martedì 25 novembre 2008

Il "divin porcello" spopola da novembre a gennaio

Da fine novembre - Sant’Andrea - a metà gennaio, il 17 è Sant’Antonio Abate, il protagonista nelle campagne, anche Romagnole, era ed è, là dove si mantiene viva una certa tradizione, il “divin porcello”, il maiale. Considerato normalmente un animale sporco e sudicio, vietato in certe religioni e demonizzato dalle diete oggi per essere “sempre in forma” salvo poi soffrire ugualmente di extra-large, il maiale trova consolazione nella tradizione cristiana che gli ha dato anche un santo protettore: appunto Sant'Antonio Abate. Da noi, in Romagna, era comunque considerato una "benedizione del Signore" o della provvidenza, anche dalle famiglie più atee e miscredenti. E il motivo di questa conversione temporanea era semplice: il maiale veniva allevato con gli avanzi di casa, con cibi poveri e forniva carne e salumi per l'intero anno. Del maiale, si dice, "non si butta via niente". Fino agli anni ’50-60 è stato così, oggi è meglio dire che “non si buttava” quando c'erano i maiali buoni certamente, ma soprattutto quando c'era la fame con la "F" maiuscola. Cambiando le abitudini e l’alimentazione, ora si scarta molto di più e certi dettami della modernità hanno praticamente ucciso preparazioni indimenticabili come “e migliaz” (il migliaccio) dolce sanguinaccio romagnolo a base di sangue suino. Come di estinguersi corrono il rischio i maiali di razza romagnola. La Mora Romagnola infatti è una razza suina che rischia l’estinzione - oggi sono circa 300 capi e un consorzio cerca di mantenere e aumentarne la produzione - una razza che un tempo era allevata nell'intera Romagna con prevalente diffusione nel Forlivese e nel Faentino. Si può dire che il maiale in Romagna è rintracciabile non solo a cose legate alla cucina. Nelle parole ad esempio. In certe zone del nostro Appennino, lo ricordo ancora io, i bambini venivano chiamati “ i ninè” che è lo stesso nome che si da al piccolo del maiale, ma non era usato in senso assolutamente offensivo. Probabilmente i bambini e i maialini erano comunque un segnale positivo della provvidenza… Ma pensate anche al detto “se sant’antonio u sé innamure in tu’n porz…” (se sant’Antonio si è innamorato in un maiale) che è sempre stato il lasciapassare per qualsiasi commento su una coppia di persone che “la gente” di paese non approvava nella loro unione sentimentale. Ma tornando al nostro maiale e al suo totale utilizzo ricordiamo cosa si produce dalla macellazione di questo animale: sangue per il migliaccio, ossa da cuocere e piluccare, strutto, salsicce, salami (in quelli “buoni” della tradizione si mette ancora il sangiovese dell’ultima vendemmia), capocollo, coppe, fegatelli, coppa di testa (dove finiscono testa, ossa, cotenne, orecchie, codino, zampetti...), guanciale, lardo, ciccioli, cotechini, pancetta (cotta all’alba con la piada fritta prima di andare nei campi), mortadelle, soppressate, lonzino, stinco, braciole, costolette, cotiche... fino ad arrivare al prosciutto, quello crudo. Il premio finale. L'ultimo a mangiarsi. In tavola tutto questo si traduce in alcuni piatti tradizionali romagnoli dei quali vale la pena segnalare: i fegatelli con la rete e la salvia in graticola, i bruciatini di pancetta all’aceto (oggi solo balsamico, ma è un falso storico), l’arrosto di lombata, la polenta al ragù o alla salciccia, la porchetta, le bracioline, “e frizon” (il friggione) con la salciccia in alcune zone. Ma un ruolo molto importante, oggi ormai perduto se non in pochi “capisaldi” della ristorazione tradizionale era quello svolto dallo strutto. Per friggere, conservare salsicce, fare la piadina, non solo un ingrediente, ma il simbolo di una civiltà gastronomica che fa da cerniera tra l’Italia del Nord che utilizza il burro e quella del sud che usa invece l’olio. Chi ricorda la differenza di sapore delle patate arrosto o fritte nello strutto, tagliate grosse con rosmarino e sale grosso ? Lo strutto era utilizzato anche per certi dolci, come le castagnole, le sfrappole, per i soffritti in genere, per il salto in padella delle erbe di campo. Ricordo ancora mia madre che per lungo tempo lo ha utilizzato al posto della margarina (perché il burro per lei che aveva visto la Fame vera durante la guerra nell’appennino romagnolo, era troppo nobile) o certi parenti di mio padre, contadini, con cui da piccolo andavo a trovare che avevano sempre la padella nera vicino al fuoco con due dita di strutto pronti per i diversi momenti di alimentazione legati al ciclo di vita dei campi.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 23 novembre 2008

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