venerdì 4 novembre 2011

Se il logo va alla guerra (da Tripoli a Kabul)


Spot negativi, le aziende cambiano strategie

L' attrice Anne Hathaway è stata pagata per indossare un collier di diamanti nella notte degli Oscar. Si parla di 750mila dollari per un mega spot al traino della luccicante statuina hollywoodiana. I teorici del marketing lo chiamano «product placement», ma è il parente prossimo di quello che una volta si chiamava «pubblicità occulta». Il concetto è banale e sfrutta il desiderio di partecipare ad un mondo che consideriamo affascinante. È lo stessa solleticazione dell' umana invidia che si ripropone quando si associa un marchio a una celebrità: attori, campioni, cantanti, tutti reclutati per mostrare a noi consumatori che potremmo anche assomigliargli se bevessimo quel caffè, guidassimo quell' automobile o viaggiassimo con quella valigia. Solo in Italia si pagano «testimonial» per almeno 450 milioni l' anno. 
Il problema è che non sempre si possono scegliere i propri ambasciatori o il luogo dove mostrare i prodotti. Il golfista Tiger Woods si può cancellare dagli spot dopo aver scoperto le sue infedeltà coniugali e, dopo l' attentato dell' 11 settembre, si può evitare di mandare in onda intere campagne pubblicitarie nelle televisioni affollate di dramma. Ma è impossibile licenziare i talebani che viaggiano su pick up Toyota, tagliagole liberiani che sfoggiano magliette dell' Inter, libici che asciugano le mani insanguinate su una tuta Adidas, terroristi iracheni nascosti dietro a passamontagna della Nike. Qui non ci possono essere contratti con clausole di protezione contro i «cattivi ragazzi». «Venir associati alla tragedia della guerra è l' ultima cosa che un' impresa vorrebbe per i suoi prodotti - sostiene il pubblicitario Ignasi Clarà -. L' effetto è pessimo, come quando un marchio viene accusato di sfruttare il lavoro minorile». Il fenomeno però dilaga, come la globalizzazione che porta gli stessi brand in tutto il mondo. Solo vent' anni fa non avveniva affatto. I vietnamiti bruciati dal napalm americano negli anni ' 60 non indossavano Dolce e Gabbana contraffatti. Ancora nella prima guerra del Golfo (1990-1991), Saddam Hussein avrebbe pagato oro per mostrare una vittima dei bombardamenti alleati con una maglietta del Barcellona sponsorizzata dall' Unicef. Invece nella guerra di Libia i reporter fotografavano pro o anti gheddafisti, con indosso firme internazionali, viaggiare su camionette con imbullonate sopra mitragliatrici contraeree. 
Clara Alberti, di Toyota in Spagna, ha raccontato al giornale La Vanguardia che la casa giapponese ha cambiato stile dei propri pick up per sfuggire all' identificazione tra brand e violenza. «La scritta Toyota a lettere maiuscole sul retro è stata resa meno visibile». «Forse l' unico che ha tentato di rovesciare a favore di un prodotto comune la spontanea repulsione per la guerra è stato Oliviero Toscani. Lo fece fotografando gli abiti laceri di una vittima della Guerra di Bosnia come fossero maglioncini appena usciti dalla fabbrica. Lo scandalo portò il marchio al centro dell' attenzione» spiega Nino Florenzano del Laboratorio Creativo Maverick. Gli altri casi rientrano nella normalità del meccanismo di emulazione. Il kalashnikov in mano a guerriglieri di ogni latitudine è stata la miglior pubblicità per il mitra sovietico. Così come i gipponi Hummer che hanno creato una versione civile per beneficiare dell' immagine di potenza degli americani a Bagdad. Ad alcuni la guerra piace. A pochi, per fortuna. 

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