venerdì 27 marzo 2015

Dall'Islam all'Apocalisse anatomia del Califfato Ecco cos'è, cosa vuole e come si può sconfiggere

Cos'è lo Stato islamico? Da dove viene, e che intenzioni ha? La semplicità di queste domande può trarre in inganno, eppure pochi leader occidentali sembrano conoscere la risposta.

Dopo aver conquistato Mosul, in Iraq, lo scorso giugno, oggi il gruppo controlla un territorio più esteso del Regno Unito. Il suo leader dal maggio del 2010 è Abu Bakr Al Baghdadi, di cui sino all'estate scorsa circolava una sola immagine: una foto segnaletica sfocata risalente all'occupazione dell'Iraq, quando Al Baghadi fu detenuto dagli Usa a Camp Bucca. Poi, il 5 luglio 2014, Al Baghdadi è salito sul pulpito della Grande Moschea Al Nuri di Mosul per pronunciare un sermone del Ramadan. In quel discorso, il primo del genere tenuto da un Califfo da molte generazioni, Al Baghdadi ha messo a fuoco i suoi propositi, non più sfocati ma ad alta definizione, e la propria posizione, che non era più quella di un combattente ricercato bensì di comandante di tutti i musulmani. Da allora l'arrivo dei jihadisti provenienti da ogni parte del modo procede con ritmi e numeri senza precedenti.

Per certi versi la nostra ignoranza sull'Is è comprensibile: si tratta di un regno eremita; pochi sono andati e tornati; Al Baghdadi ha parlato a una telecamera solo una volta. Ma quel discorso, e tutti gli innumerevoli altri video propagandistici, sono reperibili online. Se ne può dedurre che l'Is rifiuta la pace per principio; che è assetato di genocidio; che le sue opinioni religiose lo rendono strutturalmente incapace di operare modifiche, anche se da esse dipendesse la sua stessa sopravvivenza; e che si considera foriero della fine del mondo.

Lo Stato Islamico, noto anche con il nome di Stato Islamico dell'Iraq e Al Sham (Isis), s'ispira a una caratteristica varietà di Islam la cui strategia è determinata da particolari convinzioni riguardo alla strada che porta al Giorno del Giudizio. Convinzioni che possono aiutare l'Occidente a imparare a conoscere il proprio nemico e a prevederne il comportamento.

Abbiamo frainteso la natura dello Stato Islamico in almeno due modi. Innanzitutto, tendiamo a considerare il jihadismo monolitico e ad applicare la logica di Al Qaeda a un'organizzazione che l'ha eclissata. I sostenitori dello Stato Islamico con cui ho parlato attribuiscono ancora ad Osama bin Laden il titolo onorifico di "sceicco". Dai tempi d'oro di Al Qaeda (1998-2003 circa) il jihadismo però si è evoluto, e molti jihadisti disdegnano le priorità del gruppo e la sua attuale dirigenza. Bin Laden considerava il suo terrorismo il preludio a un Califfato che pensava non avrebbe mai visto durante la propria vita. La sua organizzazione era flessibile e operava come una rete geograficamente diffusa di celle autonome. L'Is esige invece un territorio riconosciuto e una struttura che lo governi dall'alto.
Siamo vittime anche di un altro equivoco, frutto di una campagna dalle buone intenzioni ma ingannevole che nega la natura medievale della religiosità dello Stato Islamico. Peter Bergen, che nel 1997 intervistò per primo Bin Laden, intitolò il suo primo libro Holy War Inc. in parte per sottolineare l'appartenenza di Bin Laden al mondo secolare moderno. Bin Laden ha dato al terrore una struttura aziendale e ne ha fatto un franchising. Richiedeva specifiche concessioni politiche: come il ritiro delle forze Usa dall'Arabia Saudita. I suoi uomini si muovevano nel mondo moderno con piglio sicuro. Il giorno prima di morire, Mohammed Atta fece acquisti da Walmart e cenò da Pizza Hut.

Quasi tutte le decisioni dell'Is aderiscono a ciò che esso definisce, sui manifesti, sulle targhe e sulle monete, "la metodologia profetica". La maggior parte delle iniziative del gruppo appaiono infatti prive di senso se non le si osserva alla luce di un impegno volto a riportare la civiltà al settimo secolo e, in definitiva, a scatenare l'Apocalisse. La realtà è che lo Stato Islamico è islamico. Molto islamico. La religione predicata dai suoi seguaci più ferventi deriva da interpretazioni coerenti e addirittura colte dell'Islam. Quasi tutte le sue leggi aderiscono alla "metodologia profetica", il che significa attenersi meticolosamente alla profezia e all'esempio di Maometto. I musulmani possono rifiutare lo Stato Islamico, e quasi tutti lo fanno. Ma fingere che non si tratti di un gruppo religioso e millenario di cui, se lo si vuole combattere, occorre comprendere la teologia ha già indotto gli Stati Uniti a sottovalutarlo e ad appoggiare iniziative insensate per contrastarlo. Dobbiamo conoscere la genealogia intellettuale dell'Is se vogliamo agire in modo da non rafforzarlo, ma semmai aiutarlo ad autoimmolarsi nel suo eccessivo fervore.

I. DEVOZIONE
Lo scorso novembre lo Stato Islamico ha diffuso un video in stile telepromozione che faceva risalire le sue origini a Bin Laden. Riconosceva Abu Musab Al Zarqawi, spietato capo di Al-Qaeda in Iraq dal 2003 alla sua uccisione nel 2006, come suo più immediato progenitore, seguito nell'ordine da altri due leader guerriglieri che hanno preceduto Al Baghdadi. Dalla lista era assente Ayman Al Zawahiri, successore di Bin Laden: il chirurgo oftalmico egiziano che attualmente dirige Al-Qaeda. Al Zawahiri non ha giurato fedeltà ad Al Baghdadi ed è sempre più odiato dai suoi compagni jihadisti.
Nel dimenticatoio, insieme ad Al Zawahiri, è stato relegato anche un religioso giordano di 55 anni: Abu Muhammad Al Maqdisi, considerato a ragione l'architetto intellettuale di Al Qaeda nonché il più importante dei jihadisti sconosciuti ai comuni lettori. Nella maggior parte delle questioni dottrinali, Al Maqdisi e lo Stato Islamico sono d'accordo. Entrambi sono strettamente identificati con l'ala jihadista di un ramo del sunnismo chiamato salafismo dall'arabo "al salaf al salih", i "pii antenati". Questi antenati sono il Profeta in persona e i suoi primi seguaci, che i salafiti onorano ed emulano come modelli in ogni ambito: guerra, abbigliamento, vita familiare e persino igiene dentale.

Al Maqdisi è stato maestro di Al Zarqawi, che ha combattuto in Iraq tenendo a mente i suoi consigli. Con il tempo però Al Zarqawi ha superato il suo mentore in fanatismo, sino a meritarsi il suo rimprovero. Punto del contendere tra i due era la propensione di Al Zarqawi per lo spargimento di sangue e, in fatto di dottrina, il suo odio verso gli altri musulmani, al punto di scomunicarli ed ucciderli. La punizione per l'apostasia è la morte e Al Zarqawi aveva ampliato sconsideratamente l'elenco di comportamenti che potevano fare di un musulmano un infedele. Seguendo la dottrina del takfiri, l'Is è votato alla purificazione del mondo tramite l'uccisione di un gran numero di individui. La mancanza di resoconti obiettivi dai suoi territori rende impossibile determinare la reale portata del massacro, ma i social media lasciano intendere che le esecuzioni individuali si succedano continuamente e le uccisioni di massa a distanza di poche settimane. Gli "apostati" musulmani sono le vittime più frequenti. Risparmiati dall'esecuzione automatica sembra siano i cristiani che non si oppongono al nuovo governo: Al Baghdadi consente loro di restare in vita a patto di versare un'imposta speciale, detta jizya, e riconoscere la propria sottomissione. L'autorità coranica per questa pratica non è messa in discussione.

Senza conoscere questi fattori, nessuna spiegazione dell'ascesa dello Stato Islamico può dirsi completa, ma focalizzarsi su di essi escludendo l'ideologia riflette un altro pregiudizio occidentale: che, se a Washington o a Berlino l'ideologia religiosa non ha un gran peso, lo stesso debba essere vero a Raqqa o a Mosul. Quando un carnefice dal volto coperto esclama "Allahu Akbar" nel decapitare un apostata, talvolta lo fa per motivi religiosi.
Molte delle organizzazioni musulmane più convenzionali si sono spinte a dire che lo Stato Islamico sia, in realtà, non-islamico. È rassicurante sapere che la grande maggioranza dei musulmani non ha alcun interesse a sostituire le pubbliche condanne a morte ai film di Hollywood. Ma i musulmani che considerano lo Stato Islamico non-islamico sono, come mi ha spiegato Bernard Haykel, studioso di Princeton nonché maggiore esperto della teologia del gruppo, «a disagio e politicamente corretti, con una visione edulcorata della propria religione » che trascura «ciò che la loro religione storicamente e legalmente prevede». Molte smentite della natura religiosa dell'Is affondano e proprie radici in una «tradizione-interconfessionale- cristiana-priva di fondamento», ha detto.
Stando ad Haykel, gli appartenenti allo Stato Islamico sono profondamente intrisi di fervore religioso. Le citazioni coraniche sono onnipresenti, e «persino i combattenti snocciolano di continuo questa roba». «Si mettono in posa di fronte all'obiettivo e ripetono i loro precetti base con tono monotono, e lo fanno inin- terrottamente». Haykel considera l'idea che lo Stato Islamico abbia distorto i testi dell'Islam insensata e sostenibile solo grazie a una deliberata ignoranza. «Le persone vogliono assolvere l'Islam», dice. «È come un mantra: "l'Islam è una religione di pace". Come se si potesse parlare di "Islam"! L'Islam è ciò che i musulmani fanno e il modo in cui interpretano i loro testi». Testi comuni a tutti i musulmani sunniti, non solo all'Is. «Questi tipi hanno la stessa legittimazione degli altri».
Tutti i musulmani ammettono che le prime conquiste di Maometto non furono una faccenda pulita e che le leggi di guerra tramandate dal Corano e nei racconti del Profeta erano pensate per un'epoca violenta. Secondo Haykel, i combattenti dell'Is si rifanno del tutto al primo Islam e ne riproducono fedelmente le norme belliche. Tale comportamento include diverse pratiche che i musulmani moderni preferiscono non riconoscere come parte integrante dei loro testi sacri. «Schiavitù, crocifissioni e decapitazioni non sono pratiche che degli squilibrati [i jihadisti] scelgono selettivamente dalla tradizione medievale», dichiara Haykel. I combattenti dell'Is «si pongono al centro della tradizione medievale, e la smerciano all'ingrosso».
La nostra incapacità di apprezzare le essenziali differenze tra Is e Al Qaeda ha portato a compiere decisioni pericolose.

II. TERRITORIO
Decine di migliaia di musulmani stranieri sono immigrati nello Stato Islamico. Le nuove reclute provengono da Francia, Regno Unito, Belgio, Germania, Olanda, Australia, Indonesia, Stati Uniti e molti luoghi ancora. Molti vengono a combattere e molti intendono morire.
Lo scorso novembre ho incontrato in Australia Musa Cerantonio, un trentenne che Neumann e altri ricercatori identificano come una delle due "nuove autorità spirituali" che inducono gli stranieri a unirsi all'Is. È stato per tre anni il televangelista della tv cairota Iqraan . L'ha dovuta lasciare perché invitava a fondare un Califfato. Adesso predica attraverso Facebook e Twitter.
Cerantonio mi ha raccontato la gioia che ha provata quando il 29 giugno Al Baghdadi è stato dichiarato Califfo e l'improvvisa e magnetica attrazione che la Mesopotamia ha iniziato a esercitare su di lui e i suoi amici. «Mi trovavo in un hotel [nelle Filippine] e, mentre guardavo la tv, mi sono domandato: Che ci faccio in questa fottuta camera?».

L'ultimo Califfato è stato l'impero ottomano, che raggiunse il proprio apice nel XVI secolo per poi avviarsi a un lungo declino, sino a quando il fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk, lo sconfisse nel 1924. Tuttavia Cerantonio, così come molti sostenitori dell'Is, non considera il Califfato legittimo perché non applica appieno la legge islamica, che prevede lapidazioni, schiavitù e amputazioni, e perché i suoi califfi non discendono dalla Quraysh, la tribù del Profeta.
Il Califfato, mi ha detto Cerantonio, non è solo un'entità politica ma anche un veicolo di salvezza. La propaganda dello Stato islamico diffonde a scadenze regolari i giuramenti di baya'a , fedeltà, che giungono da gruppi jihadisti di tutto il mondo musulmano. Cerantonio ha citato un detto profetico secondo il quale morire senza giurare fedeltà equivale a morire jahil , nell'ignoranza, e quindi a "morire nel dubbio". Considerate quale sorte i musulmani (o i cristiani) immaginano che Dio riservi alle anime di coloro che muoiono senza aver riconosciuto l'unica vera religione: non vengono né salvate né condannate definitivamente. Analogamente, ha aggiunto Cerantonio, il musulmano che riconosce un Dio onnipotente e prega, ma che muore senza giurare fedeltà a un legittimo Califfo e senza sostenere gli obblighi che derivano da quel giuramento, non ha vissuto una vita pienamente islamica.

III. L'APOCALISSE
Tutti i musulmani riconoscono che Dio è l'unico a conoscere il futuro. Ma sono anche concordi nel ritenere che ci ha concesso di scorgerne un lembo nel Corano e nei racconti del Profeta. Lo Stato Islamico si discosta da quasi ogni altro movimento jihadista in quanto crede che le scritture di Dio gli affidino un ruolo centrale. Questo ruolo rappresenta la più netta distinzione tra l'Is e i movimenti che lo hanno preceduto, nonché la più esplicita definizione della natura religiosa della sua missione.
Al Qaeda si comporta grosso modo come un movimento politico clandestino i cui obiettivi concreti rimangono sempre chiari: l'espulsione dei non-musulmani dalla Penisola araba, l'abolizione dello Stato di Israele, la fine del sostegno alle dittature nei territori musulmani. Anche lo Stato Islamico ha alcuni interessi concreti, ma la Fine dei Giorni è un leitmotif della sua propaganda. Bin Laden raramente ha parlato di Apocalisse.
Durante gli ultimi anni dell'occupazione Usa dell'Iraq, gli immediati padri fondatori dello Stato Islamico scorsero ovunque segni della fine del mondo. Lo Stato Islamico attribuisce una grande importanza alla città siriana di Dabiq, nei pressi di Aleppo. A essa ha intitolato la sua rivista di propaganda e ha celebrato follemente la conquista assai faticosa delle sue pianure, prive di importanza strategica. Il Profeta avrebbe detto che è proprio qui che si accamperanno gli eserciti di Roma. Gli eserciti dell'Islam verranno loro incontro e Dabiq per Roma sarà una Waterloo. I propagandisti dello Stato Islamico fremono di impazienza all'idea di un simile evento e implicano costantemente che si avvererà presto.
Nella narrazione profetica che preannuncia la battaglia di Dabiq, il nemico viene identificato in Roma. A cosa possa corrispondere "Roma" adesso che il Papa non ha più un esercito rimane oggetto di dibattito. Cerantonio suggerisce che Roma rappresentasse l'Impero romano di Oriente, la cui capitale era l'attuale Istanbul. Dovremmo dunque considerare Roma la Turchia, la stessa che novant'anni fa pose fine all'ultimo autoproclamato Califfato. Altre fonti dello Stato Islamico suggeriscono che qualsiasi esercito di infedeli, americani in primis , potrebbe rappresentare Roma.

IV. LA LOTTA
La purezza ideologica dello Stato Islamico contiene una virtù che la controbilancia: quella che ci permette di prevedere alcune iniziative del gruppo. Raramente Osama bin Laden era prevedibile. Lo Stato Islamico invece ostenta apertamente le proprie mire: non tutte, ma abbastanza perché, ascoltando attentamente, si possa capire come intende governare ed espandersi.
Puniti per la nostra iniziale indifferenza, oggi affrontiamo indirettamente l'Is attraverso i curdi e gli iracheni sul campo di battaglia e con regolari attacchi aerei. Queste strategie non hanno cacciato l'Is da nessuno dei suoi principali territori, sebbene gli abbiano impedito di attaccare direttamente Baghdad ed Erbil e di massacrare gli sciiti e i curdi che vi abitano.
Alcuni osservatori, tra cui alcuni prevedibili esponenti della destra interventista, hanno chiesto a gran voce un inasprimento dell'offensiva e reclamato il dispiegamento di decine di migliaia di soldati americani. Simili esortazioni non dovrebbero essere sminuite troppo frettolosamente: un'organizzazione dichiaratamente genocida si trova alle porte delle sue potenziali vittime e commette ogni giorno atrocità nei territori che già controlla.
Un modo per annullare il sortilegio che lo Stato Islamico esercita sui propri sostenitori sarebbe quello di sopraffarlo militarmente e occupare le zone della Siria e dell'Iraq attualmente in mano al Califfato. Al Qaeda non può essere sradicata perché è in grado di vivere sottoterra, come uno scarafaggio. Lo Stato Islamico no. Se perde la propria presa sul suo territorio in Siria e in Iraq cesserà di essere un Califfato. I Califfati non possono esistere sotto forma di movimenti clandestini, perché richiedono un'autorità territoriale. L'Is potrebbe non riprendersi più se tutte le sue forze raccolte a Dabiq venissero sconfitte.

Debitamente contenuto, lo Stato Islamico è probabilmente destinato a causare la propria fine. Nessun Paese gli è alleato e la sua ideologia garantisce che ciò non cambi. Le terre che controlla, benché vaste, sono perlopiù disabitate e povere. Mentre langue o si rimpicciolisce lentamente, la sua convinzione di essere motore della volontà di Dio e agente dell'Apocalisse perderanno vigore e i fedeli che si uniscono alle sua fila saranno sempre meno. Con il diffondersi di nuove testimonianze di infelicità dal suo interno, anche gli altri movimenti islamisti radicali saranno screditati: nessuno ha cercato con maggiore determinazione di implementare con la violenza la stretta osservanza della Sharia. Ed ecco i risultati.

Anche se le cose andassero in questo modo è improbabile che la morte dello Stato Islamico avvenga rapidamente e non è detto che le cose non possano prendere comunque una piega disastrosa. Se Al Qaeda giurasse fedeltà allo Stato Islamico, incrementando ad un tratto l'unità della sua base, potrebbe trasformarsi nel nostro peggior nemico. In mancanza di una simile catastrofe, o forse della minaccia che Stato Islamico attacchi Erbil, una vasta invasione di terra peggiorerebbe di certo la situazione.

V. DISSUASIONE
Definire il problema dello Stato Islamico "un problema con l'Islam" sarebbe facile, addirittura scagionatorio. La religione consente molte interpretazioni e i sostenitori dell'Is sono moralmente responsabili per quella da loro scelta. Tuttavia, limitarsi a denunciare lo Stato Islamico come non-islamico può essere controproducente, soprattutto se coloro a cui giunge tale messaggio hanno letto i testi sacri e visto come questi giustificano chiaramente molte delle pratiche del Califfato.
I musulmani possono dire che la schiavitù oggi non è legale e che nel nostro contesto storico la crocifissione è sbagliata. Molti di loro affermano precisamente questo. Tuttavia non possono condannare esplicitamente la schiavitù o la crocifissione senza entrare in contraddizione con il Corano e l'esempio del Profeta. «L'unica posizione fondata che gli oppositori dello Stato Islamico potrebbero adottare — afferma Bernard Haykel — è quella di dire che alcuni testi fondamentali e alcuni insegnamenti tradizionali dell'Islam non sono più attuali». E quello sarebbe davvero un atto di apostasia.

I funzionari occidentali farebbero probabilmente meglio a trattenersi del tutto dal commentare su aspetti relativi al dibattito teologico islamico. Lo stesso Barack Obama ha lambito il tema del takfiri quando ha affermato che lo Stato Islamico è «non-islamico». Sospetto che la maggior parte dei musulmani concordino con Obama: il presidente ha preso le loro parti sia contro Al Baghdadi che contro i nonmusulmani sciovinisti che tentano di addossare loro gesti criminosi. I musulmani però, nella maggior parte, non sono inclini a unirsi alla jihad. E coloro che invece lo sono, vedranno semplicemente confermati i loro sospetti: ovvero, che gli Stati Uniti mentono sulla religione per propri scopi.

Nel ristretto ambito della propria ideologia, lo Stato Islamico ferve di energia e persino di creatività. Ma al di fuori da esso difficilmente potrebbe essere più arido e silenzioso: una visione della vita come obbedienza, ordine, e destino. Musa Cerantonio potrebbe mentalmente passare dal contemplare le uccisioni di massa e la tortura eterna a discutere le virtù del caffè vietnamita o dei dolci al miele. Potrei godere della sua compagnia come di un vizioso esercizio intellettuale, ma solo sino a un certo punto. Quando recensì Mein Kampf nel marzo del 1940, George Orwell confessò di «non essere mai riuscito a detestare Hitler»; qualcosa in quell'uomo emanava un'aria da perdente, anche quando le sue mire erano vili o aberranti. «Se stesse uccidendo un topolino, saprebbe come farlo sembrare un drago». I partigiani dello Stato Islamico condividono in parte quello stesso atteggiamento: credono di essere coinvolti in una lotta che va oltre la propria vita e che essere risucchiati dalla tragedia stando dalla parte della virtù sia un privilegio e un piacere, soprattutto quando è al tempo stesso un peso. 

Graeme Wood - Per La Repubblica 

mercoledì 25 marzo 2015

Il padrone rosso. Così la Cina sta comprando il mondo.

Non solo Pirelli: la Cina sta acquistando il mondo. Per la prima volta, lo scorso anno, gli investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli stranieri in Cina. «Pechino padrona», più del rallentamento della crescita e della corsa al riarmo, è la tendenza che segna la globalizzazione contemporanea. Lo tsunami degli yuan comunisti che sommergono il capitalismo occidentale sconvolge la geografia economica, ma ridisegna anche gli equilibri politici. Nel 2015 la Cina diventerà il primo investitore estero del pianeta: dai 11,1 miliardi di euro esportati dieci anni fa, arriverà a reinvestire in Paesi stranieri 110 miliardi. Il “go global” cinese è cresciuto nella discrezione. All’improvviso, per legittimare la supremazia della nuova superpotenza del secolo, impone la sua onnipresente immagine. A fine gennaio, quando Alexis Tsipras ha vinto le elezioni in Grecia, sono scattati due allarmi: quello noto sull’euro e quello sconosciuto sulla proprietà cinese del Pireo, terminal container più grande del mondo.Gli europei hanno appreso che la distribuzione delle merci nel Vecchio continente è gestita da Pechino.
Il nuovo azionista di maggioranza globale affascina e spaventa. Non si limita più a scambiare infrastrutture lowcost con materie prime nelle nazioni in via di sviluppo. Irrompe nel salotto buono del business, tra gli Stati Uniti e l’Europa. I trofei servono a impressionare, ad annunciare all’Occidente che il motore millenario dell’Asia «is back», è tornato. Un nipote di Deng Xiaoping, per 1,7 miliardi di euro, ha acquistato l’Hotel Waldorf Astoria, icona del lusso a New York. Pechino controlla energia elettrica e acqua potabile di Londra. Un’immobiliare di Shanghai si è assicurata lo Sheraton di Sidney per 365 milioni di euro. Il fondo sovrano cinese si è aggiudicato l’appalto per la ferrovia ad alta velocità che collegherà Belgrado a Budapest e Rotterdam, attraversando il cuore dell’Europa. L’Africa è già cinesizzata, ma gli ultimi progetti segnano un salto di qualità: pozzi di petrolio in Sudan, una centrale idroelettrica in Nigeria, le miniere del carbone nello Zambia, la rete ferroviaria in Libia, i porti del Mozambico. L’opera- simbolo è il canale “anti-Panama” in Nicaragua, per ridimensionare l’influenza Usa sul commercio tra Atlantico e Pacifico. Le luci della ribalta si accendono anche sui nuovi affari. Wang Jianlin, fondatore del gruppo Wanda e primo gestore mondiale di sale cinematografiche, scala Hollywood, acquista il 20% dell’Atletico Madrid e la società Infront, deus ex machina dei diritti del calcio in tivù. Jack Ma, visionario inventore del colosso dell’e-commerce Alibaba, ha battuto ogni record delle quotazioni a Wall Street: 230 miliardi in un giorno.
Da economia socialista assistita chiusa, quello cinese diventa un business senza confini e di mercato. Nulla a che vedere colGiappone anni Ottanta. La Cina investe in 179 Paesi: nel 2012 le nuove imprese all’estero sono state 22 mila, nel 2014 si è passati a 34 mila, quest’anno il governo prevede che a investire saranno non meno di 50 mila. Prima meta gli Usa, ma lo scontro crescente Pechino-Washington rivoluziona i piani cinesi. Dopo Africa,America Latina e Australia, scatta l’ora del grande ammalato: l’Europa in saldo causa crisi. La leadership rossa resta affezionata alla cassaforte inglese. I nuovi miliardari acquistano castelli e i quartieri chic di Londra. Gli obbiettivi sono però il controllo del Mediterraneo e la conquista del mercato continentale. Priorità:Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, alla ricerca di capitali per ricostruire produzione e lavoro.
Nel 2014 il nostro Paese è stato la seconda destinazione degli investimenti cinesi nella Ue: poco meno di 6 i miliardi di euro arrivati, rispetto ai 147 milioni del 2012. Lo shopping di Pechino non si è limitato ai gioielli di famiglia: Eni, Enel, Generali, Telecom, Fiat-Chrysler, Mediobanca, Saipem, Prysmian, Terna, tutti partecipati al 2% dalla Banca centrale. State Grid Corporation China con 2,1 miliardi di euro si è assicurata il 35% di Cassa depositi e prestiti Reti: il gas e l’elettricità del Belpaese. E il cinese l’hanno imparato anche marchi storici dell’Italian style: Krizia ha venduto al suo ex fornitore Shenzhen Marisfrolg, seguendo le orme degli yacht Ferretti e (qui solo partecipazioni di minoranza), di Ferragamo, o dell’olio Sagra e Borio, di Ansaldo energia e di Cifa. I rumors dei mercati, dopo l’opa di ChemChina sulla Pirelli di Tronchetti Provera, annunciano nuovi colpi ad effetto: il Milan calcio di Berlusconi, i cappelli Borsalino, il Molino Stucky di Caltagirone a Venezia.

Le mani di Pechino sull’economia mondiale rispondono a una necessità interna e ad un’opportunità esterna. Il presidente Xi Jinping, per salvare l’egemonia del partito, deve riformare il modello di sviluppo nazionale. Persi i consumatori occidentali va alla conquista dei loro marchi, per assorbire know how, brevetti, conoscenza, tecnologia e immagine. Prezzi bassi, fine della diffidenza anti-cinese e yuan forte. Da materie prime e agricoltura, mercato primario, si passa a credito, industria e immobiliare, mercato secondario. Negli ultimi dieci anni la Cina si è assicurata le materie prime dell’Africa e dell’America latina, l’energia della Russia, i prodotti agricoli dell’Australia e le commesse hi-tech degli Stati Uniti. Dall’Europa ha solo importato aziende delocalizzate e brand del lusso. Ad aprire l’era del “go Europe”, con la zona euro che nel 2014 ha assorbito il 62% degli investimenti esteri, è ora il raffreddamento delle relazioni con gli Usa. Le barriere si alzano, fino ad escludere la Cina dai sempre più allargati “settori strategici”.
In Europa il percorso è inverso: le porte economiche si aprono, i governi democratici dimenticano diritti umani e libertà d’espressione. Il “caso autoritarismo” non pesa più sull’azione dei tre strumenti privilegiati dell’espansione cinese: il fondo sovrano (Cic), la società degli investimenti di Stato (Safe) e la Banca del popolo, attuali cavalieri bianchi mondiali con una liquidità superiore ai mille miliardi di dollari. Fino ad oggi la Cina è stata la culla dell’export di copie low cost. Il nuovo scenario la vede padrona di tecnologia, marchi hi-tech, credito e finanza, del meglio di quello che si definisce «il futuro dello sviluppo». Alto valore aggiunto, ma la sfida decisiva adesso è la governance: nessuno controlla, né può scegliere, i proprietari del mondo.
Giampaolo Visetti
Il padrone rosso, così la Cina sta comprando il mondo
Repubblica 24 marzo 2015

sabato 21 marzo 2015

Porre attenzione al tempo. I fine settimana che dovrebbero...





Porre attenzione al tempo.


I fine settimana che dovrebbero essere periodi dedicati, per eccellenza, a se stessi rischiano di diventare in molti casi giorni, anche questi, occupati e frenetici.


Così i momenti indispensabili da dedicarsi a riflessioni e valutazioni diventano minimi, accidentali o strappati di forza nel procedere forsennato delle attività da svolgere.


Non si dovrebbe mai dimenticare che i risultati o le decisioni importanti nella nostra vita, sono frutto anche del tempo giustamente dedicato a se stessi e alla propria interiorità.


Periodi, ore, momenti, trascorsi in silenzio e in solitudine con gusto e passione per la ricerca introspettiva, di sè stessi per affrontare sempre nuove sfide e raggiungere i nostri obiettivi con lucidità.




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mercoledì 18 marzo 2015

I miei pensieri. Guardo con dolcezza i miei pensieri, belli o...





I miei pensieri

Guardo con dolcezza i miei pensieri, belli o brutti che siano, perché non sono altro che energia sedimentata, modelli che prendono il sopravvento sulla mia essenza, sul mio Io. In particolar modo quelli negativi.

Li guardo e basta, non li commento,so che se ne andranno da soli. E’ questo il potere della consapevolezza, dello sguardo libero che disintegra tutto l’inutile che ci sovrasta.

Continuare a pensarci e a ripensarci, cercare di capire, di spiegare, di compenetrarli, contribuirà solo a far si che mi si appiccicheranno addosso ancora di più.I pensieri possono essere pesanti come il fango e trascinarti a fondo.



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martedì 17 marzo 2015

15 cose che le persone felici fanno in maniera diversa

Alla luce di quello che ho imparato negli anni ho scritto una lista delle 15 cose che credo che le persone felici facciano diversamente da quelle che non lo sono. La buona notizia è che queste qualità non sono innate, ma si possono imparare.
1. Le persone felici sono consapevoli dei propri valori e impostano la propria vita di conseguenza.
Le persone felici sanno esattamente cosa le rende felici e cosa non le rende felici - e strutturano le proprie vite in modo da massimizzare il tempo che impiegano a fare cose che li rende felici e ridurre al minimo il tempo impiegato a fare cose che non li rende felici.
2. Le persone felici imparano dai propri errori e dalle difficoltà.
Tutti commettono degli errori - sul lavoro, in amore, economici, e in ogni altro aspetto della vita. Ma le persone felici si assicurano di imparare dai propri errori e dalle difficoltà così da non ripetere gli stessi sbagli mai più.
3. Le persone felici non badano a quello che gli altri pensano di loro.
Non importa quello che fai, ci sarà sempre qualcuno che non ti apprezza, ti giudica o ti critica. Le persone felici lo capiscono e sanno che preoccuparsene significa sprecare energie preziose che potrebbero essere impiegate altrimenti.
4. Le persone felici sono grate per quello che hanno.
Me ne sono accorto facendo il volontario in una scuola in Perù, in un orfanotrofio in Cambogia e in uno slum in India. La maggior parte delle persone che ho incontrato erano felici, amichevoli - perché si concentravano e sapevano essere grate per quello che avevano invece di sprecare le loro energie a piangersi addosso per quello che non avevano.
5. Le persone felici non provano ad accontentare tutti.
È un obiettivo impossibile, perciò le persone felici non si stressano troppo nel cercare di raggiungerlo.
6. Le persone felici non si preoccupano delle cose che sono al di fuori del proprio controllo.
Preoccuparsi è una cosa naturale, ma una volta che si impara a non stressarsi per le cose che non dipendono da noi si libera un sacco di energia positiva.
7. Le persone felici sanno come liberarsi dalla rabbia.
Come dice un detto, tenersi dentro la rabbia è come bere del veleno e aspettarsi che muoia qualcun altro. Gli unici a farsi del male siamo noi.
8. Le persone felici sanno di non essere il centro dell'universo.
E di conseguenza capiscono che il modo in cui alcune persone si comportano potrebbe anche non dipendere da loro - quindi non se la prendono troppo.
9. Le persone felici non fanno le vittime.
A tutti capitano delle cose brutte, ma le persone felici sanno capire che piangersi addosso non li porta da nessuna parte. Quindi affrontano le brutte cose, le risolvono e ripartono da lì, invece di restare con le mani in mano a fare del vittimismo.
10. Le persone felici si circondano di persone positive.
Siamo tutti in qualche modo influenzati dalle persone che abbiamo intorno. Se ci circondiamo di persone positive e stimolanti, finiamo noi stessi per sentirci più positivi ed ispirati. Al contrario, se ci circondiamo di persone negative e cupe anche noi tenderemo a sentirci così.
11. Le persone felici hanno uno stile di vita sano.
La maggior parte delle persone felici mangiano bene, dormono bene e fanno spesso esercizio fisico. È quasi una legge di natura.
12. Le persone felici non sono così ossessionate dal guadagno da dimenticarsi di vivere.
Guadagnare è importante, ma non si dovrebbe spendere tutte le proprie energie per riempire il conto in banca, dimenticando poi di divertirsi.
13. Le persone felici non rimuginano sul passato.
A tutti capitano delle cose spiacevoli nella vita, ma rimuginare sul passato è un modo di distruggere il futuro. Meglio accettarlo, imparare dalle cose trascorse e ripartire da lì.
14. Le persone felici non perdono tempo a confrontarsi con le altre persone.
La vita non è una competizione. Non ha senso guardare sempre a quello che fanno gli altri, perché non ci riguarda in alcun modo.
15. Le persone felici sono propositive.
Le persone felici non credono che il mondo gli debba qualcosa. Di conseguenza sono propositive e sanno di dovere lavorare per ottenere quello che vogliono dalla vita.
Danny Baker Author, life coach, mental health advocatehttp://www.huffingtonpost.it/danny-baker/15-cose-persone-felici-fanno-diversa_b_5919178.html?ref=fbph&ncid=fcbklnkithpmg00000001

lunedì 16 marzo 2015

Presentato il libro “Lugo e le sue osterie” realizzato dalla Delegazione di Lugo di Romagna dell’Accademia Italiana della Cucina

Lunedì 16 Marzo 2015 - LugoBassa Romagna
Da sx Alessio Guidotti, Davide Ranalli, Anna Giulia Gallegati, Pierangelo Raffini

Si celebra così il decennale della nascita dell'Accademia sul territorio

La Delegazione di Lugo di Romagna dell’Accademia Italiana della Cucina(www.accademia1953.it) ha realizzato, per il decennale della sua presenza sul territorio di Lugo e dei comuni della Bassa Romagna, un libro dal titolo “Lugo e le sue osterie” con l’obiettivo di lasciare un ricordo tangibile e in linea con l’Istituzione Culturale che rappresenta. 

Alcune copie del volume verranno regalate alla Biblioteca del Comune che fu sede proprio del “battesimo” della nuova Delegazione.

Il libro è stato scritto dal Dott. Alessio Guidotti, docente di storia e filosofia, laureato in Storia e in Lettere presso l’Università di Bologna. Oltre ad aver conseguito due abilitazioni all’insegnamento secondario di secondo grado, ha ottenuto il Master di beni culturali ecclesiastici, presso l’Università degli Studi di Bologna, sede Ravenna e il Diploma di perfezionamento in La ricerca storica. Ha già pubblicato il volume “Verso l’Unità d’Italia passando dalla Romagna” e autore di alcuni articoli su Civiltà della Tavola (Rivista dell’Accademia Italiana della Cucina distribuita in tutto il mondo).

Il Delegato di Lugo di Romagna, Pierangelo Raffini, ha concordato con il Sindaco della città, Davide Ranalli, la presentazione del volumetto nell’ambito del mese della Cultura che tradizionalmente per questa Istituzione cade in marzo.

L'Accademia Italiana della Cucina è nata - naturalmente a tavola, come accade spesso per le cose importanti - quando un gruppo di amici, riuniti a cena il 29 luglio del 1953, ascoltarono e condivisero l'idea che Orio Vergani perseguiva da tempo: quella di fondare un'Accademia col compito di salvaguardare, insieme alle tradizioni della cucina italiana, la cultura della civiltà della tavola, espressione viva e attiva dell'intero Paese.

La cucina è infatti una delle espressioni più profonde della cultura di un Paese: è il frutto della storia e della vita dei suoi abitanti, diversa da regione a regione, da città a città, da villaggio a villaggio.

"La cucina - si legge in una nota del delegato Raffini - racconta chi siamo, riscopre le nostre radici, si evolve con noi, ci rappresenta al di là dei confini. La cultura della cucina è anche una delle forme espressive dell'ambiente che ci circonda, insieme al paesaggio, all'arte, a tutto ciò che crea partecipazione della persona in un contesto. È cultura attiva, frutto della tradizione e dell'innovazione e, per questo, da salvaguardare e da tramandare.

Civiltà della tavola vuol dire prima di tutto civiltà e cioè l'insieme di usi e costumi, di stili di vita, di consuetudini e di tradizioni degli uomini che li condividono. E civiltà del gusto, di quel senso preposto al piacere della tavola - quel gusto capace di affinarsi, di perfezionarsi, di riscoprire sapori perduti e di tentare il palato anche con il nuovo - vuol dire l'insieme dei valori che anche attraverso la tavola un popolo si tramanda, rinnovandoli continuamente, e che ne costituiscono l'identità culturale. Salvaguardare il gusto, quindi, diventa un elemento essenziale per la difesa non solo della civiltà della tavola, ma dell'identità stessa di un popolo".

giovedì 5 marzo 2015

Così il Mediterraneo torna al centro della Storia

di DOMENICO QUIRICO su La Stampa (http://www.lastampa.it/2015/03/02/esteri/cos-il-mediterraneo-torna-al-centro-della-storia-5sIbIMGGf9EDz7mXvWcedP/premium.html)


Dopo lunghe ma fragili peregrinazioni la Storia torna, con dramma e dolore, laddove è nata, al Mediterraneo: la grande cerniera di cui l' avventura umana ha fatto il suo ambito prediletto, Nord contro Sud, Est contro Ovest, Oriente contro Occidente, l' Islam all' assalto della cristianità.
S e tutte le battaglie del passato e del presente si riunissero, insieme e contemporaneamente, un' immensa trincea si dipanerebbe da Corfù ad Azio, da Djerba a Lepanto, da Malta ad Antiochia. Qui i popoli sono passati, di continuo, tra gli stessi regimi come l' uomo attraverso le stesse passioni.
Si torna, nell' inizio incandescente del terzo millennio, alla epica geografia di Braudel, alle sue civiltà e ai suoi imperi. Tutte le sinuosità si ordinano, formano correnti di cui la più vasta si delinea, il Mediterraneo e le sue terre.

Una sorta di segno fatale: l' attualità non ha molto senso in questo mare dove tutto ha carattere di eternità. Dove tornare alle Crociate, vecchio nome per lo scontro di civiltà che si evoca e si respinge, costituisce in fondo un' antichità assai modesta. Dalle Crociate a oggi, in quel nostro Oriente di nuovo così immediato e brutalmente vicino, vi è la conquista turca e un breve colonialismo cosiddetto insaziabile; ovvero il tempo di un istante per terre che hanno visto mille conquistatori. Il tempo lento e lungo dell' Islam, appunto.
La nascita del Califfato Non conosco niente di più commovente della Siria anzi di Sham, dove per una mistica musulmana tornerà, un giorno, il Madhi, l' annunciatore del Giudizio. Lì ho visto rinascere il Califfato: la Storia parla come alle piramidi.

Antiche fortezze bizantine ridotte a mura nere di fuliggine, gli angoli consunti dal vento e colonne romane spezzate stanno accanto a minareti bianchi. E la piana di Ninive, in quello che fu e non sarà mai più l' Iraq inventato dagli inglesi: sono ora i bordi del Califfato dove i piedi di San Tommaso si coprirono di polvere e da cui i cristiani fuggono per il Mondo. Il Tigri verso la grande diga che i curdi hanno riconquistato ha, incredibilmente, solo uno sciabordio di fiumiciattolo tra una immobilità verdastra e un ristagno azzurro come se non accadesse mai niente.
Qui correva la frontiera tra Siria e Iraq, voluta, disegnata dall' Occidente. Era, prima, terra unica per lingua, cultura, politica. Mercanti, ulema, pellegrini, sciiti e sunniti, settari fanatici e nomadi, tutti potevano andare e venire nel vasto spazio arabo della Mezzaluna fertile.

Il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, il fantasma, non nega affatto la storia del vicino oriente, vi si avviluppa, anzi, e vi ritorna in permanenza. Il 29 giugno alzando lo stendardo nero su un posto di transito lungo la vecchia linea degli accordi tra Francia e Inghilterra del 1916 appena frantumato da un bulldozer, un comandante daesh ha gridato: «Non è la prima frontiera che distruggiamo e non sarà l' ultima, se Dio vuole».

Lo spazio degli Abbassidi dominatori del Mediterraneo, di un grande Mediterraneo che andava da Toledo a Samarcanda, si riunifica come in un sogno. O in un incubo.
La sfida tra l' Occidente guidato da élites sonnambule e il nuovo Stato totalitario che ha le bandiere del Califfato di Mosul, si ricolloca nel mare interno che una storia e una politica miope voleva marginale rispetto al grande spazio degli oceani. Il sogno arabo che semina la morte, l' aspirazione a una potenza smisurata dopo le umiliazioni subite, per cui atti criminali diventano espiazioni: nel momento in cui si grida il nome di dio, e si uccide purtroppo per dio, c' era un solo scenario possibile, lo spazio fisico geografico storico dove le fedi hanno contaminato l' anima dell' uomo. Il declino dell' America come onnipotenza non a caso si consuma lontano dalle rive degli oceani che aveva eletto a proscenio della Storia.

Il califfato brutalmente la ricapitola, la Storia: di fronte al nostro ordine occidentale con la aureola impallidita di tutte le sue certezze, trovare le risposte ultime, redimere con un infinito progresso, percepire, prima o poi, tutti, il dividendo della ricchezza, si è levata quasi per inevitabile reazione, la negazione islamista.
Con la generazione più intimamente negativa di tutti i principi che abbiamo mai veduto, immersa in uno stato di insurrezione, di denegazione capitale. Una parola la riassume tutta: si tratta di dire no, in nome di un dio, a tutto.

L' impero Ottomano Il Califfato ricostruito da Daesh è la rivincita delle popolazioni arabe sunnite sconfitte da cinque secoli. Non a caso questa sanguinosa rivincita che ha per loro il valore di un dono divino, copia l' età degli Abbassidi. A partire dal tredicesimo secolo altri comandarono l' Islam: selgiuchidi e mongoli ilkani, mamelucchi e turchi. Gli Ottomani: califfi per vanteria e vantaggio dinastico, così oppressivi verso gli arabi e opportunisti nella fede. In questo spazio la terra è la stessa.
Oggi come allora. Il clima di Cadice è come quello di Beirut, la Provenza assomiglia alla Calcidia, la vegetazione di Gerusalemme è quella della Sicilia. Certo diversi sono i gesti degli uomini: il passato, accanito fabbricante di particolarismi, ha accentuato tutto questo seminando i suoi straordinari colori.
Terre di migranti Tra queste coste si migra: di nuovo. Dalla Sicilia ai litorali dell' Africa corre la catena delle isole che collegano deboli profondità marine: Djerba, Pantelleria, Lampedusa, Gozo, Zembra. L' acqua è così chiara che sembra di poter vedere il fondo. Ho attraversato quel mare su una piccola barca con i migranti musulmani: la rotta è antica come il mondo. Popoli interi hanno ripreso, braccati dalla disperazione e dalla speranza, ad attraversare il Mare.

Un mondo si svuota, l' altro di fronte si riempie: il ritmo di sempre.
Il Mediterraneo è molto più grande delle sue coste. Attira tutto ciò che sta intorno, lo aggrega a questo gigantesco continente unitario che lega Europa, Asia e Africa. Un pianeta di per sé, dove tutto ha circolato precocemente e in questa saldatura gli uomini trovano lo scenario della loro storia unitaria anche guerreggiando.

Qui si sono compiuti e si compiranno gli scambi decisivi.
Ora si è chiuso, le due sponde non comunicano come ai tempi di Maometto e Carlomagno.
Non è la prima volta, succederà ancora.
La grande cassa di risonanza mediterranea. Flussi e riflussi sotto il segno del movimento: il Mediterraneo e le sue rive inquiete danno e ricevono e i doni possono essere, di volta in volta, calamità o benefici.
Perché il Mare non finisce dove scompare l' ulivo. La Crimea non è forse, anche oggi, spazio del Mediterraneo? E il deserto che invade fisicamente il mare interno? I venti che arrivano dal Sahara, salendo verso Nord, creano il cielo e le notti che non hanno eguali per limpidezza; lo scirocco, il qamsin degli arabi, carico di sabbia, pesante come il piombo, porta piogge di sangue che spaventano i semplici.

A Sabratha in Libia, un' ondata brutalmente sovversiva, schiumante di sangue e di fiele, di guerrieri del Jihad usa le rovine romane come trincee. A Sirte altri frenetici ed esaltati decapitano cristiani come ai tempi dei Barbareschi. L' eco di questa terribile storia mediterranea si prolunga, così, fin nel cuore dell' Africa, nelle selve della Nigeria e nelle savane somale; ne rimbombano Timbuctu, effimera meraviglia delle sabbie, e il paese di Punt, scrigno, un tempo, di innumerevoli ricchezze. Lunghe carovane, che seguivano effimere strade di sabbia tra le dune, portavano sale e oro, guerrieri e santi marabutti, diseredati e sognatori. Tutti con il sogno o il ricordo di quel mare. Oggi sono mercanti di uomini e fuggiaschi, trafficanti di droga e barattieri di preghiere senza misericordia, falsi emiri e veri assassini, armi e santità: il Mediterraneo, laggiù, li attende e li assorbe.


Coraggio

Il #coraggio è anche iniziare qualcosa che tutti sconsigliano, ma il #coraggio è anche prendere la decisione di chiudere se non funziona.