Seguiteci, torniamo indietro di sette mesi fino all'apice della storia del capitalismo americano del ventunesimo secolo: eccoci in mezzo a un brulichio di anime affini adoratrici delle star, davanti allo Sheraton Hotel della Settima Avenue a Manhattan. Tutti si agitano, si dimenano.
Scorriamo accanto a una schiera di poliziotti e a un battaglione di operativi della security in abito grigio con dei tecno-polipetti nelle orecchie attaccati a spirali di cavo bianco da interfono che cercano di tenerci sotto controllo… mentre quasi calpestiamo la massa di giornalisti e troupe televisive straccione, barbonesche, e dei curiosi che ci intralciano il cammino.
Siamo esaltati! – siamo eccitati, ardiamo, bramiamo la vista fugace del John Jacob Astor, dell'Andrew Carnegie, dell'E.H. Harriman, del John D. Rockefeller, dell'Henry Ford, del Bill Gates del nostro secolo… ed eccolo lì! Guardatelo! Non porta il colletto da smoking e la cravatta di seta sgualcita di Astor né il cilindro rigido in seta e il tight di John D. con un garofano rosso nell'asola del risvolto sinistro e un paio di pantaloni a righe, e neppure l'abito da grandi magazzini di Bill Gates. No: il nostro uomo ha solo ventisette anni ed è vestito come un tycoon del nostro tempo… Per camicia ha una T-shirt grigia, presa dalla trentina di T-shirt grigie che ha sempre con sé per non perdere mai il look da adolescente ribelle che se ne frega della moda… e sopra, una felpa grigio scuro col cappuccio, capo noto comunemente come hoodie. Da oggi, 7 maggio 2012, in poi, lo hoodie diventa il suo simbolo, il marchio di fabbrica, lo stendardo da battaglia.
In un quarto d'ora saremo nella sala da ballo con una folla di soli invitati incravattati che compone la più ricca banda di potenziali investitori d'America, anzi del mondo, nell'offerta pubblica iniziale di vendita di azioni per il valore di 104 miliardi di dollari della sua azienda, addizione recente al novero del nostro ramo industriale più moderno: la cosiddetta IT, l'Information technology.
Come chiunque abbia letto fin qui ha già capito da solo, la sua azienda si chiama Facebook, e il giovane è il primo tycoon della IT del nostro secolo: Mark Zuckerberg. Al 14 maggio, Facebook ha 901 milioni di clienti, un abitante su otto della Terra (e sarebbe presto arrivata a un miliardo, uno su sette). Nessuno aveva mai sognato niente di simile: una "rete sociale", un social network, che potesse consentire alla gente in tutto il mondo di raggiungere chiunque istantaneamente, gratis, e condividere foto di sé e Dio sa cos'altro.
Le azioni sarebbero state messe in vendita tre giorni dopo, giovedì 17 maggio alle undici del mattino. Per quell'ora, già 82 milioni di offerte sarebbero state pronte, cariche e scalcianti, ai blocchi di partenza. Zuckerberg aveva ingaggiato cinque storiche banche d'investimento perché si occupassero in concreto dell'offerta: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Barclays Capital, e la banca che aveva la supervisione dell'operazione: Morgan Stanley, nelle persone di James Gorman, il Ceo, e Michael Grimes. Grimes era stato nominato «affarista» numero uno di Wall Street nella Forbes Midas List, la lista «Re Mida», per quattro anni di fila dal 2004 al 2007. Alle undici in punto – buum! – le 82 milioni di offerte furono sul mercato. I nostri banchieri investitori della vecchia guardia muoiono di curiosità. Non hanno mai visto niente di simile alle orde di compratori che cavalcano verso di loro con addosso miliardi di dollari – miliardi! – ansiosi di metter le mani sulle quote di Facebook al prezzo di Offerta Pubblica Iniziale di 38 dollari ad azione prima che schizzi a 76 dollari e chissà quanto più in alto ancora. Un numero di compratori incredibile! I nostri vecchi ragazzi vanno nel panico. Scivolano, scartano, si impappinano. Senza la minima idea di cosa stiano facendo, cominciano ad affondare quella che è la più grande e più pubblicizzata Ipo della storia sotto ondate consecutive di incompetenza.
Imbarazzati, i vecchi ragazzi lo chiamano «errore tecnico» quando l'assalto di offerte li sommerge al punto che milioni di transazioni vengono registrate ai prezzi sbagliati. Il capo della banca leader, Gorman di Morgan Stanley, dà tutta la colpa al Nasdaq, la borsa che gestisce queste transazioni. Date le circostanze – letteralmente, la più grande Ipo della storia – suona come se Napoleone desse la colpa di Waterloo agli addetti ai rifornimenti per non aver consegnato in tempo la biancheria pulita alle prime linee.
Per ore, dopo l'inizio, il mercato fu un disastro. Quantità imprecisate di investitori pronte a spendere milioni si trovarono davanti un disastro grottesco, girarono i tacchi e tornarono a casa. Morgan Stanley e il resto del Vecchio Personale di Servizio & Co. riuscirono (senza rimetterci denaro) a sostenere il prezzo iniziale della Ipo, 38 dollari ad azione, fino alla fine del primo giorno. Nei dieci giorni successivi crollò poco meno del 25 per cento. Dopo diciotto giorni era sceso a 25,75, due terzi del prezzo di apertura. Il 2 settembre era piombato a 17,79, meno della metà dell'offerta iniziale.
E a coronamento arrivò una sfilza di accuse secondo cui Facebook aveva fatto male nel primo trimestre senza migliorare nel secondo, notizia che Morgan Stanley non aveva dato al pubblico – noto come i «compratori al dettaglio» – ma solo agli insider che avevano investito in Facebook prima della IPO.
«Non abbiamo fatto niente di male», rispose Morgan Stanley. Ma grossi insider quali Goldman Sachs, Accel Partners e Greylock Partners scaricarono le loro azioni sul mercato nel momento dell'apertura degli scambi del Nasdaq. Pare che se ti chiami «Compratore al dettaglio» significa che in campo c'è qualcun altro di nome «Ingrosso», e lui… ti ha già fregato. Scaricarono milioni di azioni, sufficienti ad abbassare da sole i prezzi. Un analista del Cowen Group, Peter Cohen, disse: «In qaurantatré anni non ho mai visto un bordello del genere».
La Ipo si dimostrò ben più che un bordello incredibile. Il 17 maggio è il giorno in cui Wall Street si ritrovò vaporizzata. Dopo il Facebook Day, tutto ciò di cui "Wall Street" era stata metonimia, il denaro vero, il Quadro Generale dell'economia americana, l'eccitazione, il senso che è qui che succede tutto, era finito.
Fino al 2006, uno spirito di virile audacia aveva pervaso le banche d'investimento di Wall Street. Scambiare azioni e bond era la cosa più vicina al combattimento armato. I guerrieri, vale a dire i broker, raccontavano di come combattere – come avevano affrontato non un nemico armato ma un ventaglio di schermi di computer – creava un'euforia più inebriante di ogni altro stato mentale immaginabile. Erano tutti fatti all'inverosimile – e non solo grazie all'estasi sconquassante della battaglia. C'era pure il fatto non incospicuo che questi Ragazzi del Boom – molti ancora ventenni, ancora capaci di arrossire – mettevano via milioni di dollari di bonus, ogni anno senza sosta…
La vittoria registrata su quegli schermi li fece sentire i Padroni dell'Universo. La frase viene da un romanzo del 1987, Il falò delle vanità, il cui personaggio principale, Sherman McCoy, è un broker trentottenne di una banca d'investimento che fa una milione all'anno in bonus e vive nella parte più costosa di Park Avenue. Un giorno sente squillare il suo telefono nella sala delle contrattazioni della Borsa, risponde e prende un ordine d'acquisto per un numero tale di obbligazioni zero coupon che la sua commissione è di 50mila dollari. Ci sono voluti venti secondi, forse trenta, e – zac – ha cinquantamila dollari in più! Nell'area di Broca del cervello gli risuona subito la frase: «Sono un Padrone dell'Universo!» – dritto dalla collezione di pupazzetti della sua bambina di sei anni, i «Masters of the Universe», che avevano nomi come Ahor, Blutong e Thonk e sembravano dèi norreni che pompavano in palestra e bevevano creatina e frullati all'ormone della crescita.
Nel mondo reale, i giovani da sala delle grida di Wall Street lessero quel libro e si esaltarono con quel nome, Padroni dell'Universo. Lo pronunciarono ad alta voce con ironia – non erano mica scemi – e non fecero mai parola della botta di esaltazione che li attraversava quando lo dicevano: sono un Padrone dell'Universo…
Il crollo del mercato del novembre 1987 non diminuì quell'estasi se non per la durata di qualche singulto. Stessa cosa per il crollo delle "dotcom" del 2000-02. Ancora dopo il 2002, i Padroni dell'Universo possedevano un tale fascino incantatore che si stimava che il 40 per cento del migliore 10 per cento dei laureati di Harvard, Yale e Princeton cercasse lavoro a Wall Street.
Nel 2004, un noto broker della Deutsche Bank, John Coates, canadese, sconcertò i suoi amici e colleghi guerrieri degli schermi di battaglia mollando Wall Street e volando in Inghilterra a ricaricarsi alla sua alma mater, la Cambridge University, come grad student di primo anno in neuroscienze. «Neuroscienze?! In un Paese del Secondo Mondo come l'Inghilterra?».
La verità era che Coates non aveva smesso per un attimo di pensare a Wall Street. Era intrigato dall'idea che a un mucchio di giovinastri scapestrati, impulsivi, stonati e ululanti passassero per le mani ogni giorno miliardi di dollari. Si rivolgeva alle neuroscienze sperando di scoprire una possibile spiegazione all'assurdo fenomeno dei… Padroni dell'Universo.
Anche lui membro recente del branco, riuscì a persuadere diciassette broker della versione londinese di Wall Street, «la City», a lasciargli monitorare il loro quadro endocrino in tempo reale, nella sala delle grida della borsa, da prima del via a subito dopo la fine pomeridiana. La tecnologia era semplicissima. Tutti e diciassette dovevano sputare tre millimetri di saliva – vale a dire la metà dell'1 per cento di uno scatarro e il 2,1 per cento di uno sputazzo e tre volte uno sputino – in provette di polistirolo. Se non riuscivano a produrne, ricevevano gomme da masticare senza zucchero. A pochi minuti, mettiamo, da un'asta da dieci miliardi di sterline di obbligazioni governative a vent'anni, il corpo di un broker, le sue viscere, facevano una giravolta, ripartivano e si ricaricavano per poter prendere decisioni rapide – decisioni da miliardi di sterline.
Così la mise Coates: «Il metabolismo [del broker] accelera, pronto a fare a pezzi le scorte energetiche di fegato, muscoli e cellule grasse»… la respirazione accelera… il cuore comincia a martellare… le cellule del sistema immunitario prendono posizione nei «punti vulnerabili»… il sistema nervoso devia il sangue dallo stomaco – «dandogli le farfalle» – e dagli organi sessuali – non gli serviranno fino a un attimo dopo la fine – e li dirotta ai grandi muscoli di armi e braccia. Intanto è stato prodotto rapidamente del testosterone, e adesso gli steroidi cominciano a pompare dai testicoli nel sangue, insieme ad adrenalina e cortisolo, che a sua volta porta al rilascio della dopamina – che a quanto sappiamo è «la droga che in assoluta dà più dipendenza». La botta convince i broker che «non esiste altro lavoro al mondo». Il broker diventa un'altra persona, non solo sicuro di sé ma dominante… un Padrone. È pronto a correre rischi che terrorizzerebbero un uomo inferiore. «Si sporge sul suo schermo, le pupille dilatate, il respiro ritmato, i muscoli raccolti, corpo e cervello fusi di fronte all'azione imminente».
Vale a dire, diventa il doppio ormonale di un maschio di tigre o di un toro scatenato o di un Delta Commando, un Navy Seal, un combattente dell'Air Force, un gangster di East New York pronto per un combattimento all'ultimo sangue. All'inizio, testosterone e adrenalina e gli altri stimolatori ormonali sono al suo servizio per prepararlo alla mischia. Coates ha scoperto perfino che i broker con livelli di testosterone oltre la media la mattina lavorativa poi tendono a chiudere la giornata in profitto. A quanto pare, il testosterone e tutti gli altri eccessi ormonali rendono un broker più rapido a scovare un'occasione e più audace nel coglierla al volo. Nelle intenzioni di Coates, il suo piccolo studio – solo diciassette soggetti – voleva essere il preludio a uno ben più grande. Ma il suo testosteronorama e altre scoperte furono così sconvolgenti, e i risultati così omogenei fra i diciassette, che la National Academy of Science lo mise online (14 aprile 2008) prima di mandarlo in stampa con il titolo di Steroidi endogeni e rischio finanziario in una piazza di scambio londinese. (In seguito completò uno studio più grande, con 250 soggetti, e l'anno scorso ne ha tratto un libro, The Hour Between Dog and Wolf).
Lo sballo del broker è una botta così forte che non la si può lasciare in ufficio all'ora di cena. Ora, dopo la battaglia, una «esuberanza irrazionale» lo segue per le vie della città… ed è ancora al suo fianco, sotto pelle, quando torna in ufficio la mattina dopo. La sua esaltazione, come il suo testosterone, è a un livello più alto che mai. Comincia a comportarsi come fosse parte di un'unità di Forze Speciali. Non aspetta mai che un superiore faccia rispettare la disciplina. Se ne prende carico da solo… e ad alta voce. Tu!... sì, tu!... Niente perdigiorno nella sala delle grida!... Non perdere tempo con un «pranzo d'affari». Se devi prenderti qualcosa da mangiare, mammoletta, ordinalo al deli… Non leggere roba irrilevante come l'Economist (le notizie in edicola arrivano già vecchie), e ancora meno Racing Form per le scommesse sui cavalli o i magazine tette e culi, come urla Sherman McCoy nel Falò delle vanità.
Erano come guerrieri – tranne che per una cosa: la possibilità che un Padrone dell'Universo morisse nell'espletamento del suo dovere erano statisticamente nulle. Erano quasi tutti under quaranta, e la probabilità di avere un infarto mentre imprecavano contro il Fato a con le mani sulla testa, prede di tremolii spastici…, era scarsa.
Nella sala delle grida impersonavano versioni leggermente più adulte e ampiamente più ricche dei frat boys: i ragazzi delle confraternite universitarie, sotto la deboscia, il bere, la cocaina, gli scherzi, il bere, le scopate, i discorsi sulle scopate, lo smignottare in giro, i discorsi sullo smignottare in giro, il bere, le uscite sarcastiche classificate in Sarc I, Sarc II e Sarc III, l'indulgere in temi esoterici come le dimensioni di uno stronzo o il raggio del proprio getto di vomito, avevano un solo e semplicissimo desiderio: rappresentare un'idea virile del mondo.
Il Padrone dell'Universo non si preoccupa della virilità. È virile, punto. Mascolinità ne ha a scialo. Ha il problema opposto, semmai. L'esuberanza irrazionale ce l'ha sotto la pelle. Ora, dopo la battaglia, mentre avanzano le tenebre, la sua esaltazione, come il suo testosterone, è più alto che mai. Circonfonde ogni aspetto della sua vita, in particolare l'appetito sessuale.
Un giorno, speriamo presto, una squadra di antropologi intraprendenti metterà insieme le migliaia di storie – alcune assurte al livello di leggenda – delle vite amorose dei Padroni dell'Universo. Queste storie sono invariabilmente raccontate dalle tipe, come le chiamano i Padroni… le tipe. Agli occhi di una tipa, l'appuntamento si esauriva nel monologo insistito del Padrone dell'Universo su due soli argomenti: la Mia Carriera, e il sesso. I suoi discorsi sulla Mia Carriera, dicevano le tipe, erano infinitamente infinitamente infinitamente noiosi noiosi noiosi non ne posso più! MI DARÒ FUOCO AI CAPELLI PER FAR FINIRE QUESTA NOIA!
Quando si trattava di fare sesso, però, le spiegazioni di lui non si facevano garrule, non partivano per la tangente, e le dimostrazioni pratiche non prendevano mai più di sessanta secondi. Andava così: pum pum pum pum pum pum pum oo-oo-oo-oo-oo-ooooh uh oo agghhh e bingo… Si rotola su un fianco, russa come un orso.
Naturalmente, essendo così virili, così rapidi, così… be'… così padroni, non potevano non sentirsi superiore alla gente comune con cui dovevano trattare ogni giorno. Cercavano di non darlo a vedere… ma quando i guerrieri erano fra di loro, nella sala delle grida, mettiamo, come potevano evitare di prendere in giro le anime semplici in cui si imbattevano lavorando? È un po' come i poliziotti di New York, che chiamavano i cittadini spaesati «bomboli».
I Padroni dell'Universo avevano lo stesso genere di terminologia per riferirsi agli abitanti ignari del loro mondo – quali? Secondo Michael Lewis, per un periodo broker della Salomon Brothers, alla Salomon girava la seguente barzelletta:
«Qual è la seconda forma più infima di vita umana?».
«Non lo so, quale?».
«Un broker di azioni di Dallas». Questa era la prima parte della barzelletta, con la prima punchline. All'epoca, negli anni Ottanta, l'azione, i soldi veri, non si facevano con le azioni, ma con il mercato obbligazionario, e di certo non in Texas.
«E allora qual è la forma più infima di vita umana?».
«Il cliente». Ecco la seconda punchline.
Alla Salomon Brothers andava così. A Goldman Sachs chiamavano i clienti «muppets», come i pupazzi della tv. Altre banche d'investimento chiamavano i clienti «pesci piccoli», «coglioni», «bersagli», «pecore», «tonti», «agnelli», «cuccioli di foca»… Parole come coglioni, bersagli e agnelli mordevano molto più di bomboli. Dopotutto, dov'è che vanno gli agnelli? Al mattatoio.
I Padroni dell'Universo avevano sempre considerato i loro clienti persone da non lasciar uscire di casa con i soldi in tasca. E invece eccoli qua e certo qualcuno doveva approfittare di loro. Alzare i palmi e scrollare le spalle e guardarli passare… dovevi essere sfigato come loro. Erano degli sfigati; non erano stupidi. Avevano i soldi, e dei Q.I. sopra il 98. Perciò dovevi chiederti: perché mai vengono a investire in una banca d'affari? In un fondo speculativo almeno avrebbero avuto una possibilità di battersi. Il manager lì investe i suoi soldi, come te. Be', siamo onesti: non tutte le banche d'affari portavano i clienti a farsi macellare. D'altro canto, cosa c'era di male a tosarli ogni tanto?
I nostri Padroni virili, ancora ripieni di testosterone e dopamina, non riuscirono a capire cos'era successo quando nel 2009 accadde la cosa più improbabile del mondo: un mucchio di deboli, un mucchio di nerd noti come Quants, gli analisti quantitativi, gli sbatterono in faccia i cancelli d'oro.
I nerd… Il nerd non è mai stato definito con precisione: è merito della complessità psicologica della creatura. La parola connota un certo grado di intelligenza. Il nerd tipico è maschio, è intelligente ma non vuole dare alla sua intelligenza un aspetto virile. Non pratica sport, non si scompiscia per le battute sulle ragazze che la danno via, non puntella la sua virilità gridando c---o a ogni piè sospinto, non si rende conto di quanto fa pena quando spara in alto il braccio e agita la mano come una bandiera sperando che la maestra chieda a lui di dare la risposta alla domanda, non si vendica degli insulti dei compagni nel cortile della scuola – oh, il cortile… il cortile… È lì che ha imparato che non è un Padrone dell'Universo né lo diventerà mai… non basterà una vita… e allora sviluppa interessi che non sono virili né non virili – solo ossessivi, come catturare insetti la notte e infilzarli su una bacheca, organizzandoli meticolosamente per genere, specie e sottospecie.
Non c'è niente di male… è solo un po' strano e da cervelloni – in breve, da nerd. Se un nerd era un po' strano ma non cervellone, era noto come "dork", un tontolone. La parola non connota comportamenti sessuali devianti. Il Padrone dell'Universo considerava tutte le varietà di nerd – quants, dorks e nerd comuni – asessuali.
Il quant era ciò che un nerd poteva diventare salendo di grado, se si rivelava un genio della matematica. Era la maniera virile con cui i broker contraevano il termine analista quantitativo. I quants fecero la loro comparsa sulle piazze di scambio verso la fine degli anni Ottanta per allestire i computer che dovevano raccogliere le informazioni e organizzarle più in fretta di un broker, liberando così il Padrone dell'Universo da una sacco di lavoro noioso e scartoffie. Al principio, i broker guardavano dall'alto in basso i quants, li consideravano nerd che non avevano, in Gergo Padrone real-virile, «le palle» che ci volevano per scendere in campo e accollarsi i grossi rischi inevitabili se volevi fare tanti soldi. Fu nei primi anni Novanta che i Padroni coniarono la parola quant, probabilmente perché aveva il suono di una zecca gonfia di sangue schiacciata da un pollice. Non sospettavano, minimamente, le trame di questi deboli senza palle eternamente spiaccicati sui divani.
Nel 1942, Joseph Schumpeter scrisse che azioni e obbligazioni sono «proprietà evaporata». Lo trovarono tutti un aforisma argutissimo, ma Schumpeter intendeva protestare. «Sostituire a muri e macchine di una fabbrica una mera quantità di azioni», disse, «toglie vita all'idea di proprietà». I nuovi proprietari, vale a dire gli azionisti, perdono la volontà dell'imprenditore e del fondatore «di lottare, economicamente, fisicamente, politicamente, per la "sua" fabbrica e il suo controllo su di essa e di morire alle sue porte se necessario». Invece, al primo sentore di un problema gli azionisti se la filano e vendono le loro quote di proprietà a chiunque li compri sul mercato azionario… e se ne infischiano di chi è il compratore.
Fu così che azioni e obbligazioni fecero evaporare la proprietà. Ciò che avevano in mente i quants era un salto quantico (per così dire) fino al prossimo stadio: l'evaporazione di azioni e obbligazioni… non la proprietà – quella era sparita da un pezzo – ma le stesse azioni e obbligazioni, e farci sopra dei soldi veri veri.
Non era un'idea nuova, ma pure fra i quants erano in pochi a saperne l'origine. Nel 1962 un giovane professore di matematica del Mit, Edward O. Thorp, trentenne, aveva pubblicato un metodo matematico a prova d'idiota per vincere al blackjack contando i numeri delle carte già giocate. Fece la dimostrazione dal vivo giocando in una serie di casinò del Nevada… con il denaro di un giocatore professionista. Il libro – e lo stesso Thorp – fecero infuriare l'industria del gioco d'azzardo.
Ormai ogni scemotto confuso poteva entrare in casinò e ripulire il banco. I casinò dovettero cambiare le regole di un grande (e redditizio) vecchio gioco. Naturalmente, il pubblico se la bevette, e Beat the Dealer divenne un bestseller. Per i matematici era roba geniale – rimpiansero di non averci pensato loro – ma al dunque anche molto semplice. Cinque anni dopo, però, nel 1967, Thorp attirò la loro attenzione incondizionata con un secondo libro, Beat the Market. Descriveva una maniera a prova d'idiota per vincere alla grande sui mercati azionari e obbligazionari. I suoi colleghi matematici rimasero incantati… Era quarantacinque anni fa. La cosa però lasciò perplessi i normali cittadini. L'idea di fondo era trovare le anomalie di mercato nei prezzi di azioni e obbligazioni rispetto ai loro derivati: futures, warrants, obbligazioni non garantite, forwards, opzioni, swap, convertibili… e vendere azioni e obbligazioni a breve termine comprando i derivati a lungo termine, o viceversa. Non importava quali azioni o obbligazioni. Nomi, storie, reputazioni, prospettive – tutto irrilevante. A importare era lo spread, il lag temporale, e non doveva nemmeno essere troppo. Anzi, una differenza di due centesimi era…
Un momento! Un momento! … Avete detto derivati?! Forwards o vattelappesca?! Lag temporale?! A un sempliciotto poteva venire il mal di testa. Come per la sua teoria sul blackjack, Thorp fece un test dal vivo. Nel 1974 lanciò un fondo d'investimenti chiamato Convertible Hedge Associates e presto lo rinominò Princeton-Newport Partners.
L'ufficio amministrativo era a Princeton, New Jersey. Thorp e una squadra di quants si occupavano di comprare e vendere ed elaboravano nuove strategie in un laboratorio recluso di Newport Beach, California. Nel 1983, Thorpe inviò alcuni StarStreamers su Wall Street quando il monopolio della Bell Telephone Company si divise in otto parti, sette nuove «Baby Bells», così le chiamarono, più la società madre, «Ma Bell», il cui nome venne cambiato in AT&T. Emisero nuove azioni. Ogni nuova azione poteva essere una combinazione di azioni Baby Bells e azioni di AT&T, oppure azioni interamente AT&T. I prezzi della loro IPO erano identici. Ma erano le nuove Baby Bells a fare furore, e così l'attrazione principale era l'offerta combinata. Il risultato fu che si misero a vendere per trequarti dell'1 per cento, ossia 75 centesimi per 100 dollari, più delle azioni della sola AT&T. Nel 1983 solo un quant come Thorp poteva spalancare gli occhi come un bambino a questo spettacolo esaltante. In un attimo vendette simultaneamente 332 milioni e mezzo di azioni combinate delle modaiole Baby Bells e comprò 330 milioni di sole AT&T, per un profitto di due milioni e mezzo. Fu la più grande transazione nella storia di Wall Street a quella data. Gli esterni non potevano crederci. Scommette 332 milioni e mezzo – praticamente un terzo di miliardo – sulla vendita a breve di un'azione – ne scommette un altro terzo per comprare la stessa azione per fare un profitto di un centesimo dell'uno per cento. Pensate: rischiare un totale di quasi due terzi di miliardo per guadagnare due milioni e mezzo! Pura follia.
Thorpe scosse il capo e rise. Chi si definiva finanziere non poteva non capire. Non era una scommessa! Era certezza matematica! Vendere allo scoperto azioni a prezzo alto e simultaneamente comprare uno stesso numero di azioni a prezzo più basso: era la perfetta garanzia di cambio. Ti mettevi in tasca la differenza, che a paragone era pochina. A paragone, sì… ma ehi, due milioni e mezzo qua, due milioni e mezzo là, in poco tempo ti trovavi tanti milioni da fare almeno sbattere le ciglia a un Warren Buffet. E una transazione ti prendeva dieci secondi. Ecco cos'era il trading quantitativo. Non aveva niente a che fare con il valore di azioni e obbligazioni. Era una via matematica pura per giocare d'azzardo coi mercati. Bell era una delle compagnie più famose del Paese. Ma per quanto importava a Thorp poteva essere anche RadioShack. Non stava comprando e vendendo azioni. Stava giocando con i numeri che queste si portavano dietro come una traccia – e così le faceva evaporare.
Per tutto il tempo era chiaro che la vera ambizione di Thorp non era fare soldi – sebbene da allora il suo fondo d'investimenti abbia raccolto profitti per una media annuale del 20 per cento, e sebbene vada a incassare i suoi assegni e abbia messo da parte una fortuna personale di 800 milioni di dollari nei successivi trent'anni. Ma era molto più interessato a mettere in mostra, sulle più grandi lavagne del mondo, il genio matematico di Edward O. Thorp. Gli altri quants che giocavano col mercato tendevano a camuffare le proprie strategie da serie fortunate. Thorp no… Voleva per forza mostrare al mondo sbigottito il modo esatto in cui aveva battuto il banco e il mercato. Era un giocatore ansioso di stupire il mondo con dimostrazioni dal vivo delle più spericolate acrobazie matematiche.
Il suo avversario in questo nuovo incredibile gioco d'azzardo sui mercati di azioni e obbligazioni, in cui le si faceva evaporare, vaporizzando la loro semplicistica premessa – compra a poco, vendi a molto – era un certo James Simons. Simons era un altro swami della matematica passato dall'accademia ai mercati. Da studente prodigio si era bevuto l'MIT in tre anni, un major in matematica e corsi di master al posto di quelli di laurea troppo noiosi… fece il Ph.D. a Berkeley… divenne un decrittatore per la Intelligence Analysis Division del governo, decrittando codici finché non erano chiari come i testi sulle scatole di cereali… cominciò a collaborare con un altro matematico di Berkeley, Shiing-Shen Chern, per creare, nel 1974, il teorema di Chern-Simons, che venne usato in qualche modo dalla teoria delle stringhe e dall'ipotesi del Big Bang. In qualche modo è una mia aggiunta. Solo i matematici più grandi potevano avvicinarsi a capirlo. Simons vinse, per la Geometria, l'importante premio Oswald Veblen Award della American Mathematical Society nel 1976… fu assunto dalla Stony Brook University di Long Island come una star che potesse attrarre altri matematici di alto livello… piombò nella frustrazione cercando di risolvere problemi di geometria ancora più rarefatti… e si mise a creare partnership con altri quants per sperimentare sui fondi d'investimento… e nel 1988 creò un suo fondo, il Medallion Fund… che portò a un assortimento di fondi raccolti sotto l'ombrello della Renaissance Technologies.
Simons nascose le sue operazioni così bene che ci volle un decennio perché Wall Street aprisse gli occhi su quel che lui aveva già capito da un pezzo. Per cominciare, mise su bottega con una squadra di altri quants, virtualmente sconosciuti a Wall Street, in East Setauket, una cittadina sulla riva nord di Long Island, nella Contea di Suffolk. East Setauket era il genere di cittadina tanto piccola, tanto dominata da piccole casette in stile coloniale-New England – i primi coloni erano salpati dal New England per attraversare lo Stretto di Long Island – che la gente diceva sempre «Quant'è pittoresca». East Setauket aveva due vantaggi: era molto vicina all'ufficio di Simons alla Stony Broke – e nessuno, nessuno, nel mondo di Wall Street, ne aveva mai sentito parlare. Bene. Simons voleva che nessuno da Wall Street li raggiungesse.
Con una sola eccezione, non assunse persone macchiate dall'esperienza a Wall Street o anche solo dall'ambizione di arrivarci… laureati in economia, Master in Business Administration… Le loro giovani menti erano già state distorte oltre misura. Simons voleva solo matematici e scienziati. Più di un terzo dei suoi impiegati avevano un Ph.D. Compartimentalizzò le mansioni, in modo che nessuno di loro conoscesse la sua strategia. Solo un numero selezionato di collaboratori fu messo a parte. Ogni volta che uno di questi Eletti lasciava East Setauket e dava segni di voler usare le sue strategie presso qualcun altro, non esitava a denunciarlo. A onor del vero, la Renaissance Technologies aveva una rotazione incredibilmente bassa. Simons aveva messo su un fondo d'investimenti per soli impiegati, e faceva piovere soldi a secchiate nelle loro casse, per tutto l'anno, ogni anno.
Nei suoi primi ventiquattro anni, la Renaissance Technologies procurò ai suoi investitori – e ai suoi impiegati – profitti annuali del 38,5 per cento… al netto della sua percentuale, e la sua percentuale era la più alta in circolazione: il 5 per cento di ogni account ogni anno, e il 36 per cento dei profitti del fondo. Il reddito annuo di Simons si aggirava sulle centinaia di milioni. Nel suo terzo anno, il 1990, il Medallion Fund portò un profitto del 55,9 per cento, anche qui al netto della commissione. Nel 2000, durante il crollo delle dotcom, l'Indice 500 della Standard & Poor perse il 10,1 per cento. Il Medallion Fund ebbe un aumento del 98,5 per cento. Netto.
Il quartier generale della Renaissance Technologies a East Setauket divenne un vero e proprio campus, con una palestra, una piscina, la sala mensa, la biblioteca, l'auditorium, e uffici spaziosi e silenziosi per tutti. L'auditorium veniva usato soprattutto per le lezioni di saggi scienziati cui non poteva importare di meno dei mercati e degli investimenti. Simons aveva trasformato la sua impresa in una specie di college… Un quasi-college murato e recintato con serissime guardie giurate.
Nel 2007 era di gran lunga il più grosso player del mercato. Al cospetto di James Simons, Warren Buffett e George Soros erano elfi di un'altra epoca. Eppure di rado si parlava di Simons sui media. Le interviste scarseggiavano, e in quei casi Simons più che rispondere alle domande si burlava dell'intervistatore:
Che può dirci della strategia della Medallion?
«Poca roba».
Che strumenti tratta?
«Tutto».
«Quante strategie impiega?».
«Molte».
In seguito ai numeri sconvolgenti riportati in piena crisi delle dotcom, Simons e i suoi quants non si potevano più nascondere dietro i cancelli di East Setauket. Cominciò una folle corsa. Nessuno sembrava conoscere precisamente le strategie di Simons, ma ovviamente erano di tipo quantitativo e richiedevano sale enormi piene di computer e server per fare i calcoli. Da quel momento in poi, i quants, questi nerd magna cum laude – e non più il vecchio mucchio di broker casinari con cojones giganti – erano le star da reclutare.
Fino alla fine degli anni Novanta, Thorp e Simons ebbero la Cuccagna tutta per loro. Solo un numero ristrettissimo di fondi e banche d'investimento usava il loro sistema matematico puro per scovare le anomalie di mercato e farle fruttare. Nel 1983, erano bastati e avanzati dieci secondi per vendere allo scoperto, restare lunghi e completare una transazione.
Ma con diverse migliaia di fondi e banche che si buttavano sui quants per usare il nuovo trucco di giocare d'azzardo sui mercati scoprendo le anomalie nei prezzi, la velocità sarebbe stata tutto… soprattutto ora che la Sec, la Securities and Exchange Commission, aveva eliminato la regola per cui le offerte andavano formulate a mano, via tastiera. I computer e i server usati da Thorp fino a quel punto potevano entrare tutti nel suo ufficio. Nel 2000, Simons ormai aveva bisogno di tanta potenza di calcolo che le sue macchine riempivano l'equivalente di un magazzino di piccole dimensioni. Ed era solo l'inizio.
Avanti! Avanti! Più veloci! Più veloci! A un ritmo di mille, duemila, tremila operazioni bancarie, fondi di investimento, scambi, i quants continuarono ad aggiungere computer e server e server e computer fila su fila su fila su ripiani dal pavimento al soffitto che si estendevano all'infinito come gli scaffali della più grande biblioteca del mondo… avvolti in chilometri di cavi bianchi in fibra ottica che connettevano le macchine… Ma questi scaffali non erano silenziosi come quelli di una biblioteca. C'erano corridoi tra gli scaffali affinché qualcuno, diciamo uno dell'Information Technology, potesse raggiungere ogni macchina, ogni cavo. Ma ogni essere umano che entrava, anche uno della IT o un quant, rimaneva avvolto, oppresso, snervato, spaventato dal ronzio soverchiante e da una luce fluorescente, un blu da raggi X, che ti faceva impallidire come un cadavere. Il ronzio sembrava farti pressione sul cranio.
A volte aumentava leggermente di intensità, poi scendeva… risaliva… scendeva. Ti dava l'idea che questo enorme robomostro respirasse… Se ne sapevi abbastanza da poter avere accesso a una di queste enormi sale server, sapevi che il grosso del ronzio veniva dai condizionatori alti come muri… che non si fermavano mai perché questa concentrazione di macchine non si squagliasse per il proprio diabolico calore. In alcuni complessi giganteschi, raccoglievano il calore in alto e lo incanalavano per il riscaldamento del complesso. Potevi sapere tutte queste cose, ma il robomostro ti entrava nel cervello e cominciavi ad antropomorfizzare nonostante la tua mente superiore… Il robomostro – respira… comincia a muoversi… mi è entrato nella testa… Sta pensando con la sua mente CPU (Central Processing Unit), pensa in algoritmi, sequenze di decisioni programmate come «Se A261, allora G1432, e dunque B5556 o QQ42…» individuando discrepanze, prendendo decisioni di compravendita, e addirittura delle finte ingannevoli, finti acquisti per indurre i robocervelli rivali a fare calcoli stupidi. Il mostro è umano… No, non è umano… Nessun cervello umano potrebbe mai pensare e agire con la fretta, la precisione, l'astuzia di questo robocervello.
Le transazioni da dieci secondi di Thorp durante il frazionamento della Bell sarebbero parse un'eternità nel robomondo. Le banche e i fondi d'investimento – e le borse – cominciarono ad aggiungere ettari di robo-scaffali nella gara per chi scovava per primo le anomalie nei prezzi ed eseguiva transazioni all'istante. Non era più questione del tradizionale secondo spaccato. Ormai si parlava di milionesimi di secondo. Lo chiamarono High Frequency Trading.
Nel 2006 il robomostro era ormai enorme – non solo nel senso metaforico del suo impatto, ma pure letteralmente, fisicamente, nella sua massa soverchiante. La Knight Capital costruì un robomostro che occupava un'area di più di mezz'ettaro a Jersey City, New Jersey. Equinix ne costruì uno che copriva tre ettari a Secaucus, sempre New Jersey. Il New York Stock Exchange, che era ormai una corporation privata chiamata Nyse Euronext, costruì un complesso di quarantamila metri quadri per l'High Frequency Trading a Mahwah, New Jersey. Quarantamila. Vuol dire cinque acri di macchine collegate, in un complesso il cui scopo non era investire nei mercati, ma gabbarli. Il NYSE era una corporation privata, ormai, e comprava e vendeva in prima persona: era diventata un player, conquistando il proprio mercato, e altri. Queste macchine per giocare coi mercati, se messe in pila, avrebbero creato una struttura grossa quanto due Empire State Buildings, una sull'altra, 204 piani in tutto. Ogni rene di Midtown avrebbe vibrato per quel ronzio ronzio ronzio ronzio ventiquattr'ore al giorno, ogni giorno. A tutto ciò andavano aggiunti i nuovi sistemi che coprivano grandi distanze. La Hibernia Atlantic Corporation stava cercando di cablare in fibra ottica tutto l'Oceano Atlantico, per limare di sei millesimi di secondo (0,006 secondi) il tempo che impiegava un segnale per andare da New York a Londra. Gli squali rivelarono di essere robopazzi per i cavi in fibra ottica: cercarono di mangiarli, da cui altri milioni di dollari spesi a rendere i cavi a prova di squalo con delle guaine.
La Perseus Corporation stava costruendo un robosistema che avrebbe trasmesso robodati da New York a Chicago su una linea dritta di cavi a vista. I cavi telegrafici e telefonici erano sempre stati eretti lungo le ferrovie. Le trasmissioni via cavo a vista sarebbero stati un millesimo di secondo più veloci.
Un millesimo di secondo di risparmio, da New York a Chicago! Sei millesimi di secondo di risparmio, da New York a Londra! Pensateci: un millesimo qui e sei millesimi lì – una velocità del genere era il sogno di un quant. Il sogno ultimo era trasmettere dati di mercato oltre la velocità della luce. Oltre la velocità della luce? Come?
Neutrini! I neutrini – gli accademici insistono sulla loro esistenza – vengono descritte come «particelle subatomiche», fragili ma veloci, veloci come polvere di fata. Nel 2011, una squadra di 170 ingegneri e scienziati italiani chiamata OPERA dichiarò con certezza quasi assoluta che i neutrini viaggiavano 0,002 nanosecondi più in fretta della velocità della luce. Se così, ciò riduceva Einstein, il cocco darwinesco della fisica moderna, a un solenne vecchio ciarlatano come Freud, Mesmer o Nostradamus. Cinque gruppi diversi di accademici ortodossi si levarono pieni d'ira per fare a pezzi la metodologia della squadra OPERA, e lì ancora stiamo. E ciò nonostante – neutrini!
I quants speravano con tutto il cuore che esistessero… Ciò significherebbe che i loro robomostri potrebbero scovare e sfruttare le anomalie dei mercati azionari e obbligazionari prima ancora che si verifichino.
Il robomostro è stato responsabile del 10 per cento di tutti i traffici di borsa del 2000. Da lì in poi il numero è salito vertiginosamente e inesorabilmente fino al picco del 73 per cento del 2009, quasi tre transazioni su quattro – e nessuno nel mondo esterno, neppure la stampa, ne aveva mai sentito parlare! La prima citazione sulla stampa risale al 23 luglio del 2009, sul New York Times.
La maggioranza degli uomini impiegati a tempo pieno qui a Wall Street non ne sapeva molto di più. Erano innocenti come i coglioni, i pesci piccoli, i muppets. Lo appresero a passi tanto piccoli che non si fecero un'idea generale finché non fu molto tardi. Il primo indizio arrivò quando le piazze di scambio delle banche d'investimento cominciarono a farsi più tranquille… sempre meno broker che si urlavano addosso o nel telefono o al Fato. In breve, si ritrovarono seduti alle scrivanie dietro banchi di schermi di computer, a comunicare gli uni con gli altri via sms.
I robot costarono il lavoro ad alcuni vecchi broker, ma comunque, gradualmente, a intermittenza, c'era sempre qualcuno da mandare a parlare con i muppets e con i bersagli che continuavano a venire a Wall Street a investire – la parola ai quants sembrava così arcaica… – a investire i loro soldi. Ciò che i Padroni non capirono è che i loro muppets, bersagli, pesci piccoli e tontoloni, fornivano solo la liquidità – il denaro pronto… utile fondamentalmente solo a fornire ai robogiocatori dei quants i numeri con cui giocare, discrepanze che i macchinari robot da battaglia potevano sfruttare nelle loro partite.
I Padroni non si accorsero di niente finché i capi dei vari desk non cominciarono a dar loro strani compiti come portare a pranzo i grossi clienti o quelli potenziali. A pranzo? Incaricato di lasciare la sala delle grida durante il giorno? Niente più tu… sì, tu… se devi mangiare qualcosa, mammoletta, ordinalo al deli?... Che sta succedendo? Ma pure allora non fu abbastanza palese perché capissero a quale nuovo gioco si stava giocando.
Oggi la stessa specie di studenti Ivy League di prima fascia che prima, diciamo anche solo sei anni fa, tanto voleva lavorare a Wall Street… vola alla Silicon Valley perché adesso è lì che si fa la storia. E la storia è parte di un'America più antica e più tipica. Un Mark Zuckerberg e il suo Facebook, e il settore cui appartiene Facebook, l'IT, Information technology… felpa con cappuccio o meno, sono parte della tradizione degli illustri annali finanziari degli Stati Uniti.
Due cose hanno mostrato concretamente quanto in basso sono finiti i broker. A un futuro quant promettente offrono fino a cinque volte più soldi che a un Padrone dell'Universo. O per metterla come un titolo recente del New York Post: «Gli elegantoni di Wall Steet fatti fuori da geek da un milione di dollari». E un algoritmo canaglia di un quant su una sola azione potrebbe far crollare il mercato intero, come nel flash crash del 2010, il crollo lampo, e la picchiata di 1.000 punti del 2012. La picchiata è costata al Knight Capital Group 440 milioni. Non si sono mai ripresi.
I Padroni dell'Universo non sono mai stati in grado di spiegare ai loro figli cosa facevano. La spiegazione standard, «Be', creiamo mercati», suonava eccitante quanto mettersi a guardar crescere l'erba finta Astroturf.
Il modo più semplice di vedere quanto in basso sono caduti i nostri padroni nel nostro universo è immaginarsi come suonerebbero oggi le avventure di Sherman McCoy. Venticinque anni fa era esaltato dalla grande verità che gli si era rilevata: «Sono un Padrone dell'Universo!».
Se John Coares fosse stato in zona per fargli sputare nelle provette di polistirolo, i valori di Sherman sulla tabella ormonale sarebbero schizzati oltre il massimo. Era sovraccarico di testosterone. John Coates avrebbe saputo prevedere il resto. McCoy si surriscalda nella sala delle grida. È così a mille col testosterone che si convince di meritare il suo dessert di giornata: una ragazza molto molto sexy di nome Maria, quindici anni più giovane di sua moglie, che ne ha quaranta. Evvai!, una sfilza costante di sfide da brivido e relazioni rischiose con Maria e i suoi lombi argillosi, i suoi bei lombi giovani e argillosissimi, che trasudano umori lubricanti a ogni incontro.
Una notte, sul roadster Mercedes di McCoy, prendono la svolta sbagliata e si ritrovano nel Bronx, dove vengono fermati da una grezza barricata di secchi della spazzatura che blocca una rampa. Dal nulla appaiono due giovani neri, gli si fanno incontro. Nel panico, McCoy e la sua tipa schizzano via, in Mercedes, da quella trappola, sbalzando via uno dei ragazzi, facendolo finire di testa contro l'asfalto – e non si fermeranno.
La polizia rintraccia McCoy grazie alla targa. Il giovane nero è ricoverato in condizioni critiche. McCoy viene arrestato con l'accusa di assalto aggravato con arma pericolosa (l'auto) e con l'accusa di omissione di soccorso. Un agitatore razziale nero, il Reverendo Bacon, e un vecchio marxista avvocato dei diritti civili, residuato degli anni Sessanta, reclutano un reporter di tabloid ubriacone e trasformano l'incidente in uno scandalo razzista. Orde di manifestanti sfilano di fronte al palazzo di McCoy in uno dei tratti più eleganti di Park Avenue.
Come andrebbe il test di McCoy se John Coates lo esaminasse oggi? C'è un vecchio modo di dire americano, perfetto per l'occasione: «Non sarebbe riuscito a farsi arrestare». Lo si usa per definire uno che nessuno si fila.
Tanto per cominciare, oggi non avrebbe valori alti di testosterone. Avrebbe alto il cortisolo, che indica lo stress. Nel caso di McCoy, non sarebbe uno stress da lotta o muori, il più grave. Sarebbe uno stress di moderata gravità: lo stress da status. Ah… pensa ai vecchi tempi, quando queste sale della grida ruggivano delle voci dei giovani che urlavano in piedi, telefono in una mano, l'altra stretta a pugno per colpire l'aria… pensa a come gridavamo e ci offendevamo gli uni gli altri, niente di carino, niente di educato, certo, ma certo faceva scorrere l'adrenalina e pompare il testosterone. Ne avevamo bisogno! Era tutto sulle nostre spalle e i nostri nervi e la nostra volontà di spencolarci sul vuoto e correre dei grossi rischi – adesso! su due piedi! – noi, proprio noi! – e non consegnare la nostra virilità a dei robomostri che si battono con impulsi elettrici così veloci che non abbiamo idea di cosa stiano facendo, figuriamoci del come.
Guardateci oggi, praticamente legati alle sedie, muti, che cerchiamo di tener d'occhio sei schermi alla volta, sei schermi impilati tre su tre a escludere ogni contatto che abbiamo col mondo reale. Non si sente un rumore! È come un ufficio assicurazioni. Non stiamo combattendo con nessuno, per niente.
Non saremmo capaci di farci arrestare! Non abbiamo i valori ormonali con cui puoi andar dietro alle ragazzine e farla franca dopo gli incontri più azzardati. Non abbiamo il testosterone, ma abbiamo litri e litri di cortisolo che ci assicurano una preoccupazione costante, incessante. Mettiamo però che oggi facessimo nel Bronx un qualcosa che nel 1987 avrebbe spinto un vecchio avvocato bianco dei diritti civili e un agitatore razziale nero a inseguirci con farsesche e rumorose dimostrazioni di rabbia. Oggi non perderebbero tempo con noi. Oggi uno Sherman McCoy non potrebbe permettersi Park Avenue e sarebbe complicato descriverlo come uno spietato capitalista – e soprattutto non varrebbe la pena denunciarlo (per conto della famiglia della vittima, e prendendosi due terzi del grosso risarcimento assegnato dalla giuria, essendo questo lo schema, nel 1987). E poi, oggi gli agitatori hanno chiuso bottega. Durante la campagna elettorale del 2008, il Presidente Obama non ha mai detto: «Ribellatevi! Spezzate le vostre catene e prendete ciò che vi spetta di diritto!». No, avendo la testa sulle spalle ha detto: «Dobbiamo tutti esaminare con attenzione le nostre vite e capire come possiamo renderle migliori». La cosa ha fatto talmente infuriare il Reverendo Jesse Jackson che durante uno stacco pubblicitario su una trasmissione di approfondimento su Fox, ha detto – non sapendo che c'era un microfono aperto: «A Obama gli taglierei le palle». Ma fu svelto a smentire pubblicamente, rendendosi conto che non c'era assolutamente margine di manovra per sfidare il primo presidente nero. Non ha detto altro che cose amichevoli ed educate da quel momento in poi. Il Reverendo Al Sharpton l'ha capito da subito ed è entrato di fatto nel governo Obama quasi da ministro senza portafoglio.
Quanto al crash del 2008… In termini di orgoglio puro, è stato una manna per i poveri Padroni dell'Universo. In cifre, 460mila persone nel settore finanza, impiegati di ogni livello, hanno perso il lavoro nella tetra discesa che ha fatto seguito. Fra tante macerie, dal punto di vista dell'orgoglio non è parso troppo male quando i broker e i capi dei desk, e anche, ogni tanto, qualche quant, hanno perso il loro. Le macerie hanno coperto la sciarada, la farsa, i giochetti, la recita di cui i Padroni dell'Universo erano diventati parte.
Sherman McCoy ha tenuto a freno la lingua, ma tra sé e sé ha mormorato: «Ave a voi, Eunuchi dell'Universo».
Tom Wolfe (Traduzione di Francesco Pacifico) Fonte ilSole24Ore.com - Eventiquattro - IL Magazine
http://eventiquattro.ilsole24ore.com/eventi-e-altro/banche-e-assicurazioni/notizie/2013/02/13/gli-eunuchi-delluniverso.aspx