giovedì 11 novembre 2010

L' ITALIA UNITA A TAVOLA

L' Italia è stata fatta anche in cucina, tra un piatto di pasta e una spremuta di agrumi. Lo documentano i sapidi telegrammi inviati da Camillo Benso conte di Cavour nell' anno più fortunato per la storia patria. «Le arance sono sulla nostra tavola e stiamo per mangiarle. Per i maccheroni bisogna aspettare perché non sono ancora cotti», scrive nel luglio del 1860, alludendo alla Sicilia già occupata dai garibaldini che ora marciano verso il continente. L' attesa si protrae per oltre un mese, fino al 7 settembre, quando Garibaldi entra vittorioso a Napoli. «I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo», pregusta Cavour con l' ambasciatore piemontese a Parigi. 

A tavola l' Unità è già servita. E da bandiera partenopea il maccherone assurgerà presto a simbolo nazionale. Molto più pregnante della Marianne francese. La saporosa metafora può prestarsi a molte interpretazioni. La più maligna tratteggia un Mezzogiorno facile boccone per un avido Nord, quella più benevola nobilita il ceto politico settentrionale quale supremo garante delle tradizioni culturali e dunque culinarie del Sud. Quest' ultima è la strada imboccata anche dal medievista Massimo Montanari in un saggio laterziano che, alla vigilia del 150° compleanno dell' Italia, ci ricorda quanta importanza abbia la cucina nella costruzione della nostra italianità. Un modello aperto e "democratico", frutto di tradizioni diverse e dunque capace di assimilare il nuovo, in un percorso di elaborazione identitaria che lo rende oggi esemplare per la nuova sfida glocal ( L' identità italiana in cucina, pagg. 98, euro 9). 

Più che storia alimentare, quella suggerita da Montanari è l' epopea nazionale di un paese capace di digerire la diversità fino a trasformarla nel proprio carattere tipico, come accadde con la pasta di forma allungata importata in età medievale dalla cultura musulmana e successivamente declinata con pomodoro e peperoncino, provenienti anch' essi da mondi distanti. «In fondo la ricerca delle proprie radici finisce sempre per essere la scoperta dell' altro che è in noi. Un altro che ha contribuito a farci diventare quello che siamo. Proprio per questo parliamo di identità culturali che non sono inscritte nei geni di un popolo ma si costruiscono nel tempo, mediante il confronto e lo scambio». Riflessioni storiche non prive di implicazioni politiche, perché in cucina più che altrove si impara la tolleranza, guardando con ottimismo alla nuova Italia multietnica. Se l' Italia esiste politicamente da un secoloe mezzo, la sua cultura gastronomica è molto più antica, come la lingua, la letteratura e l' arte. «Uno stile culinario più che un modello codificato», sostiene Montanari, «abitudini alimentari che io faccio risalire al XIII secolo». Ma esiste una cucina italiana o è preferibile parlare di mille cucine locali? «In realtà le due cose non si escludono a vicenda. Il segreto sta nel cogliere in questa miriade di ricette diversificate una trama di passaggi che investono le pietanze, le persone e le tradizioni, ed è una trama indiscutibilmente italiana, percepita come tale dai suoi utilizzatori. In fondo la ricchezza della nostra gastronomia è data proprio da questa disseminazione sul territorio del patrimonio culinario. Non abbiamo piatti più gustosi rispetto a quelli degli altri paesi né vantiamo un maggior numero di pietanze. La nostra forza è che ne abbiamo dappertutto». Una rete di saperi diffusa, sia sul piano orizzontale del territorio che su quello verticale delle appartenenze sociali. «I piatti popolari compaiono nelle tavole dei signori che a loro volta agiscono da modello per i ceti inferiori», e dunque nello stile gastronomico italiano - a differenza di altre realtà europee - si riconosce l' intera comunità, senza esclusioni. E senza prevaricazioni di una tradizione sull' altra. Ciò che distingue l' arte culinaria da altri fattori fondamentali dell' identità nazionale, è che in cucina un modello non prevale mai sugli altri. «Se nella storia della lingua a un certo punto è riuscito a imporsi un solo dialetto, guadagnandosi la qualifica di italiano grazie al prestigio di Dante, Boccaccio e Petrarca, la storia della cucina non ha conosciuto né Dante né l' Accademia della Crusca. Un sistema paritario, che non avrà mai dei rigidi codificatori ma solo straordinarie personalità come Bartolomeo Scappi o Pellegrino Artusi, che si sono limitate a confrontare e a mettere in rete le diverse tradizioni locali». Piero Camporesi arrivò a scrivere che, per l' unità nazionale, fece più il manuale dell' Artusi dei Promessi Sposi. Più della lingua poté il palato. Montanari è dello stesso avviso: «Alcuni decenni dopo l' unità, nel 1891, Pellegrino Artusi, patriota della Giovine Italia, si propose lucidamente il progetto di unificare il paese negli usi gastronomici così come Manzoni aveva tentato di fare con la lingua. Il suo ricettario crebbe in modo interattivo, anche attraverso un fitto scambio di corrispondenza tra lui e le sue lettrici, configurando la sua Scienza in cucina e l' arte di mangiar bene come una grande opera collettiva». Rispetto alle corti rinascimentali di Scappi, s' era allargato il pubblico: non più un' élite ristretta, ma la piccola e media borghesia. E la nazionalizzazione delle masse proseguirà nelle trincee della Grande Guerra, quando il modello alimentare italiano poté allargarsi a nuovi strati sociali. Ma perché negli ultimi decenni la gastronomia dilaga ovunque? Al cinemae in Tvi nuovi eroi sono chef e vice chef, mozzarelle e lasagne esondano nelle pagine dei giornali, risotti ma anche coda alla vaccinara e polente possono diventare efficaci spot di comunicazione politica. Per non dire delle abitudini quotidiane, dove un tempo la fettina saltata poteva essere perdonata, oggi rischia di essere censurata come sconveniente e culturalmente inadeguata. «Non lo considero un riflusso nel privato», risponde lo studioso. «Cucinare è un atto collettivo. Né mi addentrerei in una spiegazione sociologica: siamo società più ricche e dunque possiamo trattare la fame con allegria. Quest' orgia mediatica mi sembra più il frutto di una grande liberazione: non ci vergogniamo di dire che il cibo è parte importante della nostra vita. Quando cominciai a occuparmene, nel 1972 con Vito Fumagalli, i miei colleghi mi prendevano in giro. Erano persuasi che occuparsi di storia significasse occuparsi solo di sovrani e di pontefici. In realtà il cibo è un modo per parlare del mondo, dalla filosofia all' arte, dalla religione all' economia. E sapendo quanta storia c' è in un piatto, impari anche ad assaporarlo meglio». Il "retrogusto della storia", lo definisce Montanari. Forse lo stesso provato da Cavour davanti al piatto di maccheroni, mentre già cominciava ad assaporare l' Italia. 


Simonetta Fiori - Repubblica - 10 novembre 2010 - sezione: CULTURA 

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