domenica 17 febbraio 2013

Il valore intrinseco della cultura

Le dottrine umanistiche - con il contributo fondamentale che esse possono dare allo sviluppo di un pernsiero critico - sono fondamentali per la salute della democrazia. Lo sarebbero anche per la crescita economica, perchè non c'è buona economia ingorando fattori come l'immaginazione, l'etica o la responsabilità sociale. Ma è necessario che sappiano riformarsi.

di John Armstrong, da il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2013

Nel suo recente libro "Non per profitto" (il Mulino) l'eminente filosofa americana Martha Nussbaum sostiene che la solidità e la diffusione delle discipline umanistiche è essenziale per la democrazia. Tali discipline - argomenta Nussbaum - insegnano a pensare criticamente, a usare l'immaginazione, a essere compassionevoli e trasformano gli individui in cittadini globali, ossia in persone capaci di una visione d'insieme del mondo. L'autrice ha ragione quando afferma che tali capacità devono essere ben distribuite se si vuole che le democrazie funzionino bene. Sono infatti necessarie notevoli risorse interiori per poter pensare che «classe sociale, fama e prestigio non contano nulla, mentre l'argomentazione è tutto» - secondo la lezione socratica brillantemente riassunta da Nussbaum. Il genere di educazione che l'autrice ha in mente sarà - deve ammettere - costoso in termini di risorse. Esso deve essere empirico, partecipativo; le classi devono essere poco numerose.

Concordo entusiasticamente con tutto ciò. Allo stesso tempo, Nussbaum, sostiene che le discipline umanistiche si trovano sotto costante attacco sia da parte dei governi, i quali considerano l'educazione soprattutto come un mezzo per una crescita economica continua, sia da parte degli studenti (e dei loro genitori che spesso influenzano le scelte dei figli), i quali vogliono aggiudicarsi la loro parte - e forse anche un po' di più - di quella crescita.

Il paradosso è che le discipline umanistiche, per accedere alle risorse che Nussbaum ha in mente, dovrebbero impegnarsi in una grande opera di convincimento e, nello specifico, dovrebbero convincere proprio quelle persone che da subito adottano un atteggiamento di indifferenza.

Ne deriva che il titolo del suo libro è infelice. Che c'è di male nel profitto? Sono proprio le persone che hanno a cuore il profitto quelle che devono essere raggiunte e convinte. Quel titolo è anche fuorviante. Man mano che l'argomentazione procede, infatti, diventa chiaro che la posizione di Nussbaum è in accordo con la mia. Se ciò che vogliamo è un'economia florida, allora dobbiamo far sì che il mondo degli affari assorba il meglio di quanto le discipline umanistiche sono in grado di offrire. Il modello economico secondo il quale il commercio e gli affari si basano essenzialmente su tecnicismo e applicazione delle regole è fallace. Non si può sostenere che è possibile incrementare la crescita economica ignorando fattori come l'immaginazione, l'indipendenza mentale, l'etica o la responsabilità sociale. Ove ben intesa, una buona educazione potrebbe davvero promuovere una buona economia. Perciò, nei termini usati da Nussbaum, essa favorirebbe il profitto e permetterebbe di raggiungere anche molti altri beni, i quali non sono affatto in contrasto con il perseguimento del profitto. Nussbaum in realtà si oppone solo a una versione distorta e insostenibile della ricerca del profitto.

Una simile incongruenza tra le tesi apparenti e i dettagli effettivi delle argomentazioni di Nussbaum può essere individuata nella sua idea dell'insegnamento delle discipline umanistiche. A giudicare dalle sue affermazioni fondamentali si ha spesso l'impressione che pensi che la democrazia riceverà benefici se i modi correnti di praticare le discipline umanistiche verrano semplicemente moltiplicati: insomma, più versioni della stessa cosa. Ma se si scende nel dettaglio ci si accorge che il suo ragionamento punta in un'altra direzione. Si fa chiaro infatti che il tipo di educazione che Nussbaum ha in mente non è quello comunemente praticato in nome delle discipline umanistiche. Perciò, come afferma sommessamente, senza grandi riforme le discipline umanistiche non saranno in grado di svolgere quella funzione fondamentale che secondo lei dovrebbero rivestire.

Uno degli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo obbiettivo è costituito dal terrore della banalizzazione. Esso sembra porci di fronte a un'alternativa tragica: o si sposa la serietà e ci si rivolge solo agli addetti ai lavori o si parla a tutto il mondo, ma si dicono solo banalità. Ciò implicherebbe l'impossibilità di rivolgersi con intelligenza a un pubblico diversificato. Secondo questo modo di vedere, l'intelligenza umanistica non sarebbe né efficace né persuasiva al di fuori dell'ambito delle università, dei seminari, delle conferenze e delle riviste specializzate. Questo timore diffuso è della massima importanza. Dato che la forza delle discipline umanistiche dipende dalla loro integrazione nella vita della società e dalla loro capacità di sintonizzarsi con l'esperienza di un vasto numero di persone, la convinzione che questa integrazione sia impossibile costituisce un serio impedimento.

La "banalizzazione" è un fenomeno reale. L'interrogativo non riguarda il suo eventuale verificarsi. Piuttosto, ciò che dovremmo chiederci è se essa sia inevitabile. Qualsiasi tentativo di esportare la serietà del pensiero al di fuori delle mura dell'università è forse destinato al fallimento?

Il valore delle discipline umanistiche dipende in sostanza dal ruolo che esse svolgono nella vita delle persone. Può darsi che si rivelino importanti perché aiutano ad affrontare problemi personali o perché promuovono intuizioni fondamentali nel campo dell'etica e delle emozioni; possono aiutare a costruire una corretta visione del mondo; possono (come pensa Nussbaum) fungere da fondamento della democrazia o (come penso io) promuovere l'economia o, ancora (come pensa lo storico Tom Griffiths), aiutarci ad affrontare problemi ambientali di lungo corso. Ma tutti questi benefici sono accessibili solo ove le discipline umanistiche siano in grado di coinvolgere in profondità un pubblico vasto e diversificato. Se non riesce ad avvicinarsi a questo tipo di pubblico, tutto lo specialismo del mondo non servirà a raggiungere questi obbiettivi. Lo scopo fondamentale della ricerca e dello specialismo dovrebbe essere quello di promuovere l'educazione del grande pubblico. Ma non è così che funziona il sistema.

La questione fondamentale è questa: l'eleganza intellettuale, i ragionamenti sottili, l'attenzione alla logica delle argomentazione e la nobiltà dello spirito sono in grado di sopravvivere nel mondo globale oppure possono essere praticate solo all'interno di ambienti protetti e circoscritti? Se vogliamo che le discipline umanistiche sopravvivano e guadagnino una posizione centrale nel mondo dobbiamo fare i conti con la competizione, dobbiamo diventare eccezionalmente abili - non semplicemente dilettanti - nel coinvolgere le persone, nella comunicazione. Credo che uno dei compiti fondamentali delle discipline umanistiche sia quello di individuare e salvaguardare tutto ciò che possiede un alto valore intrinseco e di promuovere nel pubblico la massima adesione possibile a quel valore. Questo però è un appello a riformare tali discipline. In realtà, infatti, esse fanno ben altro che assolvere quel compito, dato che hanno sistematicamente rifiutato l'idea del valore intrinseco e in questo modo si sono private da sole di uno dei loro punti di appoggio. È fondamentale che le discipline umanistiche fioriscano.

Ma questo richiede una riforma: esse devono farsi più eloquenti, più concentrate sulle altre persone, più esperte nell'affrontare la competizione, più vicine all'economia e più sensibili alle aspirazioni delle persone. Se davvero lo vogliamo, possiamo far sì che questo non sia un tramonto, ma un'alba. Dobbiamo solo scrollarci di dosso il nostro torpore dogmatico.

MicroMega

venerdì 8 febbraio 2013

Come ripartire dalle eccellenze del made in Italy

L'economia italiana sta soffrendo la peggiore crisi degli ultimi ottant'anni. Questo è un fatto. Così come è un fatto altrettanto importante il suo tratto distintivo di essere ancora, e per fortuna, fortemente incentrata sull'industria manifatturiera. Mettendo insieme questi due fatti diventa evidente che occorra una nuova politica economica che rilanci la crescita.

Solo così sarà possibile recuperare rapidamente il terreno perduto e collocare il Paese su un sentiero di sviluppo decisamente più elevato di quello su cui è rimasta per tanti anni già prima della crisi. A questo sarà chiamato il governo che uscirà dalle elezioni del 24-25 febbraio.

Ma come disegnare questa politica? A mio avviso occorre tener conto di come l'economia italiana funziona, cioè delle sue specificità. E per individuare queste specificità viene in soccorso la lettura di alcune recenti analisi.
Tutte queste analisi hanno come comun denominatore l'industria quale leva del rilancio dell'Italia. Semplificando, il succo di essi mi sembra abbastanza chiaro.

Anzitutto, sono elevate le chances che avrebbe una politica industriale che curasse e sviluppasse la parte della nostra struttura produttiva che, pur nelle grandi difficoltà attuali, mostra segni di vitalità. Mi riferisco al mondo dei distretti industriali del made in Italy. L'analisi effettuata da Lino Mastromarino (contenuta in Italia, è tempo di ripartire, Gruppo Il Sole-24 Ore Libri, 2012), in particolare, illumina molto bene - «dall'interno di un'esperienza diretta», mi verrebbe di dire - la logica distrettuale; perciò mi sento di consigliarlo a tutti coloro che affrontano il tema distretto industriale un po' colla puzza al naso.

In particolare, i distretti di successo della meccanica strumentale, che ha un ruolo cruciale nel nostro export e nel contribuire, con un enorme surplus, a pagare le nostre bollette di vario genere. Marco Canesi, con una dettagliata analisi statistica, documenta le performances di quei distretti del Made in Italy. E sottolinea come la meccanica strumentale rappresenti una sorta di anello di congiunzione fra l'alta tecnologia e la produzione artigianale (Le macchine utensili e il Made in Italy, Franco Angeli, 2012). La sua idea è che scalare la vetta della tecnologia avanzata a partire dal successo delle nostre macchine utensili, è più facile che affrontare direttamente il problema con un grande piano di modernizzazione industriale.

I distretti sono, poi, importanti incubatori e da lì sono nate e si sono sviluppate le medie imprese cresciute dal basso, straordinariamente attive ed aggressive, le quali, di norma, restano collegate, rafforzandolo, al distretto industriale di origine, come ben spiega l'appassionata e precisa rassegna curata da Fulvio Coltorti (Mid-sized Manufacturing Companies: The New Driver of Italian Competitiveness, Springer, 2012,). Queste imprese, "scoperte" da Fulvio Coltorti nelle pieghe delle statistiche di Mediobanca, hanno - è inutile dire - una dimensione più congrua delle piccole che le circondano ai rapporti colla finanza e coi mercati esteri.

Infine, ma non ultimo per importanza, e recentissimo c'è Il progetto Confindustria per l'Italia (scaricabile in www.confindustria.it). Il progetto inserisce le problematiche dell'industria nel quadro più vasto e completo del rilancio dell'economia italiana. L'approccio è un po' diverso, più direttamente e dettagliatamente propositivo, ma l'accento cade ancora sullo sviluppo manifatturiero.

Si tratta, insomma, di riprendere un discorso che è sul tavolo da tempo: la formulazione di una politica industriale che soddisfi le ambizioni delle giovani generazioni, ma che, al tempo stesso, non getti via, come una scarpa vecchia, il frutto degli sforzi delle generazioni passate. Anzi, faccia leva proprio su quei frutti, che vanno anzitutto preservati dalla minaccia di distruzione che la crisi ha portato e che può essere scongiurata solo facendo ripartire l'Italia. Perciò tornare a crescere non solo è possibile, ma è un dovere etico.

Giacomo Becattini - Sole 24 ore -Imprese