domenica 28 agosto 2011

Le grandi scelte della vita

"Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che ho trovato per aiutarmi a fare le grandi scelte della vita".

Steve Jobs

sabato 27 agosto 2011

Un morso alla mela in garage E Steve Jobs inventò il futuro

Come si riconosce un genio? Qual è il confine tra un imprenditore e un rivoluzionario, tra un produttore di oggetti e un progettista di futuro? Forse accade quando un' industria forma una cultura, un prodotto si trasforma in un' abitudine e un uomo diventa un paradigma: testa inimitabile, vicenda imprevedibile, successo irriproducibile. È il cervello che conta: i girocollo neri e i Levi' s 501 si comprano. È stato costretto a diventare un personaggio, Steven Paul Jobs. Lo è anche oggi, dopo aver lasciato il timone al fidato Tim Cook, e aver scritto - con un ottimismo che è il sale e il segno dell' America - «credo che i giorni migliori e più innovativi di Apple siano davanti a noi». Da utenti appassionati ce lo auguriamo, anche di fronte all' evidenza della malattia. Ma diciamolo: anche i giorni dietro di noi sono stati memorabili, comunque vada. Apple è nata con Steve Jobs, senza di lui era moribonda, con lui è risorta. C' era una mistica, nel marchio della mela morsicata, in cerca di un profeta. Ma l' aspetto ieratico, il carattere difficile, l' egocentrismo e gli annunci teatrali non sarebbero bastati. L' America è piena di personaggi, sceneggiature e coreografie. La differenza l' hanno fatta i prodotti. Il Macintosh, o Mac, è stato il primo personal computer di successo dotato di un mouse e di un' interfaccia grafica: le icone sostituivano i comandi digitati sulla tastiera (command-line interface, terminal emulator). Un cubo magico, una stranezza e una provocazione. Uno schermo che sorrideva, accendendosi. Venne lanciato da una pubblicità televisiva firmata da Ridley Scott, trasmessa durante il terzo quarto del Super Bowl XVIII il 22 gennaio 1984: una citazione di George Orwell, un invito a salvare l' umanità dal conformismo di IBM, e dai suoi tentativi di dominare il mondo dei computer. Ricordo l' emozione, una domenica mattina, a New York: ho visto una borsa cubica per computer, l' ho comprata e ho deciso che qualunque cosa andasse lì dentro dovesse essere geniale. Venticinque anni dopo, posso dirlo: non mi sbagliavo. Come tutti gli appassionati - una setta oggi diventata una chiesa, con i suoi conformismi - ho resistito sulla barca di Apple attraverso tutte le successive tempeste: la cacciata di Jobs, un portatile pesante e sbagliato (Macintosh Portable, 1989), un altro piccolo e fascinoso (Powerbook 140, 1991), la serie prevedibile dei Performa (1992-1997) e finalmente, con il ritorno di Steve J., l' approdo su coste sicure. Nel 1998 il momento decisivo: il coloratissimo iMac, disegnato da Jonathan Ive - lo stesso di iPod e iPhone. Più di 800.000 pezzi venduti nei primi cinque mesi, software nuovo e sorprendente (per foto e video): si avvicinava la fine del secolo e la fine dell' esperienza - eccitante, irritante - di sentirsi in minoranza. La domanda «Ma è compatibile?» (sottinteso: con i programmi Microsoft) perdeva significato. L' avvento di Internet e del protocollo IP livellava il campo. E in quel campo improvvisamente piatto, il cavallo di Steve Jobs non aveva rivali. La storia è sufficientemente nota: iTunes è del gennaio 2001, iPod dell' ottobre 2001, iPhone del 2007, iPad del 2010. Quella piccola «i» che precede i nomi è stato un grande colpo di marketing: in inglese suona come «io», e fotografa il decennio dell' autoindulgenza. Ma c' è molto di più, nell' intuizione di Jobs. Quegli oggetti sono diventati l' icona emotiva degli anni Duemila. Guardiamo un iPhone - o una delle sue molte imitazioni - e vediamo il ponte tra il passato prossimo e l' immediato futuro. La biografia dell' uomo che ha creato questo può apparire eccezionale, ma contiene diversi elementi che lo avvicinano ad altri connazionali che hanno fatto la storia. Come Barack Obama, Steve Jobs è nato da uno studente straniero e da una ragazza americana (il padre biologico era siriano, Steve venne adottato da Paul and Clara Jobs, genitori di grande cuore e pochi mezzi). Come il coetaneo Bill Gates - entrambi del 1955, ambedue esordienti nel garage di casa - SJ s' è rivelato un fallimento accademico. Bill ha lasciato Harvard, dopo essersi distinto nel calcolo e nel poker; Steve ha mollato Reed College (Portland, Oregon) dopo un solo semestre, ma ha continuato a frequentare i corsi che gli interessavano, mentre riciclava bottiglie di Coca-Cola a 5¢ per guadagnarsi da vivere. Uno in particolare: quello di calligrafia, che anni dopo gli avrebbe suggerito di dotare il Mac di una grafica rivoluzionaria, prontamente imitata da Microsoft e da tutti gli altri. «Unire i puntini», dice ora SJ con insolita modestia. Sia chiaro: l' uomo, per quanto brillante, non ha l' esclusiva dell' intuizione e dell' innovazione. Ci sono stati - nello stesso Paese, nella stessa industria - fuoriclasse prima di lui e dopo di lui (Intel, Microsoft, Amazon, Google, Facebook e Twitter ne sono la prova). La capacità di Jobs è stata quella di trasformare una fantasia in un prodotto. Non tutti se la sentono. Tredici anni fa, in un' intervista per il «Corriere della Sera», Bill Gates mi ha detto: «Io do per scontato l' avvento di una grossa novità: una tavoletta portatile che ha una risoluzione tale che ci permetterà di leggerla a letto e di tenerla nella borsa». Però iPad non l' ha fatto Microsoft. L' hanno fatto Apple e Steve Jobs. Una qualità che è di pochi: essere profondamente contemporanei e, insieme, sempre un poco avanti. Saper sognare e, con la stessa baldanza, reagire alla distruzione dei sogni. Il fallimento in America non è un marchio d' infamia: vuol dire, come minimo, averci provato. Cacciato dalla Apple - «la cosa migliore che mi sia capitata nella vita» - il trentenne Steve ha fondato Pixar, e Pixar ha creato Toy Story, il primo film di animazione creato da un computer. Nella sua autobiografia, John Sculley, l' ex dirigente della PepsiCo che estromise Jobs nel 1985, ridicoleggiava così le ambizioni del rivale: «Per lui Apple avrebbe dovuto diventare una meravigliosa società di prodotti di largo consumo. Un progetto lunatico. L' high-tech non può essere progettata e venduta come un prodotto di consumo». How wrong can you be, ma quanto ci si può sbagliare, ha scritto il «Financial Times», commentando l' infelicissima profezia. Steve Jobs è certamente un vincitore: non un uomo mite. È un personaggio che ha inventato il futuro, come recita il titolo della biografia scritta da Jay Elliott, ex vicepresidente esecutivo Apple, con William L. Simon (Hoepli, 2011). Un uomo consapevole del suo valore, e poco disposto alle critiche: Apple Store rifiutò una biografia poco rispettosa (poi riammessa). La rivista «Fortune» ha scritto nel 2007: «Steve Jobs è considerato uno dei principali egomaniaci della Silicon Valley». Il co-fondatore di NeXt, Dan' l Lewin, ricorda così il lavoro insieme, negli anni Ottanta: «Alti e bassi. Gli alti erano incredibili, ma i bassi erano inimmaginabili». L' ufficio di Jobs ha risposto: «Il suo carattere è cambiato, da allora». Cambiato, certo: ma nessuno sembra sapere esattamente come fosse, e cosa sia diventato. Si favoleggia di una relazione giovanile con Joan Baez - meritevole di aver amato Bob Dylan. Si cita spesso una passione per i Beatles, indicati come modello di business («Erano quattro ragazzi che tenevano sotto controllo le reciproche tendenze negative, si equilibravano a vicenda. E il totale era più grande della somma delle parti»). Come tutti i miliardari americani Jobs ha acquistato case a New York che non ha abitato, guida Mercedes senza targa e coltiva curiose abitudine alimentari: è un «pescetariano», solo pesce niente carne. Dettagli. Tre anni fa, il 28 agosto 2008, Bloomberg ha pubblicato per sbaglio il suo necrologio, con tanto di spazi bianchi per la data e la causa di morte. Steve ha risposto con umorismo, citando Mark Twain: «Reports of my death are greatly exaggerated», le notizie sulla mia morte sono notevolmente esagerate. Ma da allora non ha più risposto a domande sulla salute. «Nessuno vuol morire», ha detto anni fa. «Anche quelli che sono sicuri di andare in paradiso non hanno alcuna fretta». Dev' essere ben strano per lui lasciare il comando mentre Apple vale in Borsa quanto le 32 maggiori banche europee. «Un piccolo capolavoro» l' ha definito ieri Luca Annunziata su «Punto Informatico»: «Steve Jobs sembra riuscito a trasformare anche le sue dimissioni da Ceo di Apple in un momento topico e nodale dell' esistenza dell' azienda che ha contribuito a plasmare, rilanciare, che ha portato al successo. Jobs lascia in un momento critico dell' economia globale, in cui le Borse faticano e la sua azienda nonostante tutto tiene e guadagna». Così è: l' uomo non finisce di sorprendere. Il 12 giugno 2005 Steve Jobs ha parlato ai laureati di Stanford. In quel «commencement address» - noi lo chiameremmo pomposamente lectio magistralis - ha spiegato la sua filosofia di vita e di lavoro, e ha parlato della malattia con un ottimismo che - a distanza di sei anni, un trapianto e molte ansie - appare commovente. Un discorso di quindici minuti, che consigliamo di ascoltare in Rete: «They only way to do great work is to love what you do. If you haven' t found it yet, keep looking, and don' t settle», l' unico modo di fare un grande lavoro è amare quello che fate. Se non l' avete ancora trovato, continuate a cercare, e non accontentatevi. Come consiglio di un egocentrico, sembra abbastanza visionario.

Beppe Severgnini

mercoledì 24 agosto 2011

1961: Cento anni benedetti dal "miracolo"


Per indicare un momento in cui mi sono sentito particolarmente orgoglioso di essere italiano, al di là di un naturale amor di patria, devo riandare con la memoria molto indietro nel tempo, e precisamente al 1961. Allora era certo che nel nostro Paese stesse manifestandosi una felice "congiunzione degli astri" fra la rinata democrazia, lo sviluppo economico e la modernizzazione sociale.
È vero che una città come Torino si prestava a questo genere di convinzione, sia per le sue tradizioni politiche sia per i tangibili effetti del "miracolo economico" e di un'incipiente ventata di benessere. Tuttavia, da studioso di storia economica, avevo sotto gli occhi una serie di dati anche su altre località, da cui si deduceva che era in corso, sia pur senza le medesime cadenze che nel "triangolo industriale", un'evoluzione caratterizzata sostanzialmente dagli stessi fattori propulsivi.

L'Italia stava dunque compiendo notevoli progressi, dopo le disastrose conseguenze della guerra. E ciò stava a indicare come la società italiana avesse in fondo una robusta capacità collettiva di resistere alle avversità e un'altrettanta vigorosa capacità di rimettersi in gioco. D'altronde, era quanto avevo constatato di persona avendo vissuto, durante la mia adolescenza, gli anni bui della guerra, fra tanti lutti e sofferenze, e poi quelli dell'immediato dopoguerra, fra molte privazioni e apprensioni per il futuro.
In pratica, nel 1961, quello che appena quindici anni prima era un Paese prostrato e avvilito, appariva risorto a nuova vita, in corsa per ridurre il divario abissale d'un tempo dai Paesi più avanzati, e aveva riacquistato inoltre rispettabilità in sede internazionale, essendo tra i fondatori della Comunità europea.
Il fatto che il nostro Paese avesse abbracciato la causa europeista era un ulteriore motivo del mio ottimismo. Anche perché si sarebbero così cicatrizzate certe brucianti ferite provocate dalla guerra. Ricordavo infatti l'amarezza provata nel 1946, da ragazzo, durante una gita in Francia con alcuni miei coetanei, dinanzi all'atteggiamento sprezzante dei francesi che avevamo avvicinato, tutt'altro che disposti a dimenticare la vergognosa "pugnalata" inferta dall'Italia fascista al loro Paese già sconfitto e invaso dalla Germania nazista. 
Fortunatamente, ben diversa era stata poi l'atmosfera, in quanto segnata dalla condivisione degli stessi ideali sul futuro della nuova Europa comunitaria, che aveva caratterizzato il mio incontro, nel corso di un'iniziativa promossa nell'estate del 1958 dalla Stampa, con una rappresentanza di studenti universitari francesi, tedeschi, belgi e olandesi. In quell'occasione erano presenti anche degli inglesi, dato che tutti noi auspicavamo che la Gran Bretagna aderisse presto alla Cee.
Insomma, nel corso del 1961, tanti buoni motivi m'inducevano a nutrire un forte senso di orgoglio e fiducia nel mio Paese, pur nella consapevolezza dei numerosi problemi rimasti irrisolti. D'altra parte, nella ricorrenza del primo centenario dell'Unità nazionale, ero portato a riconoscere, senza per questo indulgere alla retorica, come fosse stata un'impresa storica straordinaria, considerate le difficoltà obiettive in cui era avvenuta, quella conclusasi con l'indipendenza e la costituzione di uno Stato unitario. Tanto più che, essendo fra i collaboratori della Mostra storica dedicata, nelle sale di Palazzo Carignano, alla rievocazione del Risorgimento, mi ero trovato a rivivere quegli eventi, per così dire in "presa diretta", attraverso la raccolta e la consultazione di alcuni significativi documenti dell'epoca.
In quelle stesse settimane avevo avuto modo di prendere visione, con un salto nel tempo di cent'anni, delle più recenti realizzazioni del nostro Paese messe in vetrina nell'Esposizione Internazionale di "Italia '61", inaugurata ai primi di maggio. Il giudizio lusinghiero che ne avevo riportato era dovuto anche al fatto che l'allestimento dei vari padiglioni fosse opera dei nomi più prestigiosi dell'architettura italiana. In particolare, notevole ammirazione riscuotevano il Palazzo del Lavoro, firmato da Pier Luigi Nervi, un gigantesco parallelepipedo con 16 ombrelli metallici e pilastri alti più di 20 metri, e un autentico gioiello come il Palazzo a Vela, in cemento armato ma dall'aspetto quasi etereo.
Un ultimo motivo, ma certo non secondario, che m'induceva a confidare nel futuro del nostro Paese, era il convincimento che si sarebbe rafforzato il senso di appartenenza e d'identità nazionale degli italiani, incontrandosi e conoscendosi non più nei campi di battaglia. A Torino e nella sua "cintura" stava infatti affluendo, in cerca di lavoro e di una sorte migliore, una massa d'immigrati. Nel 1961 erano approdate più di 60mila persone, provenienti in gran parte dal Sud; e nel biennio successivo questo fenomeno avrebbe assunto dimensioni ancora più imponenti.
Beninteso, non credevo che sarebbe subito avvenuta un'integrazione dei nuovi arrivati. Ma nell'ambiente culturale torinese, di orientamenti liberal-progressisti, che frequentavo, prevaleva l'opinione che istituzioni pubbliche, scuola e giornali avrebbero assecondato una civile convivenza fra piemontesi e meridionali. In realtà, a favorire gradualmente un clima di comprensione e solidarietà fra due differenti universi fu soprattutto l'esperienza comune di lavoro maturata in fabbrica, nell'ambito di un'organizzazione fordista della produzione che, non solo alla Fiat, stava livellando anche le mansioni dell'"aristocrazia operaia" torinese d'un tempo. Il resto, lo fecero le parrocchie nella vita collettiva dei quartieri.
In sostanza, il motivo preminente della mia fierezza di allora, quale cittadino italiano, e della mia profonda fiducia nell'avvenire, analoga d'altronde a quella di molti miei coetanei, consisteva per lo più nell'importanza cruciale che attribuivamo alla nuova vocazione industrialista del nostro Paese e alle sue proiezioni modernizzatrici. Ritenevamo che il mondo dell'impresa e del lavoro, purché convogliato su traiettorie più dinamiche, e con un valido modello di relazioni industriali (come quello olivettiano), avrebbe svolto una funzione demiurgica: avrebbe potuto trasformare non solo l'economia ma la società italiana eliminando man mano il dualismo fra Nord e Sud, e creando nuove risorse per il progresso civile e la copertura di esigenze di carattere collettivo. E credevano che in tal modo si sarebbero anche rafforzate le fondamenta del sistema democratico e ampliati i diritti di cittadinanza sociale.
D'altronde, si era alla vigilia della svolta verso il centro-sinistra, avallata - così si pensava - dalla nuova America di Kennedy. E molte aspettative suscitava l'idea di una programmazione che coniugasse keynesismo e Welfare con una "politica dei redditi". Più tardi, si dirà che si trattava di un "libro dei sogni".
Eppure, a ripensarci adesso, il fatto che allora credessimo, in tanti della mia generazione, nella validità di una strategia riformista "lib-lab", quale strada maestra per il futuro del nostro Paese, non era un peccato di gioventù. Poiché essa si ripropone, sia pur con le debite varianti, ai giorni nostri.
I SENTIMENTI

L'ORGOGLIO
1. L'esistenza di un grande patrimonio artistico e culturale2. Il capitale di creatività e di saperi pratici delle Pmi3. Il forte legame con l'Europa comunitaria4. L'opera dei nostri militari all'estero nelle missioni di pace e per la sicurezza internazionale
5. Lo sviluppo negli ultimi anni del volontariato e dei sodalizi di assistenza sociale
VERGOGNA 1. La morsa persistente della criminalità organizzata2. Le larghe sacche di evasione fiscale3. Le inefficienze e disfunzioni dell'amministrazione pubblica4. L'eccessiva e paralizzante litigiosità della classe politica
5. Lo scarso senso civico e la deturpazione dell'ambiente
CORREVA L'ANNO
1961
17 marzoCentenario dell'Unità d'Italia 
Le celebrazioni si svolgono in numerose città italiane, grandi e piccole: il fulcro delle manifestazioni è però Torino, città simbolo del «miracolo italiano», sede della proclamazione del Regno d'Italia nel 1861 e prima capitale, con tre rassegne: la «Mostra storica dell'Unità d'Italia», la «Mostra delle regioni italiane» e la «Mostra internazionale del lavoro»
12 aprileYuri Gagarin primo uomo nello spazio 
Ore 9,07: all'interno della navicella Vostok 1, del peso di 4,7 tonnellate, il maggiore Jurij Gagarin, 27 anni da poco compiuti, inizia il primo volo spaziale della storia con equipaggio umano. Compie un'intera orbita ellittica attorno alla Terra, raggiungendo un'altitudine massima di 302 km e una minima di 175 km, viaggiando alla velocità di 27.400 km/h
15 maggioEsce l'enciclica «Mater et magistra» 
Papa Giovanni XXIII riprende e amplia il tradizionale insegnamento della Chiesa in ordine ai problemi sociali: di particolare interesse è la riaffermazione del valore della persona e della libertà economica, ma insieme della completa liceità della tendenza alla socializzazione, purché venga attuata nel rispetto dei diritti della persona
11/12 giugno«Notte dei fuochi» in Alto Adige 
Un'impressionante serie di attentati scuote l'Alto Adige nella notte: un gruppo di terroristi altoatesini di lingua tedesca, aderenti al «Befreiungsausschuss Südtirol», fa scoppiare la prima bomba nel centro di Bolzano; seguono nelle due ore successive altre 46 esplosioni, che abbattono decine di tralicci dell'alta tensione
13 agostoInizia la costruzione del Muro di Berlino 
Eretto dal Governo comunista della Germania Est, che lo chiamò «Barriera di protezione antifascista», il Muro divise in due la città di Berlino per 28 anni, fino al suo crollo avvenuto il 9 novembre 1989. Durante questi anni furono uccise dalle guardie comuniste almeno 133 persone mentre cercavano di fuggire verso Berlino Ovest
Valerio Castronovo

lunedì 22 agosto 2011

Il linguaggio della verità

Colgo in questo incontro, nella sua continuità con l'ispirazione originaria e la peculiare tradizione del Meeting di Rimini, l'occasione per ridare respiro storico e ideale al dibattito nazionale. Perché è un fatto che ormai da settimane, da quando l'Italia e il suo debito pubblico sono stati investiti da una dura crisi di fiducia e da pesanti scosse e rischi sui mercati finanziari, siamo immersi in un angoscioso presente, nell'ansia del giorno dopo, in un'obbligata e concitata ricerca di risposte urgenti. A simili condizionamenti, e al dovere di decisioni immediate, non si può naturalmente sfuggire. Ma non troveremo vie d'uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro. Ringrazio perciò voi che ci sollecitate a farlo.

D'altronde, anche nel celebrare il Centocinquantenario dell'Unità, abbiamo teso a tracciare un filo che congiungesse il passato storico, complesso e ricco di insegnamenti, il problematico presente e il possibile futuro dell'Italia. Ci siamo provati a tessere quel filo muovendo da quale punto di partenza ? Dal sentimento che si doveva e poteva suscitare innanzitutto un moto di riappropriazione diffusa - da parte delle istituzioni e dei cittadini - delle vicende e del significato del processo unitario. Si doveva recuperare quel che da decenni si era venuto smarrendo - negli itinerari dell'educazione, della comunicazione, della discussione pubblica, della partecipazione politica - di memoria storica, di consapevolezza individuale e collettiva del nostro divenire come nazione, del nostro nascere come Stato unitario. E a dispetto di tanti scetticismi e sordità, abbiamo potuto, nel giro di un anno, vedere come ci fosse da far leva su uno straordinario patrimonio di sensibilità, interesse culturale e morale, disponibilità a esprimersi e impegnarsi, soprattutto tra i giovani. Abbiamo visto come fosse possibile suscitare quel "moto di riappropriazione" di cui parlavo : e non solo dall'alto, ma dal basso, attraverso il fiorire, nelle scuole, nelle comunità locali, nelle associazioni, di una miriade di iniziative per il Centocinquantenario. Lo sforzo è dunque riuscito, e rendo merito a tutti coloro che ci hanno creduto e vi hanno contribuito.

Ma "l'esame di coscienza collettivo" che avevamo auspicato in occasione di una così significativa ricorrenza, non poteva rimanere limitato al travaglio vissuto per conseguire l'unificazione, e alle modalità che caratterizzarono il configurarsi del nostro Stato nazionale. Esso doveva abbracciare - e ha in effetti abbracciato - il lungo percorso successivo, dal 1861 al 2011 : in quale chiave farlo, e per trarne quali impulsi, lo abbiamo detto, il 17 marzo scorso, con le parole che l'on. Lupi ha voluto ricordare.

Si, con le celebrazioni del Centocinquantenario ci si è impegnati a trarre, senza ricorrere ad alcuna forzatura o enfasi retorica, ragioni di orgoglio e di fiducia da un'esperienza di storico avanzamento e progresso della società italiana, anche se tra tanti alti e bassi, tragiche deviazioni pagate a carissimo prezzo, e dure, faticose riprese. Ma perché abbiamo insistito tanto sulle prove che l'Italia unita ha superato, sulla capacità che ha dimostrato di non perdersi, di non declinare, né dopo l'emorragia e le conseguenze traumatiche di una guerra pure vinta, né dopo la vergogna di una guerra d'aggressione e l'umiliazione di una sconfitta, e quindi di fronte all'eredità del fascismo e alla sfida del ricostruire il paese nella democrazia ? Perché abbiamo sottolineato come l'Italia abbia poi saputo attraversare le tensioni della guerra fredda restando salda nelle sue fondamenta unitarie e democratiche e infine reggere con successo ad attacchi mortali allo Stato e alla convivenza civile come quello del terrorismo?

Ebbene, abbiamo insistito tanto, e con pieno fondamento, su quel che l'Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato, e sulle grandi riserve di risorse umane e morali, d'intelligenza e di lavoro di cui disponiamo, perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto.

Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l'Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo carico di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile. Nel messaggio di fine anno 2008, in presenza di una crisi finanziaria che dagli Stati Uniti si propagava all'Europa e minacciava l'intera economia mondiale, dissi - riecheggiando le famose parole del Presidente Roosevelt, appena eletto nel 1932 - "l'unica cosa di cui aver paura è la paura stessa". Ma dinanzi a fatti così inquietanti, dinanzi a crisi gravi, bisogna parlare - e voglio ripeterlo oggi qui, rivolgendomi ai giovani - il linguaggio della verità : perché esso "non induce al pessimismo, ma sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza".

Abbiamo, noi qui, in Italia, parlato in questi tre anni il linguaggio della verità ? Lo abbiamo fatto abbastanza, tutti noi che abbiamo responsabilità nelle istituzioni, nella società, nelle famiglie, nei rapporti con le giovani generazioni ? Stiamo attenti, dare fiducia non significa alimentare illusioni ; non si da fiducia e non si suscitano le reazioni necessarie, minimizzando o sdrammatizzando i nodi critici della realtà, ma guardandovi in faccia con intelligenza e con coraggio. Il coraggio della speranza, della volontà e dell'impegno. Dell'impegno operoso e sapiente, fatto di spirito di sacrificio e di massimo slancio creativo e innovativo.

Impegno che non può venire o essere promosso solo dallo Stato, ma che sia espresso dalle persone, dalle comunità locali, dai corpi intermedi, secondo quella concezione e logica di sussidiarietà, che come ha sottolineato il Presidente Vittadini e come documenta la Mostra presentata a questo Meeting, ha fatto, di una straordinaria diffusione di attività imprenditoriali e sociali e di risposte ai bisogni comuni costruite dal basso, un motore decisivo per la ricostruzione e il cambiamento del nostro Paese.

Si può ben invocare oggi una simile mobilitazione, egualmente differenziata e condivisa, se si rende chiaro quale sia la posta in giuoco per l'Italia : in sostanza, ridare vigore e continuità allo sviluppo economico, sociale e civile, far ripartire la crescita in condizioni di stabilità finanziaria, non rischiando di perdere via via terreno in seno all'Europa e nella competizione globale, di vedere frustrate energie e potenzialità ben presenti e visibili nel Paese, di lasciare insoddisfatte esigenze e aspettative popolari e giovanili e di lasciar aggravare contraddizioni, squilibri, tensioni di fondo.

Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall'interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d'urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.

Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell'importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all'altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.

Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E' da vent'anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent'anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent'anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

La recente pubblicazione di una lunga accurata ricerca sull'evoluzione del benessere degli italiani dall'Unità a oggi, ci consente di apprezzare pienamente il consuntivo - superiore a ogni immaginabile previsione iniziale - del prodigioso balzo in avanti compiuto dall'economia e dalla società nazionale dopo l'Unità e in special modo grazie all'accelerazione prodottasi nel trentennio seguito alla seconda guerra mondiale. Ma se i dati reali smentiscono i detrattori dell'unificazione, è innegabile che il divario tra Nord e Sud è rimasto una tara profonda, non è mai apparso avviato a un effettivo superamento ; e venendo a tempi più recenti è un fatto che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto, e lo stesso può dirsi per il tasso di povertà.

Si impone perciò un'autentica svolta : per rilanciare una crescita di tutto il paese - Nord e Sud insieme ; una crescita meno diseguale, che garantisca una più giusta distribuzione del reddito ; una crescita ispirata a una nuova visione e misurazione del progresso, cui si sta lavorando ormai da anni, su cui si sta riflettendo in qualificate sedi internazionali. Al di là del PIL, come misura della produzione, e senza pretendere di sostituirlo con una problematica "misura della felicità", in quelle sedi si è richiamata l'attenzione su altri fattori : "è certamente vero che, nel determinare il benessere delle persone, gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme a essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana". E' a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni, quelle già presenti sulla scena della vita e quelle future, potranno - in Italia e in Europa, in un mondo così trasformato - aspirare a progredire rispetto alle generazioni dei padri come è accaduto nel passato. La risposta è che esse possono aspirare e devono tendere a progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il motore del "desiderio".

Sia chiaro, la situazione attuale di carenza di possibilità di lavoro, di disoccupazione e di esclusione per quote così larghe della popolazione giovanile, impone che si parta dal concreto di politiche per il rilancio della crescita produttiva, di più forti investimenti e di più efficaci orientamenti per la formazione e la ricerca, di più valide misure per l'inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Ma si deve puntare a una visione più complessiva e avanzata degli orizzonti di lungo termine : e chi, se non voi, può farlo ?

Quell'autentica svolta che oggi s'impone passa, naturalmente, attraverso il sentiero stretto di un recupero di affidabilità dell'Italia, in primo luogo del suo debito pubblico. E qui non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee, come dicono alcuni, forse troppi. Si tratta di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo ; ho detto e ripeto che lasciare quell'abnorme fardello del debito pubblico sulle spalle delle generazioni più giovani e di quelle future significherebbe macchiarci di una vera e propria colpa storica e morale. Faccia dunque ora il Parlamento le scelte migliori, attraverso un confronto davvero aperto e serio, e le faccia con la massima equità come condizione di accettabilità e realizzabilità.

Anche al di là della manovra oggi in discussione, e guardando alla riforma fiscale che si annuncia, occorre un impegno categorico ; basta con assuefazioni e debolezze nella lotta a quell'evasione di cui l'Italia ha ancora il triste primato, nonostante apprezzabili ma troppo graduali e parziali risultati. E' una stortura, dal punto di vista economico, legale e morale, divenuta intollerabile, da colpire senza esitare a ricorrere ad alcuno dei mezzi di accertamento e di intervento possibili.

L'Italia è chiamata a recuperare affidabilità non solo sul piano dei suoi conti pubblici, sul piano della cultura della stabilità finanziaria, ma anche e nello stesso tempo sul piano della sua capacità di tornare a crescere più intensamente. E questo è anche il contributo che come grande paese europeo siamo chiamati a dare dinanzi al rallentamento dello sviluppo mondiale, al rischio o al panico - fosse pure solo panico - di una possibile onda recessiva. In questo quadro, è importante che l'Italia riesca ad avere più voce, in termini propositivi e assertivi, nel concerto europeo. Che da un lato appare troppo condizionato da iniziative unilaterali, di singoli governi, fuori dalle sedi collegiali e dal metodo comunitario ; dall'altro troppo esitante sulla via di un'integrazione responsabile e solidale, lungo la quale concorrere anche alla ridefinizione di una governance globale, le cui regole valgano a temperare le reazioni dei mercati finanziari.

Una svolta capace di rilanciare la crescita e il ruolo dell'Italia implica riforme : dopo l'avvio, in senso federalista, della concreta attuazione del Titolo V della Carta, riforme del quadro istituzionale e dei processi decisionali, delle pubbliche amministrazioni, di assetti e di rapporti economici finora non liberalizzati, di assetti inadeguati anche del mercato del lavoro. Ma non starò certo a riproporre un elenco già noto : mi piace solo notare come in queste settimane, sospinto da alcuni impulsi generosi, si stia prospettando in una luce più positiva il tema della riforma - in funzione solo dell'interesse nazionale - e del concreto funzionamento della giustizia. Anche perché alla visione del diritto e della giustizia sancita in Costituzione repugna la condizione attuale delle carceri e dei detenuti.

Comunque, più che ripetere un elenco di impegni o di obbiettivi, vorrei rispondere alla domanda se sia possibile realizzare, com'è indubbiamente necessario, riforme di quella natura su basi largamente condivise. E', in sostanza, parte della stessa domanda postami in termini più generali da Eleonora Bonizzato e da Enrico Figini. Ai quali dico innanzitutto che ho molto apprezzato il metodo seminariale col quale, insieme con molti altri studenti, hanno esplorato i temi della Mostra dedicata al Centocinquantenario e in modo particolare l'esperienza della straordinaria stagione dell'Assemblea costituente, non abbastanza studiata nelle nostre scuole e Università.

E' possibile, mi si chiede, che si riproduca quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune ? La mia risposta è che può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica, morale e materiale del nostro Paese dopo la Liberazione dal nazifascismo. I contesti storici sono, certo, completamente diversi ; la storia, nel male e nel bene, non si ripete. Ma la storia che abbiamo vissuto in 150 anni di Unità, nei suoi momenti migliori, come quando sapemmo rialzarci da tremende cadute e poi evitare fatali vicoli ciechi, racchiude il DNA della nazione. E quello non si è disperso, e non può disperdersi. I valori che voi testimoniate ce lo dicono ; ce lo dicono le tante espressioni, che io accolgo in Quirinale, dell'Italia dell'impegno civile e della solidarietà, dell'associazionismo laico e cattolico, di molteplici forme di cooperazione disinteressata e generosa. E, perché si creino le condizioni di un rinnovato slancio che attraversi la società in uno spirito di operosa sussidiarietà, contiamo anche sulle risorse che scaturiscono dalla costante, fruttuosa ricerca di "giuste forme di collaborazione" - secondo le parole di Benedetto XVI - "fra la comunità civile e quella religiosa".

Ma potrà anche l'apporto insostituibile della politica e dello Stato manifestarsi in modo da rendere possibile il superamento delle criticità e delle sfide che oggi stringono l'Italia ? Ci sono momenti in cui - diciamolo pure - si può disperarne. Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l'incalzare degli eventi, delle sollecitazioni che crescono all'interno e vengono dall'esterno del Paese. Il prezzo che si paga per il prevalere - nella sfera della politica - di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile. Una cosa è credere nella democrazia dell'alternanza ; altra cosa è lasciarla degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale. Ci fa riflettere anche quel che accade nel grande paese che è stato, con le sue peculiarità istituzionali, il luogo storico di una democrazia dell'alternanza capace di far fronte alle responsabilità anche di un determinante ruolo mondiale. Negli Stati Uniti vediamo appunto come, nell'attuale critico momento, il radicalizzarsi dello spirito partigiano e della contrapposizione tra schieramenti orientati storicamente a competere ma anche a convergere, stia provocando danni assai gravi per l'America e per il mondo, in una congiuntura difficile pure per quella causa della pace, dei diritti umani, dell'amicizia tra i popoli - si pensi alla tragedia del Corno d'Africa - che è iscritta nella stessa ragion d'essere del vostro Meeting.

Qui in Italia, va perciò valorizzato ogni sforzo di disgelo e di dialogo, come quello espressosi nella nascita e nelle iniziative, cari amici Lupi e Letta, dell'Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Ma bisogna andare molto oltre, e rapidamente. Spetta anche a voi, giovani, operare, premere in questo senso : e predisporvi a fare la vostra parte impegnandovi nell'attività politica. C'è bisogno di nuove leve e di nuovi apporti. Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni : chiusure, arroccamenti, faziosità, obbiettivi di potere, e anche personalismi dilaganti in seno ad ogni parte. Portate nell'impegno politico le vostre motivazioni spirituali, morali, sociali, il vostro senso del bene comune, il vostro attaccamento ai principi e valori della Costituzione e alle istituzioni repubblicane: apritevi così all'incontro con interlocutori rappresentativi di altre, diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell'incertezza, il vostro anelito di certezza. E' per tutto questo che rappresentate, come ha detto nel modo più semplice la professoressa Guarnieri, "una risorsa umana per il nostro paese". Ebbene, fatela valere ancora di più : è il mio augurio e il mio incitamento.

Giorgio Napolitano

venerdì 19 agosto 2011

L'economia sia etica

"...si conferma nella crisi attuale quanto e' già apparso nella precedente: l'economia ha bisogno di etica, che ne e' una dimensione interiore e fondamentale; al centro dev'esserci l'uomo perché l'economia non funziona solo con una autoregolamentazione meracntile n'è si deve misurare secondo il massimo profitto, ma secondo il bene di tutti..."

Papa Benedetto XVI, riprendendo i temi dell'enciclica Caritas in Veritate a Madrid

mercoledì 17 agosto 2011

Sara' il caffè ...

“Un caffé macchiato per favore, grazie” chiede la signora alla barista nell’unico locale del centro commerciale dove si puó bere la nera bevanda…
“Dal 1906 il caffé é la nostra passione”, afferma sentimentalmente la scritta sui mobili coloniali voluti da un imprenditore fantasioso, studiati da un bravo architetto, disegnati da un volenteroso grafico, costruiti da un caparbio artigiano, montando pezzi prodotti da un preoccupato operaio…
Ognuno con il suo carico di felicità e dolori, ognuno che crede che comunque qualcosa c’é da fare per tenere la barra della propria esistenza a dritta.
Magari non é sempre la cosa più bella del mondo e bisogna abbozzare fino a quando non migliora… ma fin qui tutti ci hanno creduto. E hanno fatto la loro parte.
Hanno dovuto fare e affidare al prossimo anello la loro speranza.
Il loro messaggio in bottiglia.
In cambio qualcosa per realizzare i propri sogni. Dal pane al viaggio, dalla casa al casinó.
Che poi per tutti uguale, si sa, non é.
Ma questo, per ora, é il gioco migliore che ci siamo inventati.
Hanno tutti dovuto o voluto fare come il contadino che, spezzato, ha piantato il caffè, il commerciante che lo ha trasportato, il distributore, il camionista, il magazziniere… ma quanta gente c’é dietro una tazzina di caffé macchiato servita?
“Un caffé macchiato per favore, grazie”.
Una tazzina di plastica ballonzola gettata come un dado sul bel bancone dell’unico bar del centro commerciale.
“Mi perdoni”, dice gentile la signora, ” potrebbe per favore metterlo in una tazzina di ceramica”?
Sono lì, in bella mostra. Fanno parte della scena che qualcuno ha pensato per rendere gradevole quella sosta.
Dovrebbero essere usate per fare contenta la signora e coronare una impresa che ha visto mille mani passarsi il testimone per finire bene… con una signora felice di bersi con calma un caffè e pagare il giusto.
“Queste sono le tazzine che ci passano, se le va bene… sennó… lo beve da un’altra parte…”
La barista ha parlato e ha chiuso la partita. Chissá perchè questa piccola cattiveria. Chissà perche lei non ci ha creduto. Chissà dove è diretta…
La signora la guarda un pó triste, si caccia in gola quel caffé e se ne va mormorando un rosario di lamentele.
Fracassando la catena, il patto tacito, l’accordo che doveva chiudersi con un sorriso per tutti.
Un anello debole. Ne basta uno. E tutta la catena cede.
Sembra perdere solo la signora.
Quando succedono queste cose perdiamo tutti.
Un po’ di lavoro, un po’ di soldi, un po’ di cuore, un po’ di anima.
Sará il momento.
Sará il caffè.

Sebastiano Zanolli

martedì 16 agosto 2011

Evasione, una battaglia persa in partenza

Chissà in quanti porticcioli estivi un dirigente d’azienda, furioso per le tre annate di «contributo di solidarietà» che gli toccherà pagare, osserva dal suo gommone il motoscafo assai più grande del libero professionista. Si domanda se per caso quello là dal nuovo tributo non sia esente, perché dichiara meno di 90.000 euro. Ancor più sospetterà che l’enorme yacht più oltre, di cui si ignora la vera proprietà, faccia capo a un nullatenente o a uno «scudato». Attorno alle tavole di questo Ferragosto di maxi-manovra, si discorrerà inevitabilmente di evasione fiscale. Torneranno argomenti che, a fasi alterne, si ascoltano da decenni; soltanto più arrabbiati. Paghino per primi gli evasori! Il guaio è che gli evasori sono sempre gli altri. Qualcun altro da accusare si trova sempre, in un Paese dove, secondo stime ragionevoli, ogni cento persone ci sono duecentomila euro sottratti al fisco (scagli la prima pietra chi non ha tralasciato mai di chiedere al ristorante la ricevuta). Né si può addossare tutta la colpa alla «casta». Se quasi tutti i politici sono convinti - , beninteso che a combattere sul serio l’evasione tributaria si perdano le elezioni, qualche ragione ci sarà. Quante promesse di condonare multe si sono ascoltate prima delle ultime elezioni comunali? E l’altro giorno inveiva ancora contro Equitalia Umberto Bossi, pur convinto che i sacrifici si debbano fare. Sembra uno dei peggiori circoli viziosi in cui l’Italia è riuscita a cacciarsi. I lavoratori autonomi, che pagano autotassandosi, sono il 25% circa del Paese. Come quota sulla popolazione, è il doppio che in Germania; più del triplo degli Stati Uniti, che pure, come tutti sanno, sono il luogo più propizio alla libera impresa.

Su un quarto degli elettori dunque non si può infierire all’ingrosso. Sono tanti, e non tutti se la passano bene. Ma forse sono così tanti perché si è sempre chiuso un occhio su quante tasse pagano. Da stime abbastanza attendibili parrebbe che il commerciante e l’artigiano medi nascondano al fisco circa la metà dei guadagni, il professionista un terzo. Naturalmente sono tanti anche gli onesti; chi fattura soprattutto per il settore pubblico o per grandi imprese lo è per forza. In una economia con vaste aree di sommerso o di illegalità, per alcuni l’evasione è una maniera di sopravvivere (sono da sempre rarissimi gli idraulici che emettono fatture, ma ora li incalza la concorrenza degli idraulici immigrati, che costano meno). Nell’insieme, purtroppo, l’evasione favorisce le imprese meno efficienti; le spinge a restare piccole, per continuare a sfuggire al fisco. Ha quindi a che fare con il ristagno della produttività che affligge l’economia italiana. Perfino se il pericolo incombe risulta difficile agire. Nell’ottobre 1992, quando il Tesoro rischiava di non poter pagare gli stipendi perché nessuno comprava i Bot, infuriava la protesta contro la norma che imponeva ai titolari di impresa minore di dichiarare redditi almeno pari a quelli dei loro dipendenti. Alla guida della lotta c’era un tal Sergio Billé, poi presidente della Confcommercio travolto da uno scandalo, mesi fa condannato a tre anni per corruzione. La minimum tax (termine che negli Usa indica tutt’altro) di allora era una norma rozza, ma fin dall’inizio presentata come temporanea, giustificata con i rischi che correva il Paese. Fu invece letale per il consenso alla Democrazia cristiana. Venne anche da lì, un anno dopo, la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, che fino alla campagna elettorale del 2008 l’evasione l’ha a volte giustificata. Tuttavia combattere la frode fiscale non è impossibile. Lo dimostra anche l’esperienza recente. Nella fase iniziale dell’attuale legislatura, quando nel 2008 furono abrogate misure del governo precedente definite «poliziesche», l’evasione è cresciuta (secondo l’indice ritenuto dagli esperti più significativo, il rapporto fra Iva interna e Pil). Dopo che, a partire dall’autunno 2009, Giulio Tremonti ha a poco a poco cambiato strada, il recupero di entrate non è mancato. E’ possibile andare avanti senza vessare nessuno con troppe pratiche o controlli pignoli, soprattutto con la trasparenza: tracciabilità dei pagamenti, elenchi dei clienti e dei fornitori, e, come avviene in quasi tutti gli altri Paesi, accesso del fisco ai conti bancari.

giovedì 11 agosto 2011

Etica e Impresa

Un buon comportamento Etico deve basassi sulla coesistenza dei due poli. Da un lato l'impetuosità del carattere e dall'altro la dolcezza, così la generosità e di contro l'avidita.
Un comportamento Etico e' anche fortemente influenzato dal fattore tempo. Come quando si sceglie un abito. Molti si soffermano sul taglio, sul colore, ma raramente pensano alla stoffa e quindi alla sostanza dell'abito. Non prendono in considerazione l'abito di sartoria realizzato con pazienza e tempo. Si da per scontato che non durerà molto. Non si da importanza quindi al tempo.

Se si usa lo stesso atteggiamento per un' Impresa, non ci si preoccupa di quanto un'Impresa possa durare e prosperare nel tempo. L'approccio sara' incentrato nel consumare l'azienda con tutto ciò che ne consegue in termini di risorse, persone, intelligenze, che non saranno ne' valorizzate ne' preservate, ma solo consumate.

Negli ultimi anni la grande illusione e' stata credere che il tempo si sia ristretto, che sia meno assolutamente. Oggi chi presenta un piano industriale a cinque anni, viene guardato con sospetto come fosse alieno al mercato. La velocità, seppur importante, ha finito col prevalere sulla capacita' di progettare. Di avere una visione a medio/lungo termine.
Avere questa visione e' invece alla base dell'agire Etico.
Penso e mi oppongo al fatto che l'unica soluzione sia quella di trasferirei chiudere un'Impresa, dopo molti anni in cui, tra l'altro si sono alizzati profitti. Spesso non reinvestendoli nell'azienda.

L'alternativa ai sacrifici, dopo anni di utili cospicui, non può essere il nulla.

lunedì 8 agosto 2011

Sul futuro

Progettare il nostro futuro, anche se poi tutto verrà scombinato, anche se un piccolo progetto. Serve a dare un senso, una direzione, un significato a tutte le nostre azioni e ai nostri pensieri.

lunedì 1 agosto 2011

Open di Agassi

Consiglio la lettura di questo libro a tutti gli appassionati di tennis, come me, e concordo pienamente con la bella recensione di Alessandro Piperno che riporto di seguito.

Le periferie del Nevada, un padre crudele, glorie e dolori: la propria vita raccontata con stile. Che romanziere questo tennista. Ho letto Open, l' autobiografia di Andre Agassi, su consiglio di un amico (Einaudi Stile libero).  Mi sono bastati un paio di capoversi per capire che mi ero imbattuto in un libro importante. Ora, che Agassi avesse un mondo - variegato, seducente, croccante, inimitabile - non mi ha colto impreparato. Il dato sconcertante è che un atleta il cui stile tennistico ho sempre detestato scriva in un modo così incantevole. E così incisivo. «Gioco a tennis per vivere, anche se odio il tennis, lo odio di una passione oscura e segreta, l' ho sempre odiato. Quando quest'ultimo tassello della mia identità va al suo posto, scivolo sulle ginocchia e in un sussulto dico: fa' che finisca presto». Non è che un assaggio dello «stile Agassi»: cocktail di ironia, consapevolezza, umiltà, melanconia, chiaroveggenza, savoir vivre. Alla fine del libro Agassi ringrazia J.R. Moehringer, un premio Pulitzer, un virtuoso. Tra le righe si evince che Moehringer gli abbia fatto da ghostwriter. Il che spiega una tale spavalderia stilistica. Eppure, nonostante si senta (e come) la mano di Moehringer, leggendo, non dimentica mai che il punto di vista è di Agassi. I ricordi gli appartengono, così come il sentimento dominante, il giudizio caustico su di sé e sugli altri. Come in un film hollywoodiano, Agassi inizia la sua rievocazione dalla fine: la penultima partita della sua carriera, U.S. Open 2006. Che atmosfera! Che pathos! Il risveglio di un campione di mezza età nella suite del Four Seasons di New York. Le voci dei figli piccoli e della moglie (Steffi Graf) che fanno colazione nel salottino attiguo. Una doccia eterna, panacea (coadiuvata da dosi massicce di cortisone) per rianimare un corpo devastato da un trentennio di atroci sollecitazioni: «Sotto il getto d' acqua calda mugolo e grido. Mi piego lentamente toccandomi i quadricipiti. (...). Sento che qualcosa comincia a risvegliarsi. La vita. La speranza. Le ultime gocce di gioventù». Il modo con cui Agassi racconta gli strazi del corpo, e le sue rare voluttà, è inarrivabile. Così come inarrivabili sono le pagine sulla preparazione dell' ultimo match contro Baghdatis - così simile e così diverso dalle migliaia di match che l' hanno preceduto. Agitazione, dolore, terrore, panico. Tutto restituito con una tale vividezza che ti pare di capire finalmente cosa diavolo significa essere un campione. E cosa si prova a esibirsi in una disciplina seguita da milioni di persone. Ebbene, questo match epico, all' ultimo sangue, dal quale il vecchio leone esce vincente per l' ultima volta, è l' epifania che apre il sipario sull' infanzia di Agassi. Las Vegas. Deserto del Nevada. Metà anni 70. Una villetta in mezzo al niente con un campo da tennis. «A mio padre piace sparare ai falchi. La nostra casa è ammantata delle sue vittime, uccelli morti che coprono il tetto come le palle da tennis coprono il campo». Mike Agassi, il padre. Il ferocissimo padre. Un iraniano taciturno, coriaceo, ingegnoso che non risparmia niente al figlio di sette anni: «Papà dice che se colpisco 2.500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all' anno sarà imbattibile». Il padre, da bravo torturatore, ha costruito una macchina degna della sua malvagità. Quella che il piccolo Agassi chiama il «drago»: «Nero come la pece, montato su grosse ruote di gomma e con la parola PRINCE dipinta in bianche lettere maiuscole lungo la base, il drago assomiglia a una qualunque macchina lanciapalle di un qualsiasi circolo sportivo americano. In realtà, però, è una creatura vivente uscita da uno dei miei fumetti. Il drago respira, ha un cervello, una volontà, un cuore nero - e una voce terrificante». Il padre e il drago sono in combutta per rendere il piccolo Agassi il tennista più forte della galassia. Sono due contro uno. Perché dall' altra parte c' è lui, il protagonista, disperato e inerme. Il bambino che non sa dire di no a un' autorità così silenziosa e determinata. «Questo conflitto tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l' essenza della mia vita». Il problema con i libri che ami è che non smetteresti mai di citarli. Per farvi capire quanto Open mi sia piaciuto avrei la tentazione di fare un gigantesco copia/incolla. Ma credo sia più pratico limitarmi a consigliarvene l' acquisto. È raro imbattersi in un così stimolante compendio di personaggi e situazioni: Jil, il paterno trainer di Agassi. Nick Bollettieri, il mitico coach che negli anni 80 sfornò una colonia di giovani tennisti-picchiatori (Courier, Agassi, Seles...). Così descritto dal suo allievo più famoso: «Ha preso così tanto sole, si è arrostito così in profondità sotto un numero infinito di lampade ultraviolette, che la sua pigmentazione ne è rimasta alterata in maniera permanente». Inoltre, non stupisce che Agassi abbia sposato prima Brooke Shields e poi Steffi Graf. Evidentemente il destino dei bambini prodigio - con le loro infanzie sacrificate sugli altari eretti da genitori mitomani - è di finire l' uno nelle braccia dell' altro! Eppure la cosa che più mi ha colpito in questo libro è la smania del suo autore-protagonista di decifrare il mistero inattingibile dell' umana insoddisfazione. Come ogni libro americano che si rispetti è un' opera sulla caduta e sulla redenzione. Ma, a ben vedere, non è questo il dato più significativo. Ciò che Agassi sa raccontare meglio è il senso di tedio e gratuità che non smette di assediarci. E che, paradossalmente, rende amare sia le vittorie che le sconfitte. Una vacuità descritta con la grazia di Sophia Coppola. Un vuoto che può essere colmato solo da ciò che Agassi romanticamente chiama l' «ispirazione». Il primo successo a Wimbledon - il primo agognatissimo Grande Slam da lui ottenuto - viene così commentato: «Vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant' è dolorosa una sconfitta». Esiste una verità più beffarda e inequivocabile?

Alessandro Piperno

La crociata del Bene con la Forza degli Onesti


Quando ogni giorno apriamo i giornali o ascoltiamo le notizie del giornale radio o della televisione, ci sentiamo presi come da uno sgomento, vedendo come tanti principi di convivenza non sono più accettati. V orremmo che queste cose (comportamenti sociali amorali) non esistessero e che chi può esibire lo scoop più grave non venisse per questo premiato con vendite maggiorate. Una particolare causa di tristezza ci viene dalle notizie di sperpero del denaro pubblico. Vorremmo che finisse ogni ipocrisia o buonismo. In tutta questa materia affiora spesso la parola «etica», che appare come la spiaggia della salvezza. Se tutti i politici si attenessero ai grandi principi etici, come quello del primato del bene comune insieme con il rispetto dovuto ad ogni persona, molte cose non succederebbero né sarebbero successe. Ma al di là di tanto parlare, come si ottiene che un uomo si decida a camminare per i sentieri dell' etica, scelga la via del bene, soprattutto quando per essa deve rinunciare a qualche vantaggio o affrontare qualche perdita? Non pochi pensano che sia la Chiesa quella a cui tocca dare il segnale per la grande crociata del bene. Per questo sono doppiamente scandalizzati quando un rappresentante della Chiesa viene coinvolto in affari di dubbia consistenza morale. Ma la Chiesa non ha come suo primo dovere quello di sostenere il comportamento morale degli uomini. Essa deve soprattutto proclamare il Vangelo, che ci dice che Dio accoglie tutti gli uomini, nessuno escluso. Essa deve proclamare il Vangelo della misericordia senza badare a chi ne approfitta per i suoi comodi. Essa fornisce quel tanto di più che ci vuole per fare dell' uomo onesto uno che si ispiri alla povertà di Gesù. Se uno non lascia (almeno interiormente) tutto ciò che possiede non può essere discepolo del Cristo. Qui sta la differenza con tanti sostenitori di etiche di servizio. La Chiesa ritiene di dare con le parole anche la forza per metterle in pratica. Ciò non vuol dire che essa disprezzi l' etica, anzi, è molto preoccupata che l' etica sia ben conosciuta, anche nelle sue motivazioni profonde. Ma un uomo non si cambia a forza di prescrizioni etiche! Pensiamo alla discussione di san Paolo nella lettera ai Gàlati e ai Romani, dove la legge veniva dichiarata santa e buona, ma anche generatrice di peccato. La pura regola etica, non insegna come l' uomo può arrivare alla decisione di servire il bene comune. La forza che Dio dà è quella che fa veramente sussultare il cuore dell' uomo e lo dispone a quello spirito di povertà e rinuncia ad ogni interesse proprio che è la forza di tutti i leali servitori dello Stato, anzi di tutte le persone oneste. 
Carlo Maria Card. Martini