domenica 22 luglio 2012

Niente cultura, niente sviluppo

Occorre una vera rivoluzione copernicana nel rapporto tra sviluppo e cultura. Da "giacimenti di un passato glorioso", ora considerati ingombranti beni improduttivi da mantenere, i beni culturali e l'intera sfera della conoscenza devono tornare a essere determinanti per il consolidamento di una sfera pubblica democratica, per la crescita reale e per la rinascita dell'occupazione.


Una costituente per la cultura 
Cultura e ricerca sono due capisaldi della nostra Carta fondamentale. Le riflessioni programmantiche che proponiamo qui cercano di mettere a punto alcuni elementi «Per una costituente della cultura». L'articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi saldamente intrecciati tra loro.

Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi strettamente economico. Niente cultura, niente sviluppo. Dove per "cultura" deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E per "sviluppo" non una nozione meramente economicistica, incentrata sull'aumento del Pil, che si è rivelato un indicatore alquanto imperfetto del benessere collettivo e ha indotto, per fare solo un esempio, la commissione mista Cnel-Istat a includere cultura e tutela del paesaggio e dell'ambiente tra i parametri da considerare.
La crisi dei mercati e la recessione in corso, se da un lato ci impartiscono una dura lezione sul rapporto tra speculazione finanziaria ed economia reale, dall'altro devono indurci a ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo.

Strategie di lungo periodo 
Se vogliamo davvero ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano assai da vicino a quelle da cui è iniziato il risveglio dell'Italia nel secondo dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione dei saperi, delle culture, puntando in questo modo sulla capacità di guidare il cambiamento.

La cultura e la ricerca innescano l'innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo. La cultura, in una parola, deve tornare al centro dell'azione di governo. Dell'intero Governo, e non di un solo ministero che di solito ne è la Cenerentola. È una condizione per il futuro dei giovani. Chi pensa alla crescita senza ricerca, senza cultura, senza innovazione, ipotizza per loro un futuro da consumatori disoccupati, e inasprisce uno scontro generazionale senza vie d'uscita.
Anche la crisi del nostro dopoguerra, a ben vedere, fu affrontata investendo in cultura. Le nostre città, durante quella stagione, sono state protagoniste della crescita, hanno costruito "cittadini", e il valore sociale condiviso che ne è derivato ha creato una nuova cultura economica.
Ora le sfide paiono meno tangibili rispetto alle macerie del dopoguerra, ma le necessità e la capacità di immaginare e creare il futuro sono ancor più necessarie e non rinviabili. Se oggi quelle stesse città che sono state laboratori viventi sembrano traumatizzate da un senso di inadeguatezza nell'interpretare le nuove sfide, ciò va ascritto a precise responsabilità di governo e a politiche e pratiche decisionali sbagliate. Negli ultimi decenni nel nostro paese – a differenza di altri, Francia, Germania, Stati Uniti oltre a economie recentemente "emerse" – è accaduto esattamente l'inverso di ciò che era necessario. Si è affermata la marginalità della cultura, del suo Ministero, e dei Ministeri che se ne occupano (Beni e Attività Culturali e Istruzione, Università e Ricerca) considerati centri di spesa improduttiva, da trattare con tagli trasversali.
Cooperazione tra i ministeri 
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte dell'intero Governo, significa che la strategia e le conseguenti scelte operative, devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il Presidente del Consiglio. Inoltre il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in stretta coordinazione con quelli dell'Ambiente e del Turismo.
Non si tratta solo di una razionalizzazione di risorse e competenze, ma dell'assunzione di responsabilità condivise per lo sviluppo. Responsabilità né marginali né rinviabili. Se realisticamente una vera integrazione degli obiettivi sembra difficile date le strutture relative di potere di ogni ministero e la complessità di azione propria dei ministeri stessi, tuttavia questo non deve diventare un alibi per l'inazione. Al contrario: esso deve imprimere il senso della necessità di favorire ogni forma di sperimentazione possibile che vada nella direzione di una cooperazione tra ministeri, oltre che ripristinare i necessari collegamenti tra Nord e Sud, tra centro e periferie. Si tratta di promuovere il funzionamento delle istituzioni mediante la loro leale cooperazione, individuando e risolvendo i conflitti a livello normativo (per esempio i conflitti Stato-Regioni per le norme su ambiente e paesaggio).

L'arte a scuola, il merito e la cultura scientifica 
È importante anche che l'azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all'università, lo studio dell'arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro. Per studio dell'arte si intende l'acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell'arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, che anzi deve essere incrementata e deve essere considerata, in forza del suo costitutivo antidogmatismo, un veicolo prezioso dei valori di fondo che contribuiscono a formare cittadini e consumatori dotati di spitito critico e aperto. La dicotomia tra cultura umanistica e scientifica si è rivelata infondata proprio grazie a una serie di studi cognitivi che dimostrano che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico.

Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i nuovi cittadini all'accettazione di precise regole per la valutazione dei ricercatori e dei loro progetti di studio. Non manca il merito, nei percorsi italiani di formazione. Lo dimostra il crescente successo di giovani educati in Italia che trovano impiego nelle più prestigiose università di ricerca in tutto il mondo. Ma finché non riusciremo ad attrarre altrettanti "cervelli" dall'estero, questo saldo passivo dissanguerà la nostra scienza e la nostra economia.
È necessario, riguardo a ognuno degli aspetti trattati, creare le condizioni per una reale complementarità tra investimento pubblico e intervento dei privati, che abbatta anche questa falsa dicotomia. È la mancata centralità della cultura per lo sviluppo che ha portato a normative fiscali incoerenti e inefficaci.

Complementarità pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale 
La complementarità pubblico/privato, che implica una forte apertura all'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa e non presentarsi solo in episodi isolati. Può nascere solo se non è pensata come sostitutiva dell'intervento pubblico, ma fondata sulla condivisione con le imprese e i singoli cittadini del valore pubblico della cultura. Si è osservato in questi anni che laddove il pubblico si ritira anche il privato diminuisce in incisività, mentre politiche pubbliche assennate hanno un forte potere motivazionale e spingono anche i privati a partecipare alla gestione della cosa pubblica. Provvedimenti legislativi a sostegno dell'intervento privato vanno poi ulteriormente sostenuti attraverso un sistema di sgravi fiscali (in molti paesi persino il biglietto per un museo o un teatro è detraibile). Misure di questo genere ben si armonizzano con l'attuale azione di contrasto all'evasione a favore di un'equità fiscale finalizzata a uno scopo comune: il superamento degli ostacoli allo sviluppo del paese.



La cultura vale quanto la finanza


D'accordo, l'Italia deve fronteggiare la crisi finanziaria e il debito pubblico. Ma la cultura, comunque. Perché come recita il Manifesto pubblicato da questo giornale il 19 febbraio niente cultura, niente sviluppo. Il risanamento dell'economia si può fare in tanti modi. Per Ermete Realacci, presidente di Symbola, quello migliore è farlo «con un'idea di futuro», come ha detto ieri nella prima giornata del seminario estivo della Fondazione, a Treia, vicino Macerata. E poi, se vuole guardare al domani «l'Italia deve fare l'Italia perché è quando sceglie come naturale collocazione della competitività economica il terreno della bellezza, dell'innovazione, della ricerca, del made in Italy, che spesso incrociano la green economy, che vince. Non è un caso che l'industria culturale sia molto forte nelle regioni e nelle province che hanno un manifatturiero evoluto».


Nel rapporto 2012 sull'industria culturale in Italia, intitolato "L'Italia che verrà" e fatto in collaborazione dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, 20 esperti, con la supervisione del professor Pierluigi Sacco, hanno percorso la penisola in lungo e in largo, alla ricerca delle esperienze più avanzate e delle tendenze emergenti di ogni settore. È stato, il loro, un viaggio tra cultura, creatività, tradizione, innovazione, genio, ingegno e saper fare che passa per un milione e mezzo di realtà. In mezzo a milioni di monumenti e opere d'arte, ricordiamolo. Dal biocarburante di seconda generazione del Piemonte, alle sartorie tradizionali di Ginosa di Puglia, dalla Brianza del mobile all'occhialeria di Belluno. O dall'Emilia dei motori alle ceramiche di Deruta, dall'arredo casa del Friuli Venezia Giulia al cashmere dell'Umbria. E poi ancora dall'Abruzzo dell'alta sartoria e della pasta alle calzature marchigiane fino a Napoli, dove si concentrano le migliori sartorie di capospalla del mondo. Per non dire della Toscana del vino e del marmo di Carrara, del tessile di Prato e della nautica di Lucca, o della nascente filiera dell'animazione fortemente votata all'export.



La geografia dell'industria culturale ha eletto Arezzo come propria capitale. Qui, infatti, il valore aggiunto della cultura è il più alto d'Italia: l'8,4% del totale prodotto dalla provincia. Seconde classificate a pari merito Pordenone e Milano con l'8%, terze ex equo Pesaro e Urbino e Vicenza col 7,9%. Seguono la provincia di Roma con il 7,6%, quella di Treviso al 7,5%, Macerata e Pisa, entrambe al 6,9%, e Verona con il 6,8%. Dal punto di vista dell'incidenza dell'occupazione del sistema produttivo culturale sul totale dell'economia c'è sempre Arezzo al primo posto. Nella provincia toscana infatti l'incidenza dell'occupazione culturale rispetto al totale dell'economia è del 9,8%. Ma subito dopo Arezzo troviamo la provincia di Pesaro e Urbino, con un'incidenza del 9,5%, quindi quella di Vicenza al 9,1 per cento.

Mettendo insieme tutte queste esperienze è emerso un quadro che porta Claudio Gagliardi, segretario generale Unioncamere, a dire che «la dimensione dell'industria culturale in Italia non si può trascurare per il valore aggiunto, addirittura superiore a quello della finanza e delle assicurazioni, ma anche per l'export e per gli occupati». Prendendo come riferimenti questi indicatori l'industria culturale frutta al Paese il 5,4% del Pil, equivalente a quasi 76 miliardi di euro. Ma dà anche lavoro a un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,6% del totale degli occupati del Paese. Superiore, ad esempio, al settore primario, oppure a quello della meccanica. «Pari al doppio della somma del comparto della finanza e delle assicurazioni messi insieme», insiste Gagliardi. E allargando lo sguardo dalle imprese che producono cultura in senso stretto a tutta la filiera, il valore aggiunto passa dal 5,4 al 15% del totale dell'economia nazionale e impiega ben 4 milioni e mezzo di persone, quasi un quinto (il 18,1%) degli occupati.

Per questo dal seminario di Symbola, è arrivata una richiesta forte di considerare questa industria come strategica, «non la si può considerare centrale solo quando si devono fare tagli alla spesa pubblica», osserva Realacci. Anche perché se guardiamo il trend del quadriennio 2007-2011 il settore può dirsi, sotto molto aspetti, anticiclico. La crescita nominale del valore aggiunto delle imprese del settore della cultura è stata dello 0,9% annuo, più del doppio rispetto all'economia italiana nel suo complesso (+0,4% annuo). E l'occupazione tiene, anzi aumenta, seppure in maniera contenuta, quando a livello generale cala. Tra il 2007 e il 2011, gli occupati nel settore sono cresciuti dello 0,8% annuo, a fronte della flessione dello 0,4% annuo subita a livello complessivo. E non è ancora finita. A completare il quadro c'è il saldo della bilancia commerciale: per la cultura nel 2011 l'attivo è stato 20,3 miliardi di euro, per l'economia complessiva, invece, -24,6 miliardi. Non sono solo numeri questi, «sono il frutto di uno sforzo per guardare all'Italia con occhi meno pigri». Niente cultura, niente sviluppo.


sabato 21 luglio 2012

Tatuaggi, la tribù 2.0

Basta una passeggiata su un litorale per farsi un’idea dell’incredibile diffusione del fenomeno. Tatuaggi ovunque e di ogni forma. Non più, non solo adolescenti e giovani appartenenti a una controcultura: il tatuaggio è una moda contagiosa anche per i loro genitori. Musicisti, calciatori e attori hanno tracciato il sentiero: se un tempo il tatuaggio era un segno di primitività, oggi è al contrario un marchio di progresso. L’Occidente ha fame di tatuaggi e cerca altrove, in altre culture, simboli autentici e «tribali», come si usa dire.

«Se cerchi un tatuatore, vai da Willy». Così mi dissero, un paio di anni fa, alcuni amici di Futuna, un’isola della Polinesia occidentale. In tanti anni di ricerche antropologiche in Oceania non mi ero granché interessato al tatuaggio, benché lo stesso termine sia originario proprio della Polinesia.
Fu James Cook a raccogliere la parola tatau a Tahiti nel 1769, durante il suo primo viaggio di esplorazione del Pacifico e a divulgarlo in inglese (tattoo, tattooing) insieme a una descrizione densa della pratica.
Willy è un giovane sulla trentina, di mestiere fa il meccanico di automobili e, nei weekend, integra il salario con i tatuaggi. Willy però, a differenza di quanto ci piacerebbe immaginare, non è l’ultimo discendente di una lunga dinastia di artigiani-tatuatori: «La passione mi è venuta in Francia, quando facevo il militare — mi racconta —. Ho imparato a tatuare in Nuova Caledonia, in una bottega di indonesiani». Quando gli chiedo se nel suo repertorio ci siano segni locali, mi risponde che qui, sull’isola, «non vanno». La gente vuole i tatuaggi dei calciatori, oppure segni cristiani (la Croce, il Sacro Cuore). Alla fine mi inviterà a visionare il suo campionario su un pc, connettendosi a un sito californiano.

Strana, avvincente e pressoché sconosciuta storia quella dei tatuaggi. Molti occidentali sognano oggi esotici e autentici marchi polinesiani da esibire a fior di pelle, mentre i polinesiani si imprimono, oltre alle tradizionali figure geometriche, marchi occidentali. Il tatuaggio non era una pratica del tutto ignota all’Occidente, prima di Cook: greci, romani, celti e altre popolazioni europee praticavano forme di tatuaggio, seppure non esteticamente elaborate come quelle oceaniane o giapponesi. Già Ötzi, la mummia del Similaun, aveva parecchi segni impressi nella pelle, forse a scopo terapeutico. La scoperta dei tatuaggi polinesiani da parte di Cook ebbe tuttavia un ruolo dirompente nel trasformare una pratica marginale in un fenomeno ben più importante, tanto da meritare un nuovo nome: tattoo. Con Cook si apriva una nuova pagina, non solo perché i tatuaggi polinesiani venivano descritti e rappresentati con cura (si pensi ai visi maori raffigurati da Sydney Parkinson), ma perché molti marinai e ufficiali divennero così intimi con i nativi da farsi tatuare dagli stessi tahitiani, accettando di buon cuore questa forma di «violenza controllata» (N. Thomas, A. Cole e B. Douglas, Tattoo. Bodies, art and exchange in the Pacific and the West, Durham, Duke University Press, 2005). Ci troviamo sì davanti a curiosità per l’esotico e fascino à la Rousseau del primitivo «incontaminato», ma anche a un desiderio di incorporare l’altro, rendendolo parte indelebile del sé.

La storia dei tatuaggi è caratterizzata in Occidente da una persistente ambivalenza. Se, alla fine del Settecento, oltre agli umili marinai anche i nobili di corte ne furono così affascinati da volerli imprimere sui propri corpi, ben presto la pratica divenne il segno di un’umanità deviante, pericolosa o irrimediabilmente primitiva. A tatuarsi, nel corso dell’Ottocento, furono soprattutto galeotti, marinai, prostitute, figuranti da circo. Il tatuaggio, in questa prospettiva, veniva interpretato come il «marchio di Caino», quel segno che secondo la Genesi (4, 15) Dio impresse sul primo omicida, come segno di perdono, forse,ma anche come marchio di infamia. Molti missionari, vedendo in queste pratiche un’indebita interferenza nell’opera di costruzione divina, proibirono i tatuaggi che, in varie parti dell’Oceania, scomparvero del tutto. Ancora alla fine dell’Ottocento, Cesare Lombroso considerava il tatuaggio un segno evidente e indelebile dell’uomo delinquente e del primitivo: brandelli di pelle di internati, tagliati ed essiccati dallo scienziato torinese, erano visibili fino a una decina di anni fa nel suo museo.

Accanto a questa visione negativa, esemplificata anche dall’uso del punitive tattooing in contesti coloniali (per marchiare presunti criminali e dissidenti) e nei campi di sterminio nazisti, conviveva tuttavia un’attrazione e un fascino che avrebbe determinato, due secoli dopo Cook, il «rinascimento» del tatuaggio.
Alla fine degli anni Sessanta del Novecento, i giovani americani aderenti al movimento dei Modern Primitives, cominciarono a tatuarsi e a rivendicare le qualità estetiche e morali dell’antica pratica. In un Occidente che iniziava a riflettere in modo più critico su di sé e sulla propria storia coloniale, gli «altri», i «primitivi», le loro pratiche e saperi, tornavano a essere pensati come possibilità alternative, vie di uscita dal conformismo e dal consumismo dilagante. Il rifiuto della cultura dell’Occidente e la rivendicazione di un’autopoiesi del corpo rilanciarono la moda del tatuaggio che sarebbe poi esplosa nel corso degli anni Ottanta.

Fu in questi stessi anni e nel contesto di una rivalorizzazione delle tradizioni locali che anche i polinesiani riabilitarono l’antica pratica, a partire da Tahiti, dalle Hawaii, da Samoa e via via dal resto del mondo insulare. Come ha raccontato Matteo Aria (Cercando nel vuoto. La memoria perduta e ritrovata in Polinesia francese, Pisa, Pacini, 2007), la tecnica e i segni del tatuaggio polinesiano furono ri-creati da intellettuali e attivisti locali a partire da una ricerca in quelle isole in cui i tatuaggi non erano del tutto scomparsi. A Samoa, per esempio, lontano da sguardi indiscreti, i nativi avevano continuato a praticare il pe’a e il malu (tatuaggio maschile e femminile) sui loro corpi, anche perché nella cultura samoana il tatuaggio rappresentava (e rappresenta tuttora) una modalità irrinunciabile per «costruire umanità», per accompagnare i giovani nel loro ingresso all’età adulta.
La rinascita del tatuaggio in Polinesia fu resa egualmente possibile da uno studio delle fonti occidentali: quegli stessi occidentali responsabili del venir meno della pratica contribuirono a salvare qualcosa di essa riproducendo quei segni — come fece per esempio l’artista russo Tilesius Von Tilenau alle Marchesi — su supporti di memoria come libri, dipinti, incisioni, più duraturi del corpo umano. Viaggiando in America e in Europa per partecipare alle numerose Convention del tatuaggio (Roma e Milano le principali mete italiane), tahitiani, samoani, hawaiani tornano oggi a tatuare le pelli dei bianchi, come fecero i loro progenitori.

Willy e gli altri tatuatori polinesiani non sono più i custodi di una originaria e incontaminata arte del corpo e tuttavia l’interesse principale del tatuaggio sta, forse, proprio in questo suo carattere meticcio. Tutte le culture che lo hanno praticato hanno attribuito un significato particolare ai segni riprodotti (simboli di fecondità, potere, bellezza, erotismo…): tuttavia il tatuaggio sembra avere anche un significato trans-culturale, proprio perché si presta a divenire una pratica condivisa.
Imprimere in modo indelebile su ciò che si ha di più intimo, il proprio corpo, i segni di «altre» culture, è a mio avviso una delle testimonianze più forti di quanto sia profondo nell’uomo il desiderio e il bisogno della diversità culturale. L’ambivalenza del tatuaggio è espressione, in fondo, della doppia faccia della diversità: paurosa e attraente, rischiosa e inevitabile al tempo stesso.

Adriano Favole - Il Club della lettura - Corriere della Sera

domenica 15 luglio 2012

Memento Audere Semper

"Nulla d'estraneo mi tocca e d'ogni giudizio altrui mi rido".

"Vivere ardendo e non bruciarsi mai".

"E credere in te soltanto, giurare in te soltanto, riporre in te soltanto la mia fede, il mio orgoglio, tutto il mio mondo, tutto quel che sogno, e tutto quel che spero...".

Gabriele D'Annunzio

martedì 10 luglio 2012

L'assertività


L'assertività è una caratteristica del comportamento umano che consiste nella capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e opinioni senza tuttavia offendere né aggredire l'interlocutore.
I presupposti necessari per un comportamento assertivo sono: una buona immagine di sé (autostima); un'adeguata capacità di comunicazione; una libertà espressiva; buona capacità di rispondere alle richieste e alle critiche; la capacità di dare e di ricevere apprezzamenti e di dirimere i conflitti.

A volte l'assertività rischia di essere giudicata negativamente perché le persone solide e sicure di sé possono venire percepite in modo troppo aggressivo. Ma l'assertività, se bilanciata con altre importanti qualità, può aiutare ad eccellere in molte cose sul lavoro e nella vita privata.
Come promuovere il lavoro di squadra ad esempio. La performance di un team può aumentare se i membri sono in grado di esprimere punti di vista "impopolari". Utilizzare la fiducia in se stessi per creare un'atmosfera che induca anche le altre persone a parlare chiaramente è un "plus" non indifferente.
Oppure permette di guidare il cambiamento. Per un cambiamento costruttivo occorrono iniziative coraggiose. Essere assertivi aiuta a rompere le resistenze che spesso nascono quando si è chiamati a compiere uno sforzo di questo tipo.
Alla base però occorre agire assolutamente con integrità. Se unita all'onestà, l'assertività  da  il coraggio di difendere ciò che si ritiene giusto. 


domenica 8 luglio 2012

Il Daruma e la gestione degli obiettivi

I Daruma o le Daruma sono figurine votive giapponesi senza gambe né braccia, che rappresentano Bodhidharma (Daruma in giapponese), il fondatore e primo patriarca dello Zen. I colori più comuni sono: rosso (il più frequente), giallo, verde e bianco.

Il Daruma è rappresentato con un volto stilizzato da uomo con barba e baffi, ma gli occhi sono dei cerchi di colore bianco. La tradizione giapponese richiede che, usando dell'inchiostro nero, bisogna disegnare un solo occhio esprimendo un desiderio; se il desiderio dovesse avverarsi, verrà disegnato anche il secondo occhio.

Oggi, anche da me, viene utilizzato per ricordarsi un Obiettivo da raggiungere. Messo sulla scrivania con un solo occhio colorato, ci ricorda lo scopo che ci siamo prefissati di raggiungere, la nostra meta. Una volta raggiunto l'obiettivo si colora l'altro occhio e si è pronti per una nuova sfida.

Ho imparato ad utilizzare la simbologia del Daruma (o una sua rappresentazione su stampa) dopo un corso sulla gestione del tempo organizzata dai produttori dell'agrnda Time Management, nel lontano 1987. Forse qualcuno lo ricorderà.

Da allora quando intraprendo un nuovo progetto colorata una pupilla della bambola, e il simbolo del Daruma diventa un reminder dell'obiettivo da raggiungere.

martedì 3 luglio 2012

Rendete la creatività un' abitudine


La creatività è una dote indispensabile per muoversi in un mondo sempre più complesso. La strada che conduce a un pensiero creativo può risultare, tuttavia, sorprendentemente semplice. 
Per migliorare le vostre doti di inventiva, mettete in pratica i seguenti consigli:
Riducete lo stress, ma non troppo. Uno stato di eccessiva rilassatezza non favorisce la vostra creatività. Andate alla ricerca di uno stato emotivo "a metà", né troppo stressato né troppo rilassato.

Uscite dal vostro ufficio. Andate a piedi a lavoro, prendete mezzi pubblici, andate in giro stando attenti ad osservare come si comportano i consumatori e come passano il tempo. Se non vi prendete del tempo per coltivare bene la vostra creatività, non avrete niente da offrire.

Lasciate vagare la vostra mente. Gli studi dimostrano che i sogni a occhi aperti stimolano uno stato mentale unico. Se permetterete alla vostra mente di vagare, riuscirete a combinare i diversi punti (conoscenze, emozioni, fatti, ecc) in un modo nuovo e creativo.