martedì 30 novembre 2010

Purezza d'animo

E chi non vuole morire di sete fra gli uomini, deve imparare a bere in tutti i bicchieri; e chi vuole rimanere puro fra gli uomini deve saper lavarsi anche con l'acqua sporca

F. W. Nietzsche

Miei cari manager così vi insegno come restare a galla

Quindici milioni di remate per affrontare da solo l’Oceano Pacifico su una barca lunga sette metri. Un’impresa memorabile, lunga 294 giorni e 18mila chilometri, da cui trarre dritte, strategie e insegnamenti per manager e dipendenti. L’economia al tempo della crisi è anche questa: convocare in azienda chi è abituato a sopravvivere in un mare in tempesta, per capire come rimanere a galla e tentare di non affondare. Alex Bellini, nato in Valtellina 32 anni fa, ha la testardaggine tipica del montanaro e l’occhio sveglio di chi sa dove vuole arrivare. Ed esperienza da vendere. Ha così trasformato il suo sudato curriculum composto da una ultramaratona nel Sahara marocchino, da ben 1400 chilometri a piedi dell’Alaska trainando una slitta, e dall’attraversamento a remi in solitaria sia dell’Atlantico che del Pacifico, in un corso full immersion per piccoli e grandi imprenditori. “Ognuno ha il proprio oceano da superare quotidianamente – spiega Bellini – e oggi il vero avventuriero è chi deve gestire un’azienda o essere a capo di persone: servono coraggio, strategie e abilità nuove . Il mare è una metafora perfetta del mercato, e anche se io non sono un imprenditore, cerco di portare nell’organizzazione del lavoro un approccio diverso, che se adottato può indurre importanti cambiamenti e salti di qualità”. Di aula in aula con le sue teorie in questi mesi Bellini ha motivato gli sportellisti di “Poste Italiane”, ha spiegato come rimettere in moto le energie ai giovani di Confindustria e ha lavorato con i responsabili dell’area vendita e dei reparti di produzione di importanti marchi. Il prossimo appuntamento è con i piccoli e medi imprenditori della provincia di Viterbo, dove affronterà i temi della progettazione e della gestione della crisi. “Quello che mi sorprende quando mi confronto con i top manager è che sanno benissimo quello che non vogliono, ma spesso faticano a capire quello che vogliono: non hanno l'ago della bussola settato sul punto d’arrivo”, commenta Bellini. “Nelle mie imprese la progettazione è tutto: bisogna fissare un obiettivo per sapere verso dove andare, e costruire tutte le condizioni affinché quel obiettivo sia raggiungibile”. E in aula lo ascoltano prendendo appunti mentre racconta che per 6 mesi ha remato su un vogatore sistemato davanti ad un muro di cemento per misurare la propria resistenza alla noia, o mentre ricorda le notti passate a dormire dentro una cella frigorifero per abituarsi al freddo e testare i materiali. Esempi che danno un senso al suo concetto di progettazione, e lo aiutano a tratteggiare alcune delle caratteristiche che un obiettivo dovrebbe sempre avere: essere sotto controllo, essere motivante, essere ecologico ed essere multisensoriale. “Sono aspetti imprescindibili di qualsiasi target che voglia essere raggiunto”, puntualizza Bellini. “Il mio risultato deve dipendere prima di tutto da me stesso, e la leva della motivazione è fondamentale. Ma ci deve essere anche una connessione continua tra corpo e mente, tra ciò che penso e ciò che faccio. E tutto questo deve essere compatibile con i miei valori e le mie credenze. Se viene a mancare qualcosa di tutto questo l’obiettivo diventa vulnerabile, ostico e difficilmente perseguibile”. Quello che però le aziende cercano è un aiuto concreto a trovare soluzioni nelle situazioni di crisi, e qui Bellini va a rispolverare nel proprio vissuto le tante volte in cui si è trovato davanti ad una scelta improvvisa, da prendere in fretta e in autonomia, e che poteva significare vita o morte. Ecco allora tornare la metafora del naufrago con le sue quattro ancore di salvataggio: saper mantenere il controllo, non cadere in depressione ma tollerare anche i momenti peggiori, avere un’attitudine all’ottimismo e alla speranza, e allenare la capacità di ristrutturazione cognitiva, ovvero essere elastici. “E’ un passaggio fondamentale per trasformare i momenti di crisi in opportunità”, spiega Bellini. “Se lo scenario cambia essere cocciuti non serve a nulla: la testardaggine è un carattere essenziale, ma c’è una linea di demarcazione tra ciò che è ragionevole e ciò che non lo è. Se l’obiettivo non è più raggiungibile bisogna riprogrammarsi, per trovare nuovi traguardi e nuovi stimoli. Non bisogna mai chiedersi se si ha fallito: bisogna chiedersi se si è dato il massimo”. E la parola fallimento riporta subito alla storia di Alex Bellini, e a quello che ha provato quando dopo aver attraversato l’intero Pacifico a remi, a sole 60 miglia dalla costa si è dovuto arrendere ed ha rinunciato al toccare terra, per via delle condizioni meteorologiche avverse che avrebbero messo seriamente a repentaglio la sua sopravvivenza. “Sono state le 60 miglia più importanti della mia vita, e lo ripeto sempre anche agli imprenditori. Ho capito il valore della rinuncia e della ripartenza, e la serenità di una scelta fatta con la propria testa e non per compiacere ad altri. Quello che per qualcuno era insuccesso per me rappresentava solo uno straordinario successo: ero felice, perché avevo dato tutto quello che avevo da dare alla mia impresa”

da "La Stampa" di sabato 27 novembre 2010 - di Federico taddia

L'allegria

L'allegria dovrebbe caratterizzare la nostra quotidianità. Ridere ritempra, dà vitalità, distende i nervi, riduce la tensione, allontana il malumore, stimola la creatività e rende la vita molto più divertente. Infine giova enormemente ai rapporti umani, aiutando lo sviluppo di una certa empatia verso gli altri. 
E' importante saper ridere anche di sé stessi. Cosa non facile...

domenica 28 novembre 2010

L'importanza delle informazioni

La sfida principale rispetto ai fornitori è sincronizzarli con il ritmo rapido che dobbiamo mantenere. La soluzione sta nelle informazioni.

Michael Dell

venerdì 26 novembre 2010

Le difficoltà

Leggendo della vita di San Francesco capisco che incontrò più difficoltà di quante ne si possa immaginare, ma non si diede mai per vinto. Una dopo l'altra, grazie al potere della mente e della riflessione, egli superò tutti gli ostacoli e stabilì un legame diretto con il Signore. Queste letture sono motivo di grande ispirazione, perché non dovremmo avere la stessa determinazione ?
Quando le prove a cui sono sottoposto diventano molto difficili, cerco innanzi tutto di comprenderle senza dare colpa a chichessia o alle circostanze. Non faccio ricadere la responsabilità su qualcun altro. La prima cosa che faccio é un lavoro di introspezione in me. Cerco di mettere ordine nella mia anima, per eliminare tutto ciò che può ostacolarne l'espressione piena e totale. 
Questo mi aiuta a tenere la barra diritta nella vita e a raggiungere gli obiettivi. 
Ogni insuccesso é il momento migliore per spargere i semi del successo che verrà. Non lasciarsi abbattere dalle circostanze avverse, ma ritentare. Continuamente. Non tenendo conto delle volte che si è fallito.
Combattere, combattere e ancora combattere. Anche quando si pensa di non poterlo più fare, quando si pensa di avere già fatto tutto il meglio che si poteva: combattere. Così si vincono le difficoltà, così si raggiungono i propri obiettivi.
Non dimentico mai che: i deboli non combattono, i forti combattono un'ora, i più forti combattono un giorno, i fortissimi combattono un anno, solo pochi combattono tutta la vita. Costoro raggiungono ciò che vogliono.

giovedì 25 novembre 2010

L'era del'interdipendenza

"Noi esseri umani siamo esseri sociali. Veniamo al mondo come conseguenza delle azioni di altri. Sopravviviamo grazie agli altri. Che ci piaccia o no, non c'è un attimo della nostra vita nel quale non beneficiamo delle attività altrui. Per questa ragione non sorprende che gran parte della nostra felicità nasca nel contesto dei nostri rapporti interpersonali."

Dalai Lama

domenica 21 novembre 2010

Se le eccezioni diventano la regola È il diritto corporativo all' italiana


Così il predominio degli interessi organizzati penalizza gli individui Residui del passato Gli schemi di comportamento riflettono tuttora in gran parte la tradizione culturale gesuitica tipica della Controriforma Lo Stato si è ridotto a svolgere un compito di mediazione tra i soggetti collettivi più influenti

Sotto il profilo della filosofia o, se si preferisce, della sociologia del diritto, l' assunto principale del lavoro di Giovanni Cofrancesco - the core of the problem, «il centro, il cuore del problema», come si direbbe in un testo inglese - è che il «sistema Italia» è caratterizzato da un nesso causale, un rapporto di causa ed effetto, fra le dinamiche dell' ordine sociale corporativo, che risale addirittura al XIII secolo; la funzione di mediazione fra le corporazioni che il potere pubblico (incluso quello giudiziario) e gli stessi «soggetti collettivi» (i mediatori sociali) esercitano attraverso la distribuzione delle risorse; i cicli economici, alti e bassi, che ne condizionano le capacità e le possibilità stesse di esercitare tale funzione in modo coerentemente sistemico e appropriato. La forte frammentazione sociale, e la non meno forte frammentarietà del sistema nel suo complesso - non compensate dalla Norma fondamentale che, se mai, ne è essa stessa esposta, condizionata e condizionante - ne rappresentano, al tempo stesso, la singolare peculiarità, ma anche, e soprattutto, l' intima fragilità concettuale e la farraginosa operatività. Gran merito di Cofrancesco è non solo di averne colto, storicamente, filosoficamente, sociologicamente, l' essenza ma, e qui sta soprattutto la ragione dell' attributo «gran» al suo merito, nell' aver tradotto tale peculiarità, tale fragilità e tale farraginosità nel lessico del diritto amministrativo, di cui è docente, spiegando in punta di diritto come esse si siano concretate, e ancora si concretino, in una sostanziale, e persino formale, imprevedibilità del quadro normativo nazionale e nell' aleatorietà della sua applicazione. Cofrancesco è uno dei pochi liberali «autentici» di questo nostro Paese. Perciò, sensibile alle libertà e ai diritti dell' Individuo quale egli è, constata subito, e sottolinea più volte, le discrasie che ne derivano. Le libertà e i diritti - in definiva le garanzie degli Individui, in un sistema siffatto - sono subordinati alle strutture e agli interessi corporativi, nel senso che lo stesso principio di «cittadinanza», sostanziale e formale, in ordine all' esercizio di tali libertà e di tali diritti, è riconosciuto solo in quanto dipendente dall' appartenenza ad una corporazione e ne incarni gli interessi. L' Individuo «isolato» ha più di una difficoltà a farli valere. I conflitti, e la loro stessa complessa composizione fra le corporazioni, sono fluttuanti, nel senso che non sono né stabilizzati di fatto, né, tanto meno, individuati e formalizzati in diritto. L' Ordinamento giuridico, l' esercizio della Giustizia e le decisioni che ne derivano, finiscono, così, con avere - secondo la tradizione cattolica che risale ai gesuiti della Controriforma - una caratterizzazione «casuistica»; sono, cioè, dipendenti, di volta in volta, dalle circostanze, dalla natura e rilevanza dei soggetti sociali in campo, dalla variabilità delle condizioni esterne, dalle risorse, a disposizione del potere pubblico e dei «soggetti collettivi», che devono essere distribuite come remunerazione per la composizione del conflitto. Un labirinto dal quale non sempre è facile uscire anche ai soggetti che lo popolano, per non parlare a coloro i quali ne devono interpretare, e sbrogliare, il disegno. Le capacità, e le possibilità reali, di mediazione, da parte del potere pubblico e dei «soggetti collettivi» mediatori, fra gli interessi corporativi, attraverso la distribuzione delle risorse disponibili, dipendono, perciò, dal livello di sviluppo del Paese: sono alte, in caso di forte espansione economica; basse, in caso di contrazione; correlate, come sono, più che a una domanda interna, storicamente poco stabilizzata e sempre fortemente contenuta, a quella esterna, peraltro esposta anch' essa ad alti e bassi. Detto in altre parole, l' equilibrio del sistema, e la sua stessa funzionalità, dipendono soprattutto dalla richiesta di nostri manufatti da parte degli altri Paesi, cioè dalla ricettività alle nostre esportazioni. Più la congiuntura è favorevole - «tira», per dirla con linguaggio giornalistico - maggiori sono le possibilità del sistema di restare in equilibrio, e di assolvere efficacemente le proprie funzioni, secondo la propria precaria logica interna. I cicli economici attraversati nei secoli dall' Italia sono stati la «Guida temporale e concettuale» di Cofrancesco nell' individuazione delle variabili che hanno influenzato, e attraverso le quali si è espresso, il sistema. Il quadro che scaturisce dalla parte analitico-descrittiva del lavoro è quello di una sorta di «volatilità» generalizzata e permanente, sociale, temporale, economica, politica, legislativa, per non dire civile, che finisce per caratterizzare il nostro diritto, e lo stesso sistema giudiziario, come un complesso «a geometria variabile», e col conferire alle sue decisioni una natura «casuistica», se non proprio aleatoria. Sotto questo aspetto, il titolo e il sottotitolo stessi del libro edito da Giappichelli - Il sistema corporativo. Diritti e interessi a geometria variabile - non potrebbero essere più indovinati ed esplicativi. Non è, dunque, solo casuale, bensì, anche se non soprattutto, «causale», la carenza di «certezza del diritto» che caratterizza l' esercizio della giustizia all' interno di un Ordinamento giuridico pur formalizzato quale è il nostro. Certezza che, invece, legittima l' applicazione delle norme e la loro esecuzione - sulla base del principio universale che «la Legge è uguale per tutti» - in Paesi di più matura tradizione liberale. La variabilità, caso per caso, delle decisioni, malgrado la formalistica rigidità dell' Ordinamento generale, spiega, così, le numerose «eccezioni» alla regola e, allo stesso tempo, l' eccesso di discrezionalità del potere pubblico e dei «soggetti collettivi» mediatori chiamati a mediare fra interessi contrapposti, con la conseguente disparità di trattamento fra le parti in causa. Potere pubblico che, peraltro, è, a sua volta e in qualche misura, condizionato, se non subordinato, all' ordine sociale corporativo, influenzandolo e essendone, a sua volta, influenzato. È lo stesso schema che informava il comportamento della Chiesa della Controriforma, all' interno della Comunità dei fedeli, quando si trattava di assorbire eventuali tentazioni scismatiche e di dirimere le controversie fra opposte interpretazioni del suo magistero, prima che diventassero eresie e ne mettessero in pericolo l' autorità universale. In conclusione. Un testo, ancorché «accademico», e destinato all' insegnamento, anche per chi non abbia una particolare dimestichezza con le tecnicalità del diritto, con quelle spesso incomprensibili della nostra produzione legislativa, con le sue spesso surreali applicazioni. Anzi. Esplicativo delle une e delle altre. Intendiamoci. Ciò non significa che sia un testo facile e, tanto meno, banale. Tutt' altro. Io l' ho letto con piacere e interesse e non è detto che i lettori del «Corriere» non ne (ri)trovino l' eco in miei futuri articoli. Il suo pregio maggiore sta, infatti, nel suo carattere non convenzionale, nell' essere un' interpretazione storiograficamente, filosoficamente, sociologicamente, giuridicamente corretta e, al tempo stesso, «politicamente scorretta» - che, da noi, finisce con l' apparire «paradossale», anche se paradossale non lo è affatto - del sistema Italia. L' anticonformismo, soprattutto in un Paese di conformisti come il nostro, è la cifra intellettuale e culturale del liberalismo di entrambi i fratelli Cofrancesco (anche Dino insegna all' Università di Genova). Per un liberale, direi che non è neppure un merito, ma un abito mentale, un modo d' essere. Se no, che liberale sarebbe mai Giovanni Cofrancesco? 
Il testo pubblicato è la prefazione scritta da Piero Ostellino per il libro di Giovanni Cofrancesco e Fabrizio Borasi «Il sistema corporativo. Diritti e interessi a geometria variabile» (Giappichelli, pagine 211, Euro 20) Il saggio analizza le ragioni storiche e sociologiche che rendono l' ordinamento italiano molto carente sotto il profilo essenziale della certezza del diritto Giovanni Cofrancesco, professore di Istituzioni di diritto pubblico, insegna presso la facoltà di Giurisprudenza dell' Università degli Studi di Genova. Fabrizio Borasi, cultore di Diritto pubblico, è funzionario di Rete Ferroviaria Italiana 

domenica 14 novembre 2010

La felicità

Il futuro è importante, ma si costruisce con il presente. Se vivi il presente senza immaginarti il futuro, senza vagare con la mente su cose che non potranno probabilmente avverarsi, ma cogli pienamente il presente, ciò che vivi al momento... semplicemente stai progettando la tua Felicità.

sabato 13 novembre 2010

Cucinelli filosofo honoris causa

INTERVISTA di Paola Bottelli
Per l'imprenditore umbro, custode dell'artigianalità, laurea honoris causa in Filosofia

Due settimane fa ha ricevuto la visita di una delegazione di venti imprenditori cinesi interessati a conoscere – e probabilmente ad acquistare – aziende d'eccellenza made in Italy: «Sono stati a Biella e poi qui sono rimasti incantati dalla bellezza dei luoghi». In tutti i sensi, visto che a Solomeo, una decina di chilometri da Perugia, Brunello Cucinelli, presidente e amministratore delegato dell'azienda specializzata in cashmere che ha fondato nel 1978, ha restaurato un borgo trecentesco diroccato per trasformarlo nella sede della sua attività. Cucinelli, 57 anni, diploma di geometra, «nullafacente fino ai 25», figlio di un contadino che divenne operaio quando Brunello era adolescente, ha inventato un concetto tutto suo di «umanesimo in fabbrica» ispirandosi ad Aristotele, Socrate e Platone. Ieri ha ricevuto la laurea honoris causa in Filosofia ed etica delle relazioni dall'università di Perugia ma, a dispetto dell'emozione, non ha perso lucidità sul futuro a rischio del made in Italy di qualità. Nell'azienda che porta il suo nome – 193 milioni di ricavi previsti a fine anno (+22%) e utili pre imposte di 14 (+71%) – lavorano 520 addetti (il 70% donne), di cui quasi 200 svolgono mansioni artigianali; altri 1.200 collaborano come terzisti tra Umbria (la maggioranza), Marche, Veneto, microimprese da 6-8 persone, famiglie o cooperative.

Che cosa la preoccupa?

Le mani. Le abili mani di chi si occupa del rimaglio, un processo fondamentale nella lavorazione di un pullover a 2 fili che va in vendita a 500-600 euro o a 6 fili, che può costare fino a 900. Le mani di chi rammenda lentamente, sotto una lente di ingrandimento, le magline "lasciate", i puntini e i sottopunti, tutte le lavorazioni preziose – come asole, stiro e specchiatura, con la quale eventuali difetti vengono definitivamente rimossi, capo per capo – che richiedono un'elevata capacità tecnica dell'operatore. Un know-how che abbiamo la responsabilità morale, tutti insieme, di preservare.

È un lavoro che i giovani non vogliono fare, no?

Come dargli torto? Vengono a lavorare nelle nostre fabbriche e prendono 900 o mille euro al mese per svolgere operazioni di alta manualità. È poco. Se i miei artigiani vanno in pensione chiudo la fabbrica: non posso far fare in Romania l'abbinamento dei colori a contrasto nelle asole di chi ha una specifica cultura da 40-50 anni. Con il mio marchio voglio fare solo questo tipo di prodotto, che a diritto e a rovescio trasuda qualità, che ha un prezzo costoso ma sano. Agli imprenditori cinesi in visita ho fatto fotografare tutto: questi lavori non li possono copiare.

Dove vende il suo prodotto di lusso?

Esporto il 55% sui mercati tradizionali, ma vedo grandi potenzialità sui mercati cinese, indiano, sudamericano e russo: tre anni fa pesavano per il 3% dei nostri ricavi, quest'anno chiuderemo all'11,5% e l'anno prossimo saliremo al 14 per cento. In cinque anni ci daranno soddisfazioni enormi.

Ha una ricetta per convincere i giovani a fare gli artigiani?

Certo: in un capo che va in vendita nel nostro negozio in via della Spiga a Milano a mille euro la manualità vera non incide per più di 70 euro. Allora, perché non trovare quei 20 euro in più per allettare questi giovani, diplomati o addirittura con laurea breve? Perché non arrivare a 1.400-1.500 euro al mese? Anche perché, parliamoci chiaro, il giovane che viene a lavorare alla Brunello Cucinelli sa tutto di me.

In che senso?

Non è più come ai tempi del mio babbo e dei miei fratelli, pure operai, che non avevano informazioni sui loro datori di lavoro. Oggi grazie a internet l'operaio, italiano o extracomunitario, sa tutto dell'auto che guido, della villa dove vivo, dei beni che possiedo, dei profitti aziendali.

Dunque?

giovedì 11 novembre 2010

L' ITALIA UNITA A TAVOLA

L' Italia è stata fatta anche in cucina, tra un piatto di pasta e una spremuta di agrumi. Lo documentano i sapidi telegrammi inviati da Camillo Benso conte di Cavour nell' anno più fortunato per la storia patria. «Le arance sono sulla nostra tavola e stiamo per mangiarle. Per i maccheroni bisogna aspettare perché non sono ancora cotti», scrive nel luglio del 1860, alludendo alla Sicilia già occupata dai garibaldini che ora marciano verso il continente. L' attesa si protrae per oltre un mese, fino al 7 settembre, quando Garibaldi entra vittorioso a Napoli. «I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo», pregusta Cavour con l' ambasciatore piemontese a Parigi. 

A tavola l' Unità è già servita. E da bandiera partenopea il maccherone assurgerà presto a simbolo nazionale. Molto più pregnante della Marianne francese. La saporosa metafora può prestarsi a molte interpretazioni. La più maligna tratteggia un Mezzogiorno facile boccone per un avido Nord, quella più benevola nobilita il ceto politico settentrionale quale supremo garante delle tradizioni culturali e dunque culinarie del Sud. Quest' ultima è la strada imboccata anche dal medievista Massimo Montanari in un saggio laterziano che, alla vigilia del 150° compleanno dell' Italia, ci ricorda quanta importanza abbia la cucina nella costruzione della nostra italianità. Un modello aperto e "democratico", frutto di tradizioni diverse e dunque capace di assimilare il nuovo, in un percorso di elaborazione identitaria che lo rende oggi esemplare per la nuova sfida glocal ( L' identità italiana in cucina, pagg. 98, euro 9). 

Più che storia alimentare, quella suggerita da Montanari è l' epopea nazionale di un paese capace di digerire la diversità fino a trasformarla nel proprio carattere tipico, come accadde con la pasta di forma allungata importata in età medievale dalla cultura musulmana e successivamente declinata con pomodoro e peperoncino, provenienti anch' essi da mondi distanti. «In fondo la ricerca delle proprie radici finisce sempre per essere la scoperta dell' altro che è in noi. Un altro che ha contribuito a farci diventare quello che siamo. Proprio per questo parliamo di identità culturali che non sono inscritte nei geni di un popolo ma si costruiscono nel tempo, mediante il confronto e lo scambio». Riflessioni storiche non prive di implicazioni politiche, perché in cucina più che altrove si impara la tolleranza, guardando con ottimismo alla nuova Italia multietnica. Se l' Italia esiste politicamente da un secoloe mezzo, la sua cultura gastronomica è molto più antica, come la lingua, la letteratura e l' arte. «Uno stile culinario più che un modello codificato», sostiene Montanari, «abitudini alimentari che io faccio risalire al XIII secolo». Ma esiste una cucina italiana o è preferibile parlare di mille cucine locali? «In realtà le due cose non si escludono a vicenda. Il segreto sta nel cogliere in questa miriade di ricette diversificate una trama di passaggi che investono le pietanze, le persone e le tradizioni, ed è una trama indiscutibilmente italiana, percepita come tale dai suoi utilizzatori. In fondo la ricchezza della nostra gastronomia è data proprio da questa disseminazione sul territorio del patrimonio culinario. Non abbiamo piatti più gustosi rispetto a quelli degli altri paesi né vantiamo un maggior numero di pietanze. La nostra forza è che ne abbiamo dappertutto». Una rete di saperi diffusa, sia sul piano orizzontale del territorio che su quello verticale delle appartenenze sociali. «I piatti popolari compaiono nelle tavole dei signori che a loro volta agiscono da modello per i ceti inferiori», e dunque nello stile gastronomico italiano - a differenza di altre realtà europee - si riconosce l' intera comunità, senza esclusioni. E senza prevaricazioni di una tradizione sull' altra. Ciò che distingue l' arte culinaria da altri fattori fondamentali dell' identità nazionale, è che in cucina un modello non prevale mai sugli altri. «Se nella storia della lingua a un certo punto è riuscito a imporsi un solo dialetto, guadagnandosi la qualifica di italiano grazie al prestigio di Dante, Boccaccio e Petrarca, la storia della cucina non ha conosciuto né Dante né l' Accademia della Crusca. Un sistema paritario, che non avrà mai dei rigidi codificatori ma solo straordinarie personalità come Bartolomeo Scappi o Pellegrino Artusi, che si sono limitate a confrontare e a mettere in rete le diverse tradizioni locali». Piero Camporesi arrivò a scrivere che, per l' unità nazionale, fece più il manuale dell' Artusi dei Promessi Sposi. Più della lingua poté il palato. Montanari è dello stesso avviso: «Alcuni decenni dopo l' unità, nel 1891, Pellegrino Artusi, patriota della Giovine Italia, si propose lucidamente il progetto di unificare il paese negli usi gastronomici così come Manzoni aveva tentato di fare con la lingua. Il suo ricettario crebbe in modo interattivo, anche attraverso un fitto scambio di corrispondenza tra lui e le sue lettrici, configurando la sua Scienza in cucina e l' arte di mangiar bene come una grande opera collettiva». Rispetto alle corti rinascimentali di Scappi, s' era allargato il pubblico: non più un' élite ristretta, ma la piccola e media borghesia. E la nazionalizzazione delle masse proseguirà nelle trincee della Grande Guerra, quando il modello alimentare italiano poté allargarsi a nuovi strati sociali. Ma perché negli ultimi decenni la gastronomia dilaga ovunque? Al cinemae in Tvi nuovi eroi sono chef e vice chef, mozzarelle e lasagne esondano nelle pagine dei giornali, risotti ma anche coda alla vaccinara e polente possono diventare efficaci spot di comunicazione politica. Per non dire delle abitudini quotidiane, dove un tempo la fettina saltata poteva essere perdonata, oggi rischia di essere censurata come sconveniente e culturalmente inadeguata. «Non lo considero un riflusso nel privato», risponde lo studioso. «Cucinare è un atto collettivo. Né mi addentrerei in una spiegazione sociologica: siamo società più ricche e dunque possiamo trattare la fame con allegria. Quest' orgia mediatica mi sembra più il frutto di una grande liberazione: non ci vergogniamo di dire che il cibo è parte importante della nostra vita. Quando cominciai a occuparmene, nel 1972 con Vito Fumagalli, i miei colleghi mi prendevano in giro. Erano persuasi che occuparsi di storia significasse occuparsi solo di sovrani e di pontefici. In realtà il cibo è un modo per parlare del mondo, dalla filosofia all' arte, dalla religione all' economia. E sapendo quanta storia c' è in un piatto, impari anche ad assaporarlo meglio». Il "retrogusto della storia", lo definisce Montanari. Forse lo stesso provato da Cavour davanti al piatto di maccheroni, mentre già cominciava ad assaporare l' Italia. 


Simonetta Fiori - Repubblica - 10 novembre 2010 - sezione: CULTURA 

domenica 7 novembre 2010

Non c'è libertà senza Tradizione: la terza via inglese




L'Italia ha 150 anni ed è sempre in cerca di una comunità politica


Ai nostri giorni, il ‘pluralismo radicale’ —una categoria in cui possiamo ricomprendere sia le appartenenze di ‘gender’ sia i partiti e i movimenti che, a ragione o a torto, si sentono profondamente estranei alla ‘comunità nazionale’, riscoprono le ‘radici’, chiedono amplissime autonomie politiche e culturali, avanzano rivendicazioni ieri impensabili sempre accompagnate dall’ombra minacciosa delle secessione, pretendono un risarcimento per i secoli di oppressione e di soffocamento della lussureggiante vita ‘locale’ —relegando sempre più tra le ombre dell’oblio quello ‘debole’, ottocentesco— definito dalla miriade degli interessi e dei valori che si confrontavano, entravano in competizione, trovavano infine un accordo o un modus vivendi all’interno di una civiltà i cui codici cristiano-illuministico-romantici erano accettati da tutti—rischia di far dimenticare il rapporto tra Stato nazionale e i progressi della società civile, che i nostri grandi storici — da Federico Chabod a Rosario Romeo — avevano illustrato in opere che rimangono tra le espressioni più alte della cultura italiana.
Ma torniamo al pluralismo in senso forte e poniamo, per ipotesi, che finalmente si venga incontro alle sue istanze. Sotto un certo profilo, innegabilmente, ci troveremmo di fronte a un ampliamento dei diritti. La famiglia islamica non tollera che i figli siedano sui banchi di un aula in cui campeggia il crocifisso? Tale ‘diritto di libertà’  le va accordato e pertanto una circolare ministeriale deve prescrivere  non solo la rimozione del simbolo più alto della Cristianità ma anche il divieto di far presepi o di allestire alberi di Natale nelle scuole. La Lega chiede che dai libri di testo si espungano le pagine in cui si mettano in luce i meriti di Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele, Cavour (quest’ultimo il peggiore di tutti!) per sostituirle con i racconti delle ‘lagrime e del sangue’ che è costata la ‘conquista regia’ con la sua unificazione coatta e l’imposizione all’intera penisola del suo centralismo ‘prefascista’? Accontentata, nelle regioni del Nord, il reclutamento di insegnanti e la politica scolastica terranno conto dei ‘diritti’ e delle libertà dei padani. I cattolici lefebvriani chiedono di essere esonerati dalle lezioni di filosofia tenute da insegnanti atei, marxisti o liberali, invocando la ‘par condicio’col diritto attualmente riconosciuto all’esonero dalle lezioni di religione? Accontentati anch’essi: non si può pretendere che si assista a lezioni sull’evoluzionismo darwiniano senza batter ciglio!
In tutti questi casi, la sfera dei diritti si è ampliata a dismisura, sia forzando le tradizioni culturali nelle quali lo Stato nazionale si riconosceva, per lo più tacitamente; sia forzando la sua particolare forma di ‘laicità’. Il problema, però, a questo punto, si complica drammaticamente. Istituzionalizzare il pluralismo, infatti, non basta. I diritti, infatti, hanno come naturale corrispettivo i doveri: il diritto di Tizio ad asignifica un obbligo, da parte di Caio, a renderlo efficace con omissioni o con prestazioni da parte sua. La questione non riguarda soltanto il caso facile dei ‘diritti sociali’--dove il diritto di Tizio, nullatenente, all’assistenza sanitaria significa che una parte del reddito di Caio, iscritto nelle liste dei contribuenti,   è destinata a sopperire, attraverso l’imposizione fiscale, ai bisogni di Tizio—ma investe l’intero campo dei diritti: se una donna ha la libertà di indossare il burka, il funzionario pubblico deve rinunciare alla pretesa di verificare l’identità dell’essere umano che si presenta al suo sportello.
In tal modo, però, l’area dei diritti, lungi dall’essersi davvero allargata, è come la classica coperta che tirata ai piedi lascia scoperte le spalle. E quel che è peggio, la comunità rinuncia alla sua cultura politica ma non alla cultura politica, tout court. Essa, infatti, sarebbe tenuta a imporre un ‘credo’ etico-sociale, dei valori forti, a tutti indistintamente. Non tollerare discriminazioni in nessun caso, significa imporre l'ideologia della convivenza coatta, obbligare all’accettazione del diverso anche se ci ripugna, sostituire alla Chiesa cristiana, alla sinagoga ebraica, alla moschea islamica, il Pantheon pagano dove non solo ma dove ciascuno può avanzare, con successo, da accollare  all’intera comunità. Se lo Stato riconosce il titolo di studio rilasciato, puta caso, dalla Facoltà di Filosofia islamica, in cui ci si ferma ad Averroè e ad Avicenna e si considera già Kant un pensatore pericoloso, ateo e materialista, chi esce da quella Facoltà ha gli stessi diritti all’insegnamento di chi ha frequentato corsi che richiedono la conoscenza di Kant e di Galilei, di Bertrand Russell e di Benedetto Croce. Se le coppie di fatto gay vengono pienamente equiparate a quelle eterosessuali, l’adozione e le altre provvidenze destinate alle famiglie tradizionali non possono discriminarle e, quindi, anche chi non è d’accordo è obbligato a far rispettare le  e a rassegnarsi al fatto che una quota minima delle sue imposte serve per procurare l’alloggio comunale ai coniugi ‘diversi’. Tutto questo può essere giusto, equo e quant’altro ma non configura certo la ‘neutralità’ dello Stato dinanzi all’etica e allacivic culture: nei casi ipotizzati, infatti, sono imposti —in nome di diritti indisponibili e, in quanto tali, non soggetti al responso delle urne-- codici di comportamento ispirati a Weltanschuungen che non tutti condividono e i cittadini, per parafrasare Rousseau, ovvero ad agire fingendo di credere che la convivenza dei valori più diversi e opposti sia il valore più alto—principio che, preso alla lettera,non dovrebbe escludere, purché ben disarmati, l’inclusione di nazisti e di comunisti…. In tal modo, non ci troveremmo dinanzi al conflitto tra il vecchio Stato nazionale con i suoi contenuti di valore irriducibili, da una parte, e la nuova convivenza pluralistica, tollerante e laica, dall’altra, bensì a una ‘filosofia politica’, portatrice di una diversa più comprensiva idea del ‘bene’ma altrettanto restia a riconoscere le potenzialità illiberali di un modello di ‘vita buona’ non condiviso (occorre sempre aggiungere:a ragione o a torto) da una parte consistente del gruppo sociale. Nella vita dei singoli e delle collettività, non si sceglie tra un’etica e una metaetica ma tra etiche diverse, nessuna delle quali è stricto sensu, a meno che per ‘laicità’, in politica, non s’intenda la disponibilità a sottoporre le scelte— quelle serie, concrete e gravide di conseguenze-- al dibattito e alla critica pubblica. La decisione del governo francese di non consentire il velo integrale negli uffici pubblici e nei luoghi in cui chi ci sta davanti dev’essere da noi riconoscibile può essere criticata o no ma non è , nel senso di essere super partes e indifferente ai valori, giacché sottintende una filosofia dell’uomo e del cittadino per nulla ‘neutrale’.
Riassumendo, imporre il pluralismo (nel senso forte qui illustrato, beninteso), prescindendo dal consenso e dalla democrazia e richiamandosi ai diritti non disponibili , non rappresenta per il liberalismo una cura ricostituente bensì la somministrazione, da parte dell’autorità virtuosa, dell’olio di ricino, la costrizione a liberarsi di tutti quegli ‘impliciti’ culturali senza i quali i teorici ottocenteschi—si chiamino J. S. Mill o Alexis de Tocqueville, Benjamin Constant o Camillo Benso di Cavour—risulterebbero incomprensibili. In quest’ottica, non scompare certo il diritto degli individui a farsi il presepe o l’albero di Natale in casa: ognuno rimarrebbe libero (fino a quando?) di ritenere certi comportamenti sessuali riprovevoli e ‘contro natura’, ognuno potrebbe ritenere l’Antico Testamento o il Vangelo o il Corano come la ‘parola del Dio vivente’. In tal modo, ciò che più conta e sta a cuore agli individui resterebbe confinato nella privacy un un’età in cui   il concetto di ‘privacy’ si sta sgretolando giacché da tempo designa un’area sempre più compressa, la cui delimitazione rischia di divenire quanto mai incerta (Il reato di vilipendio della religione o della dignità di altri esseri umani, ad esempio, potrebbe venir commesso,oltreché dentro le mura domestiche, in luoghi, come un club di amici che condividono le stesse idee e hanno fondato un circolo culturale: uno spazio incerto, non più privato ma non ancora pubblico). Al di fuori della ristrettissima privacy , quindi, avremo un’amplissima sfera pubblica e in questa la politically correctness si tradurrebbe in un divieto assoluto di discriminazione—v. il processo mediatico cui venne sottoposto tempo fa il Cardinale Biffi per aver detto che, a suo avviso, gli immigrati di lingua spagnola e di religione cristiana pongono meno problemi d’integrazione di quelli di lingua araba e di religione coranica. Ancora una volta è difficile non cogliere la difficoltà della conciliazione tra ‘virtù’ e ‘libertà’.


Una soluzione in grado di mettere insieme diritti e consenso, democrazia sostanziale e libertà negativa (o liberale) sembra quella adottata dal libertarismo nordamericano. Il prezzo pagato, però, e in piena consapevolezza, è l’eliminazione della sfera pubblica e lareductio ad unum dei complessi rapporti interumani al contratto e al diritto privato. Nella teoria di un M. N. Rothbard, ogni individuo, ogni gruppo deve avere la libertà di organizzarsi come meglio crede, sulla base di principi fortemente condivisi anche se ripugnanti per chi non fa parte dell’associazione. Il fondamentalista, in questo modello, è libero di iscrivere il figlio alla Scuola coranica ma l’imprenditore privato—e tali diventano, nella proposta libertaria, quanti si assumono, in regime di concorrenza, le gestione di poste,di pubblica sicurezza, di sanità etc—è libero di non dare impiego al giovane ayatollah. I francofoni del Canada rivendicano il diritto a ignorare l’inglese? Padronissimi di ignorarlo, purché non pretendano di far valere i loro titoli di studio al di fuori del Quebec. E gli esempi si potrebbero, ovviamente, moltiplicare. Non c’è bisogno, forse, di far rilevare a quale risultato si arriverebbe ad essere coerenti in questa linea d’azione. Si assisterebbe a una incontrollabile proliferazione di diritti--ce ne sarebbero di ogni tipo e nei settori più diversi, compreso il diritto del razzista a vivere in una piccola comunità da cui tener lontani ebrei e neri, guardandosi bene, però, dall’interferire nelle decisioni di altre comunità che si regolano secondo principi opposti—in grado di esaurire tutta la gamma possibile e immaginabile della ‘qualità’ e della ‘quantità’. L’assoluta libertà di fare ‘ciascuno a suo modo’, però, amplia i ‘diritti’ in modo provocatorio ma ne restringe paurosamente lo ‘spazio’. Saremmo costretti a vivere, nell’utopia non esaltante degli anarco-capitalisti, in una sterminata costellazione di piccole comunità in cui i diritti diverrebbero come la moneta dell’Albania iper-comunista di Enver Hodja che poteva essere spesa solo tra Tirana e Valona. Certo ogni piccola isola libertaria sarebbe libera di avvalersi delle competenze di chicchessia: il Consiglio Scolastico Trevigiano, ad esempio, potrebbe accogliere la domanda d’insegnamento di un laureato dell’Università di Messina ma il suo titolo di studio non avrebbe più alcun riconoscimento ufficiale in tutto il territorio ‘confederale’ italiano.
Piaccia o no, l’elevato numero dei ‘diritti’ li indebolisce: nel primo caso, quello dello Stato che impone per legge la convivenza e la collaborazione dei ‘diversi’, perché costringendo tutti i cittadini a riconoscere tutti i diritti, in nome del pluralismo istituzionalizzato, crea una situazione da todos caballeros, che ricorda una scena divertente del film di René Clair, Il silenzio è d’oro. Un bey turco, in visita di Stato a Parigi, vuol conoscere la troupe che sta girando un film: se ne entusiasma e regala a tutti—dal regista all’usciere—una medaglia onorifica del suo paese. Con una variante, però, non da poco: nello Stato pluralista, i titoli creano obblighi e aspettative ma il loro conferimento a tutti comporta uno iato tra rispetto e stima –a prescindere dal fatto che  la tolleranza soffoca l’identità; nel secondo,quello dell’arcipelago libertario, perché, eliminate le istituzioni tradizionali o meglio messe in opera le istituzioni-fai-da te, pone nelle mani degli individui risorse dall’uso estremamente limitato, che non valgono più ‘erga omnes’.
Sono sufficienti questi rilievi a motivare la necessità, sempre più avvertita dagli studiosi alieni dalla retorica, del ‘ritorno alla comunità politica’ in nome sia degli stessi diritti sia della democrazia. Lo Stato nazionale era divenuto, nella sua stagione più civile e matura, la quelli che concedeva nascevano da un dibattito pubblico, da una riconferma della propria identità culturale— le ‘libertà’, al plurale, inglesi non potevano non portare all’emancipazione dei cattolici voluta nei primi decenni dell’Ottocento dal liberalconservatore Duca di Wellington—da un allargamento controllato dei gruppi e delle istituzioni meritevoli di protezione. I diritti, come s’è detto, non erano infiniti ma assicuravano a tutti risorse concrete sostenute dalle amministrazioni pubbliche e dai tribunali. In ogni caso, a nessun statista sarebbe venuto in mente di codificarli appellandosi non ai propri connazionali—chiamati a pronunciarsi in merito-- ma all’. I grandi liberali del XIX secolo, a differenza di dittatori totalitari neri e rossi, ritenevano che fosse e non ma per cittadini non intendevano—e il punto è della massima rilevanza—gli appartenenti al ‘Genere Umano’, titolari di diritti e di doveri universali e universalizzabili, uguali sotto ogni latitudine e longitudine, ma uomini in carne ed ossa, radicati in una storia, in una tradizione, in costumi, in credenze religiose che non potevano venir pietrificate negando ogni progresso ma neppure messe da parte in nome dell’uso giacobino della Ragione. Sul piano morale potevano concordare con Montesquieu, quando si rifiutava di compiere azioni che potessero favorire la Francia ma nuocere all’Europa e, ancor più, al mondo, ma , sotto il profilo politico, non vedevano su quale altro terreno, all’infuori di quello comunitario (allora nazionale), si potessero piantare gli alberi dei diritti.



venerdì 5 novembre 2010

Il carattere

Preoccupatevi più del vostro carattere che della vostra reputazione, perché il vostro carattere è quello che siete realmente, mentre la vostra reputazione è solo quello che gli altri pensano che voi siate.

John Wooden

giovedì 4 novembre 2010

4 novembre 1918/2008 - 90 anniversario della vittoria

Sulla felicità... riflettiamoci ancora

Secondo il buddhismo la possibilità di vivere a lungo é dovuta ai nostri meriti passati. Anche se non si è buddisti, non fa male pensare a quelli che muoiono da giovani e quindi rallegrarsi di avere vissuto ogni giorno in più. Questo mi porta a pensare alla felicità e al fatto che noi proviamo interiormente questo sentimento indipendentemente dalla situazione materiale in cui viviamo, le circostanze o all'appagamento dei sensi. Nasce dal nostro spirito.
La base di tutto è sentirsi appagati interiormente. Questo significa che la felicità non scaturisce dal numero di cose che possediamo, generalmente questo ci porta a volerne sempre di più, ma alla soddisfazione che troviamo in noi stessi. Nella nostra qualità di vita, nei Valori in cui crediamo. 
Non bisogna ricercare la vera felicità interiore come una formula magica, è un divenire continuo, non c'è un momento in cui si può arrivare ad affermare: adesso sono veramente felice dentro di me. Penso che sia una ricerca continua dell'appagamento interiore anche nelle piccole cose, nei gesti più comuni, nelle sensazioni tattili od odorose, nella visione di un'opera d'arte, di un paesaggio. 
La felicità è uno stato mentale a cui occorre imparare, quotidianamente, a predisporsi.

martedì 2 novembre 2010

Atteggiamento positivo

Poter contare su un metodo di approccio positivo alla vita è essenziale per riuscire nelle cose. Per riuscire in questo occorre avere sempre un atteggiamento positivo. Diventa importante per raggiungere l'obiettivo avere sempre cura di sé, far tesoro dell'esperienza maturata, mantenere e coltivare il proprio patrimonio di conoscenze e abilità, dal proprio sapere e dal saper fare, sviluppare una certa capacità di analisi delle persone e degli avvenimenti e sviluppare la propria intelligenza emotiva.
Non dimenticarsi mai di avere due intelligenze: una che pensa, razionale, e una emotiva, emozionale, legata ai sentimenti e alle sensazioni che avvertiamo.
Da qui è l'origine del nostro atteggiamento, da qui partono le nostre riflessioni sui nostri valori, su chi siamo e sul nostro modo di essere.
Quando ti sono chiari i Valori normalmente hai sviluppato la tua parte di intelligenza emozionale. Questo significa che sei consapevole delle tue emozioni, sai riconoscere come essi influiscono su di te e sulle tue attività, avendo consapevolezza di questo ti fai guidare anche da essi nelle decisioni. Ma individui anche i tuoi punti di forza e di debolezza, fai tesoro delle esperienze riavvolgendo "il nastro" di esse, sei in grado di metterti in discussione perché sei sicuro di te, metti una certa dosa di umorismo in ciò che fai e rischi in prima persona per difendere le tue idee o quelli che trovi giusto ed infine riesci a prendere decisioni anche sotto pressione.
I nostri Valori sono quelli che ci guidano quotidianamente. Se abbiamo la capacità di osservarci nel nostro comportamento, prenderemo coscienza di tali Valori e dei nostri caratteri distintivi.