martedì 30 aprile 2013

Che cos'è l'empowerment


... Sotto molti aspetti, i leader e i collaboratori vogliono la stessa cosa: l’empowerment. 
Anzi, l’empowerment è una “tecnologia” d’avanguardia, che assicura sia il vantaggio strategico che ricercano le aziende, sia le opportunità che ricercano le persone. 
E’ il mezzo per coinvolgere i collaboratori, facendone dei veri e propri partner, nel successo o nell’insuccesso dell’azienda (che oggi dovrebbe essere, nello stesso tempo, orientata ai clienti, efficiente sul piano dei costi, rapida e flessibile e impegnata al miglioramento continuo). 

L’empowerment può consentire qualunque leader (purchè disposto a effettuare alcuni cambiamenti significativi) di sfruttare le conoscenze, le capacità, l’esperienza e la motivazione di tutti i collaboratori dell’azienda. I leader che responsabilizzano il personale lo coinvolgono nel perseguimento dei risultati. Una cosa è certa: l’empowerment non ha nulla a che vedere con il management “soft”. Ma anche se pone a carico dei lavoratori delle aspettative elevate, piace lo stesso perché porta con sé il piacere del coinvolgimento, della titolarità su ciò che si fa e della crescita, professionale e personale. Purtroppo sono in pochi, tra i leader e i collaboratori a sapere come si può creare una cultura dell’empowerment.

Conferire ai lavoratori il potere e la responsabilità che consentono loro di prendere delle decisioni importanti è un aspetto strutturale dell’empowerment, ma non è tutto, come pensano erroneamente alcuni leader. La vera essenza dell’empowerment consiste nel liberare il patrimonio di conoscenze, di esperienze e di motivazione che è già presente nei lavoratori, ma è fortemente sottoutilizzato. Nelle organizzazioni gerarchiche, abituate a usare pratiche manageriali di tipo tradizionale, basate su una logica di “ comando e controllo”, la capacità delle risorse umane è usata in misura alquanto parziale, nell’ordine del 25-30% del totale. 

E sappiamo tutti cosa succederebbe se una macchina venisse utilizzata solo al 25-30% della sua capacitò: l’azienda ne risentirebbe pesantemente e quindi il management avrebbe davanti una prospettiva di carriera molto breve. Perché dovremmo accettare lo stesso, insufficiente, sfruttamento della capacità produttiva delle  20 persone? L’empowerment può aiutare tutti i leader a migliorare la capacità del personale, in qualunque tipo di organizzazione... 

lunedì 29 aprile 2013

Stabilite come usare il vostro tempo e distribuire i vostri sforzi

Per avere successo nel frenetico mondo di oggi, dovete decidere in cosa eccellere e cosa invece fare "abbastanza bene". Suddividete le vostre attività in tre categorie: investire, tenere neutrali, ottimizzare.
Gli obiettivi su cui fare un "investimento" sono aree dove il fatto di dedicare più tempo e maggiore qualità di lavoro porta a un ritorno esponenziale, come nella pianificazione della strategia. In quest'ambito, puntate a un lavoro del massimo livello.

Nelle attività di tipo "neutrale", dedicare più tempo non equivale necessariamente a ottenere ritorni maggiori. Partecipare a meeting di progetto ne è un buon esempio. Non dovete eccellere: un voto medio è sufficiente.

I compiti da "ottimizzare" sono quelli dove un tempo addizionale non porta alcun valore aggiunto e che vi impediscono dal fare altre attività di maggior valore. Quanto più rapidamente completate questi incarichi, tanto meglio è. Minimizzate il tempo impiegato a ottimizzare queste attività così da poter dedicare le vostre energie a lavori di maggior qualità.

Il suggerimento della settimana 

Biglietti da visita: ecco perché resistono ai Social Network

Un elogio del biglietto da visita nell’era dei social network potrebbe sembrare un de profundis. Vecchio, anzi antico — secondo alcuni risale ai cerimoniali cinesi dei mandarini — per definizione un po’ stropicciato vista la materia prima cartacea, a dirla tutta anche con l’impertinente vizio di non esserci mai quando veramente lo vorresti avere con te, come può il caro biglietto da visita competere con le connessioni via Internet nei quattro angoli della Terra che si calcolano nella nuova unità di misura googliana di 0,18 secondi?

Valga una premessa: non è un articolo mosso da intenti provocatori o per sentimentali della socializzazione che fu. Il punto è che anche oggi — nonostante Facebook, Google+, LinkedIn, Twitter e dintorni — sopravvive più di un motivo per scambiarsi quel cartoncino bristol nato nella sua versione moderna, secondo le cronache, nel Settecento parigino.

1) Partiamo da un’analisi empirica. In teoria dovrebbe essere un business morto e sepolto. Chi può volere ancora un bigliettino da visita nell’era della digitalizzazione di massa, dei tagli di costi nelle aziende e dei motori di ricerca sul web che ti trovano tutto (anche quello a cui avevamo tentato di dare sepoltura) nei suddetti 18 centesimi? E invece datevi uno sguardo intorno: quel rettangolino di carta rimane un cerimoniale che non ne vuole sapere di estinguersi e diventare un vecchio ricordo da nonni. E non dipende dal non essere abbastanza alla moda o al passo con i tempi. Anche nel cuore della Tech City londinese tra startupper di primo pelo e consumati imprenditori seriali, il gesto non cambia. Ho incontrato diverse persone nel Google Campus in pieno centro a Londra e tutti hanno messo le mani nel portafoglio o nella borsetta alla ricerca di un inefficiente, rassicurante, elementare biglietto da visita. È un rituale duro a morire alla faccia di Mr Social Network, Zuckerberg. Direte: un caso. E invece anche agli eventi super digitalizzati del TechCrunch è tutto uno scambiarsi biglietti da visita.

2) Come sempre accade c’è anche un motivo politically incorrect che nessuno confermerà mai a microfoni accesi: certo, in teoria potrei anche sfoderare il mio smartphone davanti a una persona chiedere il suo account su Facebook, Pinterest, Linkedin o Twitter e connettermi in tempo reale. Ma come raccontava un film di Clint Eastwood di qualche anno fa non viviamo «In un mondo perfetto». E se non voglio far vedere a mezzo mondo che ci stiamo incontrando? E se non trovo interessante connettermi con te come faccio a dirtelo in faccia? Un biglietto ha un vantaggio ineguagliabile: appena dietro l’angolo lo posso gettare nel primo cestino senza che nessuno lo venga mai a sapere a meno che non ci mettiate un Gps dentro. Se invece ti «defollowo» dopo appena 24 ore lo vedranno tutti e come minimo avrò un nemico in più. Il defollowing è un preciso gesto sociale e come tale ha le sue conseguenze. L’amara verità è che una connessione, ahinoi, è per sempre. Un biglietto da visita no e può fare la brutta fine di una sciocca frase trovata dentro un Bacio Perugina.

3) Un video che spopolava qualche anno fa su YouTube presentava una moderna tecnologia che ha delle batterie infinite, è a impatto zero, non ha bisogno di noiosi caricatori e non è retroilluminato. Il libro di carta… Bene, è ora di presentarvi una moderna tecnologia con eguali vantaggi: il biglietto da visita.

4) In ogni caso se state pensando che il fan del biglietto da visita sia una specie in estinzione sappiate che anche a livello industriale è un caso di simbiosi tra gli atomi in (apparente) estinzione della carta e processi sempre più digitalizzati. Prendiamo una start up che si chiama Moo, supportata dall’organizzazione di promozione pubblica del sindaco di Londra, London&Partners (impariamo). Moo è una macchina da guerra che sta spopolando sul web. Vado a guardare nel cesto delle spedizioni: i pacchetti di business card personalizzati dai clienti davanti al proprio computer o tablet sono in partenza per Russia, Olanda, Francia, Italia. Oltre 3 mila spedizioni al giorno. Sette giorni su sette. Oltre un milione di invii all’anno anche a soli dieci pounds fanno 10 milioni di sterline di fatturato. Mica male per una decina di ragazzi (ne preparano anche una versione con un banale smart tag che fa partire un filmato, lo chiamano il biglietto a 3 dimensioni).

5) La business card, come si chiama in inglese, è perfettamente in linea con la nuova economia dei «makers» (leggere Chris Anderson) secondo cui dopo l’ubriacatura del digitale al 100% stiamo scoprendo che la nostra vita continua nel mondo fatto di atomi e anzi ne stiamo riscoprendo i sapori manuali.

6 e ultimo) Secondo Wikipedia ogni persona che si recava a visitare un mandarino si annunciava con una striscia di carta, sulla quale erano riportati il suo nome e gli eventuali attributi e titoli. Pericle faceva precedere le sue visite alla bella Aspasia da un dono, al quale univa una striscia di papiro sulla quale era vergato solo il suo nome. Il biglietto da visita moderno compare dalla Francia in Italia nel 1730 ed è ricordato in una commedia di Goldoni, «Il Cavalier Giocondo» (1755).

E secondo voi, dopo aver fatto tutta questa strada, scomparivano così con pochi colpi di bit?

Ps: Visto che li dobbiamo ancora utilizzare facciamolo bene. Ecco qualche consiglio: scrivete il cellulare a penna sul retro del biglietto, fa sentire importante chi lo riceve anche se probabilmente il vostro cellulare è già su Google… Non usate l’inchiostro dorato in stile Emirati Arabi Uniti. È come portare il Rolex d’oro… vedete un po’ voi. Non indugiate nei titoli di studio e simili prima del cognome: Dott., Cav., Avv. (meno che mai Rag.). Infine, scegliete un cartoncino bristol classico: un biglietto da visita su carta povera è come un invito in un motel sull’autostrada. Voi ci andreste mai?

Massimo Sideri - @massimosideri - La 27a ora - Corriere della Sera

venerdì 26 aprile 2013

Scelgo il lavoro che inizia a 50 anni

RetirementJobs.com, fondato da Tim Driver nel 2005, è uno dei siti di collocamento professionale più in crescita negli ultimi anni. Retirement Jobs? Letteralmente, vuol dire posti di lavoro per pensionati. “Sembra un ossimoro”, osserva l'inchiesta che Usa Today dedica al fenomeno, “e invece un numero crescente di americani decidono di continuare a lavorare in quelli che dovrebbero essere gli anni della pensione”.
Continuare, oppure ricominciare. Il New York Times ha già coniato un neologismo: “Un-retire”. Come dire “spensionarsi”: ritirarsi dalla pensione. Per intraprendere una seconda vita professionale dopo i 65, magari i 70 anni. La tendenza è così diffusa che molte istituzioni devono adattarsi, accettando una vera e propria rivoluzione culturale. È il caso delle università. I corsi per la terza età esistono da più di mezzo secolo, ma ora si reinventano: non servono più a “occupare il tempo libero della pensione”, al contrario sono veri corsi di qualificazione e addestramento professionale.

L’American Association of Community Colleges, che riunisce le università cittadine, lanciò già nel 2008 un programma chiamato Plus 50 Initiative e rivolto appunto agli ultracinquantenni. «All’inizio — racconta la direttrice May Sue Vickers — offrivamo un ampio ventaglio di corsi che andavano dall’arricchimento culturale delle persone, all’addestramento per il volontariato. Ma ci siamo dovuti concentrare soprattutto sull’addestramentoprofessionale, è lì che tira la domanda».
Vista la crescita rapida di questo nuovo mercato del lavoro, Usa Today lancia la sua inchiesta col titolo “Consigli pratici per candidati all’assunzione coi capelli grigi”. In quanto al New York Times, ha già inaugurato un blog sul suo sito che s’intitola Booming e strizza l’occhiolino ai baby-boomer: è la più popolosa generazione della storia, 78 milioni di americani nati fra il 1945 e il 1965, va dalla fascia dei Bill e Hillary Clinton (vicini all’età pensionabile) a quella dei Barack e Michelle Obama. Sono loro i protagonisti di questo sconvolgimento nell’approccio alle età umane.

L’altra faccia della medaglia, la descrive il sociologo Sudhir Venkatesh della Columbia University di New York, autore di un vasto studio sull’economia sommersa. Per i giovani americani come per i loro coetanei europei, il precariato è spesso la prima ed unica introduzione al mondo del lavoro. “C’è una nuova generazione — sostiene Venkatesh — sempre più abituata allo status di freelance”. Dunque le frontiere del mercato del lavoro diventano sempre più evanescenti, fluide. E con esse, si confondono e si attenuano quei ruoli rigidi che corrispondevano ad altrettante età della vita. Prima studenti. Poi lavoratori. Infine pensionati. Queste erano le scansioni tradizionali, in un mondo che sta scomparendo. Adesso le tappe della vita non sono più così semplificate. E certo non solo per scelta degli interessati. Nella punta estrema del privilegio (peraltro meritato) c’è
un caso come quello di Ray Kurzweil, che per la prima volta in vita sua è stato assunto... al compimento dei 65 anni. E per di più il suo datore di lavoro è Google, l’azienda della Silicon Valley che va orgogliosa per la giovanissima età media dei suoi dipendenti. Ma Kurzweil, che per tutta la vita non era mai stato un dipendente bensì un freelance, inventore indipendente, creatore seriale di imprese startup, è un talento fuori dal comune. Poi ci sono altri privilegiati come il giornalista inglese di 33 anni che ha deciso di andare subito in pensione, rinviando a un’altra età il rientro nel mondo del lavoro. Bisogna avere i mezzi per farlo. Ma può diventare anche una scelta obbligata: con la disoccupazione giovanile che dilaga in Europa, ed è a livelli storicamente elevati qui negli Stati Uniti, c’è chi reagisce investendo di più nel periodo dello studio. Nella speranza che una ripresa arrivi più in là negli anni, e che la si possa sfruttare meglio grazie alla formazione aggiuntiva. Ivan Illich, il grande filosofo austriaco scomparso nel 2002, già quarant’anni fa voleva sconvolgere le istituzioni scolastiche, abolirne ogni rigidità, allungare all’infinito le opportunità di una formazione permanente, “à la carte”.

Sull’altro versante generazionale, anche dietro i 65enni che tornano al lavoro c’è una larga fascia di disagio sociale. Marcie Pitt, direttrice dello Sloan Center on Aging & Work (uno dei tanti centri studi americani che si occupano delle nuove frontiere della longevità e le incrociano con le trasformazioni professionali), evoca la transizione dolorosa usando due titoli di film. Il primo, “On Golden Pond”, un classico che mise in scena Henry e Jane Fonda, ricorda i tempi in cui la pensione garantiva un tenore di vita agiato: a pesca su un lago dorato. Il titolo dei nostri tempi invece è
“On Thin Ice”, sul ghiaccio sottile. Il crac di Wall Street del 2008 ha inflitto danni pesanti ai fondi pensione. Chi ha risparmi investiti in buoni del Tesoro oggi riceve rendimenti irrisori. Dunque c’è una parte dei baby-boomer americani che sposta sempre più in là l’età della pensione semplicemente perché non può permettersi di lasciare il lavoro. Non è tutta qui però, la spiegazione. Un sondaggio citato dal Center for Retirement Research al Boston College rivela che il 43% dei baby-boomer americani “non vede l’ora” di andare in pensione, ma il 41% “non ne ha voglia”.

Una cosa distingue soprattutto l’America: qui non è irrealistico pensare di rientrare nel mercato del lavoro dopo averlo abbandonato per il pensionamento. Il successo di un sito come RetirementJobs. com è solo uno dei tanti segnali. «Nel lungo termine — dice fiducioso il suo chief executive Driver — le tendenze demografiche giocano in nostro favore, perché l’offerta di giovani sul mercato non sarà più sufficiente a soddisfare la domanda». La più potente lobby d’America, l’Aarp (che nacque come l’associazione dei pensionati ma oggi organizza una vasta schiera che vai dai 50 anni in su) ha stilato una mappa dei settori di attività più accoglienti verso chi ha i capelli grigio-bianchi. In testa ci sono la distribuzione, la scuola, la sanità. Sono tutti settori dei servizi, che hanno due caratteristiche: si prestano ad orari di lavoro flessibili; e attribuiscono importanza alla qualità del rapporto umano, del contatto con l’utente. La Driver sostiene che un settore professionale del tutto libero dai pregiudizi contro i lavoratori anziani è... l’assistenza agli anziani. In quella vasta area in espansione, che va dalle tradizionali case di riposo all’assistenza domiciliare, si scopre che una risorsa importante è la pazienza, la comprensione. I lavoratori della “seconda età adulta”, quella che si apre verso i 60 anni, sono ricercati per occuparsi della terza e quarta età. Ma anche verso i più giovani, le “pantere grigie” hanno un ruolo sociale che si traduce in opportunità professionali. Su Usa Today fa notizia Dory Brinker, una insegnante in pensione che vive a Brewster nel Massachusetts. Nel corso della sua vita lavorativa è stata maestra, ha creato anche una sua scuola per formare infermieri, e ha avuto tre figli.

Oggi segue un corso universitario al Cape Cod Community College, per imparare ad assistere malati di alcolismo e tossicodipendenti. Ha già trovato un lavoro a parttime in un centro di accoglienza per le vittime dell’alcolismo e altre dipendenze. Sui banchi di università nessuno trova strano che Dory Brinker frequenti i corsi insieme a studenti che hanno 50 anni meno di lei. Per la Brinker il momento del reingresso al lavoro è scoccato con il settantesimo compleanno. Anzi: il momento di “un-retire”, di uscire dal pensionamento. «Questo fenomeno è ancora agli inizi — osserva la Driver — ma più si diffonde, più diventa culturalmente accettabile il ritorno dei capelli bianchi nei nostri luoghi di lavoro».

Federico Rampini - R2 Republica - L'inchiesta

venerdì 19 aprile 2013

Gli enuchi dell'Universo

Seguiteci, torniamo indietro di sette mesi fino all'apice della storia del capitalismo americano del ventunesimo secolo: eccoci in mezzo a un brulichio di anime affini adoratrici delle star, davanti allo Sheraton Hotel della Settima Avenue a Manhattan. Tutti si agitano, si dimenano.
Scorriamo accanto a una schiera di poliziotti e a un battaglione di operativi della security in abito grigio con dei tecno-polipetti nelle orecchie attaccati a spirali di cavo bianco da interfono che cercano di tenerci sotto controllo… mentre quasi calpestiamo la massa di giornalisti e troupe televisive straccione, barbonesche, e dei curiosi che ci intralciano il cammino.

Siamo esaltati! – siamo eccitati, ardiamo, bramiamo la vista fugace del John Jacob Astor, dell'Andrew Carnegie, dell'E.H. Harriman, del John D. Rockefeller, dell'Henry Ford, del Bill Gates del nostro secolo… ed eccolo lì! Guardatelo! Non porta il colletto da smoking e la cravatta di seta sgualcita di Astor né il cilindro rigido in seta e il tight di John D. con un garofano rosso nell'asola del risvolto sinistro e un paio di pantaloni a righe, e neppure l'abito da grandi magazzini di Bill Gates. No: il nostro uomo ha solo ventisette anni ed è vestito come un tycoon del nostro tempo… Per camicia ha una T-shirt grigia, presa dalla trentina di T-shirt grigie che ha sempre con sé per non perdere mai il look da adolescente ribelle che se ne frega della moda… e sopra, una felpa grigio scuro col cappuccio, capo noto comunemente come hoodie. Da oggi, 7 maggio 2012, in poi, lo hoodie diventa il suo simbolo, il marchio di fabbrica, lo stendardo da battaglia.
In un quarto d'ora saremo nella sala da ballo con una folla di soli invitati incravattati che compone la più ricca banda di potenziali investitori d'America, anzi del mondo, nell'offerta pubblica iniziale di vendita di azioni per il valore di 104 miliardi di dollari della sua azienda, addizione recente al novero del nostro ramo industriale più moderno: la cosiddetta IT, l'Information technology.

Come chiunque abbia letto fin qui ha già capito da solo, la sua azienda si chiama Facebook, e il giovane è il primo tycoon della IT del nostro secolo: Mark Zuckerberg. Al 14 maggio, Facebook ha 901 milioni di clienti, un abitante su otto della Terra (e sarebbe presto arrivata a un miliardo, uno su sette). Nessuno aveva mai sognato niente di simile: una "rete sociale", un social network, che potesse consentire alla gente in tutto il mondo di raggiungere chiunque istantaneamente, gratis, e condividere foto di sé e Dio sa cos'altro.

Le azioni sarebbero state messe in vendita tre giorni dopo, giovedì 17 maggio alle undici del mattino. Per quell'ora, già 82 milioni di offerte sarebbero state pronte, cariche e scalcianti, ai blocchi di partenza. Zuckerberg aveva ingaggiato cinque storiche banche d'investimento perché si occupassero in concreto dell'offerta: JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Bank of America, Barclays Capital, e la banca che aveva la supervisione dell'operazione: Morgan Stanley, nelle persone di James Gorman, il Ceo, e Michael Grimes. Grimes era stato nominato «affarista» numero uno di Wall Street nella Forbes Midas List, la lista «Re Mida», per quattro anni di fila dal 2004 al 2007. Alle undici in punto – buum! – le 82 milioni di offerte furono sul mercato. I nostri banchieri investitori della vecchia guardia muoiono di curiosità. Non hanno mai visto niente di simile alle orde di compratori che cavalcano verso di loro con addosso miliardi di dollari – miliardi! – ansiosi di metter le mani sulle quote di Facebook al prezzo di Offerta Pubblica Iniziale di 38 dollari ad azione prima che schizzi a 76 dollari e chissà quanto più in alto ancora. Un numero di compratori incredibile! I nostri vecchi ragazzi vanno nel panico. Scivolano, scartano, si impappinano. Senza la minima idea di cosa stiano facendo, cominciano ad affondare quella che è la più grande e più pubblicizzata Ipo della storia sotto ondate consecutive di incompetenza.
Imbarazzati, i vecchi ragazzi lo chiamano «errore tecnico» quando l'assalto di offerte li sommerge al punto che milioni di transazioni vengono registrate ai prezzi sbagliati. Il capo della banca leader, Gorman di Morgan Stanley, dà tutta la colpa al Nasdaq, la borsa che gestisce queste transazioni. Date le circostanze – letteralmente, la più grande Ipo della storia – suona come se Napoleone desse la colpa di Waterloo agli addetti ai rifornimenti per non aver consegnato in tempo la biancheria pulita alle prime linee.

Per ore, dopo l'inizio, il mercato fu un disastro. Quantità imprecisate di investitori pronte a spendere milioni si trovarono davanti un disastro grottesco, girarono i tacchi e tornarono a casa. Morgan Stanley e il resto del Vecchio Personale di Servizio & Co. riuscirono (senza rimetterci denaro) a sostenere il prezzo iniziale della Ipo, 38 dollari ad azione, fino alla fine del primo giorno. Nei dieci giorni successivi crollò poco meno del 25 per cento. Dopo diciotto giorni era sceso a 25,75, due terzi del prezzo di apertura. Il 2 settembre era piombato a 17,79, meno della metà dell'offerta iniziale.
E a coronamento arrivò una sfilza di accuse secondo cui Facebook aveva fatto male nel primo trimestre senza migliorare nel secondo, notizia che Morgan Stanley non aveva dato al pubblico – noto come i «compratori al dettaglio» – ma solo agli insider che avevano investito in Facebook prima della IPO.
«Non abbiamo fatto niente di male», rispose Morgan Stanley. Ma grossi insider quali Goldman Sachs, Accel Partners e Greylock Partners scaricarono le loro azioni sul mercato nel momento dell'apertura degli scambi del Nasdaq. Pare che se ti chiami «Compratore al dettaglio» significa che in campo c'è qualcun altro di nome «Ingrosso», e lui… ti ha già fregato. Scaricarono milioni di azioni, sufficienti ad abbassare da sole i prezzi. Un analista del Cowen Group, Peter Cohen, disse: «In qaurantatré anni non ho mai visto un bordello del genere».

La Ipo si dimostrò ben più che un bordello incredibile. Il 17 maggio è il giorno in cui Wall Street si ritrovò vaporizzata. Dopo il Facebook Day, tutto ciò di cui "Wall Street" era stata metonimia, il denaro vero, il Quadro Generale dell'economia americana, l'eccitazione, il senso che è qui che succede tutto, era finito.
Fino al 2006, uno spirito di virile audacia aveva pervaso le banche d'investimento di Wall Street. Scambiare azioni e bond era la cosa più vicina al combattimento armato. I guerrieri, vale a dire i broker, raccontavano di come combattere – come avevano affrontato non un nemico armato ma un ventaglio di schermi di computer – creava un'euforia più inebriante di ogni altro stato mentale immaginabile. Erano tutti fatti all'inverosimile – e non solo grazie all'estasi sconquassante della battaglia. C'era pure il fatto non incospicuo che questi Ragazzi del Boom – molti ancora ventenni, ancora capaci di arrossire – mettevano via milioni di dollari di bonus, ogni anno senza sosta…
La vittoria registrata su quegli schermi li fece sentire i Padroni dell'Universo. La frase viene da un romanzo del 1987, Il falò delle vanità, il cui personaggio principale, Sherman McCoy, è un broker trentottenne di una banca d'investimento che fa una milione all'anno in bonus e vive nella parte più costosa di Park Avenue. Un giorno sente squillare il suo telefono nella sala delle contrattazioni della Borsa, risponde e prende un ordine d'acquisto per un numero tale di obbligazioni zero coupon che la sua commissione è di 50mila dollari. Ci sono voluti venti secondi, forse trenta, e – zac – ha cinquantamila dollari in più! Nell'area di Broca del cervello gli risuona subito la frase: «Sono un Padrone dell'Universo!» – dritto dalla collezione di pupazzetti della sua bambina di sei anni, i «Masters of the Universe», che avevano nomi come Ahor, Blutong e Thonk e sembravano dèi norreni che pompavano in palestra e bevevano creatina e frullati all'ormone della crescita.
Nel mondo reale, i giovani da sala delle grida di Wall Street lessero quel libro e si esaltarono con quel nome, Padroni dell'Universo. Lo pronunciarono ad alta voce con ironia – non erano mica scemi – e non fecero mai parola della botta di esaltazione che li attraversava quando lo dicevano: sono un Padrone dell'Universo…

Il crollo del mercato del novembre 1987 non diminuì quell'estasi se non per la durata di qualche singulto. Stessa cosa per il crollo delle "dotcom" del 2000-02. Ancora dopo il 2002, i Padroni dell'Universo possedevano un tale fascino incantatore che si stimava che il 40 per cento del migliore 10 per cento dei laureati di Harvard, Yale e Princeton cercasse lavoro a Wall Street.
Nel 2004, un noto broker della Deutsche Bank, John Coates, canadese, sconcertò i suoi amici e colleghi guerrieri degli schermi di battaglia mollando Wall Street e volando in Inghilterra a ricaricarsi alla sua alma mater, la Cambridge University, come grad student di primo anno in neuroscienze. «Neuroscienze?! In un Paese del Secondo Mondo come l'Inghilterra?».
La verità era che Coates non aveva smesso per un attimo di pensare a Wall Street. Era intrigato dall'idea che a un mucchio di giovinastri scapestrati, impulsivi, stonati e ululanti passassero per le mani ogni giorno miliardi di dollari. Si rivolgeva alle neuroscienze sperando di scoprire una possibile spiegazione all'assurdo fenomeno dei… Padroni dell'Universo.

Anche lui membro recente del branco, riuscì a persuadere diciassette broker della versione londinese di Wall Street, «la City», a lasciargli monitorare il loro quadro endocrino in tempo reale, nella sala delle grida della borsa, da prima del via a subito dopo la fine pomeridiana. La tecnologia era semplicissima. Tutti e diciassette dovevano sputare tre millimetri di saliva – vale a dire la metà dell'1 per cento di uno scatarro e il 2,1 per cento di uno sputazzo e tre volte uno sputino – in provette di polistirolo. Se non riuscivano a produrne, ricevevano gomme da masticare senza zucchero. A pochi minuti, mettiamo, da un'asta da dieci miliardi di sterline di obbligazioni governative a vent'anni, il corpo di un broker, le sue viscere, facevano una giravolta, ripartivano e si ricaricavano per poter prendere decisioni rapide – decisioni da miliardi di sterline.
Così la mise Coates: «Il metabolismo [del broker] accelera, pronto a fare a pezzi le scorte energetiche di fegato, muscoli e cellule grasse»… la respirazione accelera… il cuore comincia a martellare… le cellule del sistema immunitario prendono posizione nei «punti vulnerabili»… il sistema nervoso devia il sangue dallo stomaco – «dandogli le farfalle» – e dagli organi sessuali – non gli serviranno fino a un attimo dopo la fine – e li dirotta ai grandi muscoli di armi e braccia. Intanto è stato prodotto rapidamente del testosterone, e adesso gli steroidi cominciano a pompare dai testicoli nel sangue, insieme ad adrenalina e cortisolo, che a sua volta porta al rilascio della dopamina – che a quanto sappiamo è «la droga che in assoluta dà più dipendenza». La botta convince i broker che «non esiste altro lavoro al mondo». Il broker diventa un'altra persona, non solo sicuro di sé ma dominante… un Padrone. È pronto a correre rischi che terrorizzerebbero un uomo inferiore. «Si sporge sul suo schermo, le pupille dilatate, il respiro ritmato, i muscoli raccolti, corpo e cervello fusi di fronte all'azione imminente».

Vale a dire, diventa il doppio ormonale di un maschio di tigre o di un toro scatenato o di un Delta Commando, un Navy Seal, un combattente dell'Air Force, un gangster di East New York pronto per un combattimento all'ultimo sangue. All'inizio, testosterone e adrenalina e gli altri stimolatori ormonali sono al suo servizio per prepararlo alla mischia. Coates ha scoperto perfino che i broker con livelli di testosterone oltre la media la mattina lavorativa poi tendono a chiudere la giornata in profitto. A quanto pare, il testosterone e tutti gli altri eccessi ormonali rendono un broker più rapido a scovare un'occasione e più audace nel coglierla al volo. Nelle intenzioni di Coates, il suo piccolo studio – solo diciassette soggetti – voleva essere il preludio a uno ben più grande. Ma il suo testosteronorama e altre scoperte furono così sconvolgenti, e i risultati così omogenei fra i diciassette, che la National Academy of Science lo mise online (14 aprile 2008) prima di mandarlo in stampa con il titolo di Steroidi endogeni e rischio finanziario in una piazza di scambio londinese. (In seguito completò uno studio più grande, con 250 soggetti, e l'anno scorso ne ha tratto un libro, The Hour Between Dog and Wolf).

Lo sballo del broker è una botta così forte che non la si può lasciare in ufficio all'ora di cena. Ora, dopo la battaglia, una «esuberanza irrazionale» lo segue per le vie della città… ed è ancora al suo fianco, sotto pelle, quando torna in ufficio la mattina dopo. La sua esaltazione, come il suo testosterone, è a un livello più alto che mai. Comincia a comportarsi come fosse parte di un'unità di Forze Speciali. Non aspetta mai che un superiore faccia rispettare la disciplina. Se ne prende carico da solo… e ad alta voce. Tu!... sì, tu!... Niente perdigiorno nella sala delle grida!... Non perdere tempo con un «pranzo d'affari». Se devi prenderti qualcosa da mangiare, mammoletta, ordinalo al deli… Non leggere roba irrilevante come l'Economist (le notizie in edicola arrivano già vecchie), e ancora meno Racing Form per le scommesse sui cavalli o i magazine tette e culi, come urla Sherman McCoy nel Falò delle vanità.
Erano come guerrieri – tranne che per una cosa: la possibilità che un Padrone dell'Universo morisse nell'espletamento del suo dovere erano statisticamente nulle. Erano quasi tutti under quaranta, e la probabilità di avere un infarto mentre imprecavano contro il Fato a con le mani sulla testa, prede di tremolii spastici…, era scarsa.

Nella sala delle grida impersonavano versioni leggermente più adulte e ampiamente più ricche dei frat boys: i ragazzi delle confraternite universitarie, sotto la deboscia, il bere, la cocaina, gli scherzi, il bere, le scopate, i discorsi sulle scopate, lo smignottare in giro, i discorsi sullo smignottare in giro, il bere, le uscite sarcastiche classificate in Sarc I, Sarc II e Sarc III, l'indulgere in temi esoterici come le dimensioni di uno stronzo o il raggio del proprio getto di vomito, avevano un solo e semplicissimo desiderio: rappresentare un'idea virile del mondo.
Il Padrone dell'Universo non si preoccupa della virilità. È virile, punto. Mascolinità ne ha a scialo. Ha il problema opposto, semmai. L'esuberanza irrazionale ce l'ha sotto la pelle. Ora, dopo la battaglia, mentre avanzano le tenebre, la sua esaltazione, come il suo testosterone, è più alto che mai. Circonfonde ogni aspetto della sua vita, in particolare l'appetito sessuale.
Un giorno, speriamo presto, una squadra di antropologi intraprendenti metterà insieme le migliaia di storie – alcune assurte al livello di leggenda – delle vite amorose dei Padroni dell'Universo. Queste storie sono invariabilmente raccontate dalle tipe, come le chiamano i Padroni… le tipe. Agli occhi di una tipa, l'appuntamento si esauriva nel monologo insistito del Padrone dell'Universo su due soli argomenti: la Mia Carriera, e il sesso. I suoi discorsi sulla Mia Carriera, dicevano le tipe, erano infinitamente infinitamente infinitamente noiosi noiosi noiosi non ne posso più! MI DARÒ FUOCO AI CAPELLI PER FAR FINIRE QUESTA NOIA!

Quando si trattava di fare sesso, però, le spiegazioni di lui non si facevano garrule, non partivano per la tangente, e le dimostrazioni pratiche non prendevano mai più di sessanta secondi. Andava così: pum pum pum pum pum pum pum oo-oo-oo-oo-oo-ooooh uh oo agghhh e bingo… Si rotola su un fianco, russa come un orso.
Naturalmente, essendo così virili, così rapidi, così… be'… così padroni, non potevano non sentirsi superiore alla gente comune con cui dovevano trattare ogni giorno. Cercavano di non darlo a vedere… ma quando i guerrieri erano fra di loro, nella sala delle grida, mettiamo, come potevano evitare di prendere in giro le anime semplici in cui si imbattevano lavorando? È un po' come i poliziotti di New York, che chiamavano i cittadini spaesati «bomboli».

I Padroni dell'Universo avevano lo stesso genere di terminologia per riferirsi agli abitanti ignari del loro mondo – quali? Secondo Michael Lewis, per un periodo broker della Salomon Brothers, alla Salomon girava la seguente barzelletta:
«Qual è la seconda forma più infima di vita umana?».
«Non lo so, quale?».
«Un broker di azioni di Dallas». Questa era la prima parte della barzelletta, con la prima punchline. All'epoca, negli anni Ottanta, l'azione, i soldi veri, non si facevano con le azioni, ma con il mercato obbligazionario, e di certo non in Texas.
«E allora qual è la forma più infima di vita umana?».
«Il cliente». Ecco la seconda punchline.
Alla Salomon Brothers andava così. A Goldman Sachs chiamavano i clienti «muppets», come i pupazzi della tv. Altre banche d'investimento chiamavano i clienti «pesci piccoli», «coglioni», «bersagli», «pecore», «tonti», «agnelli», «cuccioli di foca»… Parole come coglioni, bersagli e agnelli mordevano molto più di bomboli. Dopotutto, dov'è che vanno gli agnelli? Al mattatoio.
I Padroni dell'Universo avevano sempre considerato i loro clienti persone da non lasciar uscire di casa con i soldi in tasca. E invece eccoli qua e certo qualcuno doveva approfittare di loro. Alzare i palmi e scrollare le spalle e guardarli passare… dovevi essere sfigato come loro. Erano degli sfigati; non erano stupidi. Avevano i soldi, e dei Q.I. sopra il 98. Perciò dovevi chiederti: perché mai vengono a investire in una banca d'affari? In un fondo speculativo almeno avrebbero avuto una possibilità di battersi. Il manager lì investe i suoi soldi, come te. Be', siamo onesti: non tutte le banche d'affari portavano i clienti a farsi macellare. D'altro canto, cosa c'era di male a tosarli ogni tanto?

I nostri Padroni virili, ancora ripieni di testosterone e dopamina, non riuscirono a capire cos'era successo quando nel 2009 accadde la cosa più improbabile del mondo: un mucchio di deboli, un mucchio di nerd noti come Quants, gli analisti quantitativi, gli sbatterono in faccia i cancelli d'oro.
I nerd… Il nerd non è mai stato definito con precisione: è merito della complessità psicologica della creatura. La parola connota un certo grado di intelligenza. Il nerd tipico è maschio, è intelligente ma non vuole dare alla sua intelligenza un aspetto virile. Non pratica sport, non si scompiscia per le battute sulle ragazze che la danno via, non puntella la sua virilità gridando c---o a ogni piè sospinto, non si rende conto di quanto fa pena quando spara in alto il braccio e agita la mano come una bandiera sperando che la maestra chieda a lui di dare la risposta alla domanda, non si vendica degli insulti dei compagni nel cortile della scuola – oh, il cortile… il cortile… È lì che ha imparato che non è un Padrone dell'Universo né lo diventerà mai… non basterà una vita… e allora sviluppa interessi che non sono virili né non virili – solo ossessivi, come catturare insetti la notte e infilzarli su una bacheca, organizzandoli meticolosamente per genere, specie e sottospecie.
Non c'è niente di male… è solo un po' strano e da cervelloni – in breve, da nerd. Se un nerd era un po' strano ma non cervellone, era noto come "dork", un tontolone. La parola non connota comportamenti sessuali devianti. Il Padrone dell'Universo considerava tutte le varietà di nerd – quants, dorks e nerd comuni – asessuali.

Il quant era ciò che un nerd poteva diventare salendo di grado, se si rivelava un genio della matematica. Era la maniera virile con cui i broker contraevano il termine analista quantitativo. I quants fecero la loro comparsa sulle piazze di scambio verso la fine degli anni Ottanta per allestire i computer che dovevano raccogliere le informazioni e organizzarle più in fretta di un broker, liberando così il Padrone dell'Universo da una sacco di lavoro noioso e scartoffie. Al principio, i broker guardavano dall'alto in basso i quants, li consideravano nerd che non avevano, in Gergo Padrone real-virile, «le palle» che ci volevano per scendere in campo e accollarsi i grossi rischi inevitabili se volevi fare tanti soldi. Fu nei primi anni Novanta che i Padroni coniarono la parola quant, probabilmente perché aveva il suono di una zecca gonfia di sangue schiacciata da un pollice. Non sospettavano, minimamente, le trame di questi deboli senza palle eternamente spiaccicati sui divani.

Nel 1942, Joseph Schumpeter scrisse che azioni e obbligazioni sono «proprietà evaporata». Lo trovarono tutti un aforisma argutissimo, ma Schumpeter intendeva protestare. «Sostituire a muri e macchine di una fabbrica una mera quantità di azioni», disse, «toglie vita all'idea di proprietà». I nuovi proprietari, vale a dire gli azionisti, perdono la volontà dell'imprenditore e del fondatore «di lottare, economicamente, fisicamente, politicamente, per la "sua" fabbrica e il suo controllo su di essa e di morire alle sue porte se necessario». Invece, al primo sentore di un problema gli azionisti se la filano e vendono le loro quote di proprietà a chiunque li compri sul mercato azionario… e se ne infischiano di chi è il compratore.
Fu così che azioni e obbligazioni fecero evaporare la proprietà. Ciò che avevano in mente i quants era un salto quantico (per così dire) fino al prossimo stadio: l'evaporazione di azioni e obbligazioni… non la proprietà – quella era sparita da un pezzo – ma le stesse azioni e obbligazioni, e farci sopra dei soldi veri veri.
Non era un'idea nuova, ma pure fra i quants erano in pochi a saperne l'origine. Nel 1962 un giovane professore di matematica del Mit, Edward O. Thorp, trentenne, aveva pubblicato un metodo matematico a prova d'idiota per vincere al blackjack contando i numeri delle carte già giocate. Fece la dimostrazione dal vivo giocando in una serie di casinò del Nevada… con il denaro di un giocatore professionista. Il libro – e lo stesso Thorp – fecero infuriare l'industria del gioco d'azzardo.

Ormai ogni scemotto confuso poteva entrare in casinò e ripulire il banco. I casinò dovettero cambiare le regole di un grande (e redditizio) vecchio gioco. Naturalmente, il pubblico se la bevette, e Beat the Dealer divenne un bestseller. Per i matematici era roba geniale – rimpiansero di non averci pensato loro – ma al dunque anche molto semplice. Cinque anni dopo, però, nel 1967, Thorp attirò la loro attenzione incondizionata con un secondo libro, Beat the Market. Descriveva una maniera a prova d'idiota per vincere alla grande sui mercati azionari e obbligazionari. I suoi colleghi matematici rimasero incantati… Era quarantacinque anni fa. La cosa però lasciò perplessi i normali cittadini. L'idea di fondo era trovare le anomalie di mercato nei prezzi di azioni e obbligazioni rispetto ai loro derivati: futures, warrants, obbligazioni non garantite, forwards, opzioni, swap, convertibili… e vendere azioni e obbligazioni a breve termine comprando i derivati a lungo termine, o viceversa. Non importava quali azioni o obbligazioni. Nomi, storie, reputazioni, prospettive – tutto irrilevante. A importare era lo spread, il lag temporale, e non doveva nemmeno essere troppo. Anzi, una differenza di due centesimi era…
Un momento! Un momento! … Avete detto derivati?! Forwards o vattelappesca?! Lag temporale?! A un sempliciotto poteva venire il mal di testa. Come per la sua teoria sul blackjack, Thorp fece un test dal vivo. Nel 1974 lanciò un fondo d'investimenti chiamato Convertible Hedge Associates e presto lo rinominò Princeton-Newport Partners.

L'ufficio amministrativo era a Princeton, New Jersey. Thorp e una squadra di quants si occupavano di comprare e vendere ed elaboravano nuove strategie in un laboratorio recluso di Newport Beach, California. Nel 1983, Thorpe inviò alcuni StarStreamers su Wall Street quando il monopolio della Bell Telephone Company si divise in otto parti, sette nuove «Baby Bells», così le chiamarono, più la società madre, «Ma Bell», il cui nome venne cambiato in AT&T. Emisero nuove azioni. Ogni nuova azione poteva essere una combinazione di azioni Baby Bells e azioni di AT&T, oppure azioni interamente AT&T. I prezzi della loro IPO erano identici. Ma erano le nuove Baby Bells a fare furore, e così l'attrazione principale era l'offerta combinata. Il risultato fu che si misero a vendere per trequarti dell'1 per cento, ossia 75 centesimi per 100 dollari, più delle azioni della sola AT&T. Nel 1983 solo un quant come Thorp poteva spalancare gli occhi come un bambino a questo spettacolo esaltante. In un attimo vendette simultaneamente 332 milioni e mezzo di azioni combinate delle modaiole Baby Bells e comprò 330 milioni di sole AT&T, per un profitto di due milioni e mezzo. Fu la più grande transazione nella storia di Wall Street a quella data. Gli esterni non potevano crederci. Scommette 332 milioni e mezzo – praticamente un terzo di miliardo – sulla vendita a breve di un'azione – ne scommette un altro terzo per comprare la stessa azione per fare un profitto di un centesimo dell'uno per cento. Pensate: rischiare un totale di quasi due terzi di miliardo per guadagnare due milioni e mezzo! Pura follia.

Thorpe scosse il capo e rise. Chi si definiva finanziere non poteva non capire. Non era una scommessa! Era certezza matematica! Vendere allo scoperto azioni a prezzo alto e simultaneamente comprare uno stesso numero di azioni a prezzo più basso: era la perfetta garanzia di cambio. Ti mettevi in tasca la differenza, che a paragone era pochina. A paragone, sì… ma ehi, due milioni e mezzo qua, due milioni e mezzo là, in poco tempo ti trovavi tanti milioni da fare almeno sbattere le ciglia a un Warren Buffet. E una transazione ti prendeva dieci secondi. Ecco cos'era il trading quantitativo. Non aveva niente a che fare con il valore di azioni e obbligazioni. Era una via matematica pura per giocare d'azzardo coi mercati. Bell era una delle compagnie più famose del Paese. Ma per quanto importava a Thorp poteva essere anche RadioShack. Non stava comprando e vendendo azioni. Stava giocando con i numeri che queste si portavano dietro come una traccia – e così le faceva evaporare.

Per tutto il tempo era chiaro che la vera ambizione di Thorp non era fare soldi – sebbene da allora il suo fondo d'investimenti abbia raccolto profitti per una media annuale del 20 per cento, e sebbene vada a incassare i suoi assegni e abbia messo da parte una fortuna personale di 800 milioni di dollari nei successivi trent'anni. Ma era molto più interessato a mettere in mostra, sulle più grandi lavagne del mondo, il genio matematico di Edward O. Thorp. Gli altri quants che giocavano col mercato tendevano a camuffare le proprie strategie da serie fortunate. Thorp no… Voleva per forza mostrare al mondo sbigottito il modo esatto in cui aveva battuto il banco e il mercato. Era un giocatore ansioso di stupire il mondo con dimostrazioni dal vivo delle più spericolate acrobazie matematiche.

Il suo avversario in questo nuovo incredibile gioco d'azzardo sui mercati di azioni e obbligazioni, in cui le si faceva evaporare, vaporizzando la loro semplicistica premessa – compra a poco, vendi a molto – era un certo James Simons. Simons era un altro swami della matematica passato dall'accademia ai mercati. Da studente prodigio si era bevuto l'MIT in tre anni, un major in matematica e corsi di master al posto di quelli di laurea troppo noiosi… fece il Ph.D. a Berkeley… divenne un decrittatore per la Intelligence Analysis Division del governo, decrittando codici finché non erano chiari come i testi sulle scatole di cereali… cominciò a collaborare con un altro matematico di Berkeley, Shiing-Shen Chern, per creare, nel 1974, il teorema di Chern-Simons, che venne usato in qualche modo dalla teoria delle stringhe e dall'ipotesi del Big Bang. In qualche modo è una mia aggiunta. Solo i matematici più grandi potevano avvicinarsi a capirlo. Simons vinse, per la Geometria, l'importante premio Oswald Veblen Award della American Mathematical Society nel 1976… fu assunto dalla Stony Brook University di Long Island come una star che potesse attrarre altri matematici di alto livello… piombò nella frustrazione cercando di risolvere problemi di geometria ancora più rarefatti… e si mise a creare partnership con altri quants per sperimentare sui fondi d'investimento… e nel 1988 creò un suo fondo, il Medallion Fund… che portò a un assortimento di fondi raccolti sotto l'ombrello della Renaissance Technologies.
Simons nascose le sue operazioni così bene che ci volle un decennio perché Wall Street aprisse gli occhi su quel che lui aveva già capito da un pezzo. Per cominciare, mise su bottega con una squadra di altri quants, virtualmente sconosciuti a Wall Street, in East Setauket, una cittadina sulla riva nord di Long Island, nella Contea di Suffolk. East Setauket era il genere di cittadina tanto piccola, tanto dominata da piccole casette in stile coloniale-New England – i primi coloni erano salpati dal New England per attraversare lo Stretto di Long Island – che la gente diceva sempre «Quant'è pittoresca». East Setauket aveva due vantaggi: era molto vicina all'ufficio di Simons alla Stony Broke – e nessuno, nessuno, nel mondo di Wall Street, ne aveva mai sentito parlare. Bene. Simons voleva che nessuno da Wall Street li raggiungesse.

Con una sola eccezione, non assunse persone macchiate dall'esperienza a Wall Street o anche solo dall'ambizione di arrivarci… laureati in economia, Master in Business Administration… Le loro giovani menti erano già state distorte oltre misura. Simons voleva solo matematici e scienziati. Più di un terzo dei suoi impiegati avevano un Ph.D. Compartimentalizzò le mansioni, in modo che nessuno di loro conoscesse la sua strategia. Solo un numero selezionato di collaboratori fu messo a parte. Ogni volta che uno di questi Eletti lasciava East Setauket e dava segni di voler usare le sue strategie presso qualcun altro, non esitava a denunciarlo. A onor del vero, la Renaissance Technologies aveva una rotazione incredibilmente bassa. Simons aveva messo su un fondo d'investimenti per soli impiegati, e faceva piovere soldi a secchiate nelle loro casse, per tutto l'anno, ogni anno.

Nei suoi primi ventiquattro anni, la Renaissance Technologies procurò ai suoi investitori – e ai suoi impiegati – profitti annuali del 38,5 per cento… al netto della sua percentuale, e la sua percentuale era la più alta in circolazione: il 5 per cento di ogni account ogni anno, e il 36 per cento dei profitti del fondo. Il reddito annuo di Simons si aggirava sulle centinaia di milioni. Nel suo terzo anno, il 1990, il Medallion Fund portò un profitto del 55,9 per cento, anche qui al netto della commissione. Nel 2000, durante il crollo delle dotcom, l'Indice 500 della Standard & Poor perse il 10,1 per cento. Il Medallion Fund ebbe un aumento del 98,5 per cento. Netto.
Il quartier generale della Renaissance Technologies a East Setauket divenne un vero e proprio campus, con una palestra, una piscina, la sala mensa, la biblioteca, l'auditorium, e uffici spaziosi e silenziosi per tutti. L'auditorium veniva usato soprattutto per le lezioni di saggi scienziati cui non poteva importare di meno dei mercati e degli investimenti. Simons aveva trasformato la sua impresa in una specie di college… Un quasi-college murato e recintato con serissime guardie giurate.

Nel 2007 era di gran lunga il più grosso player del mercato. Al cospetto di James Simons, Warren Buffett e George Soros erano elfi di un'altra epoca. Eppure di rado si parlava di Simons sui media. Le interviste scarseggiavano, e in quei casi Simons più che rispondere alle domande si burlava dell'intervistatore:
Che può dirci della strategia della Medallion?
«Poca roba».
Che strumenti tratta?
«Tutto».
«Quante strategie impiega?».
«Molte».
In seguito ai numeri sconvolgenti riportati in piena crisi delle dotcom, Simons e i suoi quants non si potevano più nascondere dietro i cancelli di East Setauket. Cominciò una folle corsa. Nessuno sembrava conoscere precisamente le strategie di Simons, ma ovviamente erano di tipo quantitativo e richiedevano sale enormi piene di computer e server per fare i calcoli. Da quel momento in poi, i quants, questi nerd magna cum laude – e non più il vecchio mucchio di broker casinari con cojones giganti – erano le star da reclutare.
Fino alla fine degli anni Novanta, Thorp e Simons ebbero la Cuccagna tutta per loro. Solo un numero ristrettissimo di fondi e banche d'investimento usava il loro sistema matematico puro per scovare le anomalie di mercato e farle fruttare. Nel 1983, erano bastati e avanzati dieci secondi per vendere allo scoperto, restare lunghi e completare una transazione.

Ma con diverse migliaia di fondi e banche che si buttavano sui quants per usare il nuovo trucco di giocare d'azzardo sui mercati scoprendo le anomalie nei prezzi, la velocità sarebbe stata tutto… soprattutto ora che la Sec, la Securities and Exchange Commission, aveva eliminato la regola per cui le offerte andavano formulate a mano, via tastiera. I computer e i server usati da Thorp fino a quel punto potevano entrare tutti nel suo ufficio. Nel 2000, Simons ormai aveva bisogno di tanta potenza di calcolo che le sue macchine riempivano l'equivalente di un magazzino di piccole dimensioni. Ed era solo l'inizio.
Avanti! Avanti! Più veloci! Più veloci! A un ritmo di mille, duemila, tremila operazioni bancarie, fondi di investimento, scambi, i quants continuarono ad aggiungere computer e server e server e computer fila su fila su fila su ripiani dal pavimento al soffitto che si estendevano all'infinito come gli scaffali della più grande biblioteca del mondo… avvolti in chilometri di cavi bianchi in fibra ottica che connettevano le macchine… Ma questi scaffali non erano silenziosi come quelli di una biblioteca. C'erano corridoi tra gli scaffali affinché qualcuno, diciamo uno dell'Information Technology, potesse raggiungere ogni macchina, ogni cavo. Ma ogni essere umano che entrava, anche uno della IT o un quant, rimaneva avvolto, oppresso, snervato, spaventato dal ronzio soverchiante e da una luce fluorescente, un blu da raggi X, che ti faceva impallidire come un cadavere. Il ronzio sembrava farti pressione sul cranio.

A volte aumentava leggermente di intensità, poi scendeva… risaliva… scendeva. Ti dava l'idea che questo enorme robomostro respirasse… Se ne sapevi abbastanza da poter avere accesso a una di queste enormi sale server, sapevi che il grosso del ronzio veniva dai condizionatori alti come muri… che non si fermavano mai perché questa concentrazione di macchine non si squagliasse per il proprio diabolico calore. In alcuni complessi giganteschi, raccoglievano il calore in alto e lo incanalavano per il riscaldamento del complesso. Potevi sapere tutte queste cose, ma il robomostro ti entrava nel cervello e cominciavi ad antropomorfizzare nonostante la tua mente superiore… Il robomostro – respira… comincia a muoversi… mi è entrato nella testa… Sta pensando con la sua mente CPU (Central Processing Unit), pensa in algoritmi, sequenze di decisioni programmate come «Se A261, allora G1432, e dunque B5556 o QQ42…» individuando discrepanze, prendendo decisioni di compravendita, e addirittura delle finte ingannevoli, finti acquisti per indurre i robocervelli rivali a fare calcoli stupidi. Il mostro è umano… No, non è umano… Nessun cervello umano potrebbe mai pensare e agire con la fretta, la precisione, l'astuzia di questo robocervello.

Le transazioni da dieci secondi di Thorp durante il frazionamento della Bell sarebbero parse un'eternità nel robomondo. Le banche e i fondi d'investimento – e le borse – cominciarono ad aggiungere ettari di robo-scaffali nella gara per chi scovava per primo le anomalie nei prezzi ed eseguiva transazioni all'istante. Non era più questione del tradizionale secondo spaccato. Ormai si parlava di milionesimi di secondo. Lo chiamarono High Frequency Trading.
Nel 2006 il robomostro era ormai enorme – non solo nel senso metaforico del suo impatto, ma pure letteralmente, fisicamente, nella sua massa soverchiante. La Knight Capital costruì un robomostro che occupava un'area di più di mezz'ettaro a Jersey City, New Jersey. Equinix ne costruì uno che copriva tre ettari a Secaucus, sempre New Jersey. Il New York Stock Exchange, che era ormai una corporation privata chiamata Nyse Euronext, costruì un complesso di quarantamila metri quadri per l'High Frequency Trading a Mahwah, New Jersey. Quarantamila. Vuol dire cinque acri di macchine collegate, in un complesso il cui scopo non era investire nei mercati, ma gabbarli. Il NYSE era una corporation privata, ormai, e comprava e vendeva in prima persona: era diventata un player, conquistando il proprio mercato, e altri. Queste macchine per giocare coi mercati, se messe in pila, avrebbero creato una struttura grossa quanto due Empire State Buildings, una sull'altra, 204 piani in tutto. Ogni rene di Midtown avrebbe vibrato per quel ronzio ronzio ronzio ronzio ventiquattr'ore al giorno, ogni giorno. A tutto ciò andavano aggiunti i nuovi sistemi che coprivano grandi distanze. La Hibernia Atlantic Corporation stava cercando di cablare in fibra ottica tutto l'Oceano Atlantico, per limare di sei millesimi di secondo (0,006 secondi) il tempo che impiegava un segnale per andare da New York a Londra. Gli squali rivelarono di essere robopazzi per i cavi in fibra ottica: cercarono di mangiarli, da cui altri milioni di dollari spesi a rendere i cavi a prova di squalo con delle guaine.

La Perseus Corporation stava costruendo un robosistema che avrebbe trasmesso robodati da New York a Chicago su una linea dritta di cavi a vista. I cavi telegrafici e telefonici erano sempre stati eretti lungo le ferrovie. Le trasmissioni via cavo a vista sarebbero stati un millesimo di secondo più veloci.
Un millesimo di secondo di risparmio, da New York a Chicago! Sei millesimi di secondo di risparmio, da New York a Londra! Pensateci: un millesimo qui e sei millesimi lì – una velocità del genere era il sogno di un quant. Il sogno ultimo era trasmettere dati di mercato oltre la velocità della luce. Oltre la velocità della luce? Come?
Neutrini! I neutrini – gli accademici insistono sulla loro esistenza – vengono descritte come «particelle subatomiche», fragili ma veloci, veloci come polvere di fata. Nel 2011, una squadra di 170 ingegneri e scienziati italiani chiamata OPERA dichiarò con certezza quasi assoluta che i neutrini viaggiavano 0,002 nanosecondi più in fretta della velocità della luce. Se così, ciò riduceva Einstein, il cocco darwinesco della fisica moderna, a un solenne vecchio ciarlatano come Freud, Mesmer o Nostradamus. Cinque gruppi diversi di accademici ortodossi si levarono pieni d'ira per fare a pezzi la metodologia della squadra OPERA, e lì ancora stiamo. E ciò nonostante – neutrini!
I quants speravano con tutto il cuore che esistessero… Ciò significherebbe che i loro robomostri potrebbero scovare e sfruttare le anomalie dei mercati azionari e obbligazionari prima ancora che si verifichino.

Il robomostro è stato responsabile del 10 per cento di tutti i traffici di borsa del 2000. Da lì in poi il numero è salito vertiginosamente e inesorabilmente fino al picco del 73 per cento del 2009, quasi tre transazioni su quattro – e nessuno nel mondo esterno, neppure la stampa, ne aveva mai sentito parlare! La prima citazione sulla stampa risale al 23 luglio del 2009, sul New York Times.
La maggioranza degli uomini impiegati a tempo pieno qui a Wall Street non ne sapeva molto di più. Erano innocenti come i coglioni, i pesci piccoli, i muppets. Lo appresero a passi tanto piccoli che non si fecero un'idea generale finché non fu molto tardi. Il primo indizio arrivò quando le piazze di scambio delle banche d'investimento cominciarono a farsi più tranquille… sempre meno broker che si urlavano addosso o nel telefono o al Fato. In breve, si ritrovarono seduti alle scrivanie dietro banchi di schermi di computer, a comunicare gli uni con gli altri via sms.
I robot costarono il lavoro ad alcuni vecchi broker, ma comunque, gradualmente, a intermittenza, c'era sempre qualcuno da mandare a parlare con i muppets e con i bersagli che continuavano a venire a Wall Street a investire – la parola ai quants sembrava così arcaica… – a investire i loro soldi. Ciò che i Padroni non capirono è che i loro muppets, bersagli, pesci piccoli e tontoloni, fornivano solo la liquidità – il denaro pronto… utile fondamentalmente solo a fornire ai robogiocatori dei quants i numeri con cui giocare, discrepanze che i macchinari robot da battaglia potevano sfruttare nelle loro partite.

I Padroni non si accorsero di niente finché i capi dei vari desk non cominciarono a dar loro strani compiti come portare a pranzo i grossi clienti o quelli potenziali. A pranzo? Incaricato di lasciare la sala delle grida durante il giorno? Niente più tu… sì, tu… se devi mangiare qualcosa, mammoletta, ordinalo al deli?... Che sta succedendo? Ma pure allora non fu abbastanza palese perché capissero a quale nuovo gioco si stava giocando.
Oggi la stessa specie di studenti Ivy League di prima fascia che prima, diciamo anche solo sei anni fa, tanto voleva lavorare a Wall Street… vola alla Silicon Valley perché adesso è lì che si fa la storia. E la storia è parte di un'America più antica e più tipica. Un Mark Zuckerberg e il suo Facebook, e il settore cui appartiene Facebook, l'IT, Information technology… felpa con cappuccio o meno, sono parte della tradizione degli illustri annali finanziari degli Stati Uniti.
Due cose hanno mostrato concretamente quanto in basso sono finiti i broker. A un futuro quant promettente offrono fino a cinque volte più soldi che a un Padrone dell'Universo. O per metterla come un titolo recente del New York Post: «Gli elegantoni di Wall Steet fatti fuori da geek da un milione di dollari». E un algoritmo canaglia di un quant su una sola azione potrebbe far crollare il mercato intero, come nel flash crash del 2010, il crollo lampo, e la picchiata di 1.000 punti del 2012. La picchiata è costata al Knight Capital Group 440 milioni. Non si sono mai ripresi.
I Padroni dell'Universo non sono mai stati in grado di spiegare ai loro figli cosa facevano. La spiegazione standard, «Be', creiamo mercati», suonava eccitante quanto mettersi a guardar crescere l'erba finta Astroturf.

Il modo più semplice di vedere quanto in basso sono caduti i nostri padroni nel nostro universo è immaginarsi come suonerebbero oggi le avventure di Sherman McCoy. Venticinque anni fa era esaltato dalla grande verità che gli si era rilevata: «Sono un Padrone dell'Universo!».
Se John Coares fosse stato in zona per fargli sputare nelle provette di polistirolo, i valori di Sherman sulla tabella ormonale sarebbero schizzati oltre il massimo. Era sovraccarico di testosterone. John Coates avrebbe saputo prevedere il resto. McCoy si surriscalda nella sala delle grida. È così a mille col testosterone che si convince di meritare il suo dessert di giornata: una ragazza molto molto sexy di nome Maria, quindici anni più giovane di sua moglie, che ne ha quaranta. Evvai!, una sfilza costante di sfide da brivido e relazioni rischiose con Maria e i suoi lombi argillosi, i suoi bei lombi giovani e argillosissimi, che trasudano umori lubricanti a ogni incontro.
Una notte, sul roadster Mercedes di McCoy, prendono la svolta sbagliata e si ritrovano nel Bronx, dove vengono fermati da una grezza barricata di secchi della spazzatura che blocca una rampa. Dal nulla appaiono due giovani neri, gli si fanno incontro. Nel panico, McCoy e la sua tipa schizzano via, in Mercedes, da quella trappola, sbalzando via uno dei ragazzi, facendolo finire di testa contro l'asfalto – e non si fermeranno.
La polizia rintraccia McCoy grazie alla targa. Il giovane nero è ricoverato in condizioni critiche. McCoy viene arrestato con l'accusa di assalto aggravato con arma pericolosa (l'auto) e con l'accusa di omissione di soccorso. Un agitatore razziale nero, il Reverendo Bacon, e un vecchio marxista avvocato dei diritti civili, residuato degli anni Sessanta, reclutano un reporter di tabloid ubriacone e trasformano l'incidente in uno scandalo razzista. Orde di manifestanti sfilano di fronte al palazzo di McCoy in uno dei tratti più eleganti di Park Avenue.
Come andrebbe il test di McCoy se John Coates lo esaminasse oggi? C'è un vecchio modo di dire americano, perfetto per l'occasione: «Non sarebbe riuscito a farsi arrestare». Lo si usa per definire uno che nessuno si fila.

Tanto per cominciare, oggi non avrebbe valori alti di testosterone. Avrebbe alto il cortisolo, che indica lo stress. Nel caso di McCoy, non sarebbe uno stress da lotta o muori, il più grave. Sarebbe uno stress di moderata gravità: lo stress da status. Ah… pensa ai vecchi tempi, quando queste sale della grida ruggivano delle voci dei giovani che urlavano in piedi, telefono in una mano, l'altra stretta a pugno per colpire l'aria… pensa a come gridavamo e ci offendevamo gli uni gli altri, niente di carino, niente di educato, certo, ma certo faceva scorrere l'adrenalina e pompare il testosterone. Ne avevamo bisogno! Era tutto sulle nostre spalle e i nostri nervi e la nostra volontà di spencolarci sul vuoto e correre dei grossi rischi – adesso! su due piedi! – noi, proprio noi! – e non consegnare la nostra virilità a dei robomostri che si battono con impulsi elettrici così veloci che non abbiamo idea di cosa stiano facendo, figuriamoci del come.
Guardateci oggi, praticamente legati alle sedie, muti, che cerchiamo di tener d'occhio sei schermi alla volta, sei schermi impilati tre su tre a escludere ogni contatto che abbiamo col mondo reale. Non si sente un rumore! È come un ufficio assicurazioni. Non stiamo combattendo con nessuno, per niente.

Non saremmo capaci di farci arrestare! Non abbiamo i valori ormonali con cui puoi andar dietro alle ragazzine e farla franca dopo gli incontri più azzardati. Non abbiamo il testosterone, ma abbiamo litri e litri di cortisolo che ci assicurano una preoccupazione costante, incessante. Mettiamo però che oggi facessimo nel Bronx un qualcosa che nel 1987 avrebbe spinto un vecchio avvocato bianco dei diritti civili e un agitatore razziale nero a inseguirci con farsesche e rumorose dimostrazioni di rabbia. Oggi non perderebbero tempo con noi. Oggi uno Sherman McCoy non potrebbe permettersi Park Avenue e sarebbe complicato descriverlo come uno spietato capitalista – e soprattutto non varrebbe la pena denunciarlo (per conto della famiglia della vittima, e prendendosi due terzi del grosso risarcimento assegnato dalla giuria, essendo questo lo schema, nel 1987). E poi, oggi gli agitatori hanno chiuso bottega. Durante la campagna elettorale del 2008, il Presidente Obama non ha mai detto: «Ribellatevi! Spezzate le vostre catene e prendete ciò che vi spetta di diritto!». No, avendo la testa sulle spalle ha detto: «Dobbiamo tutti esaminare con attenzione le nostre vite e capire come possiamo renderle migliori». La cosa ha fatto talmente infuriare il Reverendo Jesse Jackson che durante uno stacco pubblicitario su una trasmissione di approfondimento su Fox, ha detto – non sapendo che c'era un microfono aperto: «A Obama gli taglierei le palle». Ma fu svelto a smentire pubblicamente, rendendosi conto che non c'era assolutamente margine di manovra per sfidare il primo presidente nero. Non ha detto altro che cose amichevoli ed educate da quel momento in poi. Il Reverendo Al Sharpton l'ha capito da subito ed è entrato di fatto nel governo Obama quasi da ministro senza portafoglio.
Quanto al crash del 2008… In termini di orgoglio puro, è stato una manna per i poveri Padroni dell'Universo. In cifre, 460mila persone nel settore finanza, impiegati di ogni livello, hanno perso il lavoro nella tetra discesa che ha fatto seguito. Fra tante macerie, dal punto di vista dell'orgoglio non è parso troppo male quando i broker e i capi dei desk, e anche, ogni tanto, qualche quant, hanno perso il loro. Le macerie hanno coperto la sciarada, la farsa, i giochetti, la recita di cui i Padroni dell'Universo erano diventati parte.
Sherman McCoy ha tenuto a freno la lingua, ma tra sé e sé ha mormorato: «Ave a voi, Eunuchi dell'Universo».

Tom Wolfe (Traduzione di Francesco Pacifico) Fonte ilSole24Ore.com - Eventiquattro - IL Magazine
http://eventiquattro.ilsole24ore.com/eventi-e-altro/banche-e-assicurazioni/notizie/2013/02/13/gli-eunuchi-delluniverso.aspx




martedì 16 aprile 2013

Innovare a passo doppio

Natural Gentleman è una startup nata da alcuni studenti, tra Torino e Parigi. L'idea è usare internet per offrire abiti su misura realizzati dall'alta sartoria italiana. L'incontro con la Successori Reda che produce tessuti di alta gamma nel biellese si è trasformato in un'adozione. I giovani hanno trovato sostegno, esperienza, capitale, per accelerare lo sviluppo della loro impresa. L'azienda tessile ha imparato a conoscere la mentalità e le opportunità offerte da internet: «È come apprendere una nuova lingua» ha detto l'amministratore delegato, Ercole Botto Poala.

Questa storia si trova nel vademecum di «AdottUp», il programma di Piccola Industria Confindustria per l'adozione di startup. Le startup sperimentano, cercano di realizzare una loro visione, sulla base della conoscenza che hanno delle tecnologie e dei linguaggi contemporanei. Le imprese tradizionali hanno esperienza e mercato, ma hanno bisogno di contaminarsi con l'energia innovativa che sgorga dalle squadre di startupper. E in qualche caso anche di trovare nuovi modelli di sviluppo.

«Oggi le opportunità sono più che mai nell'innovazione. E l'innovazione non è una partita che si gioca da soli. Più è ricco di innovazione il contesto nel quale si muove un imprenditore attivo e incisivo, più la sua azienda è incentivata e abilitata a innovare. Conoscere tutto questo significa rendersi conto che occorre seminare la cultura dell'innovazione per poter raccogliere competitività e crescita» dice Vincenzo Boccia, presidente della Piccola Industria.

La cultura dell'innovazione si assorbe partecipando al processo dell'innovazione, non comprandone i risultati. La cultura d'impresa si impara guardando gli imprenditori in azione. L'unione delle esperienze di startuppari e piccoli imprenditori in progetti comuni, potrebbe rivelarsi una soluzione densa di conseguenze per il sistema industriale italiano. Ce n'è bisogno. Se solo si considerano i settori che sostengono tanta parte del sistema – come l'abbigliamento, l'arredamento, l'alimentare – ci si accorge che la loro capacità innovativa è sfidata costruttivamente dalle domande forse ingenue che arrivano da mondi diversi. Si pensi al sistema della moda: perché gli occhiali dovrebbero essere prodotti da Google e gli orologi da Apple? Perché la moda italiana non genera soluzioni eleganti per portarsi dietro gli smartphone e per usare le cuffie? Perché i tessuti non dovrebbero porsi l'obiettivo di schermare i campi elettromagnetici generati da wi-fi e telefonini? Ma domande simili si possono porre incrociando elettronica, nuovi materiali e design nell'arredamento, come si comincia a vedere in qualche caso al Salone del mobile di Milano.

Del resto, l'alto valore aggiunto di produzioni in quantità limitata non può non trarre vantaggio dallo sviluppo dei mercati cosmopoliti che nascono sulle reti e le piattaforme digitali: e non si vede perché quelle piattaforme non possano essere anche italiane. Vizidigola è una startup che si occupa di vendere online le specialità eccellenti della gastronomia italiana. E H-umus sviluppa tecnologie per migliorare il design dei campionari di prodotti industriali usando al massimo gli strumenti digitali. Quanti altri incroci tra la tradizione e l'innovazione si possono sviluppare?
A queste domande, certo, possono rispondere le imprese stesse. Ma è più probabile che le nuove idee emergano dalle capacità sperimentali degli startupper intercettate da imprese che, pur continuando a seguire con la massima attenzione il loro core business, accettano di imparare dagli esploratori di territori sconosciuti. Il vantaggio che si può trarre da questa sorta di esternalizzazione della ricerca è sempre più evidente: non solo per il marketing, ma anche per le vendite, l'innovazione di prodotto, la modernizzazione delle relazioni con i clienti, i dipendenti, i fornitori.

Alberto Baban e Nicola Mason, fondatori della Tapì che ha creato i tappi sintetici per il mercato dei distillati, hanno portato innovazione nel food and beverage ma a loro volta hanno bisogno di innovazione per mantenere la leadership e anche per questo investono in startup. Baban è convinto che il ricco Veneto attuale sia frutto delle startup di 40 anni fa e che il suo futuro sia essere una sorta di incubatore naturale per startup. Chi lo sente parlare pensa: speriamo che lo siano anche altre regioni d'Italia. È perfettamente possibile.

Luca De Biase - Nòva 24 - Il Sole 24 ore

domenica 14 aprile 2013

Populisti per paura del nuovo

Uno studioso del fenomeno (Ludovico Incisa di Camerana nel Dizionario di politica a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino) sostiene che il populismo è soprattutto una «sindrome», vale a dire uno stato d’animo caratterizzato da sintomi, percezioni, emozioni. Non esiste una ideologia del populismo, non esiste un «manifesto dei populisti», non esistono programmi organici per un futuro populista. La sindrome è fondata su due convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e che sia, al tempo stesso, vittima di raggiri, inganni, persecuzioni. Sempre secondo Incisa, il populismo è una religione neopagana in cui il Popolo è Dio e adora se stesso.

Ma accanto al popolo-Dio vi è Satana che cerca di sfruttarne le virtù e di usarle per i suoi fini. Nella sacre rappresentazioni populiste Satana veste abiti diversi. Può essere, a seconda delle circostanze, lo Stato dei padroni e dei politicanti, la grande finanza, il complesso militare-industriale, i «savi di Sion», la massoneria, i «poteri forti». Generalmente il populismo sonnecchia docilmente, salvo risvegliarsi per brevi periodi nelle chiacchiere delle osterie, dei bar e degli stadi. Ma risale impetuosamente alla superficie e assume maggiori proporzioni quando Satana, con gli abiti della modernità, irrompe nella vita sociale, ne modifica gli equilibri, mette in pericolo la condizione economica di alcuni ceti.

Quasi tutti i fenomeni populisti dell’Ottocento e della primametà del Novecento sono collegati all’industrializzazione e alle sue conseguenze. Vi fu un populismo americano dopo la guerra di Secessione, quando la costruzione delle ferrovie ruppe le enclave rurali e cambiò il volto del Paese. Vi fu un populismo russo (i narodniki, gli slavofili), quando l’impero zarista attraversò, qualche anno dopo, una fase di promettente crescita economica. Vi furono nuovi fenomeni populisti negli Stati Uniti (il nativismo) quando l’impetuoso sviluppo dell’industria americana richiamò masse d’immigrati provenienti soprattutto dalla Cina, dal Giappone, dall’Europa meridionale e orientale. Il «popolo» si sentì minacciato e attribuì subito la responsabilità delle proprie sventure a un nemico: i baroni americani con i denti d’acciaio, i banchieri e gli ebrei arrivati dall’impero zarista dove i pogrom di Kišinëv, Odessa, Kiev e Bialystock furono fenomeni populisti, anche se spesso orchestrati e manipolati dalla polizia e dai servizi segreti. Negli anni seguenti furono in parte populisti, negli Stati Uniti, anche il movimento «America First», contro l’ingresso del Paese in guerra nel 1917, e la «Red Scare», la paura dei rossi, che esplose contro comunisti e anarchici dopo la fine della Grande guerra.

In Europa, negli anni Venti e Trenta, il populismo venne catturato e addomesticato dai partiti e dai movimenti autoritari. Il caso del fascismo è particolarmente interessante. Mentre il dannunzianesimo ha una forte componente estetizzante e la Carta del Carnaro (la costituzione scritta da Alceste De Ambris nel 1920 per la Libera Città di Fiume) è un raffinato testo politico, Mussolini non esita a raccogliere e sfruttare tutti gli umori populisti che circolano nel Paese alla vigilia della Grande guerra e dopo la fine del conflitto. Vi è un ammiccamento populista nella testata del suo giornale («Il Popolo d’Italia») e i suoi primi messaggi politici, agli inizi del 1919, non sono indirizzati a una classe sociale, ma al «popolo delle trincee». Vi è molto populismo, durante il regime, nell’esaltazione della vita rurale, nella battaglia del grano, nei raduni «oceanici» di piazza Venezia, nei dialoghi con la folla, nella denuncia della plutocrazia «giudaica», nelle grandi iniziative popolari come quella di Italo Balbo per il trasferimento di trentamila coloni italiani in Libia.

Ma il fascismo fu un movimento gerarchico, poté contare su una nutrita pattuglia di intellettuali, volle creare lo «Stato nuovo» e realizzò alcune delle sue istituzioni. A differenza del populismo, il fascismo sapeva che il popolo non è un insieme indistinto. È composto da classi sociali, distinte per mestiere e livello di vita, che il leader vuole costringere a collaborare nell’ambito di un sistema corporativo dove tutti, imprenditori e operai, saranno «produttori». Il nazionalsocialismo esaltava la forza del popolo (Volk) e aveva un giornale ufficiale, diretto da Alfred Rosenberg, che si chiamava «Osservatore del Popolo» («Völkischer Beobachter»). Ma il popolo del Führer era una razza armata, pronta a distruggere o asservire i popoliminori, a combattere e a morire per un Reich millenario. Il comunismo, non appena Lenin conquistò il potere, liquidò con la violenza tutti i suoi concorrenti prerivoluzionari, dagli Sr (i Socialisti rivoluzionari) ai menscevichi e agli anarchici. Stalin sapeva che il popolo dei movimenti populisti russi era quello delle campagne e trattò i contadini, quindi, alla stregua di nemici dell’unico popolo riconosciuto dal regime: la classe operaia. Quelli che sopravvissero alle carestie e alle deportazioni divennero impiegati dei kolkhoz. Avevano un retroterra populista anche i regimi di Antonescu in Romania, di Perón in Argentina e di altri caudillos latino-americani sino a Hugo Chávez. Non fu populista invece il franchismo spagnolo, nel quale alcuni alleati del regime (la Chiesa, le forze armate, l’aristocrazia) appartenevano ancora all’Ancien Régime. E non fu populista, per ragioni in parte simili, nemmeno il regime del maresciallo Pétain, creato nella Francia di Vichy dopo la sconfitta del 1940.

Come i populismi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, anche quelli apparsi tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo sono il risultato di un grande processo modernizzatore. La globalizzazione abbatte le frontiere, favorisce la libera circolazione delle merci, del denaro, della forza-lavoro, e mette a dura prova le vecchie economie nazionali. La rivoluzione informatica cambia ilmodo di lavorare, distrugge vecchimestieri e ne crea di nuovi, accelera prodigiosamente la diffusione delle idee, dei miti, delle proteste populiste. La rivoluzione sessuale e le applicazioni della biotecnologia cambiano i tradizionali rapporti fra i sessi e rendono possibili nuovi modi di nascere, procreare, morire. Ciascuna di queste innovazioni può essere percepita, a seconda della circostanze, come straordinaria occasione o grande minaccia.

Questa triplice rivoluzione — globalizzazione, informatica, bioetica — colpisce società in cui vi è stata, nei decenni precedenti, una forte promozione sociale. Alle occupazioni più umili, ma pur sempre necessarie, provvedono quindi legioni di nuovi arrivati usciti dai barrios e dalle favelas dell’America Latina, dalle periferie delle città nordafricane, dalle campagne dell’Africa nera, dalle megalopoli asiatiche. Nel giro di due decenni le democrazie industriali dell’Occidente accolgono e assorbono, alla meglio, parecchi milioni di immigrati (nell’Unione Europea più di 33 al 1˚gennaio 2011), molto spesso musulmani nel caso dell’Europa, latino-americani in quello degli Stati Uniti. I nuovi arrivati sono spesso visti e rappresentati come un corpo estraneo, una minaccia all’identità e alla tradizione dei «nativi».

Per meglio fare fronte alla concorrenza dei nuovi capitalismi, l’Unione Europea ha realizzato due grandi riforme: ilmercato unico e lamoneta comune. Ma questa strategia della modernità ha avuto l’effetto di raffigurarla, agli occhi di molti europei, come la sorella gemella della globalizzazione. Le prime rivolte «no global» coincidono spesso con i vertici della World Trade Organization (l’Organizzazione per il commercio mondiale), costituita per diventare, nelle intenzioni dei fondatori, l’Onu dell’economia di mercato. Sono manifestazioni metanazionali ispirate da una ideologia ambientalista. Ma in una fase immediatamente successiva cominciano ad apparire o a risorgere, in quasi tutti i Paesi dell’Ue, partiti che si proclamano «difensori del popolo» contro le minacce dell’economia globale e la tecnocrazia di Bruxelles. Oggi il populismo euroscettico può contare su una galassia di forze politiche che rappresentano insieme più di un quinto dell’opinione pubblica dell’Ue: il Partito austriaco della libertà, diretto a suo tempo da Jörg Haider; il Partito popolare danese fondato nel 1995 da Pia Kiærsgaard: il Partito dei veri finlandesi di Timo Soini; il Fronte nazionale diMarine Le Pen in Francia; Alternative für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders nei Paesi Bassi, il partito Diritto e giustizia dei gemelli Jaroslaw e Lech Kaczynski in Polonia (Lech fu presidente della Repubblica e morì in un incidente aereo nell’aprile del 2010); il Partito per l’indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage; i Democratici svedesi di Jimmie Åkesson, il partito Jobbik di Gergely Pongrátz in Ungheria e per certi versi anche Fidesz di Viktor Orbán nello stesso Paese. Alcuni appoggiano il governo e influiscono sulla sua politica, altri sono all’opposizione e non tutti, comunque, sono egualmente populisti o razzisti. Ma tutti pescano i loro voti fra coloro per cui la globalizzazione e l’integrazione europea sono i nuovi «nemici del popolo».

Esiste poi un altro fenomeno che soffia sul fuoco del populismo. La Rete, vale a dire il maggior simbolo della modernità, è ormai il veicolo che più contribuisce a diffondere le paure del «popolo buono» e le sue fantasticherie sulle bugie e i raggiri dei suoi diabolici nemici. Grazie alla Rete sappiamo che l’attacco alle Torri Gemelle è un’operazione montata dalla Cia e che il Pentagono non è mai stato distrutto. Grazie ai blog e alle reti sappiamo che gli incontri annuali di Bilderberg, (un’associazione fondata dal principe Bernardo d’Olanda nel 1954) e quelli della Trilaterale (il club euro-americano-giapponese creato da Giovanni Agnelli, Henry Kissinger e David Rockfeller 40 anni fa) sono le occasioni che permettono ai potenti della Terra di tessere le loro trame e meglio dominare il mondo degli umili, dei perseguitati, dei servi della gleba. Mancano le prove e i documenti, ma la loro assenza, per il populismo della Rete, è la migliore conferma dell’esistenza del Male. Quanto più è difficile trovare le prove di un complotto, tanto più i congiurati dimostrano, agli occhi di una opinione pubblica populista, la loro diabolica abilità.

Esiste anche un populismo degli intellettuali, molto più raffinato e seducente. Ve ne sono tracce (cito a caso) in alcuni testi di Giuseppe Mazzini, nelle poesie di Walt Whitman, negli scritti di Ezra Pound sull’usura, nei romanzi di Knut Hamsun, nell’abbondante letteratura sull’ «identità» e le «radici», molto alla moda negli ultimi decenni. E vi è un populismo colto, infine, anche in certi inviti all’indignazione che hanno ultimamente riempito la Puerta del Sol a Madrid, Wall Street a New York e il sagrato della cattedrale di San Paolo a Londra.

Di fronte a queste ondate di rabbia popolare gli Stati democratici sembrano a tutta prima sconcertati e impotenti. Ma negli ultimi anni sono spesso riusciti ad assorbire i contestatori, a «imborghesirli», a inserirli nel sistema. Come usa dire all’inizio di certi film, ogni riferimento al Movimento 5 Stelle, in questo articolo, è puramente casuale.

Sergio Romano - La lettura - Corriere della Sera


venerdì 12 aprile 2013

Unomattina dedica spazio alle startup

Davvero una grande occasione per parlare di startup e innovazione in ottima compagnia. Le idee e la voglia di rilancio sono state le vere ospiti a Uno Mattina. 




domenica 7 aprile 2013

Confrontarsi per decidere il cambiamento

Ci sono momenti nella vita in cui si è obbligati a riflettere sulle decisioni da prendere se si vuole cambiare la propria strada. Ci sono persone che affrontano queste situazioni solo una volta nella propria esistenza o anche mai, lasciandosi trasportare dagli eventi e subendo sostanzialmente gli effetti. Molte altre comprendono in certe fasi della propria vita che è il momento di fare delle scelte. Per migliorare oppure modificare lo stato delle cose.

Il cambiamento è necessario se vuoi mantenerti costantemente sulla curva ascendente della crescita.
Esiste sempre una opportunità, un'occasione, un imprevisto che ti permette di fare una scelta diversa e cambiare. Non farla è di per se anch'essa una scelta. Di cui però non ci si dovrebbe lamentare in seguito.

É importante riflettere e meditare con se stessi sul cambiamento, ma lo è anche confrontarsi e parlarne con le persone di cui ci si fida e si pensa possano portare un valore aggiunto o una visione differente al proprio ragionamento.
Parlarne aiuta molto a fare chiarezza nella mente. Si è obbligati a esplicitare in modo chiaro e coerente vantaggi e svantaggi. Parlandone ad altri si riesce a capire se si è compreso bene la situazione e il lavoro di analisi è stato coerente e completo.

Spesso invece che le persone si chiudono in se stessi e "rifiutano" questa modalità pensando che essendo una loro scelta nessuno si può mettere negli stessi panni. Un errore di valutazione.
Parlando ripeto con persone di cui si ha considerazione, può invece essere molto utile per aiutare a prendere la decisione finale.
È un lavoro di affinamento che aiuta a "sgrezzare la pietra" del proprio pensiero e levigarla per arrivare alla decisione. Il troppo pensare in solitudine porta con se il rischio di non uscire dalla propria griglia mentale.
Dopo il confronto sta a noi filtrare le informazioni e fare le scelte.