martedì 20 agosto 2013

Il falò delle Leadership

Si continua a citare la rapidità con la quale il Conclave dei cardinali cattolici ha eletto papa Francesco il 13 marzo scorso come un esempio invidiabile e inimitabile. È stata una sorprendente prova da parte di una Chiesa additata come lenta, in profonda crisi di identità e reduce da torbidi conflitti vaticani: una situazione così grave da avere indotto Benedetto XVI alle dimissioni, primo caso dopo oltre sei secoli. L’ammirazione è giustificata. Ma il rimpianto per l’incapacità della classe politica italiana di fare altrettanto forse non basta; né è sufficiente constatare che in Occidente molti personaggi di rilievo che guidano le loro nazioni hanno un’immagine appannata, quando non di impotenza.

D’altronde, con una crisi economica che dura da oltre un quinquennio (e in Italia, di fatto, da molto più tempo), sarebbe strano se le classi dirigenti non fossero logorate: soprattutto perché non offrono visioni nuove. L’insuccesso percepito ormai dall’opinione pubblica è associato ad alcune figure di vertice. Ma sta diventando sempre più chiaro che il problema non sono solo le persone, quanto il sistema di valori e il modello che esprimono. Senza una modifica del terreno di gioco, delle regole, dei punti di riferimento, il falò delle leadership presenti e future sarà inevitabile: o saranno distrutte o si autodistruggeranno.

Non solo: non esiste più un’«accademia» che forgi le leadership politiche. Da circa vent’anni, con rare eccezioni, l’Italia le ha prese in prestito da altri mondi di competenza, si trattasse di industria, università o magistratura. L’atteggiamento di rifiuto verso un malinteso professionismo della politica ha creato e radicato una nomenklatura di dilettanti, percepiti alla fine come professionisti solo in senso deteriore. Il risultato è sconfortante. La lezione è quella del fallimento di una democrazia e di un potere verticali e personalizzati. L’idea che una figura solitaria potesse da sola, o con pochi docili esecutori, risolvere i problemi si è rivelata un’illusione amara. Invece di ricostruire una classe dirigente, ne ha creato una caricatura, ricorrendo di volta in volta a «invenzioni» e scorciatoie che, alla fine, ne hanno impoverito il livello, e ritardato qualunque ipotesi di ripresa. Senza un progetto condiviso da una maggioranza che si fa fatica a identificare soltanto con quella elettorale o di uno schieramento, qualunque «capo», declinato al maschile o al femminile, è destinato a scontrarsi con resistenze e abitudini radicate e alla fine vincenti. Sembra difficile ripartire senza prendere atto che una stagione è finita, e che perpetuarla significa arretrare; ed eludendo una selezione dei futuri leader pensata in maniera radicalmente diversa dal passato.

Da questo punto di vista, il caso di Jorge Mario Bergoglio è molto istruttivo. Il Papa argentino è figlio di una Chiesa cattolica che si è sentita pericolosamente vicina al collasso. E rappresenta la risposta radicale, sebbene non ancora la soluzione, a questa deriva. È dunque il prodotto di una sorta di trauma salutare, di successione-choc preparata e ottenuta da quanti hanno capito che era necessario un rivolgimento totale, perché i paradigmi del passato stavano affossando il governo vaticano. Senza questa acuta consapevolezza di dover rompere col passato, non si registrerebbero l’interesse e le attese provocati dal Pontefice.

La sua elezione è stata possibile grazie a una scuola di leadership a rete, globale, non improvvisata ma forgiata nelle realtà e nell’esperienza degli episcopati locali, che hanno permesso di «pescare» il nuovo capo della Chiesa in un lembo periferico e remoto del cattolicesimo. L’ansia involontaria con la quale gli elementi più retrivi della Curia tendono a minimizzare la portata della novità fa riflettere. Conferma che la cesura è così vistosa da indurli a suggerire e quasi invocare minacciosamente una frenata, per evitare che crolli tutto. Ma la leadership di Francesco funziona e fa breccia solo se mette in discussione il sistema precedente e prosciuga le sacche dell’immobilismo; se accoglie il segnale disperato dato da Benedetto XVI con la propria rinuncia al papato.

Insomma, Francesco si consolida come leader se dimostra di avere dietro una classe dirigente ecclesiastica che ne condivide gli obiettivi e perfino i metodi. Per questo si aspetta di capire come riplasmerà il governo del Vaticano dopo avere rivoluzionato in quattro mesi l’immagine del pontificato. Senza quel passaggio, il logoramento minaccia di indebolire anche quanto ha fatto finora e, appunto, la sua stessa leadership. Ma pensare di «imitare» il Papa nella politica italiana e europea rischia di essere illusorio e fuorviante. Il carisma e i margini di comando che l’uomo all’apice delle gerarchie vaticane possiede non sono paragonabili a quelli di un leader politico. E viene da dire: per fortuna.

È indicativo che il cancelliere Angela Merkel sia avviata alla vittoria alle elezioni di autunno in Germania, eppure non escluda di dar vita a un governo di unità nazionale. Evidentemente, in una fase così ostica anche le percentuali più trionfali vanno compensate con un consenso allargato. Le difficoltà che incontra Barack Obama negli Stati Uniti nascono dal tentativo frustrato di emanciparsi da una partisanship, cioè da un’appartenenza di partito, che lo limita. Il secondo mandato presidenziale sembra accentuarla al di là della sua volontà, incattivendo la minoranza repubblicana e togliendo smalto a una leadership nata con l’ambizione di unificare il Paese; e che dopo quasi cinque anni deve constatare di non esserci riuscita.

Nella stessa Europa, dove pure le quotazioni di Obama rimangono altissime in termini di popolarità — l’80 per cento, secondo un rapporto del 2012 del Pew Global Research —, la questione delle intercettazioni a tappeto ha creato tensioni con i governi alleati, solo parzialmente riassorbite. E proprio mentre si tendono i rapporti fra la Casa Bianca e il Cremlino per l’asilo politico concesso da Vladimir Putin all’ex agente della Cia, Edward Snowden, nelle nazioni centro orientali europee, che prima gravitavano intorno alla Russia e ora si sentono Occidente, si nota una punta di delusione per il «potenziale buttato» da Obama. L’accusa è di avere rinunciato alla leadership politico-strategica su questi Paesi: dalla Polonia alla Repubblica Ceca, all’Ucraina e agli Stati baltici.

Sull’ultimo numero della rivista polacca in lingua inglese «New Eastern Europe», uno studioso della Georgetown University di Washington, Filip Mazurczak, fa notare che George W. Bush visitò per sette volte l’Europa centro orientale durante i primi quattro anni di mandato; Obama lo ha fatto solo tre volte. E che nel suo recente viaggio europeo, il segretario di Stato Usa, John Kerry, si è limitato a toccare alcune capitali occidentali. Ma l’aspetto che investe più direttamente anche l’Italia è l’appannamento delle istituzioni europee. Si tratta di una tendenza accentuata dalla rinascita di nazionalismi in Stati che in realtà sono per primi in crisi. L’Ue fa registrare una doppia carenza di guida: a livello nazionale e sovranazionale. Basta scorrere i guai che colpiscono i maggiori Paesi, dalla Spagna alla Francia, all’Italia, alla Gran Bretagna, che pure cerca di scaricarli chiamando in causa l’invadenza burocratica di Bruxelles fino a minacciare un referendum entro il 2017.

L’immagine dei leader è quella di esponenti politici costretti a inseguire e tacitare un’opinione pubblica nervosa per un livello di vita in declino; e soprattutto per l’assenza di prospettive di recupero a breve termine. L’affanno delle istituzioni politiche dell’Unione la riflette. Ed è diventata così vistosa da far dire che il «vero» leader dell’Ue non si trova a Bruxelles o a Strasburgo, ma a Francoforte. A torto o a ragione, viene citato il numero uno della Banca centrale europea, Mario Draghi, che ha la sua sede appunto nella città tedesca di Francoforte. In parte, la percezione di uno spostamento del baricentro del potere appare inevitabile.

Quelle che fino alla guerra fredda e negli anni subito successivi erano priorità strategiche e geopolitiche, oggi sono diventate economiche e finanziarie. In passato il cosiddetto «vincolo esterno», che condizionava molte scelte anche di politica interna, era la Nato, oltre all’Ue. Adesso il riferimento obbligato non è la sicurezza nazionale in termini militari, ma una sorta di «sicurezza finanziaria internazionale»: fra l’altro, l’esigenza di ridurre la spesa pubblica colpisce in modo tangibile quella militare. A guardar bene, anche nella scelta di papa Francesco di aggredire subito i misteri e le inefficienze torbide dello Ior, la cosiddetta «banca vaticana», si può avvertire un’eco simbolica di questo cambio di priorità strategiche. Ma la natura ibrida della Bce finisce per non sancire un nuovo equilibrio. Ufficializza, invece, i limiti, le contraddizioni e l’incompiutezza di quanto è stato costruito finora a livello di istituzioni.

L’Italia rappresenta, in proposito, un ottimo esempio di occasioni mancate: è la miniatura esagerata, e uno dei capri espiatori a intermittenza, delle disfunzioni europee. Lo sfarinamento della maggioranza berlusconiana del 2008, che pure era schiacciante in Parlamento, è avvenuta in meno di tre anni e per contraddizioni tutte interne alla coalizione. E quella che l’ha sostituita, prima con Mario Monti e poi con Enrico Letta, è quanto di più «innaturale» si potesse immaginare. Eppure, le cosiddette «larghe intese» rappresentano la maggioranza obbligata e insostituibile in una fase di transizione nella quale nessuno ha i voti per governare.

Più che di leader, si sente il bisogno di cambiare schema, mostrare unità di intenti, cancellare l’immagine di precarietà patologica che accompagna l’Italia. L’eterodossia delle «larghe intese» è, in realtà, la premessa per affermare un nuovo sistema e leadership inclusive, che non diventino alibi per l’immobilismo. Il dubbio è che la nomenklatura politica di oggi sia inadatta a questo compito. È cresciuta in una cultura della parzialità e della rissa che esalta «ragioni» frammentate; inoltre rispecchia una società aggrappata alle sue posizioni di rendita. I consensi sono stati costruiti intorno a blocchi di interessi che fino a pochi anni fa, forse, erano ancora un elemento di forza; oggi, invece, esprimono pezzi di società minoritari, perfino residuali.

Bisogna chiedersi perché nessun esponente della cosiddetta Seconda Repubblica sia stato un candidato vincente alla Presidenza della Repubblica. A sinistra, i nomi proposti non hanno ricevuto neppure tutti i voti dei propri parlamentari. Evidentemente, c’è uno steccato invisibile che disconosce leadership istituzionali condivise. È stato necessario prolungare il settennato di Giorgio Napolitano, che si presenta anche come il vero garante del governo Letta. E la rapidità con la quale si gonfia il fenomeno dell’astensionismo suona come bocciatura implicita dell’offerta politica. Il dramma è che non si vede chi possa ricomporre un quadro sociale, prima che partitico, a rischio di lacerazione.

Anche perché l’impopolarità è in agguato, e nessuno sembra proporre una visione che vada oltre le prossime elezioni. Anzi, c’è chi si illude di sopravvivere evocando le urne. È una miopia che si sta pagando a caro prezzo. L’ipoteca dei vecchi equilibri fa somigliare in modo preoccupante l’Italia al Vaticano: non a quello di Francesco, ma al precedente, diviso e acefalo, che per sperare di salvarsi ha dovuto sbattere contro la realtà inedita delle dimissioni di Joseph Ratzinger. La differenza è che un epilogo del genere, in Italia, dà i brividi. Nonostante ambizioni e velleità, la fabbrica delle leadership tende a produrre al massimo «esperimenti» o cloni del passato.

Massimo Franco - La Lettura - Corriere della Sera


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