venerdì 17 ottobre 2014

Godetevi il caffè



Un gruppo di ex studenti universitari andarono a trovare un loro vecchio Professore.

Presto si ritrovarono a parlare della vita e dello stress.

Il Professore volle offrir loro del caffè e andò in cucina, ritornando subito con molte tazze tutte diverse: alcune di porcellana, altre di vetro, altre di cristallo, alcune di aspetto molto semplice, altre che sembravano molto costose.

Quando ciascuno ebbe una tazza di caffè in mano, il Professore disse:

“Come avrete notato, tutte le tazze che sembravano belle e costose sono state prese per prime, lasciando per ultime le tazze semplici. E’ normale che ciascuno di voi cerchi di ottenere le cose migliori. Ma questa è anche la fonte del vostro stress.

Quello che volevate davvero era il caffè, non le tazze: ma tutti voi vi siete affrettati a prendere le tazze migliori e ciascuno guardava le tazze prese dagli altri!

La vita è il caffè; il lavoro, lo status sociale, è la tazza.

Sono solo oggetti che contengono il caffè”.

Non lasciate che le vostre “tazze” guidino le vostre scelte. Godetevi il caffè!

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sabato 11 ottobre 2014

Sulla felicità.

La felicità quotidiana è determinata in gran parte dalla nostra visione delle cose. 
Il sentirsi felici o infelici in tutti i momenti della nostra vita, non dipende tanto dalle nostre condizioni di esistenza reali, quanto dal modo in cui noi percepiamo la situazione e da quanto si è soddisfatti da ciò che si è e si possiede. 
Anche la propria autostima gioca un ruolo fondamentale nella sensazione di appagamento e felicità interiore che possiamo provare.
Un metodo da adottare per cercare di “lavorare” sulla propria serenità è quella di inquadrare qualsiasi decisione, ponendosi la domanda “Questa scelta mi darà la felicità ?” 
Domanda semplice, ma strumento potente che aiuta a gestire tutta la nostra vita. Pensare, riflettere prima di fare una scelta o dare una risposta può determinare la nostra felicità.
Non c’è quasi mai veramente bisogno di più soldi, più fama, più successo, nè di altro. In qualsiasi momento è la mente l’unico strumento indispensabile al conseguimento della vera felicità. 
Con la mente abbiamo una potenza inaudita che ci consente di compiere azioni e opere inimmaginabili. Usiamola e saremo più felici.
Bisogna comprendere quali cause producono in noi felicità o sofferenza, evitando che queste ultime possano verificarsi. Ogni istante della nostra vita in cui prendiamo decisioni o proviamo sensazioni serve ad “allenarci” ad un “metodo” che è la via per provare una felicità quotidiana. 
Senza tuttavia dimenticare e accettare che la vita è fatta anche di sofferenze e dolori, ma non per questo devono prevalere sul nostro stato d’animo. 
Per raggiungere un’autentica felicità occorre cambiare molto dentro di noi. Una cosa non semplice perchè presuppone una disciplina interiore continua, che impegna la mente e con lo spirito a vivere in modo positivo quotidianamente.
Ma mai disperare. Mai mollare !



martedì 7 ottobre 2014

Lavoro e mercati, Usa fuori dal tunnel un rischio in più per Eurolandia

L’occupazione americana è tornata al livello pre-crisi del 2008, Fed pronta ad alzare i tassi Così gli States hanno battuto la recessione: una lezione inascoltata per l’Europa e per la Bce.

Di Federico Rampini su Repubblica 5 ottobre

NEW YORK . L’America volta pagina, la sua crisi è finita davvero. Cosa significa questo per l’eurozona? Buone e cattive notizie: un euro debole, più domanda per l’export, ma anche fughe di capitali e risorse umane verso l’economia che offre più opportunità. La divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico si allarga dopo il dato “storico” di venerdì: la disoccupazione Usa è scesa sotto il 6%. Una soglia che ha due potenti messaggi simbolici. Significa che quel tasso ritorna al livello del 2008, l’anno zero della crisi. E significa che la disoccupazione americana è metà di quella europea. Pur con un mercato del lavoro iperflessibile, dove la libertà totale di licenziamento fece un’ecatombe di posti di lavoro perfino superiore a quella europea.

Questa dinamica centrifuga, che spinge l’America e l’eurozona in due direzioni opposte, è uno scenario gravido di conseguenze, perché a sua volta orienta i mercati, le scelte delle multinazionali, i grandi flussi di investimento e perfino le migrazioni di talenti. Risvolti positivi? La prolungata svalutazione dell’euro che dovrebbe estendersi all’orizzonte, possibilmente verso quota 1,20 e anche sotto. E la domanda di prodotti europei: quando cresce fra il 3% e il 4% annuo l’economia americana, l’effetto “vasi comunicanti” dell’economia globale riversa domanda aggiuntiva nel resto del mondo; va ricordato tuttavia che appena un decimo dell’export europeo va verso gli Usa mentre la quota preponderante è commercio infraeuropeo. Un altro effetto positivo sarebbe ben più consistente, ma assai problematico da ottenere: se il boom Usa sposta i rapporti di forze nel rapporto tra Angela Merkel e il partito della crescita (Hollande-Renzi), e apre spazi nuovi per una politica diversa della Bce.

La prima questione che si pone è se la divaricazione continuerà ad essere tale anche nelle politiche economiche. Fin qui America ed Europa hanno avuto due storie completamente diverse, perché così hanno voluto le loro classi dirigenti. Il fatto che la terapia anticrisi adottata negli Stati Uniti abbia avuto un successo evidente, mentre quella europea sia stata disastrosa, finora non ha avuto alcun impatto sulle classi dirigenti del Vecchio continente, almeno quelle che contano a Berlino e a Bruxelles. Si avvera il detto di John Maynard Keynes, secondo il quale uomini pratici e pragmatici come i leader di governo (e ai nostri tempi almeno una donna, Angela Merkel) «sono prigionieri delle ideologie di qualche economista defunto». Ideologie impermeabili ai fatti. Il manuale d’istruzioni per l’uso su come si esce dalla crisi, è scritto dalla storia di questi cinque anni: una recessione gravissima seguita da 60 mesi di crescita negli Stati Uniti; una recessione seguita da altre due ricadute nell’eurozona. La ricetta americana e` fatta di diversi fattori. Alcuni strutturali come il boom energetico e la demografia positiva; non per questo non replicabili: lo shale gas esiste anche in Europa e le politiche dell’immigrazione potrebbero seguire il modello Usa. Poi c’e` il volano della spesa pubblica che nel biennio 2009–2010 l’Amministrazione Obama usò portando il deficit/Pil oltre l’11%, praticamente il triplo dei parametri di Maastricht. Infine, e davvero determinante, la politica monetaria della Federal Reserve. Che fa scendere a zero i tassi d’interesse con quasi cinque anni d’anticipo sulla Bce, alla fine del 2008. Ma non si limita affatto a quello strumento. Il costo del denaro significa poco quando si è in una “trappola della liquidità”, senza dinamismo nei consumi, con gli investimenti paralizzati dalla sfiducia. 

La vera innovazione della Fed è il massiccio programma di acquisti di bond, rinnovato per tre ondate successive fino a generare oltre 4.400 miliardi di liquidità. E “mirato” in modo particolarmente efficace perché quello tsunami di dollari finisca all’economia reale, alle imprese, anziché restare nei bilanci delle banche. Il dollaro debole è l’effetto collaterale, benvenuto anch’esso, di quella politica rivoluzionaria che fu il “quantitative easing”. Sono tutte operazioni replicabili nell’eurozona: la lezione della Fed è già stata imitata in Inghilterra (unico grande paese che cresce in Europa), in Giappone, perfino in Svizzera. 

Manca all’appello la Bce, i cui timidi annunci di “quantitative easing” sono ben al di qua delle necessità.
Intanto l’America è a una svolta, per la Fed si avvicina il momento in cui potrà proclamare vittoria e quindi cambiare politica: rialzare i tassi d’interesse, segnale di una ritrovata normalità. Il dollaro ha già iniziato la sua ascesa anticipando quel rialzo dei rendimenti. Con i tassi che saliranno in America dal 2015, i grandi flussi di capitali si dirigono dove c’é crescita. I cervelli in fuga, gli investimenti in ricerca, privilegiano più che mai gli Stati Uniti. Si aggiunge l’effetto moltiplicatore delle crisi geopolitiche. Dalla Siria all’Ucraina, tutti i focolai d’instabilità possono certo indebolire la leadership di Barack Obama, ma restano pur sempre “nel cortile di casa” degli europei, ben più esposti e vulnerabili. Il vero discrimine degli scenari futuri resta comunque il segno delle politiche economiche. 

Niente austerity e audace aggressività monetaria hanno portato l’America sotto il 6% di disoccupati. Nell’eurozona lo “scisma” francese che annuncia sforamenti di deficit è un primo segnale nella buona direzione. Decisiva sarà la capacità di Draghi di fornire carburante monetario alla ripresa, con acquisti di bond meno timidi e soprattutto congegnati come le operazioni di mercato aperto con cui la Fed ha davvero rianimato il credito portandolo dove si è trasformato in investimento.


domenica 5 ottobre 2014

“L’Occidente si svegli ha il nemico in casa”

“L’immigrazione islamica porta a un nuovo totalitarismo”

«Il pericolo è il diffondersi in una parte della immigrazione europea demograficamente esorbitante di un antisemitismo di tipo nuovo, violento, che nasce nelle dottrine che arrivano dal vicino Oriente. È nel montare di un nuovo totalitarismo islamista che divide il mondo in credenti ed eretici, puri ed impuri, e nella paura degli intellettuali occidentali di definire le cose con il loro nome…». Georges Bensoussan, uno dei maggiori storici della Shoah, è attento osservatore di quel versante atroce dell’umanità che sembra esser passato, sotto nuove vesti, dal secolo trascorso nel subbuglio del presente. 

 

I partiti della destra xenofoba avanzano in Europa… 

«Una frangia marginale della opinione pubblica europea ha simpatie naziste, ma è un fenomeno che viene esagerato. Il vero pericolo è la nascita di un antisemitismo di tipo nuovo, violento, fisico: in gran parte legato alla congiunzione di una estrema destra antisionista come la vediamo in Francia e in Belgio, non necessariamente neonazista, e di un antisionismo molto violento di estrema sinistra non legato alla critica della politica di Israele, che è totalmente legittima, ma all’esistenza dello Stato di Israele, il che è molto diverso. Ma soprattutto c’è un terzo fattore: l’immigrazione arabo musulmana in Europa, di popolamento, estremamente numerosa, che ha completamente modificato il panorama demografico del continente». 

 

Il cuore di tenebra dunque è nei Paesi arabi… 

«In gran parte sì, nel senso che l’antigiudaismo ha assunto proporzione considerevoli dopo la nascita di Israele e soprattutto dopo la guerra dei Sei giorni. Ma quando i media occidentali non prestano attenzione a ciò che si dice nei media arabi, nelle televisioni, nelle radio, a quanto si scrive sui giornali, ma insisto soprattutto sulle televisioni, si condannano a non comprendere quanto accade in Europa: perché tutto ciò è riportato in Europa attraverso le parabole. Quando l’integrazione fallisce per una certa parte di individui, soprattutto giovani, si ha una ripresa identitaria di un islam radicale e violento». 

 

Che si spiega con ragioni economiche o sociali o affonda in una ideologia religiosa, penso al salafitismo sunnita … 

«Non è il motivo principale, perché altre minoranze sono colpite dalla disoccupazione e non diventano violente. La causa economica serve come schermo per non vedere le cause più profonde, che sono due. In primo luogo un risentimento coloniale contro la Francia. Poi, l’antisemitismo nel Maghreb era molto potente ben prima dell’avvento di Israele. E vi è ancora un’altra dimensione ed è quella del Corano. Si trascura sempre di leggere il testo in arabo, lo si legge in francese o in italiano spesso in cattive traduzioni… Vi è nel Corano un antisemitismo e un anticristianesimo molto violento e per i musulmani praticanti il Corano è parola sacra, è la parola di Dio». 

 

In Siria e in Iraq oggi, con la nascita del califfato, non stiamo assistendo alla nascita di un nuovo totalitarismo, che, dopo la razza e l’ideologia, ha trovato nella religione un pretesto per dividere il mondo in puri e impuri, da eliminare? 

«Sì. Il totalitarismo nell’Unione Sovietica divideva il mondo tra i cattivi che avevano origini borghesi e i buoni che avevano origini proletarie; quello nazista tra la buona e la cattiva razza. Quello islamista divide tra i puri e gli impuri, tra i credenti e gli eretici. Perché parlo di totalitarismo? Perché l’islam è una religione totalitaria, inglobante che non distingue tra materiale e spirituale. E poi c’è il fattore demografico. Una delle forze del totalitarismo nazista è stata la demografia, la forte demografia tedesca nell’800 e nel ’900. Il numero gioca un ruolo chiave nella diffusione delle idee. E questo vale per l’islamismo di oggi». 

 

Un pericolo maggiore che il terrorismo… 

«Il pericolo maggiore non è il totalitarismo islamista, è l’incapacità degli intellettuali occidentali di vedere il pericolo per la paura di essere tacciati di islamofobia e di razzismo». 

 

Che fare dunque? 

«La prima cosa è definire le cose per quello che sono. Più si definiranno le cose e più facilmente si risolverà il problema. In occidente invece si ha paura delle parole, si è terrorizzati da alcune parole. Per esempio dire che una parte della gioventù dell’immigrazione musulmana in Europa costituisce un potenziale pericolo, non tutta certo, una piccola parte. Ma è il cavallo di Troia che è già tra di noi». 

 

Tra i jihadisti del Califfato ci sono numerosi giovani «europei»… Il pericolo è tra noi? 

«Sì, è là. Nelle tre decapitazioni degli ostaggi l’assassino parla con un accento londinese, sono musulmani nati in Inghilterra. E si sa che il responsabile della strage di Bruxelles è stato il carceriere per molti mesi di ostaggi francesi in Siria, che li ha picchiati. Vuol dire che oggi in Europa ci sono centinaia di assassini potenziali: il pericolo è tra noi». 

 

L’attacco dell’islamismo non è per caso passato dal piano terroristico a quello militare? 

«Sì, ma i combattenti del Califfo sono 30mila, un nulla dal punto di vista militare rispetto all’Occidente; li si può distruggere in una settimana. Non siamo allo scontro Stato contro Stato, siamo nel quadro di un conflitto asimmetrico: come nel 1939 non sono le armi che mancano, è la determinazione politica di usarne. Era il senso dell’impegno di Churchill quando disse: “Voi avete voluto evitare la guerra e ora avrete la guerra e in più la viltà”. Siamo nello stesso scenario di allora».