domenica 3 novembre 2013

Israele, la terra promessa dell’Hi tech le start-up nascono nella Silicon Wadi

OLTRE CINQUEMILA AZIENDE DELL’INNOVAZIONE, IN CUI LAVORANO 237MILA ADDETTI IN UNA NAZIONE DI MENO DI OTTO MILIONI DI ABITANTI: LA TECNOLOGIA PRODUCE IL 60% DELL’EXPORT E ORA È PARTITO UN NUOVO BOOM GRAZIE AD UN ULTERIORE AFFLUSSO DI CAPITALI


Tel Aviv «P erché mai avremmo bisogno di dialogare con la Silicon Valley?» Omer Shai fa un passo di lato e indica il panorama. La terrazza di Wix, società di cui è responsabile marketing, domina Tel Aviv. I ristoranti del porto subito sotto, i grattacieli in costruzione, la lunga spiaggia affollata anche a ottobre. Quell’atteggiamento tipico, tra audacia e arroganza, qui lo chiamano chutzpah. E Wix, piattaforma che permette a chiunque di creare con facilità il proprio sito web, lo sta traducendo in numeri. A quattro anni dal lancio gli utenti sono 39 milioni, il fatturato, arrivato 60 milioni di dollari, è in crescita del 50% sull’anno scorso. Pochi mesi fa ha rifiutato un’offerta d’acquisto da 200 milioni. Oggi, mentre prepara la quotazione in borsa, vale più del doppio. Ecco uno dei nuovi campioni della Silicon Wadi. 


L’altra valle del silicio, quella che si estende da Haifa, al confine con il Libano, giù fino a Tel Aviv. «Israele ha trasformato le difficoltà in risorse. Sotto attacco, piccolo, isolato, senza ricchezze naturali, ha dovuto essere creativo, fare molto con poco, pensare globale ». Si innova per sopravvivenza, sintetizzano Dan Senor e Saul Singer nel loro libro manifesto, «Startup nation». Doppio senso per spiegare come una «nazione start-up», nata in fondo da non molto, sia diventata «nazione delle start-up»: oltre 5mila aziende hi-tech che impiegano 237mila persone e generano il 60% dell’export.

Un’industria esplosa negli anni ’90, quando un fiume di capitali venne a dare prospettiva di mercato alle ricerche dei laboratori universitari e dell’intelligence militare. Perché in Israele i tre anni di leva obbligatoria sono un’altra scuola, di responsabilità e di tecnologia. «La mia idea nasce durante il servizio in Marina», racconta Ami Daniel, 29 anni, fondatore di Windward. Elaborando i dati dei satelliti commerciali il software traccia la rotta di migliaia di navi, permettendo alle autorità di scovare contrabbando o pesca illegale. «Lo vendiamo ai governi - continua - da quest’anno, il terzo, saremo in attivo». Negli uffici, affacciati sulla vecchia sinagoga di Tel Aviv, i dodici dipendenti raddoppieranno presto. Vengono da tutto il Paese per lavorare in Sderot Rothschild, il viale alberato simbolo del Bauhaus, con edifici in cemento dalla razionalità a tratti brutale. 

Ma soprattutto strada delle start-up, nella città delle start-up. In tutta Italia sono 1300 quelle registrate: a Tel Aviv, un milione e 300mila abitanti (in tutto Israele gli abitanti sono meno di otto milioni), ce ne sono mille. In Israele un terzo dei cittadini ha tra i 18 e i 35 anni e molti dei ragazzi seduti ai tavolini dei bar, aperti tutta la notte, sognano di essere imprenditori. Il rischio di fallire è accettato come parte del gioco. Un ecosistema secondo solo alla Silicon Valley, certificano gli analisti di Startup Genome. Non sorprende, dopo aver sentito il presidente Shimon Peres, 90 anni, parlare con fervore di start-up: «Imparo cose nuove», scherza dal palco del Brain Tech. È lui l’ispiratore di questo convegno, che vuole accreditare il Paese come un centro d’avanguardia per le tecnologie applicate al cervello: «La politica può creare le condizioni, ma sono scienziati e industriali a guidare», dice. I confini tra pubblico e privato in questo stato-comunità, sono sottili, la sintonia più naturale: «Gerusalemme è molto vicina a Tel Aviv», spiega con un’immagine il chief scientist Avi Hasson. Il suo ufficio gestisce la spesa pubblica in ricerca. «Un modello senza colore politico: interveniamo dove il mercato non funziona ». 

Per esempio all’inizio del ciclo di vita di una start-up, quando il rischio fallimento è alto. Alle giovani imprese selezionate dagli incubatori privati viene garantito fino all’85% dei finanziamenti. Ma solo nei primi due anni di vita e senza entrare nel capitale: «Solo se poi fanno profitti ripagano il prestito». Israele dedica alla ricerca il 4,4% del Pil, il massimo tra i Paesi Ocse. Eccellenze come il Technion, il politecnico di Haifa, hanno uffici incaricati di accompagnare i brevetti verso uno sbocco industriale. Oltre l’80% degli investimenti viene però da privati. Molti colossi, non solo americani, hanno aperto centri di sviluppo in riva al Mediterraneo, da Intel a Ibm a Microsoft. Pochi giorni fa Facebook ha acquistato per 120 milioni di dollari Onavo, startup di analisi dei dati per dispositivi mobili: sarà il suo primo avamposto nel Paese. Ma è sulla disponibilità di capitali che la relazione speciale tra Israele e Stati Uniti ha l’impatto maggiore. Nel terzo trimestre del 2013 le aziende hi-tech locali hanno raccolto 660 milioni di dollari, il massimo da un decennio. Tre quarti arrivano dall’estero, soprattutto dai fondi venture capital a stelle e strisce, come Sequoia e Index. Eppure, avvertono gli esperti di Startup Genome, l’espansione minaccia di rallentare: «Tel Aviv produce start-up ad alta tecnologia che vengono vendute giovani, ma di rado riescono a crescere e generare utili». 

Qui si pianta il seme, coltivatori esperti lo fanno fruttare su mercati più grandi, all’estero: alla lunga il modello rischia di risucchiare via talenti e profitti. Per questo l’acquisizione del navigatore Waze da parte di Google è stata salutata come una svolta: il miliardo di dollari pagato è cifra da grande azienda. E così i valori di Wix o di Conduit, società che sviluppa barre di ricerca, stimata oltre il miliardo e mezzo. Aiutare le start-up israeliane a creare modelli di business più solidi è anche la missione di Google Campus, uno spazio aperto alle giovani imprese che la società californiana ha inaugurato nel centro di ricerca di Tel Aviv. «In otto mesi ne abbiamo formate 85», dice il direttore Yossi Matias, capo del team che ha inventato il completamento automatico della ricerca. «L’obiettivo per noi non è acquisirle ma far crescere l’ecosistema, restituire qualcosa alla comunità ». Per un cambio di passo però neppure i migliori informatici bastano. Se qualcosa manca, tra gli startupper di Tel Aviv, è la varietà: poche donne, nessun cittadino arabo, quasi tutti ingegneri. Avere un visto lavorativo è difficile e l’impennata degli affitti non aiuta. Al Dld, conferenza digitale organizzata dal guru degli investitori Yossi Vardi, la priorità è chiara: «Attrarre talenti». Sono state invitate 13 startup straniere, tra cui l’italiana Atooma, per incontrare gli investitori locali e assaggiare la vita in città. 

Mentre il municipio, con il progetto Tel Aviv Global, cerca di renderla ancora più magnetica: wi-fi libero, enfasi su bar e locali notturni, la vecchia biblioteca trasformata in spazio di coworking, con vista sulla città vecchia di Jaffa. Si discute anche di un nuovo più flessibile regime di visti, riservato a giovani imprenditori. «Cosa dobbiamo imparare? Il senso di una missione collettiva », commenta il fondatore di Tiscali, Renato Soru, tra i relatori del Dld. Seduto a un bar con Yossi Vardi disegna su un tovagliolo il profilo dell’Italia, mostrandogli con un pallino la posizione di Cagliari. Oggi Tel Aviv è una capitale dell’innovazione. La sfida è rimanerlo. Le start-up ospitate nella Library, una vecchia biblioteca che il comune di Tel Aviv ha trasformato in spazio di “coworking” per giovani imprenditori.

Filippo Santelli - Affari & Finanza - Repubblica

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