lunedì 1 agosto 2011

Open di Agassi

Consiglio la lettura di questo libro a tutti gli appassionati di tennis, come me, e concordo pienamente con la bella recensione di Alessandro Piperno che riporto di seguito.

Le periferie del Nevada, un padre crudele, glorie e dolori: la propria vita raccontata con stile. Che romanziere questo tennista. Ho letto Open, l' autobiografia di Andre Agassi, su consiglio di un amico (Einaudi Stile libero).  Mi sono bastati un paio di capoversi per capire che mi ero imbattuto in un libro importante. Ora, che Agassi avesse un mondo - variegato, seducente, croccante, inimitabile - non mi ha colto impreparato. Il dato sconcertante è che un atleta il cui stile tennistico ho sempre detestato scriva in un modo così incantevole. E così incisivo. «Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l' ho sempre odiato. Quando quest'ultimo tassello della mia identità va al suo posto, scivolo sulle ginocchia e in un sussulto dico: fa' che finisca presto». Non è che un assaggio dello «stile Agassi»: cocktail di ironia, consapevolezza, umiltà, melanconia, chiaroveggenza, savoir vivre. Alla fine del libro Agassi ringrazia J.R. Moehringer, un premio Pulitzer, un virtuoso. Tra le righe si evince che Moehringer gli abbia fatto da ghostwriter. Il che spiega una tale spavalderia stilistica. Eppure, nonostante si senta (e come) la mano di Moehringer, leggendo, non dimentica mai che il punto di vista è di Agassi. I ricordi gli appartengono, così come il sentimento dominante, il giudizio caustico su di sé e sugli altri. Come in un film hollywoodiano, Agassi inizia la sua rievocazione dalla fine: la penultima partita della sua carriera, U.S. Open 2006. Che atmosfera! Che pathos! Il risveglio di un campione di mezza età nella suite del Four Seasons di New York. Le voci dei figli piccoli e della moglie (Steffi Graf) che fanno colazione nel salottino attiguo. Una doccia eterna, panacea (coadiuvata da dosi massicce di cortisone) per rianimare un corpo devastato da un trentennio di atroci sollecitazioni: «Sotto il getto d' acqua calda mugolo e grido. Mi piego lentamente toccandomi i quadricipiti. (...). Sento che qualcosa comincia a risvegliarsi. La vita. La speranza. Le ultime gocce di gioventù». Il modo con cui Agassi racconta gli strazi del corpo, e le sue rare voluttà, è inarrivabile. Così come inarrivabili sono le pagine sulla preparazione dell' ultimo match contro Baghdatis - così simile e così diverso dalle migliaia di match che l' hanno preceduto. Agitazione, dolore, terrore, panico. Tutto restituito con una tale vividezza che ti pare di capire finalmente cosa diavolo significa essere un campione. E cosa si prova a esibirsi in una disciplina seguita da milioni di persone. Ebbene, questo match epico, all' ultimo sangue, dal quale il vecchio leone esce vincente per l' ultima volta, è l' epifania che apre il sipario sull' infanzia di Agassi. Las Vegas. Deserto del Nevada. Metà anni 70. Una villetta in mezzo al niente con un campo da tennis. «A mio padre piace sparare ai falchi. La nostra casa è ammantata delle sue vittime, uccelli morti che coprono il tetto come le palle da tennis coprono il campo». Mike Agassi, il padre. Il ferocissimo padre. Un iraniano taciturno, coriaceo, ingegnoso che non risparmia niente al figlio di sette anni: «Papà dice che se colpisco 2.500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all' anno sarà imbattibile». Il padre, da bravo torturatore, ha costruito una macchina degna della sua malvagità. Quella che il piccolo Agassi chiama il «drago»: «Nero come la pece, montato su grosse ruote di gomma e con la parola PRINCE dipinta in bianche lettere maiuscole lungo la base, il drago assomiglia a una qualunque macchina lanciapalle di un qualsiasi circolo sportivo americano. In realtà, però, è una creatura vivente uscita da uno dei miei fumetti. Il drago respira, ha un cervello, una volontà, un cuore nero - e una voce terrificante». Il padre e il drago sono in combutta per rendere il piccolo Agassi il tennista più forte della galassia. Sono due contro uno. Perché dall' altra parte c' è lui, il protagonista, disperato e inerme. Il bambino che non sa dire di no a un' autorità così silenziosa e determinata. «Questo conflitto tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l' essenza della mia vita». Il problema con i libri che ami è che non smetteresti mai di citarli. Per farvi capire quanto Open mi sia piaciuto avrei la tentazione di fare un gigantesco copia/incolla. Ma credo sia più pratico limitarmi a consigliarvene l' acquisto. È raro imbattersi in un così stimolante compendio di personaggi e situazioni: Jil, il paterno trainer di Agassi. Nick Bollettieri, il mitico coach che negli anni 80 sfornò una colonia di giovani tennisti-picchiatori (Courier, Agassi, Seles...). Così descritto dal suo allievo più famoso: «Ha preso così tanto sole, si è arrostito così in profondità sotto un numero infinito di lampade ultraviolette, che la sua pigmentazione ne è rimasta alterata in maniera permanente». Inoltre, non stupisce che Agassi abbia sposato prima Brooke Shields e poi Steffi Graf. Evidentemente il destino dei bambini prodigio - con le loro infanzie sacrificate sugli altari eretti da genitori mitomani - è di finire l' uno nelle braccia dell' altro! Eppure la cosa che più mi ha colpito in questo libro è la smania del suo autore-protagonista di decifrare il mistero inattingibile dell' umana insoddisfazione. Come ogni libro americano che si rispetti è un' opera sulla caduta e sulla redenzione. Ma, a ben vedere, non è questo il dato più significativo. Ciò che Agassi sa raccontare meglio è il senso di tedio e gratuità che non smette di assediarci. E che, paradossalmente, rende amare sia le vittorie che le sconfitte. Una vacuità descritta con la grazia di Sophia Coppola. Un vuoto che può essere colmato solo da ciò che Agassi romanticamente chiama l' «ispirazione». Il primo successo a Wimbledon - il primo agognatissimo Grande Slam da lui ottenuto - viene così commentato: «Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant' è dolorosa una sconfitta». Esiste una verità più beffarda e inequivocabile?

Alessandro Piperno

Nessun commento: