venerdì 27 giugno 2008

Prezzi alle stelle, la frutta va al macero

Aumentano i prezzi, calano i consumi e così i prodotti ortofrutticoli restano nei campi, destinati al macero. Il mercato di frutta e verdura si sta avvitando su se stesso con il paradosso di creare un'agricoltura che non raccoglie più. L'allarme è della Cia, la Confederazione italiana agricoltori, che ha fornito dati preoccupanti: la spesa costa ai consumatori oltre cento euro in più al mese rispetto a pochi anni fa, la produzione è calata, i costi sono aumentati di oltre il 6% per gli agricoltori italiani che stanno diventando i più poveri d'Europa. Ciliege, albicocche, carote, fave, fiori. Tonnellate di produzione di primissima scelta lasciate a marcire. E senza contare le produzioni contingentate imposte dalla Ue (come il discusso sistema delle quote latte). Dinamiche di mercato che ogni anno fanno sì che 1,5 milioni di tonnellate di prodotti alimentari vadano al macero, 4 miliardi di euro in fumo. A farne le spese per primi sono gli agricoltori, dice la Cia. In certi periodi dell'anno per alcuni prodotti "non c'è prezzo", cioè l'offerta è talmente bassa che non copre i costi di raccolta. E' il caso per esempio delle ciliege di Forlì, prodotto di primissima scelta ma che arriva sul mercato tutto assieme. Così gli agricoltori sono costretti a venderle per meno di 90 centesimi al chilo per la trasformazione in marmellate, quando va bene, e a buttarle quando va male. Almeno costeranno poco sui banchi dei mercati, si potrebbe pensare. E invece no perché per i consumatori costano fino a 5 euro al chilo. Com'è possibile? Sono i danni di una filiera che deve scontare speculazioni internazionali, rincari delle materie prime e un'infinità di passaggi. E così il destino delle ciliege di Forlì è lo stesso delle carote e delle fave del Lazio (le prime vengono "rinterrate", le seconde piacciono - chissà perché - solo il primo maggio) e dei fiori di Pescia. Il 2005 e il 2006 sono stati gli anni peggiori per l'agricoltura che non raccoglie, spiegano alla Cia, con tonnellate di prodotti finiti al macero (finocchi in Abruzzo, meloni in Sicilia, uva in Puglia).
Questa maledetta filiera fa male a tutti. I numeri presentati nei giorni scorsi dalla Cia nella seconda Conferenza economica sono espliciti. Dal 2000 al 2007 la spesa alimentare per gli italiani è rincarata del 28% (da 379 a 485 euro al mese) nonostante i consumi siano diminuiti del 12,4%. Il calo negli acquisti ha coinvolto tutti i settori: pane (-10,9%), carne (-14,5%), frutta e verdura (-7,7%). Ma i rincari ci sono anche per gli agricoltori che in otto anni hanno avuto i costi triplicati e un calo dei redditi del 18,2%, il più alto della Ue. Solo nel 2007 i costi produttivi (mangimi, sementi, antiparassitari, gasolio che incide per il 42% nelle aziende) sono saliti del 6,1% e i redditi scesi del 2%. Sempre colpa della filiera che allunga la catena e comprime i profitti: l'incidenza dell'agricoltura sul prezzo finale è inferiore a un terzo, il resto è da addebitare a passaggi che provocano aumenti fino a venti volte. Va bene solo al pollame: il consumo di carne bianca è salito nel 2007, dopo la psicosi da aviaria, del 5,7% con un fatturato di 5,3 miliardi.
di FRANCESCO MIMMO pubblicato su La repubblica il 25 giugno 2008

martedì 24 giugno 2008

Sulla Vita

Nasciamo una sola volta, due non è concesso; tu che non sei padrone del tuo domani, rinvii l'occasione di oggi, così la vita se ne va nell'attesa e ciascuno di noi giunge alla sua morte senza pace.
Epicuro

lunedì 23 giugno 2008

Il gelato artigianale da Sasso al sistema "made in Italy"


Geeelaatii ! Le generazioni fino agli anni del “baby boomers” (1964-65) ricorderanno il grido pomeridiano di Sasso che con il suo carretto a bicicletta verdino chiaro, con mobile sul davanti passava per molte vie di Imola - al mattino era di fronte alle scuole con i bomboloni e i ciambellini fritti – e proponeva quattro gusti, prelevati da altrettanti bidoni incassati nella struttura, con il cono o il “mattoncino” creato con uno stampino in metallo, che mi attirava tantissimo, con due cialdine ed in mezzo il gelato. In ogni via si conosceva più o meno l’orario di passaggio e si stava nelle vicinanze della strada con le 50 lire (più o meno) che mamma ci aveva dato.
Altri tempi, anche per il gelato. In quegli anni di gelaterie artigianali ad Imola non ne ricordo molte: “Il Polo”, “Nicola”, il “Zanarini” imolese e non saprei quali altri citare. Erano anche anni in cui alcuni “artigiani” in realtà usavano “le bustine” per ottenere i diversi gusti. Anche le modalità di fruizione erano completamente differenti. Il gelato era soprattutto “da passeggio”, ordinarlo e consumarlo al tavolo veniva considerato un lusso che ci si poteva concedere qualche volta, ma non troppo spesso; portarlo poi a casa – non esistevano quelle simpatiche vaschette che ti danno oggi - significava arrivare con una buona parte di questo meraviglioso alimento (capirete che ne sono goloso) “squagliato” nella carta sottoponendoci ad un rito di recupero improprio che qui non descriverò nel dettaglio. In ultimo il gelato artigianale era assolutamente associato al periodo estivo.
Nel tempo l’attenzione e la domanda per il gelato sono via via cresciute, parallelamente alla cura e al raffinarsi dell’arte, e anche nella nostra città sono sorte nuove gelaterie. Dal 2000 poi, complice l’attenzione delle persone che aspirano a mettersi in proprio che le hanno considerate ottime fonti di affari, sono fioriti un tal numero di esercizi che è difficile anche a Imola farne un conto esatto. Tra l’altro ce ne sono altre di prossima apertura. E questo, potete constatarlo tutti, è un fenomeno nazionale.
Sono cambiati i tempi si diceva e il gelato oggi, anche se è un prodotto strettamente legato alla tradizione, lo si può trovare con un’incredibile varietà di gusti, declinato in diverse consistenze e proposto in numerose forme, il tutto consolidato da una ben radicata esperienza di cui noi italiani siamo certamente i maestri riconosciuti a livello mondiale. Oggi tutti parlano del gelato che viene a tutti gli effetti annoverato come un vero e proprio alimento. I nutrizionisti e i dietologi ormai considerano il gelato non più come un semplice dessert o una merenda, ma alla stregua di una importante componente dell’alimentazione (non solo estiva), ricco com’è di notevoli apporti nutritivi. Nell’ambito di un’alimentazione equilibrata o anche di vere e proprie diete, una porzione di gelato entra come componente sostitutivo di un pasto, appesantendo meno, oppure come merenda o “rompi digiuno. Una profonda trasformazione dunque negli usi e costumi alimentari non soltanto italiani, ma anche di molti altri Paesi, ovunque sia giunto un gelataio italiano a proporre le sue specialità. Ma non bisogna dimenticare che l’industria italiana è leader mondiale nella produzione anche di macchine per il gelato artigianale o industriale (Carpigiani docet), così come è prima nel mondo nella produzione di macchine per il caffè espresso. Un momento importante per il successo del “made in Italy” e del “Sistema Italia” che dovrebbe farci comprendere come possediamo ancora molte eccellenze su cui impegnarci. Il gelato ha radici antichissime recuperabili prima del “Natale di Roma”, naturalmente in forme diverse da come lo vediamo oggi, ma si sviluppa dagli alchimisti, medici e gastronomi delle corti mediterranee rinascimentali, prima in Sicilia e poi nel resto dell’Italia, da dove si diffuse a tutta l’Europa. Per molti secoli i sorbetti gelati, furono cibi più prestigiosi di quelli caldi ed appannaggio dei castelli e dei palazzi, che possedevano una ghiacciaia. Un aiuto alla diffusione europea del gelato fu dato appunto dai gelatai italiani e soprattutto di quelli veneti che, durante l'estate, emigravano dalle valli alpine e prealpine verso i paesi del nord. Con il “grande freddo” degli alchimisti, nella cucina – meglio nell’ambito della pasticceria – si è sviluppata l’arte della gelateria. I gelati, ottenuti con una sapiente combinazione di un forte freddo con un’azione meccanica, non sono gli unici alimenti della “cucina del freddo”, che comprende anche i sorbetti, i ghiaccioli, le granite (quelle vere!, non quelle ottenute con ghiaccio tritato), i frappé, i semifreddi e le torte gelate. Noi italiani siamo tra i maggiori consumatori di gelati artigianali (12 kg per persona e per anno) e tra i minori consumatori di quelli industriali (meno di 5 kg per persona e per anno) contrariamente ad americani ed australiani che sono i maggiori consumatori di gelato industriale (circa 24 e 23 kg pro capite).
Quando si assapora un buon gelato ben lavorato e pastoso, che può essere leccato e che si scioglie delicatamente in bocca, di fatto si vive, a mio parere, una esperienza tutta particolare ed irripetibile per le sensazioni di appagamento e piacere che offre sia al palato che al nostro spirito.
Questi momenti, seppur brevi, permettono di ignorare per un poco il punto di vista calorico e il pensiero per la nostra forma che, oggi, paiono prendere il sopravvento sul piacere del vivere che è fatto anche di “rotondità”.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 21 giugno 2008

sabato 21 giugno 2008

Ascolta il Cuore

Il tuo Cuore è un gabbiano che vola libero nei cieli della vita.
Lascialo andare senza paura, ti saprà condurre alla felicità.
Finchè ascolti il tuo Cuore fai di tutto per essere felice , sei tu a condurre il gioco.
Credi alla forza dei tuoi sogni e loro diventeranno realtà.
S. Bambarèn

mercoledì 18 giugno 2008

Qualità di vita

Impariamo l'arte di concederci il lusso della pausa, riprogettando la nostra esistenza e mettendola in linea con l'evoluzione della società che indirizza sempre più al culto per la qualità della vita, verso i nuovi valori della riflessione, dell'etica e dell'estetica, dell'emotività e della creatività. Così l'arte del lusso della pausa trova la sua punta di diamante nel gusto per la lettura, quintessenza dell'ozio creativo, in cui arte, vita, passione ed emozione si confondono. La lettura poi non va tracannata, ma sorseggiata e la poesia ci offre il sentiero più agevole per educare noi stessi al gusto coltivato delle emozioni lente.

martedì 17 giugno 2008

Letta tiene a battesimo 360 Circondario Imolese

È nata ufficialmente a Imola, sabato 14 giugno, in una Sala delle Stagioni piena di pubblico, Associazione 360 Circondario Imolese. Presenti, oltre a Enrico Letta, gli assessori del Comune di Imola, Visani, Bondi e Galavotti, il sindaco di Castel San, Pietro Zacchiroli, il consigliere Regionale, Bosi, e i consiglieri comunali Barelli e Mazzanti.
A fare gli onori di casa uno dei vicepresidenti, Pierangelo Raffini - l'altro è Paolo Franceschi - che ha introdotto l'evento passando poi la parola prima al presidente dell'Associazione imolese, Cristina Baldazzi, e poi a Enrico Letta. «L'Associazione nasce dall'incontro di persone che si sono riconosciute nello stesso percorso in occasione delle primarie e hanno deciso di continuare a lavorare assieme uniti in un comune impegno politico - ha evidenziato la Baldazzi - per allargarsi ad una realtà più ampia e contribuire così alla costruzione collettiva del Partito democratico in un progetto politico e culturale condiviso ed allargato anche a chi non è iscritto al PD, nello spirito di quanto contenuto nello stesso statuto del PD (art. 30) che favorisce proprio il movimento associativo quale strumento di coinvolgimento più ampio».
Enrico Letta ha poi spiegato che l'idea di fondo di TrecentoSessanta «prevede la partecipazione di persone con esperienze e appartenenze politiche differenti. Intendiamo aiutare, tramite un progetto di formazione politica, chi non fa politica ?per mestiere?, aiutarli in un percorso per metterli in grado, se eletti in cariche amministrative locali, regionali o nazionali, di gestire efficacemente ed eticamente la cosa pubblica». 360 Circondario Imolese sta definendo per l'autunno il suo programma di incontri e confronti che verteranno principalmente su disagio giovanile, immigrazione, sicurezza sul lavoro, collegamento tra scuola e imprese e ambiente, rapportandosi sulle differenti realtà locali e confrontandosi con le rispettive amministrazioni.
Per informazioni e adesioni all'associazione, potete scrivere a 360imola@assiociazione360.it .

lunedì 16 giugno 2008

L'orto una tradizione sopravvissuta alle ere

Orto, dal latino hortus, ha comune origine con le voci corte e giardino e con significato di recingere, onde il termine vale a significare chiuso, recinto, quindi pezzo di terra chiuso, recintato, nel quale si coltivano erbe mangerecce (ortaggi). L’orto è stato lo strumento attraverso il quale le donne, in modo particolare, hanno selezionato i vegetali e gli animali più adatti per l’alimentazione umana ed hanno sviluppato la cucina, con tutte le sue tecniche, dando poi avvio alla gastronomia.
Che la nostra sia una terra non solo di campanili, ma anche di orti lo si evince transitando per le vie in alcuni quartieri della città e nelle strade dei paesi del circondario imolese. Dalla Pedagna a Ponticelli, dal lungo fiume (vicinanze Ponte Vecchio) alla zona dell’ospedale nuovo – per non parlare della “via degli orti” – si può notare come la tradizione legata alla coltivazione dell’orto non sia scomparsa e anche piccolissimi fazzoletti di terra, magari ristretti su un argine di un canale o di un fiume vengano coltivati con cura e assidua presenza. In molti Comuni della Romagna, e Imola è fra questi, vengono attuate per tradizione politiche atte a rendere disponibili aree appositamente dedicate a questo tipo di impiego. Ne consegue che possiamo ritrovare ancora oggi una ricca memoria gastronomica nella cucina legata ai prodotti degli orti avendo sempre avuto un’ importanza centrale nella vita delle famiglie in ogni epoca. Testimonianze culinarie legate ad alcuni prodotti in particolare che ancora oggi vengono proposte in famiglia, nei ristoranti o nelle osterie.

Nei nostri orti, oltre ai soliti prodotti reperibili probabilmente in tutti gli orti italiani, vale la pena citare la coltivazione dello scalogno, del sedano e del cardo giganti, del carciofo, della melanzana violetti e della zucca gialla; altri ortaggi che ritroviamo nelle ricette della tradizione sulle nostre tavole e nei ristoranti del territorio sono: cipolla, spinaci, asparagi, cavolfiore, patate, fagioli, “la barba di frate” (liscari), porri, radicchi di campo e la vitalbe (“viderba” in dialetto). Vale la pena ricordare che molti di questi prodotti della terra hanno costituito nei secoli passati o recenti le uniche possibilità che la natura metteva a disposizione delle classi meno abbienti. Proprio la disponibilità a volte anche sostanziosa dei prodotti proveniente dagli orti e una generale situazione di povertà che si poteva riscontrare nel territorio fino agli anni successivi al secondo conflitto mondiale, ci consente oggi di rintracciare – e recuperare -, al di là dell’utilizzo quale contorno ad altre pietanze, una serie di piatti e di ricette frutto anche dell’ingegno di chi faceva “di necessità virtù”. Così ritroviamo ancora oggi nelle “baracchine” sparse lungo le nostre strade, le piadine o i crescioni alle erbe con formaggio morbido, nei primi piatti “i curzul” (letteralmente in dialetto i lacci delle scarpe) al sugo di scalogno (piatto tipico quaresimale), i Malfattini o le zuppe al brodo di fagioli o con gli spinaci, i risotti con il radicchio o con la verza, tortelli alle erbe, gnocchi alle erbe, ed ancora i fritti con zucchine, carciofi, cipolla, cardo, sedano, ecc., le frittate di zucca, di barba o di vitalba, lo stufato di cipolla e alla campagnola, gli “antichi” radicchi con i bruciatini (la variante con l’aceto balsamico è stato introdotto recentemente per le mutate richieste del mercato), le zucchine ripiene e per finire le svariate e fantasiose frittate alle verdure dettate più dalla disponibilità del momento che da una particolare tendenza “all’estro” in cucina.

Negli ultimi tempi la richiesta di menù vegetariani nel mercato della ristorazione è aumentata notevolmente per i mutati interessi della società. Per vari motivi, che vanno da una valutazione di un maggior benessere a una presa di posizione si certi temi, stanno aumentando i ristoranti che propongono i prodotti degli orti lavorati con fantasia utilizzata ancor più nella loro descrizione cartacea.
Trovo molto positiva la cosa a conferma di quanto sostengo ogni volta in cui sono chiamato a presentare eventi o incontri: la “tradizione è innovazione e non statica conservazione del passato”, “dobbiamo essere custodi dinamici della memoria” secondo l’antica massima “aprirsi senza perdersi” ricordando sempre che la nostra tradizione gastronomica si fonda sul trinomio gusto, qualità e identità locale che diviene, nell’insieme, nazionale.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 15 giugno 2008

giovedì 12 giugno 2008

La povertà nascosta - La vergogna dei poveri nel paese dei ricchi

di Giampaolo Visetti - La Repubblica
La terra più ricca del mondo nasconde il suo ultimo, imprevisto, osceno prodotto: il povero. La carriera del disperato, tra i capannoni della "Manchester d´Italia", è facile e fulminea. Quella di Luca, 35 anni ricercatore, esemplare. È bastata la chiusura della società che gli affidava le analisi di mercato. I risparmi sono finiti in due mesi. Ora deve scegliere: o mantiene la moglie e il figlio, o paga il mutuo della casa. La sera fa il giro dei negozi per ritirare mele e pomodori che iniziano a marcire. Nella regione più elegantemente "capannonizzata" d´Europa, dove la disoccupazione ufficiale coincide con i giorni di vacanza alla fine degli studi, non occorre però perdere il lavoro. Chi fa la coda per la borsa-spesa dei frati di S. Lucia, ha il posto fisso. A Mario è successo dopo la fine dell´amore con Michela. Settecento euro per l´assegno di mantenimento dei due figli, quattrocento per un nuovo affitto, centocinquanta per bollette e benzina. Divorziare è un diritto da imprenditori: un professore separato, a entrare alla Despar, non ce la fa. Ma nemmeno una sarta, come Silvana. Fino all´anno scorso, a Valdagno, trascorreva la primavera sfogliando i cataloghi dei villaggi-vacanze in Sardegna. Perso il marito, passa il sabato a pulire magazzini. La domenica esce a pranzo con la figlia: 90 centesimi a testa, carne e contorno nella mensa della Caritas. «La festa - dice - mangiavamo sempre fuori. Non voglio che mia mamma capisca».
Il fronte dei poveri più invisibili, nel Veneto dei ricchi più appariscenti, sono però le parrocchie. È ancora qui, nelle sacrestie discrete della Pedemontana, che attorno alle sette del mattino si infila un ateo esercito di bancari, operai, commesse, manovali, cameriere e pensionati. Sono gli stessi che un´ora dopo si incontrano in giro, al lavoro. Agli immigrati contendono tre cose: vestiti, scarpe, panini. «Sono troppe - dice l´economista Enzo Rullani - le famiglie che viaggiano sotto i 1300 euro al mese. È un segmento importante di società, alimentato da quel macigno impressionante che è la paralisi decisionale dell´apparato pubblico». Se c´è la gita scolastica da pagare, si spiega che il figlio ha la febbre. Quando si scopre il ticket, si rinvia la visita medica all´autunno. Se si rompe la lavatrice, si unisce distrattamente il bucato a quello dei nonni. A Padova ha appena riaperto il vecchio banco dei pegni e le gioiellerie sono tornate ad esporre un cartello: «Compro oro». Clienti di questa mattina: signore con i denti guasti, universitari con la retta annuale, padri con la rata dell´auto, artigiani con le cambiali per le tasse. Tutti veneti, venetissimi, normalissimi e perfino convinti serenissimi. Eppure, a Dueville, sul cavalcavia c´è scritto: «Via i poveri».Un´amnesia, nella culla dei «poareti» emigrati in mezzo mondo. Ma è qui, davanti ad una fila di Rolex d´oro in vetrina, che si annuncia il vento di una crisi senza precedenti. Gli orologi sono in «offerta cresima». Dietro l´estremità dell´eccesso affiora l´impercettibile punta dell´iceberg dell´impoverimento sommerso del Paese. Dentro, si sente lo scricchiolio di una regione ancora ricca, ma terrorizzata dallo spettro di un passato di privazioni.
Una frana in movimento. «Se anche il Veneto comincia a non farcela più a stare dentro - dice don Giovanni Sandonà, direttore della Caritas di Vicenza - significa che l´Italia ha rinunciato ad affrontare la sua emergenza più drammatica». Le cucine popolari di via Tommaseo, davanti alla stazione di Padova, occupano i duecento metri più miserabili del forziere del Nordest.Fino a tre anni fa, suor Lia serviva immigrati, barboni, prostitute e drogati. Ora la metà dei buoni-pasto viene presentata dai pendolari del centro, decorosi e umidi di colonia, e dai vecchi del quartiere Due Palazzi, sempre protetti dal berretto di lana. Sono le 13 e la mensa somiglia ad un forte assediato. Sulla strada stazionano due Mercedes grigie dei «Comitati per la sicurezza». Le ronde della Lega controllano chi entra e chi esce e distribuiscono volantini: «Via la feccia e i fannulloni». Pensavano ai clandestini. Invece scoprono che «la feccia» è sempre più «padana», sempre più «normale», sempre più «occupata», praticamente «gente di famiglia». Uno choc. «È impressionante - dice suor Lia - la rapidità dell´incattivimento sociale. Si pretende di ghettizzare il bisogno in aree invisibili. Non vogliamo vedere la povertà perché smaschera il deserto che la genera». Il problema è che molti la misurano, ma pochi ci riescono.
Tra Verona e Treviso la povertà è una colpa, una malattia, una vergogna. Chi si macchia di questo reato deve nascondere il suo sigillo. O fuggire. «Conosco famiglie - dice il poeta Andrea Zanzotto - che riprendono i treni dei nonni emigrati in Francia e Germania, o che ripartono per le Americhe. L´onda della ricchezza sicura è passata. Ma a far soffrire di più non sono le ristrettezze: scappano dal giudizio di fratelli e amici, dal confronto impietoso con il successo dei vicini». Del resto la «zona grigia», anche nella «Cina d´Europa», si allarga. Il Banco alimentare del Veneto, nel 2007, ha distribuito 497 tonnellate di cibo ad oltre 50 mila persone. I dormitori sono schizzati a quota 566, le mense popolari a 4974, i centri che distribuiscono vestiti a 1147. Due utenti su tre sono locali. Le famiglie povere, con meno di 1581 euro in quattro, sono 86969: 280 mila individui sotto i 582,20 euro al mese. L´area a rischio povertà quest´anno supererà il 12%, 530 mila persone: la seconda città della regione. Un povero su 5 ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato e il 23,9% della popolazione non è in grado di reggere una spesa imprevista. Il 16,1% fatica ad acquistare alimenti e vestiti necessari. Nell´ultimo anno, nei ricoveri notturni della regione, la presenza di italiani è raddoppiata. Solo a Padova il 70% delle pensioni è inferiore a mille euro al mese. A Treviso l´indigenza assoluta, in sette anni, è cresciuta di un terzo e per la prima volta supera il 5%. A Vicenza il microcredito diocesano, che offre un massimo di 3 mila euro per fronteggiare difficoltà economiche temporanee, è aumentato del 50%: sette domande su dieci sono di vicentini con il posto fisso. «Rispetto al resto d´Italia - dice il direttore scientifico della Fondazione Nordest, Daniele Marini - restiamo un´isola felice. Per la prima volta però le imprese chiuse superano quelle aperte e la crescita è sotto il 2%. L´inedito impoverimento è frutto di grandi difficoltà nascoste».
Tra Schio, Thiene, Bassano e Montebelluna la processione dei «neocolpevoli di povertà» inizia alle 9. È la faccia della crisi di tessile, calzaturiero e abbigliamento. Davanti ai centri per l´impiego, fuori dalle 62 neonate «Agenzie di somministrazione di lavoro temporaneo», vagano centinaia di persone. Stipate nelle auto per dividere la benzina, fanno il giro di tutti gli sportelli. Depositano domande, verificano proposte. La maggioranza è del posto, tra i 45 e i 55 anni. Otto su dieci hanno un diploma di scuola superiore. Nove su dieci, perso il posto, non ne trovano un altro. Gli immigrati, disposti a tutto, vengono assunti direttamente. Per questo i veneti impoveriti odiano gli stranieri in fuga dalla fame. Criminalità e sicurezza coprono il problema più profondo: la concorrenza per una vita normale. Il nemico, però, è comune: Cina, India, l´Est, il pezzo di mondo che sta scatenando il cortocircuito del Triveneto. Come a San Vendemiano. Leggendo la «Tribuna» il popolo dei mutui a tasso variabile ha scoperto che il secondo contribuente del paese, dopo Del Piero, è diventato uno sconosciuto contoterzista di Pechino.
Solo protetto dall´anonimato il direttore di un ufficio di collocamento accetta di spiegare «la devastante guerra contro il fallimento» che scuote la culla del benessere. «Il cancro - dice - sono le agenzie interinali. Dovrebbero assumere, trattenere l´1% dello stipendio, garantire la paga nei periodi di mobilità. Nessuno applica la legge. La crisi è drammatica, la concorrenza spietata. Si tengono fino al 15% della paga, se finisci a spasso non coprono nulla. Prendere o lasciare: i ricchi diventano ancora più ricchi e la nuova massa dei poveri, per le statistiche, non è neppure disoccupata». Antonio, 39 anni di Arsiero, bussa da due anni alla porta dei suoi «agenti». Perito meccanico, raccatta meno di 500 euro al mese facendo il facchino a giornata. In aprile, lo sfratto. La moglie, con i due figli, è tornata nell´appartamento della madre. Troppo piccolo, per tutti. Lui, per un letto, fa il badante della zia. La famiglia si riunisce ai giardini, dove la sera mangiano triangoli di pizza avanzata. Fino al 2006 era una famiglia normale: ora sono stritolati dal prestito chiesto ad una finanziaria on-line. «Ci ostiniamo a parlare di povertà - dice il sociologo Alessandro Castegnaro - invece il dramma è la nuova vulnerabilità. In tutta Italia cresce spaventosamente una invisibile società vulnerabile, con il fiato sul collo, priva di risorse per l´imprevisto. Si discute di Pil e competitività, si tace la mancanza di una rete di protezione contro l´esclusione sociale, contro la nuova esposizione di massa all´impoverimento».In pochi giorni, senza colpa, si può finire dall´ufficio alla strada, dal tavolo di famiglia alla mensa delle suore. «La precarizzazione della vita - dice la ricercatrice Maria Bezze - è l´incubo fuori statistica che mina la nostra civiltà».Matrimonio, lavoro, casa, pensione, possono saltare in ogni momento.
Le conseguenze, psicologiche e politiche, sono incontrollabili. All´Auchan di Mestre la «sindrome della quarta settimana» è una barzelletta vecchia. Bar e pizzerie si svuotano già con la seconda. Dalla metà del mese la pasta di marca resta sugli scaffali. Nella terza esplodono le spese con le tessere di credito. «Poi - dice la veterana delle cassiere - lavoriamo tre ore al giorno. E solo con le offerte». Una bomba innescata e sepolta. Vendere auto e telefonino, disdire il satellite e ripiegare su Jesolo, in Veneto non è un ritorno alla semplicità.«Senza negri, cinesi e zingari - dice Nicola, 52 anni, contabile in una cartiera di Rossano - ce ne sarebbe per tutti. Scegliamo quelli che ci servono e teniamoci le badanti: gli altri a casa loro». Un percorso elementare, bruciato in pochi anni: sacrifici, ricchezza, impoverimento, paura, territorialismo, xenofobia, tolleranza zero. «I numeri - dice Tiziato Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan - non bastano a leggere la vita.La miseria del Veneto, come nel resto d´Italia, è molto peggiore di quanto appaia. I tempi di reazione dello Stato sono inadeguati e stanno per scadere.Siamo l´unica nazione europea priva di un piano di lotta alla povertà. Si confonde il welfare con la carità, seminiamo soldi invece che organizzare servizi. Così l´indice di disuguaglianza tra ricchi e poveri è il più alto del continente». Steso su una panchina della stazione di Verona, Tiziano non ci ha mai pensato. Ha 59 anni, da 40 lavora in una segheria. Fino a ottobre era caporeparto. Poi gli hanno scoperto una malattia rara, contratta in Costa D´Avorio. È uscito dall´ospedale a fine maggio. Non ha più trovato la moglie, la casa, il lavoro. Fruga nei cestini e non sa, come dice Chiara Saraceno, che «anche la Finanziaria 2008 accentua gli squilibri redistributivi e non prevede misure per il contrasto della povertà». Per lui contano solo tre parole, che ripete come un rosario: «Sono rimasto solo».È questa la condanna muta che incombe su una terra di irripetibile grandezza, apripista per il resto del Paese: il passaggio dall´indigenza inconfessata alla rottura delle relazioni personali.
L´Italia della povertà facile regredisce nella solitudine cronica. Anche il Veneto della solidarietà, tra Schio e Mogliano, avverte per le prima volta la febbre della sconnessione sociale. «Perché siamo fatti così - dice lo scrittore Ferdinando Camon - : senza soldi e lavoro prima ci chiudiamo, poi esplodiamo. Qui nessuno si rassegna, piuttosto sparisce. Ormai o si vive in nero, o si è morti: ma se la legalità diventa un lusso per pochi, il federalismo di Bossi fa ridere. Nell´impoverimento cresce solo una generazione violenta e pronta a tutto». Corso Palladio, a Vicenza, è la sintesi dell´opulenza nordica al crepuscolo. Una mamma torna da scuola con la figlia. Controllano i prezzi di certe pentoline. Li scrivono in un quaderno, uno ad uno.Poi passano al negozio di biancheria, quindi dall´orefice.Compilano cataloghi completi per altri, imminenti shopping immaginari. Un barista dice che ogni giorno è così. Fino a settembre faceva la chimica in un caseificio. Adesso, la sera, porta la bambina dagli ex suoceri, indossa il vecchio camice e bussa al santuario di Monte Berico. Non ha più un euro, mai un acquisto, pulita come la felicità. Replica la commedia di un ruolo e interpreta un sogno, come i sommersi di un Veneto nuovo. Quel «Momento», nella vita, è passato e non se ne sono accorti.

Riflettere su di sè


" E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità degli oceani, il corso degli astri e non pensano a se stessi."
Sant'Agostino

martedì 10 giugno 2008

Il casinò degli speculatori

di Federico Rampini - 09/06/2008
Per motivi biografici e ideologici è quasi impossibile che il finanziere George Soros e il presidente della Russia la pensino allo stesso modo. Eppure Medvedev denuncia il «ruolo dell’America che spinge l’economia globale verso la più grave crisi dal 1929». E Soros in un’audizione al Senato Usa denuncia "i segnali di una nuova bolla speculativa".
La convergenza è notevole. Tutti e due hanno in mente la stessa cosa: l’inquietante enigma del caro-petrolio, che venerdì ha sfiorato i 140 dollari il barile e sembra deciso a realizzare la sospetta "profezia" della banca Goldman Sachs (200 dollari a barile). Si fa presto a dare la colpa ai soliti noti, Cina e India. Certo le superpotenze asiatiche, con centinaia di milioni di nuovi consumatori che accedono al benessere, sono la causa di fondo di un trend di rialzo secolare di tutte le materie prime. Inoltre le due locomotive cinese e indiana trainano lo sviluppo di molti altri nuovi protagonisti della globalizzazione, dalla Russia al Brasile. Ciascuno di questi diventa un consumatore delle stesse risorse naturali che vende all’estero: è sintomatica l’uscita dall’Opec dell’Indonesia, un ex-esportatore di greggio che oggi deve comprarlo sui mercati mondiali. Ma su questi cambiamenti storici si è innestata una marea di flussi finanziari che sono diventati a loro volta "il" problema. Quando in sole 48 ore di scambi al New York Mercantile Exchange (Nymex) i futures schizzano al rialzo del 13%, com’è successo tra giovedì e venerdì scorso, non c’è aumento dei consumi cinesi e indiani che tenga. Lo sviluppo economico asiatico, che comporta fra l’altro il boom della motorizzazione privata in paesi dove vivono 3,5 miliardi di persone, può spiegare l’aumento del 35% all’anno del petrolio negli ultimi cinque anni. Ma negli ultimi dodici mesi questo rincaro ha cominciato a puntare verso il cielo, raddoppiando di colpo. E il singolo aumento dei futures nella sola giornata di venerdì non si era mai verificato in quelle proporzioni da 25 anni. Ruchir Sharma, capo del dipartimento dei mercati emergenti alla Morgan Stanley, osserva che "flussi di capitali che si sono riversati sugli hedge fund che speculano sul petrolio, in soli tre mesi hanno superato tutto i1 2007, già un anno record". Qui la domanda e l’offerta della materia prima reale, il petrolio, non c’entrano più. Se non come un pretesto: uno scenario di fondo che viene utilizzato per orchestrarvi sopra una nuova ondata di scommesse finanziarie. Al Nymex ormai i contratti di futures sul petrolio movimentano un miliardo di barili al giorno, tutti virtuali; mentre la produzione del greggio vero è di soli 85 milioni di barili al giorno. La quantità di carta finanziaria che viene scambiata è immensamente superiore ai consumi mondiali di idrocarburi. E’ la ragione per cui in molti condividono l’analisi dì Soros: il casinò dove si puntano le giocate sui futures del petrolio è il luogo dove si è creata la nuova bolla speculativa.
Le caratteristiche ci sono tutte. La curva di incremento esponenziale dei prezzi è identica a quella disegnata dal Nasdaq al culmine dell’euforia sulla New Economy nel 1999, prima di crollare nel marzo 2000. A quell’epoca le Borse erano dominate dai colossi di Internet proprio come oggi sono dominate dalle compagnie petrolifere, nuove campionesse della capitalizzazione. Ai tempi della bolla-Nasdaq si erano distinte alcune banche come Merrill Lynch e Credit Suisse First Boston, i cui analisti suggerivano "comprare comprare" alla clientela anche quando le quotazioni avevano ormai superato la stratosfera.
Oggi al centro della febbre dei futures petroliferi c’è la Goldman Sachs, il cui analista Arjun Murti ha lanciato la celebre previsione sul greggio a 200 dollari il barile. Una profezia che sì autoavvera perché, guarda caso, è proprio Goldman Sachs il più importante operatore sui futures del petrolio. In passato altre manipolazioni clamorose dei mercati delle materie prime - i fratelli Hunt sull’argento negli anni 70, Raul Gardini sulla soya a Chicago nell’89 - furono smascherate e neutralizzate dall’intervento delle autorità. Ma questa volta I’impazzimento dei futures petroliferi avviene nel laissez faire. Nessuno interviene a controllare che dietro le transazioni virtuali sui futures possano essere onorati gli scambi di merce reale. Non si applicano neppure quelle regole sul pagamento di margini di garanzia, che sono sempre servite a "tassare" la speculazione pura per distinguerla dalle normali operazioni di copertura del rischio. La denuncia di Soros sulla bolla speculativa davanti al Senato di Washington non ha avuto conseguenze.
E’ inevitabile un sospetto: chi dovrebbe intervenire è paralizzato dai conflitti d’interesse. Il primo imputato è il segretario americano al Tesoro, Henry Paulson, che prima di assumere l’incarico nell’Amministrazione Bush ha passato tutta la sua carriera professionale alla Goldman Sachs fino a diventarne presidente e amministratore delegato.
Forse è ingeneroso ricordare che, quand’anche Paulson passasse i prossimi cent’anni al governo (per fortuna non accadrà), i suoi stipendi cumulati non raggiungerebbero il valore delle stock options che ha incassato alla Goldman Sachs. Al di là degli aspetti personali Paulson è stato il regista del salvataggio delle banche d’affari di Wall Street (vedi Bear Stearns) che stavano per affondare sotto il peso della crisi dei mutui subprime. Con che coraggio potrebbe punzecchiare la nuova bolla dei futures petroliferi, su cui le gloriose istituzioni di Wall Street stanno tentando di rifarsi i bilanci? Dietro di lui, gli interessi personali della famiglia Bush e del vicepresidente Dìck Cheney nell’industria petrolifera non incoraggiano a smontare la macchina speculativa che ha moltiplicato le quotazioni azionarie di tutto il settore. Tanto più che dietro Wall Street, tutto il mondo del risparmio americano si è accodato: i fondi pensione hanno investito 40 miliardi di dollari nella speculazione sulle materie prime, ansiosi anche loro di recuperare almeno una parte delle perdite subite sui subprime. E in questa nuova febbre speculativa un ruolo-chiave spetta al banchiere centrale Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve.
Dopo aver dimostrato ai big di Wall Street che per quanto sbaglino non falliranno mai - a salvarli ci penserà lui coi soldi del contribuente americano - Bernanke abbassando i tassi d’interesse ai minimi storici ha continuato la politica del denaro facile che è il carburante primario di tutte le bolle. Il calo dei tassi a sua volta indebolisce il dollaro; costringe i paesi dell’Opec a cercare compensazioni nei rialzi del greggio (quotato in dollari); e incoraggia la finanza a puntare sulle materie prime come beni-rifugio contro l’inflazione mondiale. Un perfetto circolo vizioso. Che in qualsiasi momento può invertirsi e generare una contro-spirale altrettanto rovinosa, con effetti di panico sui mercati finanziari, la liquidità del credito, i risparmi delle famiglie. Si capisce perché per una volta Medvedev e Soros vanno d’accordo. L’epicentro di questa crisi è l’America, è la sua finanza impazzita che genera un altro contagio globale. Cina e India in questo caso sono solo lo scenario di fondo: è vero che l’aumento dei consumi petroliferi cinesi sale così velocemente da superare la riduzione dei consumi americani; ma per ora gli Stati Uniti continuano ad assorbire quasi il 25% del greggio mondiale contro il 9% della Cina.

Le conseguenze di questa iperinflazione petrolifera sull’economia reale rischiano di diventare sempre più drammatiche nei prossimi mesi. La Cina e l’India, costrette ad abbandonare i "prezzi politici" dei carburanti, non soltanto si espongono al malcontento dei consumatori e alle tensioni sociali, ma possono rallentare la loro crescita che è per il resto del mondo l’unica speranza di salvezza dalla recessione. In Europa l’ultima locomotiva - a mezzo servizio – che ci resta, e cioè la Germania, dovrà sacrificare una parte dei suoi consumi per far fronte al rialzo del 66% della benzina alla pompa. Questo significherà anche minor domanda di moda o mobili o elettrodomestici made in Italy sui nostri principali mercati di sbocco.

C’è almeno un effetto collaterale positivo, che può derivare dalla bolla finanziaria sul petrolio? I mercati, a modo loro, svolgono una funzione di supplenza. L’economista americano Kenneth Rogoff, ex direttore generale dei Fondo monetario internazionale, lo ha spiegato in questi termini sul Sole24 Ore: chi sospinge esageratamente al rialzo nel breve termine i prezzi del petrolio, "sta facendo molto di più per la difesa dell’ambiente di quanto non facciano i politici occidentali che cercano di prolungare l’epoca del consumismo occidentale eco-insostenibile".
Il gioco d’azzardo della speculazione, in quanto scommette in anticipo su trend di lungo periodo che esauriranno le risorse energetiche, dovrebbe servire ad accelerare le nostre reazioni. Finora però questa funzione è stata scarsamente efficace. L’Unione europea si è fermata a Kyoto: come se la sua adesione a quel trattato fosse un certificato di buona condotta sufficiente, in attesa che altri si adeguino.
Ma l’Agenzia internazionale dell’energia calcola che il costo delle emissioni carboniche alla "Borsa di Kyoto" dovrebbe quadruplicare, per costringerci davvero a cambiare modello di sviluppo. Intanto l’inverno prossimo basteranno uno o due gradi di freddo in più, e saremo tutti di nuovo alla mercè del signorMedvedev, alias Putin.

lunedì 9 giugno 2008

Il pranzo più importante della vita: quello nuziale

Penso che per la maggioranza delle persone, togliamo gli anarchici o quelli che vogliono sempre e per forza fare cose differenti, ci sia un giorno della vita in cui si desidera che tutto vada bene, veramente bene, che tutto sia perfetto: questo giorno è quello del matrimonio. Almeno per il primo (matrimonio intendo) c’è questo sogno comune tra lui e lei. Va da sé che il pranzo, dopo la cerimonia nuziale, è forse il momento più importante e allo stesso tempo “critico” che procura un poco di ansie anche ai genitori di entrambi gli sposi. Piacerà il posto ? La disposizione dei tavoli è corretta ? Il menù sarà di gradimento ? E così via.
Allora concentriamoci sulla componente enogastronomica dell’avvenimento e vediamo cosa si dovrebbe fare per “avvicinarsi alla perfezione”. Naturalmente essendo il matrimonio il giorno più importante della vita per le due persone coinvolte, ma non solo, la scelta del luogo in cui ricevere gli ospiti ha una sua rilevanza che comunque viene influenzata anche dal “portafoglio”. Quale luogo scegliere ? Ristorante, villa prestigiosa, agriturismo, hotel di lusso ? Ogni posto ha le sue caratteristiche, ma ciò che deve guidare nella preferenza è la considerazione dell’ambiente nel suo complesso. Un ospite è meno coinvolto emotivamente in quel giorno rispetto agli sposi o ai famigliari più stretti, pertanto l’esperienza che vivrà sarà comunque diversa; anche in questa giornata di cerimonia egli vivrà percezioni e sapori costituiti anche dalle sensazioni trasmesse da ciò che lo circonda, il luogo in cui il posto è situato, l’arredamento, i colori, l’ambiente. Cercare di fare attenzione anche a queste cose guardandole con un occhio diverso è importante, non focalizzare tutta l’attenzione solo sui cibi, ma guardarsi intorno perché anche il pranzo migliore offerto in un locale che in tutti gli altri giorni è un self-service non produrrà un effetto magnifico (eppure capita...). Sono perciò rilevanti anche gli spazi per muoversi, da considerare diversamente d’estate e d’inverno, perché nonostante che le regole del galateo richiederebbero di alzarsi da tavola solamente per alcune “chiamate” a cui non ci si può sottrarre, nella pratica oggi dopo che sono stati serviti i primi le persone “vogliono socializzare” ed è tutto un’alzarsi e agitarsi in modo variegato. Naturalmente parlo di pranzo perché tradizionalmente questo è la preferenza, ma negli ultimi anni avanza anche l’opzione per la cerimonia pomeridiana con cena a seguire; in questo caso ancora più importante da considerare il fattore ambiente (anche perché molti allungano il dopo-cena con musicanti o dj).
Altro punto da considerare è il servizio legato alla proposizione delle pietanze scelte per il menù. Il servizio è fornito con cibi che arrivano espressi dalla cucina oppure si è pensato di affidarsi ad un catering ? E’ un pranzo classico – sempre tutti seduti – oppure un misto, si sta tutti in piedi con un buffet oppure c’è la possibilità di sedersi ad un tavolo con il proprio piatto e bicchiere ? Non sono dettagli perché in base alla opzione scelta si dovrebbe, il condizionale è d’obbligo perché ho constatato di persona che quasi mai avviene, di conseguenza scegliere il menù adatto onde evitare che la maggior parte delle portate rimanga nei piatti. Passiamo alla scelta del cibo. Su questo punto vorrei lanciare un grido (anche di dolore) che cadrà sicuramente nel vuoto: viva la semplicità e la misura, non lasciatevi sedurre dalle proposte “gourmet” dei vari ristoranti o catering, perché si rivelano spesso insoddisfacenti nel loro risultato finale. Un tempo le tavole in questo giorno dovevano essere opulente, abbondanti, testimoniare una grande prosperità (anche augurale) e in Romagna si arrivava anche agli eccessi di mangiare fino a sette volte nello stesso giorno. In quei tempi c’erano molte persone che soffrivano la fame quotidianamente e in quel giorno non di doveva correre il rischio che accadesse. Questi tempi non ci sono più, la società è cambiata nelle quantità e nei gusti, ma una cosa paga sempre: la semplicità delle cose, perché aiuta nella qualità della proposta. Quindi pensate sempre a cose che siano di facile gestione per la cucina ed il servizio – soprattutto se c’è un catering di mezzo - considerando che le portate verranno comunque per “grandi numeri”, non correte il rischio che i cibi possano arrivare monolitici, freddi, scomposti, iper-cotti o crudi.
Vorrei indicare con qualche esempio di errori tipici che constato in questi pranzi partendo dall’aperitivo con stuzzicheria che deve assolutamente evitare i piccoli fritti ormai freddi o i mignon salati grondanti di salse e maionese, passando ai primi con paste talmente lavorate con la panna da risultare dei blocchi uniformi ed indistinti, alla mania di inserire il filetto nei menù (che normalmente viene richiesto con cotture variabili e diverse da tutti) con il risultato che arrivano certi “pezzi di suola” che poi tornano al mittente e finendo ai dolci con mix “improbabili” e pesantissimi modello “Luisona” del Bar Sport di Stefano Benni.
Infine il tempo per stare a tavola, cerimonia o no dovrebbe sempre essere limitato al massimo nelle due ore e mezza. Cosa che, purtroppo, non avviene mai.
Scritto da Pierangelo Raffini e pubblicato su Il Domani di domenica 8 giugno 2008

domenica 8 giugno 2008

Rifkin, l'energia fai-da-te così ci salveremo dal nucleare

Le centrali sono una "soluzione di retroguardia" e non risolveranno il problema. Dopo l'incidente di Krsko il guru dell'economia all'idrogeno spiega perché l'Italia sbaglia.
di RICCARDO STAGLIANÒ
Una fatica inutile. Perché se anche rimpiazzassimo nei prossimi anni tutte le centrali nucleari esistenti nel mondo, il risparmio di emissioni sarebbe comunque un'inezia. Un quarto di quel che serve per cominciare a rimettere le briglie a un clima impazzito. Jeremy Rifkin non ha dubbi: quella atomica è una strada sbagliata, di retroguardia. Come curare malattie nuovissime con la penicillina. E non c'è neppure bisogno dei campanelli di allarme tipo Krsko per capirlo. Basta guardare i numeri senza le lenti dell'ideologia. Proprio l'attitudine che, in Italia, scarseggia di più per il guru dell'economia all'idrogeno. Si vedrebbe così che l'uranio, come il petrolio, presto imboccherà la sua parabola discendente: ce ne sarà di meno e costerà di più. E che il problema dello smaltimento delle scorie è drammaticamente aperto anche negli Stati Uniti dove lo studiano da anni. "Vi immaginate uno scenario tipo Napoli, ma dove i rifiuti fossero radioattivi?" è il suo inquietante memento. Meglio puntare su quella che lui chiama la "terza rivoluzione industriale". L'incidente all'impianto sloveno arroventa il dibattito italiano, a pochi giorni dall'annuncio del ritorno al nucleare.
Cosa ne pensa? "Ho parlato con persone che hanno conoscenza di prima mano dell'incidente, e mi hanno tranquillizzato. Non ci sono state fughe radioattive e il governo ha gestito bene tutta la vicenda. Ho lavorato con l'amministrazione Jan%u0161a e posso dire che hanno sempre dimostrato una leadership illuminata nel traghettare la Slovenia verso le energie rinnovabili. Non posso dire lo stesso di tutti i paesi europei, ma posso lodare le politiche energetiche di Ljubljana".
Superata questa crisi, in generale possiamo sentirci sicuri? "Il problema col nucleare è che si tratta di un'energia con basse probabilità di incidente, ma ad alto rischio. Ovvero: non succede quasi mai niente di brutto, ma se qualcosa va storto può essere una catastrofe. Come Chernobyl".
Il governo italiano ha confermato l'inizio della costruzione delle nuove centrali entro il 2013. Coerenza o azzardo? "Non capisco i termini della discussione in corso in Italia. Amo il vostro paese, lo seguo da anni ma questa volta mi sento davvero perso. I sostenitori dicono: il nucleare è pulito, non produce diossido di carbonio, quindi contribuirà a risolvere il cambiamento climatico. Un ragionamento che non torna se solo si guarda allo scenario globale. Oggi sono in funzione nel mondo 439 centrali nucleari e producono circa il 5% dell'energia totale. Nei prossimi 20 anni molte di queste centrali andranno rimpiazzate. E nessuno dei top manager del settore energetico crede che lo saranno in una misura maggiore della metà. Ma anche se lo fossero tutte si tratterebbe di un risparmio del 5%. Ora, per avere un qualche impatto nel ridurre il riscaldamento del pianeta, si dovrebbe ridurre del 20% il Co2, un risultato che certo non può venire da qui".
Un finto argomento quindi quello del nucleare "verde"? "Non in assoluto, ma relativamente alla realtà, sì. Perché il passaggio al nucleare avesse un impatto sull'ambiente bisognerebbe costruire 3 centrali ogni 30 giorni per i prossimi 60 anni. Così facendo fornirebbe il 20% di energia totale, la soglia critica che comincia a fare una differenza. C'è qualcuno sano di mente che pensa che si potrebbe procedere a questo ritmo? La Cina ha ordinato 44 nuove centrali nei prossimi 40 anni per raddoppiare la sua potenza produttiva. Ma si avvia ad essere il principale consumatore di energia...".
Ci sono altri ostacoli lungo questa strada? "Io ne conto cinque, e adesso vi dico il secondo. Non sappiamo ancora come trasportare e stoccare le scorie. Gli Stati Uniti hanno straordinari scienziati e hanno investito 8 miliardi di dollari in 18 anni per stoccare i residui all'interno delle montagne Yucca dove avrebbero dovuto restare al sicuro per quasi 10 mila anni. Bene, hanno già cominciato a contaminare l'area nonostante i calcoli, i fondi e i super-ingegneri. Davvero l'Italia crede di poter far meglio di noi? L'esperienza di Napoli non autorizza troppo ottimismo. E questa volta i rifiuti sarebbero nucleari, con conseguenze inimmaginabili". Ecoballe all'uranio, un pensiero da brividi.
E il terzo ostacolo? "Stando agli studi dell'agenzia internazionale per l'energia atomica l'uranio comincerà a scarseggiare dal 2025-2035. Come il petrolio sta per raggiungere il suo peak. I prezzi, quindi, andranno presto su. Ciò si ripercuoterà sui costi per produrre energia togliendo ulteriori argomenti a questo malpensato progetto. Aggiungo il quarto punto. Si potrebbe puntare sul plutonio. Ma con quello è più facile costruire bombe. La Casa Bianca e molti altri governi fanno un gran parlare dei rischi dell'atomica in mani nemiche. Ma i governi buoni di oggi diventano le canaglie di domani".
Siamo arrivati così all'ultima considerazione. Qual è? "Che non c'è abbastanza acqua nel mondo per gestire impianti nucleari. Temo che non sia noto a tutti che circa il 40% dell'acqua potabile francese serve a raffreddare i reattori. L'estate di cinque anni fa, quando molti anziani morirono per il caldo, uno dei danni collaterali che passarono sotto silenzio fu che scarseggiò l'acqua per raffreddare gli impianti. Come conseguenza fu ridotta l'erogazione di energia elettrica. E morirono ancora più anziani per mancanza di aria condizionata".
Se questi sono i dati che uso ne fa la politica? "Posso sostenere un dibattito con qualsiasi statista sulla base di questi numeri e dimostrargli che sono giusti, inoppugnabili. Ma la politica a volte segue altre strade rispetto alla razionalità. E questo discorso, anche in Italia, è inquinato da considerazioni ideologiche".
In che senso? C'è un'energia di destra e una di sinistra? "Direi modelli energetici élitari e altri democratici. Il nucleare è centralizzato, dall'alto in basso, appartiene al XX secolo, all'epoca del carbone. Servono grossi investimenti iniziali e altrettanti di tipo geopolitico per difenderlo". E il modello democratico, invece? "È quello che io chiamo la "terza rivoluzione industriale". Un sistema distribuito, dal basso verso l'alto, in cui ognuno si produce la propria energia rinnovabile e la scambia con gli altri attraverso "reti intelligenti" come oggi produce e condivide l'informazione, tramite internet".
Immagina che sia possibile applicarlo anche in Italia? "Sta scherzando? Voi siete messi meglio di tutti: avete il sole dappertutto, il vento in molte località, in Toscana c'è anche il geotermico, in Trentino si possono sfruttare le biomasse. Eppure, con tutto questo ben di dio, siete indietro rispetto a Germania, Scandinavia e Spagna per quel che riguarda le rinnovabili".
Ci dica come si affronta questa transizione. "Bisogna cominciare a costruire abitazioni che abbiano al loro interno le tecnologie per produrre energie rinnovabili, come il fotovoltaico. Non è un'opzione, ma un obbligo comunitario quello di arrivare al 20%: voi da dove avete cominciato? Oggi il settore delle costruzioni è il primo fattore di riscaldamento del pianeta, domani potrebbe diventare parte della soluzione. Poi serviranno batterie a idrogeno per immagazzinare questa energia. E una rete intelligente per distribuirla".
Oltre che motivi etici, sembrano essercene anche di economici molto convincenti. È così? "In Spagna, che sta procedendo molto rapidamente verso le rinnovabili, alcune nuove compagnie hanno fatto un sacco di soldi proprio realizzando soluzioni "verdi". Il nucleare, invece, è una tecnologia matura e non creerà nessun posto di lavoro. Le energie alternative potrebbero produrne migliaia".
A questo punto solo un pazzo potrebbe scegliere un'altra strada. Eppure non è solo Roma ad aver riconsiderato il nucleare. Perché? "Credo che abbia molto a che fare con un gap generazionale. E ve lo dice uno che ha 63 anni. I vecchi politici, cresciuti con la sindrome del controllo, si sentono più a loro agio in un mondo in cui anche l'energia è somministrata da un'entità superiore".
7 giugno 2008 - La Repubblica

venerdì 6 giugno 2008

La meritocrazie sbandierata e i sotterfugi praticati

di Alessia Mosca - Deputata PD membro della XVI Legislatura
Garantire la meritocrazia nella Pubblica Amministrazione è uno dei cavalli di battaglia della maggioranza di Governo. Un obiettivo con cui concordo in pieno, a patto che agli annunci sbandierati per fare breccia presso la pubblica opione seguano i fatti. Così, purtroppo, non è. Nei giorni scorsi, la Pdl ha furbescamente inserito nel provvedimento sui rifiuti - che ha carattere di urgenza e il cui iter non puo’ essere rallentato - un provvedimento che trasforma i dirigenti pubblici a termine in personale assunto in pianta stabile. Di fatto, si tratta di una promozione generalizzata senza concorso, che è quasi al limite di contraddizione con i principi stessi della nostra carta costituzionale. Il Pd sostiene tutte le forze in campo contro l’emergenza rifiuti, ma questo non deve trasformarsi in una pretesto per calpestare le regole che fissano i criteri di assunzione nel settore pubblico.Per una questione di trasparenza verso i cittadini, che esprimono il loro voto e non meritano essere presi in giro con false promesse, riporto alcuni impegni presi pubblicamente dalla Pdl:Il 29 marzo, in piena campagna elettorale, il candidato premier Silvio Berlusconi annuncia tagli del 33% alla Pubblica Amministrazione.Il ministro alla Funzione Pubblica Renato Brunetta il 12 maggio dichiara: “Propongo un grande patto con dirigenti e sindacati per cambiare il paese e dare risposte.”Ancora Brunetta, il 29 maggio dichiara: “Premi per i più meritevoli e trasformazione dei dirigenti in manager.”Brunetta il 4 giugno: “I passaggi di carriera avverranno attraverso concorsi, valutati rigorosamente”.Sempre Brunetta, il 5 giugno, espone il programma di riforma del suo dicastero che punta a 40 miliardi di risparmi in tre anni e annunci: “Si deve partire dai datori di lavoro, dai dirigenti perché il pesce puzza dalla testa”.

mercoledì 4 giugno 2008

Senza scatole né latte Il rifiuto non c'è più

Giovanna Nigi

È esistito un tempo in cui i prodotti venivano venduti sfusi, avvolti ognuno in una sua carta specifica, carta paglia per la pasta, il pane, il riso, o carta da zucchero, di un bel colore azzurrino, che per molti anni servì anche a definire quella particolare tonalità di azzurro: color carta da zucchero. Era il tempo in cui le esigenze erano più piccoline, e non ci si vergognava a comprare dal tabaccaio una o due sigarette alla volta.
Un tempo più parco e meno folle, a cui ripensare come modello, in questi periodi di acquisti più oculati. Finalmente -sarà per la crisi economica o per la rinnovata coscienza ecologica?- abbiamo capito che la mole di rifiuti che produciamo è decisamente folle, e che i veri responsabili di un incremento così massiccio e di una politica del consumo tanto dissennata sono gli imballaggi. Il cammino verso uno smaltimento dei rifiuti differenziati passa necessariamente attraverso la riduzione di essi. Sono gli involucri, dalle buste in cellophane alle scatole, alle bottiglie alle "vaschette", ai contenitori di plastica, a pesare più di ogni altra cosa sulla quantità di rifiuti che produciamo ogni giorno. E a far lievitare sensibilmente il prezzo di qualsiasi prodotto.
Progetti all'insegna di "sfuso è bello" sono nati un po' dappertutto, in Italia, dai detersivi alla pasta, alla frutta secca. Il problema è rappresentato dal rischio che tali apprezzabili iniziative restino casi isolati: un'inversione di tendenza in questo senso infatti è utile solamente se i cambiamenti di rotta avvengono su larga scala e a livello nazionale.
I problemi con cui ci si scontra sono essenzialmente quelli della pubblicità: le aziende, infatti, non di rado "remano contro". Se per i consumatori l'abolizione dell'involucro si traduce immediatamente in un doppio vantaggio, economico ed ecologico, lo stesso non si può dire per le aziende che confezionano il prodotto e che tendono a renderlo immediatamente riconoscibile: l'involucro che paghiamo caro a tutti i livelli, è anche un potente veicolo pubblicitario a bassissimo costo (e siamo noi a dovercene fare carico!).
Si potrebbe intervenire sul volume e sul colore, tanto per cominciare, tenendo presente che gli imballaggi più colorati sono anche i più inquinanti, anche se per catturare l'attenzione si fa a gara a usare tutta la gamma di colori disponibili inclusi i fluorescenti.
Certamente non si tratta di un'impresa facile, anche se tentativi in questo senso sono stati fatti un po' dovunque: in Svezia ogni azienda ha dovuto organizzare un settore riservato esclusivamente all'abbassamento dei consumi energetici,e alla riduzione degli sprechi e degli imballaggi.
In Svizzera si sono mossi diversamente, attraverso una marca da bollo applicata sui sacchetti della spazzatura: si paga a seconda dei chili di rifiuto prodotti. Ai consumatori conviene quindi ridurre i rifiuti il più possibile per arrivare a ottimizzare la capienza del sacchetto, e questo ha portato alcune aziende a mettere in commercio confezioni più sottili e più facilmente deformabili.

Andrea Costa: il suo Manifesto al Nuovo Secolo a me caro

XXXI DICEMBRE MCM - I GENNAIO MCMI

E’ l’alba del secolo novo. Gettate fiori a piene mani. Lavoratori, Pensatori, Uomini. Se il secolo che muore Vide la Unità e l’Indipendenza della Patria il Secolo che nasce ne vedrà la federazione. Se i conati di emancipazione delle classi lavoratrici di città e di campagna dal 1831 al 1871 Spietatamente nel Sangue furono soffocati la prossima generazione ne vedrà il trionfo. Se la donna soggiace ancora all’obbrobrio secolare, se il fanciullo non ebbe né pane né educazione, se il vecchio non trovò tetto e riposo Provvedi o Novo Secolo alla redenzione della donna, alla protezione del fanciullo, alla tutela del vecchio. Se la Internazionale parve Utopia! Cammina o Secolo. Ci sarà realtà. Avanti cittadini. Quand’anco i fiori dovessero al suolo cadere calpesti come strame e l’Osanna intonarsi in De Profundis. Avanti lanciamo al Secolo che non ci vide nascere, ma che ci vedrà morire il nostro core vivo. E pensando, lavorando, combattendo, amando, forti del falò storico che ne sospinge dalla scienza illuminati. Diamo oh! Diamo a tutti i figli degli uomini Lavoro, Libertà, Giustizia, Pace!

Andrea Costa

martedì 3 giugno 2008

Il vero Politico

"Non esistono più né destra, né sinistra: il vero Politico è chi sa cogliere le necessità del cambiamento"
Tony Blair