Il primo conflitto mondiale segnò la caduta di quattro imperi, rinnovò la tecnologia, moltipilcò i fronti. E finì nel '45, non nel '18.
Per molti anni, dopo la fine della Grande guerra, il tema centrale dell’immensa letteratura storica apparsa sul conflitto fu quello delle responsabilità. In una prima fase quasi tutti gli storici furono patriottici e giustificarono il proprio Paese, cercando altrove il capro espiatorio. Qualcuno dette la colpa all’impero asburgico, ossessionato dall’incubo del proprio declino. Altri dettero la colpa a Guglielmo II, imperatore di Germania; altri al revanscismo francese; altri ancora all’opacità e alle titubanze della diplomazia britannica. In una seconda fase gli storici divennero revisionisti e non esitarono a sottolineare le responsabilità del proprio Paese, come lo storico tedesco Fritz Fischer in un libro intitolato Assalto al potere mondiale, pubblicato da Einaudi nel 1965, sulle ambizioni egemoniche del Secondo Reich. Più recentemente la tesi prevalente mi è parsa essere quella di un diffuso sonno della ragione che, come nei Sonnambuli di Christopher Clark, pubblicato recentemente da Laterza, avrebbe reso tutti i Paesi corresponsabili di un’«inutile strage».
Per quasi un secolo, quindi, la storia della Grande guerra è una «storia della colpa». Molti studiosi, con maggiore o minore distacco, hanno continuato a descrivere le diverse politiche nazionali prima del conflitto; e il libro di Luigi Albertini sulle Origini della guerra del 1914, nuovamente pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana nel 2010, resta una delle opere migliori. Ma al centro di ogni studio vi era il problema della responsabilità. La Schuldfrage, come fu chiamata in Germania, fu la guerra fredda fra opposte verità che venne combattuta in Europa nel lungo intervallo fra due conflitti mondiali.
Il tema della colpa era collegato alla durata del conflitto e alle sue disastrose conseguenze politiche. Una guerra più breve, nello stile di quelle che erano state combattute dagli Stati europei dopo la guerra dei Trent’anni (1618-1648), non avrebbe provocato il crollo di quattro imperi — austro-ungarico, tedesco, russo e ottomano —, una dozzina di rivoluzioni e la catastrofe demografica che colpì la generazione dei combattenti. Vi sarebbero stati mutamenti territoriali e altre guerre, ma dopo più o meno lunghi intervalli di pace. È il problema della durata quindi che occorre oggi approfondire. Perché la guerra del 1914 fu così diversa da quelle che l’avevano preceduta?
La prima ragione concerne gli effetti dei conflitti sulla stabilità degli Stati. Nel 1859 e nel 1866 l’Austria-Ungheria aveva perduto due guerre: la prima contro la Francia e il regno di Sardegna nel 1859, la seconda contro la Prussia e i suoi alleati tedeschi nel 1866. Ma la sconfitta non aveva impedito a Francesco Giuseppe di conservare il trono. La guerra franco-prussiana del 1870, invece, aveva provocato l’abdicazione di Napoleone III, la Comune e l’avvento della Terza Repubblica. Luigi Napoleone era un sovrano plebiscitario, creato dal colpo di Stato del 2 dicembre 1851 e dal voto popolare del 21 dicembre. La corona gli era stata data dai francesi e dagli stessi francesi poteva essergli tolta. Ma neppure le grandi dinastie potevano dormire sonni tranquilli. La Comune aveva rivelato l’esistenza in Europa di una sinistra rivoluzionaria, pronta ad approfittare della sconfitta per tentare la conquista del potere. Nel 1914 tutti i sovrani europei sapevano quindi che i loro troni potevano essere perduti. Fra i motivi della guerra vi era stata anche la speranza che il conflitto avrebbe compattato le loro società nazionali contro il pericolo anarchico e socialista. Ma una guerra perduta, o conclusa mediocremente con un compromesso insoddisfacente, li avrebbe esposti al rischio di una rivoluzione.
La seconda ragione della guerra lunga fu la pluralità dei conflitti. Non vi fu un solo conflitto tra coalizioni che avevano obiettivi comuni. Vi furono almeno cinque guerre: quella franco-tedesca per la supremazia nel continente europeo, quella anglo-tedesca per il governo degli oceani, quella austro-russa per la supremazia nei Balcani, quella italo-austriaca per la supremazia nell’Adriatico e quella russo-turca per il controllo degli Stretti; per non parlare di quella che fu contemporaneamente combattuta dal Giappone per la creazione di un impero nipponico dell’Asia orientale. Nelle guerre tradizionali le regole del gioco volevano che si combattesse finché i danni subiti erano tollerabili e la speranza di un vantaggio compensava il timore di nuove perdite. Non appena la speranza della vittoria impallidiva, lo Stato che avrebbe corso rischi maggiori usciva dal gioco e cominciava a negoziare la pace. Avrebbe perso qualche provincia, ma il suo sovrano avrebbe conservato il trono. Durante la Grande guerra la manovra fu tentata dalla Romania e sarebbe stata forse tentata dall’Italia dopo Caporetto, ma la posta, con il passare del tempo, era diventata sempre più alta e la prospettiva di una pace separata sempre più difficilmente praticabile. Anziché essere combattuta soltanto sui campi di battaglia da militari di mestiere, la guerra era diventata «totale».
I fattori che contribuirono a renderla tale furono sociali ed economici. I mutamenti democratici del secolo precedente avevano creato società di massa in cui tutti, grazie alla coscrizione obbligatoria, potevano essere chiamati alle armi. I combattenti furono circa 65 milioni, i morti 9, i feriti 21. Gli effettivi dell’esercito russo, in particolare, ammontarono complessivamente a 12 milioni di uomini. Il costo diretto del conflitto superò i 180 miliardi di dollari, quello indiretto oltrepassò i 165 miliardi.
La rivoluzione industriale moltiplicò la potenza degli eserciti combattenti. La fanteria e la cavalleria francese andarono al fronte nella tarda estate del 1914 in giacca blu, calzoni rossi e senza elmetto. Il primo Natale di guerra fu festeggiato con una tregua e scambi di doni da una trincea all’altra. Ma nei mesi successivi tutto cambiò: le uniformi, i copricapi (i soldati ebbero in dotazione l’elmetto) e, soprattutto, le armi.
Le industrie di ogni nazione adattarono al campo di battaglia gli straordinari progressi compiuti dalla tecnologia nel secolo precedente. Furono costruiti cannoni sempre più grossi e potenti. Fu accelerato lo sviluppo dell’industria automobilistica. Furono progettati aeroplani che potevano combattere nei cieli e scaricare le loro bombe sul territorio nemico. La competizione tra la corazza e il cannone creò navi sempre più corazzate e, naturalmente, i carri armati. I sottomarini rivoluzionarono la guerra marittima, i camion rivoluzionarono la logistica della guerra e la telefonia cambiò radicalmente il sistema delle comunicazioni. L’industria chimica si mise al lavoro per creare un’arma nuova: i gas asfissianti. La celebrazione in comune di una festa religiosa divenne impossibile.
Quanto più cresceva il numero dei morti e dei feriti tanto più si allontanava paradossalmente la prospettiva di una pace negoziata. Vi furono tentativi di mettere fine al conflitto fra cui la lettera ai capi dei popoli belligeranti inviata dal Pontefice romano Benedetto XV il 1° agosto 1917, in cui la guerra fu definita una «inutile strage». Ma l’invito, nel quale vi erano generiche proposte per la soluzione di alcuni conflitti, fu considerato una molesta ingerenza della Chiesa negli affari degli Stati e non venne preso in alcuna considerazione. I 14 punti del presidente americano Woodrow Wilson, annunciati al mondo l’8 gennaio dell’anno seguente, erano molto più articolati della lettera papale, ma presupponevano la vittoria degli Alleati e non potevano essere graditi agli Imperi centrali. Fu quello il momento in cui cominciarono ad apparire nel linguaggio politico militare espressioni che avrebbero dominato il secolo: guerra a oltranza, resa senza condizioni, vittoria totale.
È particolarmente paradossale, in questo clima di duello all’ultimo sangue, che la Germania abbia firmato l’armistizio di Compiègne quando era pur sempre vincitrice all’Est, occupava ancora territori delle potenze alleate sul fronte occidentale e nessun soldato straniero aveva attraversato la sua frontiera. Non perdette la guerra sul campo di battaglia, combattendo contro gli eserciti alleati. La perdette a Kiel, dove la sua flotta si era ammutinata, ad Amburgo, Brema e Lubecca, dove la protesta aveva contagiato altri corpi militari, a Monaco, dove il re di Baviera fu costretto ad abdicare, e infine a Berlino, dove il leader socialista Philipp Scheidemann annunciò l’abdicazione di Guglielmo II e proclamò la Repubblica tedesca. Perdette la guerra sul fronte interno perché il Paese era affamato dal blocco continentale. Ma la teoria della colpa, elaborata dai vincitori per meglio giustificare una guerra che aveva richiesto enormi sacrifici, produsse una pace troppo duramente punitiva.
Il diktat della Galleria degli specchi nel palazzo di Versailles, dove si firmò il trattato di pace, non serviva soltanto a stroncare le ambizioni egemoniche della Germania guglielmina. Serviva anche a impedire che i francesi, i britannici e gli italiani trattassero i loro governi nelle stesso modo in cui i tedeschi avevano trattato il loro imperatore. Ma una guerra perduta senza una reale sconfitta militare e le insensate clausole economiche del trattato di pace crearono nei tedeschi il sentimento di una ingiustizia che altri uomini politici, negli anni seguenti, avrebbero usato per riaprire la partita. La guerra non terminò nel novembre del 1918. In quella data, che viene ancora immeritatamente commemorata, calò il sipario sul primo atto di una tragedia che si sarebbe conclusa soltanto nel maggio del 1945.
Sergio Romano su La Lettura del Corriere della Sera (http://lettura.corriere.it/debates/l’altra-guerra-dei-trent’anni/)