rende cristallini.
Al termine di tutto rimane l'attività dello spirito, che ti da gioia vera. La gioia che si posa come un blocco di granito sotto l'acqua che scorre, una gioia che non ti abbandona e non ti delude mai. La gioia provocata dalla lotta interiore, nell'esaltazione interiore. Controllarsi, dominarsi, purificarsi, elevarsi, avere il coraggio di pensare.

E' cosa di tutti i giorni, che si evince anche dai giornali, invece che i molti si accontentano dei godimenti immediati, esteriori, che falsamente si ritengono superiori, ma è vacuità. Spesso non rimane nulla, solo polvere sul cuore e macchie nell'anima.
L'obiettivo da porsi è quello di distaccarsi progressivamente dagli elementi esteriori, sino a che non si è in grado di vivere soli con sé stessi. Aprire le porte all'anima, conoscersi, meditare e riflettere, confrontarsi con il proprio spirito e schiudersi misticamente al proprio io.