martedì 29 ottobre 2013

Il peccato nazionale. (É sempre colpa di qualcun altro)

«Non è mica colpa nostra! È lui, sono loro (a piacere Berlusconi, Prodi, la Sinistra, la Destra) che hanno ridotto il Paese così». La grande maggioranza degli italiani è ormai consapevole della gravità della situazione in cui ci troviamo, avverte che a questo punto solo scelte coraggiose e magari anche impopolari, solo drastiche rotture rispetto al passato possono allontanarci da quel vero e proprio declino storico che altrimenti ci attende. Ma questa maggioranza è tenuta in ostaggio da quel grido lanciato di continuo dalla minoranza disinformata e settaria dell’opinione pubblica: «Non è colpa nostra! È colpa di altri». Un grido, un giudizio intimidatorio, che ha il solo effetto politico di dividere, di impedire quel minimo di accordo generale sulle responsabilità passate e perciò sulle decisioni audaci di cui c’è tanto disperato bisogno. Contribuendo così a rendere la soluzione della crisi ancora più lontana.

Invece bisogna convincersi - a destra come a sinistra - che non è «colpa loro». Della situazione drammatica in cui si trova l’Italia è colpa nostra, è colpa di tutti, sia pure, come si capisce, in grado diverso. La politica, i politici, per esempio, hanno certamente responsabilità primaria perché alla fine è la politica che decide. Ma in realtà la vera colpa della politica nel caso italiano è stata soprattutto quella di non avere alcun progetto, alcuna idea; e se l’aveva di non essere stata capace di realizzarla. Di non aver fatto. Per esempio di non essere stata in grado di opporsi alle richieste caotiche e spesso alle pretese (nonché ai vizi antichi) della società italiana. E quindi di aver scelto ogni volta la soluzione più facile e più demagogica: che naturalmente era quasi sempre anche la meno saggia e la più costosa per l’erario. L’Italia insomma è stata per un trentennio la scena di un grandioso concorso di colpe: tra i partiti e la politica da un lato, e dall’altro gli italiani e - elemento non meno importante - le élite economico-burocratiche che di fatto hanno anch’esse (eccome!) governato il Paese.

Oggi, insomma, paghiamo per errori e omissioni che rimontano indietro di decenni. La nostra crisi odierna viene da lontano. Viene dal consenso ricercato da tutti - sì da tutti, dalla Destra come dalla Sinistra - ricorrendo alla spesa pubblica. Viene da centinaia di migliaia di pensioni di invalidità elargite a chi non le meritava, e in genere da un sistema pensionistico che per anni ha consentito a decine e decine di migliaia di italiani di destra come di sinistra di andare in pensione con un’anzianità ridicola; viene da troppi lavori pubblici decisi da amministrazioni di ogni colore e costatati dieci volte il previsto; da troppi posti assegnati in base a una raccomandazione (solo agli elettori del Pdl? Solo a quelli del Pd?). Viene da troppi organici gonfiati per ragioni clientelari ad opera di tutte le pubbliche amministrazioni; da troppi investimenti sbagliati, rimandati o non fatti dagli imprenditori e dalla loro propensione a eludere le leggi; dalle troppe tasse evase da commercianti e professionisti (davvero tutti di destra o tutti di sinistra?); viene dalla troppa indulgenza usata nella scuola e nell’università, dall’aver accondisceso a tante illegalità specie se potevano (non importa con quale fondamento) invocare ragioni «sociali» (vedi le «occupazioni» di ogni specie); da una miriade infinita di piccoli abusi quotidianamente praticati e tollerati - per esempio nell’edilizia, nell’urbanistica, nella circolazione, nella raccolta dei rifiuti - che tutti insieme hanno rovinato e spesso reso invivibili le città e il paesaggio italiani. Da tutto ciò viene la nostra crisi: da questo multiforme sfilacciamento del tessuto collettivo, da questa indifferenza al senso della realtà. Chiamarsene fuori facendo sfoggio di virtù e cercare un capro espiatorio nella parte politica che non ci piace testimonia solo di una cieca faziosità.

È quella stessa faziosità propria della minoranza settaria che tiene in ostaggio anche il discorso pubblico del Paese e si manifesta nell’irrefrenabile pulsione a trovare complici del male specialmente nella stampa: in chi scrive nel modo che essa non gradisce. Sempre rivolgendo la sua ossessiva domanda inquisitoria che suona: «Ma voi dove eravate quando A faceva questo?», «Che cosa avete scritto quando B diceva quest’altro?». Domande inquisitorie che naturalmente contengono già dentro di sé la risposta, dal momento che secondo questi accusatori - che credono di ricordare tutto e invece non ricordano nulla - la stampa che a loro non piace avrebbe sempre chiuso gli occhi, sempre taciuto, finto di non vedere, e suonato la grancassa in onore del Potere.

Se avesse senso verrebbe da rispondere: «Fuori le prove!». In realtà una tale accusa è solo il segno della superficialità disinformata e settaria, unita al moralismo aggressivo che ci hanno regalato gli anni della Seconda Repubblica. La superficialità e il moralismo che portano a credere che chi non si proclama preliminarmente contro vuol dire che allora è necessariamente a favore; che l’unico commento possibile a qualsiasi cosa che non piaccia debba essere la maledizione. Che rifiutano visceralmente l’idea che capire e analizzare è più importante - e soprattutto più utile al lettore - che non aizzare o capeggiare una tifoseria. Alla domanda «Dove eravate quando...?» la risposta dunque è: eravamo dalla parte di questa idea dell’informazione e del giornalismo. Di certo ve ne possono essere legittimamente, e ve ne sono, delle altre. Ma ancora più certo è che non sarà con le filippiche ossessive, con le cacce all’untore né con le autoassoluzioni a buon mercato, che l’Italia riuscirà a correggere i mille sbagli commessi. Che essa riuscirà a costruire quel minimo di accordo su quanto è realmente successo nel suo passato senza il quale non può esserci speranza alcuna di un futuro. 

Ernesto Galli Della Loggia - Corriere della Sera


sabato 26 ottobre 2013

Facebook, utenti più interessati allo svago che alle notizie. L’infografica

Facebook, utenti più interessati allo svago che alle notizie. L’infografica
Se cerchi notizie non vai su Facebook. Per lo meno è quello che fa la maggioranza degli utenti americani. Lo afferma il Pew Research Center, che tra il 21 agosto e il 2 settembre 2013 ha condotto uno studio sul ruolo del social network più popolare al mondo nelle news.

Di solito sono le notizie a trovare noi, pubblicate sulla timeline da qualcuno dei nostri amici o dalle testate giornalistiche che seguiamo. Il 78 per cento degli utenti che ha dichiarato di leggere news su Facebook lo fa come azione collaterale. Il 64 per cento di loro clicca su un link per approfondire la notizia appena “qualche volta”. Solo il 16 per cento lo fa “spesso”. Competere con gli aggiornamenti di status di amici, parenti e conoscenti non è facile per le notizie.

Ma lo studio del Pew afferma che gli utenti interessati all’informazione sono in maggioranza persone giovani che usano molto smartphone e tablet. Potenziali clienti, ideali per prodotti editoriali ben calibrati, che apprezzano la “news experience” sul social network: i due-terzi di loro tornano su Facebook più volte al giorno, mentre solo il 29 per cento di chi ha dichiarato di non leggere news sul social lo fa.

Inoltre chi condivide notizie attraverso il suo profilo ha cinque volte in più la possibilità di leggere un titolo di un’ultima ora condivisa e sei volte in più la possibilità di cliccare su “mi piace” rispetto al resto degli utenti. Insomma, le persone interessate all’informazione quando sono su Facebook sono poche, ma molto determinate.

domenica 13 ottobre 2013

Superitalia - La nostra economia è ancora in prima fila sui mercati esteri

Telecom Italia, Alitalia e governo contemporaneamente in bilico, tutti insieme appassionatamente. E banche sempre più stremate dalla crisi e dalle sofferenze. Intanto molti piccoli e medi imprenditori lombardi vanno a Chiasso ad ascoltare le sirene delle autorità svizzere che li invitano a delocalizzare i loro investimenti. Ce n’è abbastanza da essere scoraggiati. In più, la crescente divaricazione tra la vivace competitività delle imprese italiane, misurata dai positivi risultati meritoriamente ottenuti sul campo, e all’opposto le condizioni di contesto in progressivo peggioramento del sistema paese in cui le aziende si trovano a operare (costi dell’energia, burocrazia, incertezza del diritto, rigidità del mercato del lavoro) è tale da creare una enorme confusione. Una confusione che serpeggia persino fra gli addetti ai lavori, ma che ovviamente tende a diventare massima tra la gente comune, ingenerando nell’opinione pubblica interna, bombardata da dati contraddittori su cui tuttavia tendono a prevalere quelli negativi, un cronico stato di pessimismo e frustrazione. Mentre tra gli osservatori e gli investitori stranieri è sempre più diffusa la pericolosa sensazione, alimentata dalle stesse rappresentazioni apocalittiche che gli italiani danno della loro economia, che il nostro Paese sia entrato in una crisi strutturale senza vie d’uscita. Tutto ciò con grave detrimento per la nostra immagine internazionale e per l’attrattività degli stessi titoli di stato, il cui spread viaggia ormai testa a testa con quello della Spagna.

È su questo sfondo che si è venuta ingigantendo la tesi del «declino» irreversibile dell’Italia, supportata principalmente dall’evidenza che il pil italiano da tempo cresce molto poco (o addirittura è arretrato, come negli ultimi cinque anni) e dal proliferare di indicatori e analisi che «spiegano» tale scarsa crescita principalmente con la mancanza di competitività, ignorando altre e ben più importanti cause, a cominciare dalla pluriennale stagnazionedella domanda interna e dalla perdita di potere d’acquisto delle famiglie. Questo stato di cose rende di difficilissima lettura la stessa diagnosi dei mali odierni della nostra economia, col rischio che vengano formulate ricette non appropriate per porvi rimedio.

La messa a fuoco del problema della competitività italiana è stata inoltre complicata negli ultimi 15 anni da due avvenimenti epocali: la crescente concorrenza dei paesi emergenti portata dalla globalizzazione, che nel primo quinquennio del nuovo secolo ha fortemente pesato sull’andamento dei nostri settori manifatturieri più tradizionali (moda e arredo), e la grande crisi mondiale cominciata nel 2008, che ha inferto un colpo durissimo, soprattutto nel biennio 2012-13, alle finanze pubbliche e ai nostri consumi interni.

La combinazione di questi due avvenimenti e dei loro effetti negativi ha però mascherato due tendenze molto positive, che si collocano in senso opposto a quella del declino. La prima tendenza positiva è che l’Italia ha profondamente modificato la sua specializzazione internazionale, modernizzandola notevolmente. Infatti, il nostro Paese, pur riducendo la sua presenza nelle produzioni tradizionali a più basso valore aggiunto del tessile-abbigliamento, delle calzature o dei mobili, si è rafforzato nei segmenti a più alto valore aggiunto degli stessi settori. Contemporaneamente l’Italia si è specializzata sempre di più nella meccanica-mezzi di trasporto, che oggi rappresenta di gran lunga il settore più importante e dinamico del made in Italy.

La seconda tendenza che va evidenziata è che, mentre la recessione mondiale e l’austerità resasi necessaria per l’aggiustamento dei conti pubblici facevano cadere pesantemente la nostra domanda interna, e con essa pil e occupazione, le imprese italiane esportatrici registravano all’opposto eccellenti performance sui mercati internazionali, nonostante un euro ben più forte della lira di un tempo. E oggi centinaia di imprese italiane sono leader di nicchia a livello mondiale per esclusivi meriti propri e non del cambio, generando decine di miliardi di euro di surplus commerciale dalle macchine per l’industria ai rubinetti, dagli yacht agli elicotteri, dai segmenti di lusso delle calzature, degli occhiali, dell’abbigliamento e dell’arredamento alla refrigerazione commerciale, dai vini ai prodotti dell’alimentazione mediterranea. Sta di fatto che il fatturato estero dell’industria italiana, superato il difficile 2009, ha continuato a tirare, mentre sul mercato interno domanda e produzione crollavano per ragioni che, per chi vuole capire come stanno davvero le cose, nulla hanno a che vedere con la competitività. Infatti, secondo stime dell’Eurostat, fra l’ottobre del 2008 e il giugno del 2012 il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese.

Contro l’idea di una catastrofe irreversibile della nostra economia, Fondazione Edison, Fondazione Symbola e Unioncamere presenteranno nei prossimi giorni un manifesto, intitolato «Oltre la crisi. L’Italia deve fare l’Italia», sottoscritto anche dai presidenti di molte associazioni produttive e territoriali. Per lanciare un appello contro la rassegnazione dilagante, per ritrovare un po’ di orgoglio nazionale e invitare le forze politiche a porre gli interessi del Paese davanti a tutto, mettendo finalmente le imprese dell’industria, del turismo e dell’agricoltura nelle condizioni di esprimere tutto il loro straordinario potenziale.

Basti pensare che nel 2012 l’Italia è stata tra i soli cinque paesi al mondo, assieme a Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud, a presentare un saldo commerciale con l’estero per i manufatti industriali superiore ai 100 miliardi di dollari. Abbiamo la più alta produzione in valore dell’Ue nei prodotti vegetali ed orticoli e il più alto numero di pernottamenti di turisti extra Ue. Nel 2011, su 5.117 prodotti in cui si può suddividere al massimo livello di disaggregazione statistica il commercio mondiale, l’Italia ha fatto registrare ben 946 casi in cui è risultata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero, per un controvalore di 183 miliardi di dollari. Sempre nel 2011 l’Italia ha presentato un surplus commerciale con l’estero superiore a quello della ipercompetitiva Germania in 1.215 prodotti, che hanno generato un attivo commerciale di 150 miliardi di dollari. Il made in Italy non è condannato al declino. Ce la può fare.


Marco Fortis (http://economia.panorama.it/aziende/dove-italia-economia-vince) Panorama


sabato 12 ottobre 2013

Un sogno

Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia a lavorarci. E allora può diventare qualcosa di infinitamente più grande.

Adriano Olivetti

martedì 1 ottobre 2013

La sosta per la mente che ci manca

NELLA STORIA IL SENSO DELLA DOMENICA, DAL RITO DEL SOLE ALLA FESTA DEDICATA AL SIGNORE, AI RITMI SENZA PAUSE DI OGGI

Siamo preoccupati per la sedentarietà, ma dovremmo pensare alla immobilità e alla stanchezza del pensiero. Per questo la domenica, come spazio di meditazione, è una urgenza contemporaneaServe un giorno dedicato all'Uomo, un tempo per guardare «oltre»

Nella Roma antica si celebrava il dies solis il «giorno del Sole» in onore della stella che dà la vita e che rappresenta certamente la prima divinità della antropologia, della storia dell'umanità. Al Sole Roma ha dedicato anche il riposo settimanale su decisione di Costantino presa nel 321. Quando il Cristianesimo diventa religione di Stato questi significati passano al dies dominicus «il giorno del Signore». Lo proclama ufficialmente Teodosio I nel 383. La domenica, come festività settimanale dedicata al Signore, è diventata da allora il riferimento per l'Occidente, anche se alcune lingue mantengono la vecchia espressione: per l'inglese la domenica è il Sun-day, per il tedesco il Sonn-tag. 

Dopo dunque più di 17 secoli viene spontaneo chiedersi se abbia ancora senso il giorno del riposo, sia pure dedicato a Dio, quando la società è mutata radicalmente e i bisogni dell'uomo hanno subito una vera metamorfosi. Basterebbe notare che il tempo presente pone drammaticamente il bisogno di lavoro per interrompere una inattività forzata dalla disoccupazione, basterebbe ancora guardare alla diffusione del jogging, delle marce, delle ginnastiche che tendono a rispondere alla preoccupazione di muovere il corpo che tende a rimanere immobile, fissato davanti agli strumenti digitali e alla televisione. La nostra è una società sedentaria e per la tecnologia, la muscolatura, su cui si fondava la forza, ha acquisito un significato soltanto per la bellezza. Ebbene, io credo che la domenica come tempo del riposo sia fondamentale oggi non per il corpo ma per la mente, che è la vera forza del tempo presente. E a preoccupare è la immobilità della mente, la stanchezza del pensiero, la rinuncia persino a porlo come controllore delle pulsioni. La nostra società è dominata da un empirismo estremo, da un agire che porta a scegliere senza una valutazione critica, come se anche le scelte dovessero tenere conto dell'immediato, del hic et nunc, come se il tempo che passa fosse il protagonista della nostra «fortuna» e lo si dovesse «prendere al volo».Serve un tempo per meditare, non solo sulle scelte del quotidiano, ma sul significato stesso dell'agire e del nostro essere nel mondo. 

La nostra società ha perso la dimensione della introspezione, del guardarci dentro, del rapporto con la fragilità umana, con i limiti che sono parte del nostro stesso essere nel mondo: le malattie, la morte. Ungaretti in un bellissimo verso descriveva l'uomo «attaccato nel vuoto al suo filo di ragno». In un'epoca poi in cui domina il potere dell'uomo sull'uomo, dell'homo homini lupus; in cui il denaro sembra aver preso il posto dell'ossigeno di cui abbiamo bisogno per respirare, è tempo di dedicare un giorno al senso dell'uomo e della società in cui viviamo, e certo dall'uomo e dai suoi limiti si arriva anche al Dominus, al Signore, qualsiasi sia il significato che gli si può dare. Senza la meditatio mortis si rischia di sentirsi immortali, come se il dio avesse il volto umano e di quell'uomo. Ecco, serve un giorno per pensare, magari insieme ad altri, un pensiero comunitario, e serve un tempo per guardare anche al cielo: Schiller ne «L'Inno alla gioia» diceva di cercare nel cielo perché da qualche parte si trova Dio. 

Albert Einstein poi scriveva «la nostra mente limitata è in grado di intuire che una misteriosa forza muove le costellazioni... Le leggi della natura manifestano l'esistenza di uno spirito immensamente superiore a quello dell'uomo e di fronte al quale noi con le nostre modeste facoltà dobbiamo essere umili» (vedi in Vittorino Andreoli, Il Gesù di tutti. Piemme, 2013 pag.534).E di fronte a questi pensieri «domenicali» viene persino voglia di pregare il Dio che c'è e che forse non c'è. Si percepisce il bisogno di inginocchiarsi per far si che l'uomo non divenga un mostro. La domenica come giorno dell'Uomo e al contempo di Dio, poiché meditando sull'uomo ci si accorge di immaginare un non-Uomo, Dio. Ed è curioso che nei Vangeli Gesù si definisca ora Figlio dell'Uomo ora Figlio di Dio (ibidem, pag.332).Augurando un «buon riposo» non penso al sonno ma ad una veglia in cui la mente penetri il mistero di quel frammento di universo che ha i colori dell'umano.

Vittorino Andreoli - Corriere della Sera