lunedì 10 dicembre 2012

Cultura e ricerca per guardare lontano

Sono stato invitato e ho accettato di venire qui perché sono convinto – e non solo per quello che riguarda me stesso, ma per la responsabilità che ricopro – che quando i padri costituenti hanno scritto la nostra Carta fondamentale non hanno immaginato per il Capo dello Stato un ruolo che si risolvesse (come si dice per i re in altri Paesi) nel tagliare nastri alle inaugurazioni. Ho ritenuto che il Presidente della Repubblica dovesse, secondo la nostra concezione costituzionale, prendersi delle responsabilità, senza invadere campi che non sono suoi: le responsabilità del Governo non sono quelle del Presidente della Repubblica, e viceversa. Ma credo di dovere sempre cercare di interpretare le esigenze, gli interessi generali del Paese, anche in rapporto a scelte del Governo – che rispetto, perché non posso assolutamente sostituirmi a chi ha la responsabilità del potere esecutivo – attraverso un dialogo al quale intendo dare il mio contributo.
Innanzitutto – se posso dire qualcosa a proposito del titolo di questa assemblea – forse «emergenza dimenticata» non è l'espressione più adatta. Perché non è una questione di emergenza: quando parliamo di cultura parliamo di una scelta di fondo trascurata in un lungo arco di tempo. E le questioni che abbiamo davanti oggi non sono nate un anno fa, con questo Governo; la scelta che auspichiamo per la cultura resta da fare perché non è stata fatta in modo conseguente per anni, per non dire per decenni, nel nostro Paese.
Il Manifesto del Sole 24 Ore e il Rapporto 2012 di Federculture ci dicono molto a proposito della cultura come motore o moltiplicatore dello sviluppo – questa espressione è ritornata anche nell'intervento del ministro Fabrizio Barca – perché quello che ci deve assillare è come rilanciare lo sviluppo nel nostro Paese: sviluppo produttivo, sviluppo dell'occupazione e, soprattutto, prospettiva di valorizzazione delle personalità e dei talenti dei giovani, delle giovani generazioni. Questo deve essere il nostro assillo. E dobbiamo sapere che la cultura può rappresentare un volano fondamentale per avviare una nuova prospettiva di sviluppo non solo in Italia ma anche, più in generale, in Europa.
Ho apprezzato anche il contributo che in questi documenti si dà a un'analisi delle diverse componenti della cultura, sotto il profilo delle ricadute sulla crescita dell'economia e concretamente sulla crescita del Pil. Lo ha fatto, in modo particolare, in un suo studio il professor Sacco, che ha individuato sette componenti: da un cosiddetto «nucleo non-industriale» alle industrie culturali e alle industrie creative, alla scienza e alla tecnologia, e ha misurato quale sia il peso occupazionale di ciascuna di queste componenti della sfera complessiva della cultura, e anche quale sia – cosa molto significativa – il grado di propensione all'export, e di successo nell'export, di queste componenti delle attività culturali.
Persiste in Italia – perché non è nata ieri – una sottovalutazione clamorosa di queste tematiche, di queste analisi, di queste ricerche: una sottovalutazione clamorosa da parte delle istituzioni rappresentative del mondo della politica, del governo nazionale, dei governi locali e anche di diversi settori della società civile. C'è una sottovalutazione clamorosa, quindi, delle conseguenze che invece bisognerebbe trarne sul piano delle politiche pubbliche; e non inganni la parola "pubbliche", perché politiche come quella fiscale vanno rivolte a sollecitare e rendere sostenibili anche iniziative private, del settore privato e del settore sociale: non si tratta di affidare tutto al pubblico, tutto allo Stato.
Comunque, a monte di tutte le carenze che qui sono state denunciate, di tutte le cecità di cui soffre la condizione riservata alla cultura oggi in Italia, c'è la scarsa consapevolezza – l'ho ripetuto anche qualche giorno fa – dell'importanza decisiva per il nostro Paese di uno straordinario patrimonio, «ben più largo – ha detto Giuliano Amato – di quello costituito dalle opere d'arte e tuttavia nutrito dallo stesso patrimonio genetico». Ma non voglio ritornare su questa accezione più larga, che il presidente Amato ha assai bene prospettato ed esemplificato. Riprendo invece la sua difesa della scelta dell'Assemblea Costituente. Difendo l'articolo 9 come uno dei principi fondamentali della Repubblica e della Costituzione, come scelta meditata, lungimirante e di sorprendente attualità; anche per come ha saputo abbracciare in due righe tutti gli aspetti essenziali del tema che ancor oggi dibattiamo (e voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale).
Vogliamo rileggerle, quelle due righe? Cito anche il primo comma, non solo il secondo: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» – e già questo è un accoppiamento che non dovremmo mai trascurare nei nostri discorsi: cultura e ricerca scientifica e tecnica. L'articolo quindi continua: «La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ebbene, quanto oggi le istituzioni della Repubblica «promuovono» e «tutelano»? Promuovono e tutelano ancora pochissimo, in modo radicalmente insufficiente. Quale peso – ci dobbiamo chiedere, al di là delle proclamazioni – si sta di fatto riconoscendo a quel dettato costituzionale, e dunque a una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell'economia e dell'occupazione dall'altra? Non vorrei ragionare soltanto in termini economici: quale peso si sta riconoscendo al rapporto tra cultura e scienza, ulteriore incivilimento del Paese, benessere dei cittadini misurato secondo nuovi indici qualitativi, valorizzazione dell'identità e del prestigio dell'Italia nel mondo? Perché non c'è soltanto da valutare quale aiuto diano alla crescita del prodotto lordo la cultura e la scienza, ma come esse siano parte integrante del nostro stare nel mondo, con il profilo e il prestigio che le generazioni che ci hanno preceduto hanno assicurato all'Italia.
In effetti, ripeto, si sta prestando a tutti questi fattori un'attenzione assolutamente inadeguata. E io ho posto, e ancora oggi intendo porre, questo problema in via prioritaria e di principio, cioè per quel che di per sé esso significa, prima di venire a considerazioni relative a temi di intervento legislativo e di finanza pubblica. Ma non eludo questi temi, e non esito a esprimermi con spirito critico anche nei confronti dei comportamenti dell'attuale governo nel suo complesso, pur conoscendo la sensibilità e l'impegno dei singoli ministri, e non perdendo di vista quel che l'Italia deve al governo del PresidenteMario Monti per un recupero incontestabile di credibilità e di ruolo in Europa e nel mondo.
Sappiamo – anche se qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente: fare i ragionieri e ragionare sono due cose diverse – che è stato e resta necessario fare i conti con un livello di indebitamento pubblico raggiunto nel corso di decenni e con un grado di esposizione ai rischi del mercato dei titoli del debito sovrano nella Zona Euro, e quindi resta indispensabile perseguire obbiettivi rigorosi, in tempi stretti, concertati in sede europea, di riduzione della spesa pubblica e di contenimento della sua dinamica. Se non facciamo questo, a quale livello schizzeranno gli interessi dei nostri titoli pubblici? Quanto dovremo pagare? C'è anche tanta gente modesta che ha comprato buoni del tesoro: come facciamo a non rendere loro gli interessi che ci siamo impegnati a pagare e che rischiano di crescere? Oggi, dobbiamo pagare fino a 80 miliardi all'anno di interessi sul debito pubblico: che cosa potremmo fare anche solo con una piccola parte di questi 80 miliardi? Dobbiamo scrollarci dalle spalle questo peso insopportabile. E dobbiamo farlo perché altrimenti questi sono i casi e i modi in cui uno Stato può fallire, e non credo che possiamo giocare con questo rischio oggi e nel prossimo futuro, nel nostro Paese, chiunque governi e qualunque situazione politica e parlamentare esca dalle elezioni.
Però, io pongo una domanda, chiaramente molto problematica, anzi critica: ma è fatale che per riuscire in questo sforzo di risanamento della finanza pubblica si debba ancora procedere con tagli rilevanti a impegni di finanziamento in ogni settore di spesa, tagli più o meno uniformi o, come si dice – è diventato un termine abbastanza consueto – «lineari», senza tentare di far emergere una nuova scala di priorità nell'intervento pubblico, e quindi nella ripartizione delle risorse? Non credo, onestamente – pur avendo grande considerazione per chi deve far quadrare i conti pubblici: badate che non è uno scherzo per nessuno – che ciò sia fatale e che ci si debba arrendere a fuorvianti automatismi. La logica della spending review dovrebbe essere di ottenere risparmi di spesa, in qualsiasi settore, attraverso modifiche strutturali, modifiche di meccanismi generatori di spreco e distorsioni pesanti, e attraverso l'avvio di processi innovativi nella produzione di servizi pubblici e nella costruzione di programmi di intervento pubblico.
Questa logica dovrebbe però far salva un'attribuzione di maggiori risorse e finanziamenti da considerare finora sacrificati, a impegni che sono invece essenziali per una ripresa e una nuova qualificazione dello sviluppo del Paese. Si deve salvaguardare una quota accresciuta e consistente di risorse, pur nella generale riduzione della spesa pubblica, per cultura e ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Perché il contenimento della spesa pubblica e soprattutto della sua dinamica, e innanzitutto la riduzione della sua entità attuale, non comportano che non ci debba essere e non ci possa essere selezione. È molto arduo scegliere e dire: "questo sì e questo no", ma questa è la politica; la responsabilità della politica sta nello scegliere, nel dire dei «no» e nel dire dei «sì». E io credo che debbano essere detti più «sì» a tutto quello che riguarda la cultura, la scienza, la ricerca, la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio.
Qualche spunto specifico. Ritorno innanzitutto sulla ricerca scientifica, di cui ho detto qualche giorno fa in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro». L'Italia ha in campi fondamentali della ricerca tradizioni ed energie vive, dei talenti e un prestigio di cui molti, a ogni livello, nella sfera istituzionale e nell'opinione diffusa, non si rendono conto. Abbiamo dei tesori ignorati, delle capacità, un dinamismo di competenze e di passione per la scienza che vengono largamente ignorati. Parlo di talenti che operano anche fuori d'Italia: qualche giorno fa, in Quirinale, alla «Giornata per la ricerca sul cancro» c'era, fra gli altri, il professor Pier Paolo Pandolfi, un italiano che vive in America da vent'anni e da cinque dirige il Centro di Ricerca Oncologica di Harvard, uno dei più importanti al mondo, ed è venuto a dirci: voi avete tali istituti e tali talenti che dobbiamo lavorare insieme, io italiano dall'America e voi italiani in Italia.
Voglio parlare anche di quei tanti italiani che vivono e operano servendo in istituzioni di ricerca europee. Sono andato a Ginevra e ho incontrato centinaia di ricercatori italiani al Cern; sono andato a L'Aja, all'Estec, centro di ricerche e tecnologie spaziali: altre centinaia di italiani che sono andati lì anche poco dopo i vent'anni, dopo aver preso la laurea o il dottorato, e che sono chiusi tutti i giorni, dalla mattina alla sera – in luoghi che non sono Roma, che non sono belli come le nostre città – mossi non solo dalla passione per la ricerca e dall'impegno per onorare la tradizione scientifica del nostro Paese. È qualcosa che deve far riflettere profondamente, anche quando sentiamo dire: aiutateci, non solo con finanziamenti. Per esempio, i due centri che ho citato sono naturalmente finanziati dalle istituzioni europee, e noi – non ce lo dimentichiamo – siamo tra i maggiori contributori, e quindi contribuiamo a finanziare sia la ricerca spaziale, sia le ricerche del Cern; però, è giustissimo dire: "non solo questo, non solo i soldi, occorre dell'altro". Occorrono capacità operative, occorre liberarsi dal peso delle procedure burocratiche – lo ha detto bene e con forza Ilaria Capua – e anche dal peso crescente di una oramai impraticabile foresta legislativa e normativa che non fa che crescere da una settimana all'altra.
Abbiamo talenti e abbiamo istituzioni. E io mi domando – vi svelo un particolare – come sia stato possibile qualche tempo fa che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere un articolo di legge che prevedeva la immediata soppressione di 12 istituti di ricerca. Il lavoro di questo signore è finito nel cestino, perché abbiamo cercato – non è vero, ministro Profumo? – di tenere insieme gli occhi aperti. Ma è una spia di che cosa può significare la peggiore mentalità burocratica quando è chiamata a collaborare a scelte di governo, che devono invece essere libere da queste incrostazioni.
Un secondo spunto: tutela del paesaggio e del patrimonio. Tutela, cura e valorizzazione del territorio, perché questo è qualcosa che spesso – ma la signora Ilaria Buitoni lo sa benissimo, e lo sa benissimo il Fai – sfugge: si pensa solo al costruito e non si pensa al dove si costruisce, alla messa in sicurezza del territorio. Quello che stiamo vivendo in questi giorni con le alluvioni, in tante parti del Paese, ci allarma. Sono stato mesi fa, dopo le alluvioni nelle Cinque Terre, a Vernazza, e – scusate se mi ripeto, ma certe volte è inutile inventare qualcosa di diverso – ho detto lì: «Abbiamo alle spalle una lunga storia di piani per la difesa del suolo, l'ultimo del 2010, con cui si stanziava credo un miliardo; ebbene, è una lunga storia di piani, di stanziamenti via via disgregatisi, persisi per strada, non portati a compimento. Questa è la dura storia, questa è la realtà. Quante volte abbiamo aperto questo capitolo, a partire dall'alluvione del 1966 a Firenze, e poi ce ne siamo dimenticati o lo abbiamo chiuso alla meglio, abbiamo rinviato a un successivo piano quello che non eravamo stati capaci di fare, realizzando il piano precedente! E questo rischio antico si è fatto più acuto, ha assunto dimensioni diverse, forme più violente perché siamo – piaccia o no – nell'epoca del cambiamento climatico». Oggi le alluvioni non sono quelle di sempre, le frane non sono quelle di sempre, e abbiamo bisogno di un impegno ancora più forte, ancora più determinato e soprattutto operativo. E non ci siamo: non ci siamo né nella comprensione del problema né nell'azione conseguente a tutti i livelli, innanzitutto – dico – a tutti i livelli istituzionali.
Ora, se mi consentite, io vorrei fare anche qualche osservazione per così dire di carattere "trasversale", cioè che riguarda tutti i settori di attività culturale a cui ci siamo riferiti. Le considerazioni da fare sono abbastanza semplici. Innanzitutto, dobbiamo assicurarci che ci siano anche comportamenti individuali e collettivi nuovi (ecco in che senso "educare", "far crescere" il Paese), perché ci sono – parliamoci chiaro – comportamenti che recano ingiuria e danno al nostro patrimonio monumentale, che non solo non si tutela ma spesso si lascia devastare, si lascia ferire, vandalizzare.
Abbiamo bisogno di comportamenti responsabili in questo senso; e abbiamo bisogno di comportamenti sensibili anche per quello che riguarda la spesa per i consumi, la spesa delle famiglie. Viviamo in un periodo difficile, perché si restringono le entrate disponibili per moltissime famiglie, c'è mancanza di lavoro, c'è cassa-integrazione, ci sono giovani che vedono un'ombra pesante sul loro futuro. Nello stesso tempo, proprio in questo periodo di restrizioni dure e obbligate, vediamo anche i segni di una evoluzione nuova nel costume, nelle scelte dei consumi. E il fatto che diminuiscono sì tanti consumi di beni durevoli o abituali beni di consumo, ma invece non diminuisca la spesa per la fruizione del patrimonio culturale, né la spesa per i musei, né la spesa per quel che riguarda la partecipazione ad attività culturali, e di arricchimento morale e civile, questo è un segno molto incoraggiante che noi dovremmo riuscire a generalizzare nella realtà del nostro Paese.
Poi c'è qualche cosa che non posso sottacere. Badate che in tutti i settori, anche in quelli che fanno capo ad attività culturali, occorrono scelte non conservative per quel che riguarda le strutture e per quel che riguarda le realtà che si sono venute accumulando e incrostando nel corso del tempo. Guai se dovessero prevalere atteggiamenti difensivi, di difesa e conservazione di tutto l'esistente; e anche, diciamo pure, guai se dovessero prevalere atteggiamenti puramente difensivi di posizioni acquisite in termini di categoria, in termini corporativi.
Abbiamo bisogno di innovare soprattutto nel senso – come giustamente si è detto – della sburocratizzazione e del miglior uso delle scarse o limitate risorse disponibili nel complessivo bilancio dello Stato. Non dobbiamo, in questo modo, farci imbrigliare: non tutto quel che c'è in ognuna delle nostre istituzioni che si occupano di cultura e di scienza è difendibile, non tutto è valido, non tutto è produttivo. E dobbiamo avere il coraggio di innovare, se vogliamo salvaguardare l'essenziale, la funzione e il futuro di queste nostre attività.
Infine – ma non entro nel merito e spero che oggi pomeriggio si sviluppi anche questa dimensione del dibattito – i soggetti: quali sono i soggetti che debbono entrare in campo per portare avanti una nuova politica, una nuova visione del ruolo della cultura in tutte le sue espressioni? Il ministro Barca ha detto provocatoriamente – però ha fatto bene – che non è questione di soldi, o non è solo questione di soldi. Penso che se io vi avessi detto: "non esiste nessuna questione di soldi", non mi sareste stati a sentire, perché una questione di soldi esiste, per la cultura, per la scuola, per l'università e per la ricerca; esiste, e l'ho già detto. Però esiste anche una questione fondamentale che si chiama capacità progettuale, realizzatrice e gestionale. Questo significa innanzitutto che abbiamo bisogno in questo senso di una nuova qualificazione delle istituzioni pubbliche. Per esempio le Regioni: non getto l'anatema sulle Regioni – ci mancherebbe altro – però dell'esperienza dei fondi europei per il Mezzogiorno dobbiamo sentire tutto il peso – stavo per dire la vergogna, ma non voglio esagerare – per non avere utilizzate risorse preziose o per averle utilizzate male. Credo che l'impegno con cui il ministro Barca si è messo all'opera per perseguire il recupero e la riprogrammazione delle risorse dei fondi europei determinando delle scelte sapienti – che hanno dato un posto di grande rilievo, per esempio, a progetti per la cultura, come per Pompei – sia uno dei segni positivi venuti da questo Governo, e dobbiamo incoraggiarlo. Soggetti istituzionali da riqualificare e soggetti del privato e del privato sociale da chiamare a raccolta, da stimolare: lei lo sa presidente Squinzi, io dico sempre che c'è un problema di più forte impegno negli investimenti pubblici e privati per la ricerca, e quindi anche da parte delle aziende, soprattutto di quelle maggiori, ma delle stesse medie aziende che oggi competono sul piano internazionale con successo in quanto hanno alle spalle non solo un'eredità – quella di cui ci ha parlato Giuliano Amato, il grande background della creatività italiana – ma perché hanno investito in ricerca e innovazione.
Abbiamo bisogno di investimenti privati, abbiamo bisogno di investimenti pubblici, abbiamo bisogno di mobilitazione nuova di soggetti sociali e cooperativi, anche adeguando – come ha detto la signora Buitoni – la legislazione italiana all'esigenza di valorizzare questi apporti.
Io capisco – voglio dirlo francamente – tante impazienze. Naturalmente, io ho fatto nel passato il "comiziante", e quindi sono abituato anche ad affrontare battibecchi in piazza, non soltanto cioè parlando io e prendendo gli applausi di chi mi ascolta. Ma oggi faccio un altro mestiere, e vorrei dire con molta pacatezza e senso di responsabilità: fate valere le vostre legittime preoccupazioni, esigenze, insofferenze, proteste, fatele valere con il massimo sforzo di razionalità e di responsabilità perché solo così potremo portare la cultura più avanti e il Paese fuori dalla crisi.




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