martedì 31 dicembre 2013

Il Manifesto di EconomyUp: 10 parole chiave per la crescita

Coraggio, creatività, digitale, futuro, innovazione, internazionalizzazione, made in Italy, ottimismo, sostenibilità e start up: sono questi i termini chiave per lo sviluppo del Paese declinati da 10 imprenditori che hanno dimostrato e stanno dimostrando che crescere è possibile

Dieci parole chiave per lo sviluppo, declinate da 10 campioni del Made in Italy, e la mappa dell'ecosistema italiano delle startup: è il contenuto del Manifesto di EconomyUp.it, un numero da collezionare e un’edizione speciale che arriva in un momento particolare per l’Italia, quando sembra più facile vedere quel che non va piuttosto che valorizzare quello che va.

Economyup.it crede nella necessità di un incontro fra start up e Made in Italy. Per questo il Manifesto parte proprio dalle start up, dalle nuove imprese ad alto contenuto tecnologico. Senza, però dimenticare quelle che start up sono state 10, 20 o 30 e più anni fa. E oggi sono grande aziende, con prospettive di crescita internazionale. Sono i nostri campioni del Made in Italy. Solo 10 fra tanti possibili per dimostrare che, nonostante tutto, si può guardare al futuro con ottimismo. E con coraggio.

Ecco, dunque, 10 parole chiave per la crescita possibile declinate da 10 imprenditori che hanno dimostrato e stanno dimostrando che crescere è possibile.

1. CORAGGIO di Oscar Farinetti, fondatore e presidente di Eataly

CREATIVITÀ di Nerio Alessandri, fondatore e presidente di Technogym

3. DIGITALE di Paolo Ainio, fondatore e amministratore delegato di Banzai

4. FUTURO  di Federico Marchetti, fondatore e amministratore delegato di Yoox

5. INNOVAZIONE di Sergio Dompé, presidente di Dompé Farmaceutici

6. INTERNAZIONALIZZAZIONE di Remo Pedon, amministratore delegato del Gruppo Pedon

7. MADE IN ITALY di Brunello Cucinelli, fondatore e amministratore delegato della Brunello Cucinelli

8. OTTIMISMO di Guido Martinetti e Federico Grom, fondatori delle Gelaterie Grom

9. SOSTENIBILITA’ di Gian Luca Sghedoni, amministratore delegato di Kerakoll

10. START UP di Fabio Cannavale, presidente di Bravofly Rumbo Group

 

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domenica 29 dicembre 2013

Il fallimento è un diritto

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Esiste il fallimento ed esiste il «potere del fallimento». Thomas Edison li sperimentò entrambi. Diecimila volte — raccontò egli stesso — vide finire una sua idea nella sabbia; alla decimillesima volta e uno, accese la lampadina elettrica. Il risultato, oggi, sono la General Electric, una delle imprese mitiche d’America, e la fama perpetua. «Non ho fallito — riassunse poi —. Ho solo trovato diecimila modi che non avrebbero funzionato». I fallimenti lo aiutarono a correggere gli errori. Henry Ford affrontò due crac, poi fondò la Ford Motor Company. Un progetto di Steve Jobs fece flop e lui fu licenziato dalla sua Apple. Lo scivolone di Bill Gates si chiamò Traf-O-Data, una società che voleva ottimizzare i flussi di traffico attraverso l’analisi di dati. Da quei passi falsi hanno imparato come si fa.
È che l’America ha un rapporto speciale con il fallimento. Lo rispetta e lo riconosce come qualcosa di importante: da evitare se si può (ma è difficile), però non da considerare mortale. Non è solo parte del processo di try-and-error che porta al successo, cosa abbastanza ovvia. È anche regolatore del mercato, misuratore del merito: caratteristica strutturale e indispensabile del capitalismo. Questo rapporto con il fallimento è una delle qualità che fanno dell’America un Paese a parte, diverso da tutti gli altri e al quale molti, quasi tutti, cercano di assomigliare, a cominciare dal condividerne l’idea che il fallimento non è la fine della strada, ma una semplice curva. L’altra metà del capitalismo tradizionale, l’Europa, Italia in prima fila, ha un’idea differente di che cosa significhi dover abbandonare un progetto, un’impresa e confessarlo in pubblico. Da qualche tempo cerca di copiare gli Stati Uniti. Ma, quando si viene alla bancarotta, l’Atlantico resta un lago che divide. Ancora oggi, se parlate con un vero uomo d’affari yankee, probabilmente vi racconterà che una delle differenze più profonde tra un businessman europeo e uno americano è che il primo non darebbe mai credito a una persona che nella vita è fallita, il secondo non presterebbe denaro a chi non è fallito almeno una volta.
Sociologi ed economisti di solito spiegano le differenze tra i modi d’intendere la vita economica con la cultura cattolica, opposta a quella protestante. Quando si tratta del crac imprenditoriale o personale, non è così o, almeno, c’è di più. L’approccio al fallimento nei Paesi del Nord Europa — pure protestanti e pure coscienti del diritto di rialzarsi — è diverso da quello americano. Inoltre, la sua utilità educativa è riconosciuta in molte culture: «La grandezza — diceva Confucio — non si raggiunge non fallendo mai, ma rialzandosi ogni volta che si cade». A fare la differenza è che negli Stati Uniti l’idea è diventata cultura diffusa e condivisa e, soprattutto, è entrata a far parte del quadro istituzionale e giuridico come uno degli architravi del sistema economico.
È il modo in cui si è formato e sviluppato il capitalismo in America, dal basso e fondato sull’individuo e non sullo Stato, che ha prodotto l’idea di fallimento non più come stigma sociale, non più come colpa, ma come normalità del processo. Come diritto a fallire.
Dai primi decenni dell’Ottocento, l’espansione dell’America — intesa come terra delle infinite opportunità e dell’ottimismo — avvenne intorno ai fiumi, ai canali, alle strade, ma anche attorno al credito, che in poco tempo diventò un vero sistema di obbligazioni tra privati, destinato a sostenere tanto la produzione quanto i consumi.
Già nel 1837, l’Albany Republican Committee sosteneva che «il sistema del credito ha esteso il nostro commercio in tutto il mondo, costruito le nostre città e villaggi, fondato i nostri college e costruito le nostre scuole». Si trattava di crediti diffusissimi, spesso ripagati a lungo termine o protestati; e via via si sviluppò una tolleranza, in qualche modo forzata, verso chi non pagava: per sostenere lo sviluppo complessivo del Paese — necessità che nessuno si sognava di negare — il credito e l’accettazione del possibile default erano visti come indispensabili avamposti verso la frontiera. È il modo stesso di formazione del capitalismo americano a giustificare e a prevedere la fallibilità di chi svolge attività economica.
Il risultato legale e istituzionale è il Chapter 11, il titolo del Codice federale sulla bancarotta che, senza menare scandalo, consente alle aziende che non sono in grado di onorare i debiti di proteggersi dai creditori, mentre il management (di solito lo stesso) ristruttura il business sulla base di un piano concordato. Più in generale, l’accettazione del fallimento si è così radicata negli Stati Uniti che non solo è socialmente ammesso, accettato e parte della formazione di un imprenditore: è anche un regolatore del mercato. Durante la Grande Crisi degli anni scorsi, il punto nevralgico più discusso — e considerato una delle cause del disastro finanziario —è stato il concetto di too-big-to-fail, applicato alle banche troppo grandi per essere lasciate fallire e dunque indisciplinate nel prendere rischi, in quanto sapevano che, in ogni caso, sarebbero state salvate dall’intervento pubblico. La regolazione automatica prodotta dal rischio di fallire era venuta meno, eliminata dalle possibilità imprenditoriali, il che aveva inceppato il sistema. Situazione da correggere. Il fallimento, in altri termini, negli Stati Uniti non è solo parte del gioco, una possibilità ammessa senza doversi vergognare. È una regola indispensabile del gioco.
L’idea si estende dal business alle persone dopo la Seconda guerra mondiale, quando la grande massa di risparmi accumulata in America durante il periodo bellico s’incontra con il desiderio di beni e servizi a cui si era dovuto rinunciare e con il baby-boom: il risultato è l’esplosione della società dei consumi, la quale si fonda via via sempre più sul credito al consumo e sulla necessità che tutti comprino, anche a debito, per andare avanti. Risultato: in America, fallire in affari si porta dietro una «vergogna» assai minore che in Italia e in Europa, molto spesso è normale; e anche fallire nel ripagare i debiti personali è meno devastante che dall’altra parte dell’Atlantico, dove, in molti Paesi, non esistono ancora norme sul trattamento delle bancarotte individuali.
Lo stigma del crac da noi, al contrario, è una forza negativa che frustra l’imprenditorialità e la creatività, che sacrifica la crescita economica e i consumi. Un sondaggio condotto l’autunno scorso da Youth Business International e Global Entrepreneurship Monitor ha scoperto che solo 17 giovani europei su cento ritengono che ci siano opportunità di business disponibili e sono convinti di avere le capacità e le conoscenze per approfittarne. E il 41,9 per cento di loro cita la paura del fallimento come barriera per iniziare un business. Uno svantaggio competitivo considerevole rispetto agli Stati Uniti. Al punto che nel 2010 la Commissione europea ha lanciato un progetto per affrontare «lo stigma del fallimento negli affari» sulla base del fatto che il 57 per cento degli europei non investirebbe in un business gestito da chi in passato è fallito e il 47 sarebbe meno incline a ordinare beni da qualcuno che ha avuto un crac imprenditoriale. Secondo la Commissione, il 48 per cento degli europei ritiene che «non si dovrebbe creare un’impresa se c’è un rischio che possa fallire»: chi dovrebbe eliminare il rischio si immagina che sia lo Stato.
In Italia e in Europa, dunque, non c’è una Silicon Valley, luogo dove il diritto di fallire — in fretta e possibilmente a basso costo — è un totem imprenditoriale. Alla base, la differenza sta nell’idea di capitalismo: quello fondato sulla responsabilità individuale di chi sbaglia e si rialza e quello di chi vuole garanzie prima di accendere la lampadina di Edison.

Passione e coraggio

Passione e coraggio. Servono nella vita. Sono indispensabili ora. Sono cambiate molte cose, anche le regole del gioco. Servono più che mai passione e coraggio.
Soprattutto se sei una persona sensibile. Senti le cose più degli altri e le patisci più degli altri. Le sensazioni sono più forti, più belle, ma anche più dolorose.

Ho preso consapevolezza di ciò verso i 45 anni e questo mi è servito a sentirmi meglio con me stesso. Mi ha dato nuova energia e desiderio di imparare ancora, di continuare a scoprire. Accettare nuove sfide. Con creatività, passione, coraggio, entusiasmo, felicità, serietà, etica e con grande responsabilità. Senza mollare mai. Sono così, se credo in ciò che faccio, lotto fino ad arrivare all'obiettivo.

Mi piace lavorare, mi appassiona ciò che faccio, mi genera soddisfazione costruire e vedere giorno per giorno come compongo il mio lavoro. In realtà penso che non riuscirei a concepire la mia vita senza il lavoro. Al di là della condizione economica. MI piace avere molteplici interessi, conoscere, mantenermi informato. Amo entrare in contatto con le persone anche molto diverse tra loro, conoscerle, confrontarmi, trovare ispirazione. Ma amo anche i momenti di silenzio, di solitudine e interiorità per riflettere e lasciare la mente libera di vagare.

A 52 anni ho ancora aspettative dalla vita e sogno. I sogni sono importanti perché trasmettono energia ai tuoi obiettivi e le persone che ti circondano percepiscono questo e ne traggono beneficio. Ci sono persone più brave di me e mi piace riuscire a conoscerle, non sempre è possibile, per cogliere la loro passione e il loro coraggio. Imparare dalle loro esperienze. C'è sempre un mentore nella tua vita se sai guardare con i giusti occhi.

Nella vita però mi sono dato delle regole. Mi permettono di essere coerente con il mio "sentire", con il mio "credo". Combatto le mie battaglie fino in fondo, non venendo mai meno ai miei valori e al rispetto per gli altri. Se ritengo che vengano a mancare, perdo interesse alla competizione, al confronto, alla lotta. Da sempre costruisco ponti, non alzo muri. Amo mantenere un certo stile e usare la diplomazia fino in fondo. Mi ritengo un empatico per natura e cerco di non interrompere mai i rapporti. Se sono costretto non lo faccio mai con acredine.
Lascio sempre un contatto aperto.
Perchè il futuro ci appartiene, ma non ci è dato conoscerlo.

E il piacevole scacciò il cool

Quante volte vi siete trovati a pensare, o dire, o scrivere, «Com’è piacevole», recentemente, a proposito di qualcosa che vi aveva colpito?
Se siete in linea con lo spirito del tempo a questa domanda dovete rispondere: «Parecchie volte», perché piacevole — con i suoi sinonimi dideliziosoincantevolerasserenante — è parola chiave del momento, quella che interpreta meglio le categorie contemporanee. Persino meglio delpollice su, che dice Mi piace su Facebook.
L’ha usata Marissa Mayer, mamma e lavoratrice di alta gamma, il giorno del suo insediamento come Ceo a Yahoo: «Il mio scopo è quello di dare qualcosa di piacevole ai nostri clienti, che li porti a riscegliere noi ogni giorno». E se il mondo della tecnologia ha dato il la, segnando un cambio di passo forte, sottolineando come sia indispensabile essere vicino ai bisognie alla felicità delle persone, anche in altri campi si sta imponendo un nuovo paradigma. In occasione della morte di Nelson Mandela il prestigioso e linguisticamente sorvegliato Washington Post non ha avuto paura a titolare
«Non perdetevi questo delizioso video di un Madiba ottantunenne che balla sul palco».
Mentre «deliziosamente schietto» è secondo la Cnn quel Papa Francesco che, con la terapia d’urto della gentilezza misericordiosa, ha quadruplicato il numero di fedeli che accorrono alle udienze in Piazza San Pietro: siamo a un milione e mezzo di biglietti nel 2013.
Nessun ritegno dunque a definire «piacevole» la nuova atmosfera che Bergoglio ha creato intorno alla Chiesa, come via libera ad esclamare «delizioso» alla vista di un regalo, un animale, un libro che colpiscono il cuore, senza paura di apparire affettato e un po’ retro, insomma fuori registro. Tutt’altro: «Is delightful the new cool?» si è chiesto The Atlantic in un lungo articolo e noi potremmo rilanciare la domanda così: «Piacevole è il nuovo figo?».
E a chi forse era sfuggito che ormai «cool» era entrato nell’uso, anche dalle nostre parti, per definire tutto ciò che è alla moda, di tendenzafresco econtemporaneo, deve fare già un aggiornamento veloce perché incalza una nuova categoria dello spirito, più decontratta e piena di nuova grazia.
La categoria del cool cede il passo dopo che dal Duemila in poi (ma per le avanguardie del gusto da parecchio prima) aveva tenuto banco, ossessionando chi vuol essere alla moda e non sbagliare un colpo, posseduto — alla maniera di Paris Hilton, estrema e vagamente caricaturale incarnazione del cool — dall’ansiogeno bisogno di cogliere nell’aria l’ultimotrend, di dividere il mondo in due come una mela, da una parte quello che bisognaimpegnarsi allo spasimo per avere e dall’altra quello che si può tralasciare, infilandolo nella lista dei reietti, guardandolo dall’alto con disdegno. Adesso invece da lontano, anzi da lontanissimo, viene rispolverato dal vocabolario più antico e desueto, il codice del delizioso, così adatto aimadrigali e alle liricherinascimentali, quando si credeva che del poeta il fine dovesse essere, appunto una disinteressata «meraviglia».
E così su Buzzfeed, il principe dei siti online, «delightful» ha ormai soppiantato «cool» nei titoli dei post: per Natale per esempio si elencano i 10 posti più piacevoli da visitare, e non più quelli cool, o fighi. Parola in cuspide fra retro e moderno, in perfetto equilibrio fra passato e futuro, perfetta quindi per la narrazione dei nostri sentimenti contemporanei. E con un tuffo nei dettagli retro sempre Buzzfeed ha scovato una serie di immagini che testimoniavano come Audrey Hepburnavesse come cucciolo da casa un cerbiatto di nome Pippin, domandando ai lettori: non è delizioso, tutto ciò?
Si rivaluta la straordinaria forza della gentilezza, della sua capacità di persuasione nelle relazioni sociali e sul lavoro. In linea con la grande intuizione di Monsignor Giovanni Della Casa che nel suoGalateo cinquecentesco sosteneva che «i piacevoli modi e gentili hanno la forza di eccitare la benevolenza di coloro co’ i quali viviamo».
Sicuramente i social network sono stati grande palestra di questa nuova voglia di amabilità. La mole di foto edificanti, complimenti, buongiorno assonnati ma festosamente rincuoranti che si scambiano le amiche e gli amici su Facebook sono la testimonianza che le cose da ricercare sono quelle che regalano gioia e non turbamento. Delizie a rischio di esagerazione?
Corriamo il pericolo che il contrario di Piacevole diventi Stucchevole e che sia troppo facile scivolare senza accorgersene nel ridicolo, come in una melassa?
Può essere; ma ricordate sempre che una scrittrice eccelsa come Emily Dickinson che sapeva cogliere l’anima delle cose, aveva afferrato l’essenza più pura della parola: «La verità è così rara che è delizioso poterla dire». Insomma, se nell’anno che arriva saprete usare a proposito la categoria del delizioso, potrete assaporare momenti unici e irripetibili.

giovedì 26 dicembre 2013

Guida breve al nodo della cravatta perfetto

Una cravatta bene annodata è il primo passo serio della vita, diceva Oscar Wilde.

Non c’è niente che definisce meglio un uomo della sua cravatta. Non è solo una questione di colore e di fantasia, ma di personalità. Ma soprattutto, come diceva Oscar Wilde «una cravatta bene annodata è il primo passo serio della vita». Ci vuole un po’ di originalità per superare il “solito” nodo e allora eccovi i principali, selezionati e spiegati per voi.

 

 

 

nodo-semplice

Il nodo “semplice”. Il più veloce ed efficace. Ha un aspetto un filo asimmetrico e funziona con tutti i colli di camicia. Per gli inglesi si chiama “four in hand”, perché riprende lo stesso nodo che utilizzavano i cavalieri per attaccare le redini di un quattro cavalli, o di un celebre club di Londra, che si chiamava, appunto- “four in hand” . Per portarlo con classe l'ideale sarebbe di fare una piccola fossetta mentre si piega la cravatta, prima di farla risalire.

 

nodo onassis

Il nodo Onassis: bello, semplice e richiede una pinza da mettere sotto al nodo, che dona l’effetto giusto. Se non si trova la “pinza Onassis”, che è molto complicata da individuare (anche perché lo stesso Onassis la cambiava), una qualsiasi può fare al caso vostro.

 

nodo pratt

Il nodo Pratt. Simile al Windsor ma meno largo, è diventato popolare grazie a un celebre conduttore della televisione americano. Lo ha inventato Jerry Pratt negli anni ’80 si porta con le camicie a collo aperto, con una cravatta non troppo fine e non troppo spessa (il trucco è cominciare con la cravatta al contrario).

 

nodo-semplice

Il nodo piccolo. Basic, per tutti i giorni, molto semplice. Come dice il nome, è molto piccolo, adatto a colletti abbottonati e chiusi (da vietare il collo all’italiana), perfetto per le cravatte spesse (ad esempio quelle di seta). Il suo difetto è di piegare troppo il tessuto della cravatta.

 

nodo-italiano

Il nodo all’italiana, originale e diviso in due parti. Molto italiano, non centrato e rilassato. Risulterà meno opprimente e mantiene comunque un tocco elegante.

 

nodo-doppio-semplice

Il nodo doppio semplice: per tutti i giorni, facile da realizzare e molto elegante. È uguale al nodo semplice (o “four in hand”) ma con un giro in più. Il suo aspetto asimmetrico permette di apparire meno contratti. Funziona con tutti i colletti di camicia ed è raccomandato per cravatte sottili.

 

nodo-windsor

Il nodo Windsor, ossia il nodo per eccellenza: è molto spesso, grosso e triangolare. È il nodo perfetto per le grandi occasioni, si porta bene con le camicie a collo italiano o aperte. Meglio evitare cravatte con tessuti spessi (già lo è il nodo, sarebbe troppo), meglio invece se lunghe, accompagnate da un gilet. C'è chi lo ama e chi lo odia, in molti lo disprezzano. Ma qualcuno lo trova il più bello.

Linkiesta - http://www.linkiesta.it/nodo-cravatte


mercoledì 25 dicembre 2013

Sulla Democrazia

Qui ad Atene noi facciamo così.

 

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

 

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

 

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

 

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.

 

Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

 

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

 

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

 

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

 

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

 

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.

 

Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

 

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

 

 

Pericle - Discorso agli Ateniesi, 461 a.C.


domenica 22 dicembre 2013

Statali infedeli e finti poveri Il patto etico rotto dagli Italiani

Noi che paghiamo ogni multa mentre i truffatori restano impuniti.

La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori.

Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». 

Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. 

Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. 
A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso.

È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. 
È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico.

Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. 

Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. 

Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? 

Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. 

Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». 

Susanna Tamaro - Corriere della Sera



mercoledì 18 dicembre 2013

La carica delle App Made in Italy

MAPPE, GIOCHI, NOTIZIE, EDICOLE DIGITALI: IN UN SOLO ANNO LE APPLICAZIONI SCARICATE SONO PASSATE NEL NOSTRO PAESE DA 500 A 800 MILIONI. IL MERCATO SUPERA I 100 MILIONI DI EURO, UNA FETTA SEMPRE PIÙ CONSISTENTE DI TUTTI I SERVIZI OFFERTI ONLINE

Continua inarrestabile il boom delle app, le applicazioni per smartphone, dal costo contenuto e dal rapido scaricamento, che stanno rivoluzionando il software nel mondo e in Italia. A livello mondiale si assiste a una crescita poderosa del fenomeno: e l’Italia non è seconda a nessuno perché vede uno straordinario incremento della popolarità della app. Secondo i dati degli Osservatori Ict del Politecnico di Milano, il comparto è passato da 500 milioni di applicazioni scaricate nel 2011 a più di 800 milioni nel 2012, e per quest’anno si stima che il mercato superi il valore dei 100 milioni di euro, una fetta sempre più consistente degli oltre 600 milioni di mercato dei servizi online mobili. Una torta ricca, di cui non è facile accaparrarsi una fetta: essendo un mercato di fatto globale, la concorrenza – soprattutto internazionale – è molto alta, e la presenza di app italiane è ancora contenuta: fra le 50 più redditizie, quelle italiane sono appena il 10%. Questo non vuol dire che non ci siano casi di successo nostrani, da attribuire agli ormai oltre 700 sviluppatori che vivono e lavorano in Italia. I buoni risultati sono numerosi. Fra le app made in Italy di successo, MyWind, l’applicazione per smartphone e tablet di Wind che a meno di 2 anni di lancio ha superato i 3 milioni di download. Un successo che – sottolineano alla compagnia telefonica – dimostra “come l’app sia diventata lo strumento preferito dai clienti per tenere sotto controllo i propri consumi e gestire le linee telefoniche”. 

Le app che raccolgono il maggiore successo sono quelle in grado di offrire agli utenti un’utilità di servizio: con l’ultimo aggiornamento, gli sviluppatori hanno allargato l’offerta di servizi di MyWind dalla gestione delle linee fisse fino alla possibilità di effettuare ricariche, passando per la possibilità di acquistare biglietti del bus in diverse città italiane tramite il servizio Mobile Pay. Va forte anche l’app di Rai.Tt, che ripropone in streaming i contenuti delle reti pubbliche italiane, e che si è classificata all’ottavo posto nelle preferenze degli italiani, stando ai dati diffusi da Apple. Punta sull’utilità AroundMe, una app che trasforma lo smartphone in una mappa digitale del territorio, dove gli utenti possono scoprire punti di interesse nelle vicinanze, dai ristoranti e bar fino agli impianti carburanti. CircleMe, invece, è una app lanciata dall’omonimo network italiano di condivisione di interessi, che porta su sistemi android un principio simile: ma basato sugli interessi e le opinioni degli utenti, per approfondire e scoprire nuove canzoni, film, libri e attori. 

Diverso obiettivo, ma sempre con un accento sul servizio, ApPoint di Wolters Kluwer Italia, la filiale italiana del Gruppo Wolters Kluver, ideata per permettere agli studi professionali di accedere da tablet in mobilità a dati contabili, fiscali e paghe dei clienti. Successo anche per la più “frivola” Cinetrail, guida in formato app per poter vedere gli ultimi trailer cinematografici e per essere aggiornati sulla programmazione dei film: i download hanno superato i 2 milioni. A metà fra utility e intrattenimento, c’è Movym App, l’applicazione di una startup milanese basata su un’idea estremamente innovativa: il software, infatti, permette di riconoscere i capi indossati in una serie tv o in uno show da conduttori o attori. E permette, subito dopo, di acquistarli con un click grazie alle partnership con diversi retailer e siti di eCommerce: un meccanismo che ha permesso ai ragazzi milanesi di aggiudicarsi il premio Smau per il settore ‘Mobile Commerce & Payment’. Grande successo anche per Lyrics, un’app italiana – disponibile su tutte le piattaforme mobili - che si contrappone frontalmente a Shazam e permette di riconoscere i brani musicali e trovarne automaticamente il testo: una funzione che ha già convinto 10 milioni di utenti. Più orientata ai contenuti è Flywers che, spiega il creatore Edoardo Narduzzi, permette di creare “un’edicola digitale per editori vecchi e nuovi attivi sui social media, dove vendere i propri contenuti in payperview o con un abbonamento di cui scelgono la periodicità”. L’app è ancora in beta ma ha già convinto 50 publisher ad aderire alla piattaforma, disponibile per Android e iOs. E’ per Windows 8, invece, ma presto arriveranno anche versioni Android e Apple, Skiddy The Slippery Puzzle, app-gioco sviluppata dal team italiano Big Bang Pixels, formato da Christian Costanza e Andrea Baldiraghi, due giovani creativi. Il gioco – un puzzle game con 120 livelli da risolvere – ha vinto la categoria Intrattenimento del Mob App Award, il premio Smau per le migliori App del 2013, e ha raccolto oltre 150mila download in tutto il mondo in pochissimo tempo. Un altro team molto ridotto, ma efficace, è quello formato dal giovane sviluppatore indipendente di App Luca Micheli. Che con la sua QuizPatente ha totalizzato 640mila download in meno di nove mesi, realizzando su base settimanale oltre un milione di impressioni pubblicitarie. 

Ottimo riscontro internazionale anche per MusicXmatch, un applicazione che sincronizza l’archivio musicale digitale degli utenti con i testi, mostrandoli non solo durante l’esecuzione dei file musicali ma anche mentre si utilizza il sistema di streaming Spotify. L’app, da Bologna, ha mosso alla conquista di tutte le piattaforme (da iOs a Android, passando per Windows 8) ed è arrivata sui dispositivi di circa 20 milioni di utenti, negli Stati Uniti, in Giappone come in Italia. La dimostrazione che il made in Italy non riguarda solo l’industria alimentare o la moda: quello delle app non solo esiste, ma è vitale e può avere un successo globale.


Valerio Maccari - Affari & Finanza de La Repubblica 


Le passeggiate al termine della notte

Nelle mie passeggiate al termine della notte, quando la luna illumina l'ombra del mio cammino e gli scarponi scricchiolano sotto la rugiada ghiacciata, trovo gocce di felicità pura che non so spiegare ma che mi donano una grande serenità.

Il silenzio che tutto avvolge con la semi oscurità, dona grande lucidità di pensiero e tutto mi appare per quello che é veramente.

lunedì 16 dicembre 2013

Startup

La voglia di fare. La capacità di rischiare. E di innovare. È la forza delle start up. E un valore per il sistema economico quando diventano imprese. Tutti possono fare start up, ma la vera sfida che bisogna affrontare in Italia è trasformare una start up in un’azienda. La start up da sola è solo una premessa necessaria. Esprime il suo valore per un sistema economico quando diventa un’azienda di successo

di Fabio Cannavale, Founder ed executive chairman di Bravo FlyRumbo Group

Fabio Cannavale, Founder ed executive chairman di Bravo FlyRumbo GroupFabio Cannavale, Founder ed executive chairman di Bravo FlyRumbo GroupLa start up è quella cosa in cui devi rimboccarti le maniche, fare tutto, lavorare senza orari. Tutti sono alla pari, c’è un forte sentimento pionieristico, direi quasi eroico, e hai la sensazione di fare qualcosa di unico. Tutti possono fare start up. Basta avere una forte motivazione, una buona idea, qualche capacità. Ed è importante fare start up perché produci innovazione. Puoi pensare a cose impossibili, creare business che non esistevano, rischiare tutto perché non hai nulla da perdere.

Ma la vera sfida che bisogna affrontare, in Italia, è trasformare una start up in un’azienda. A fare la differenza è il salto da un piccolo gruppo di persone coeso e fortemente motivato a un’azienda strutturata, con competenze precise e ben distribuite. Ti servono cose diverse se sei in 20 o in 50: noi abbiamo fatto il nostro primo organigramma quando siamo diventati più di 100. Non è una questione di capitali, ma di cultura manageriale.

La start up da sola è solo una premessa necessaria. Esprime il suo valore per un sistema economico quando diventa un’azienda di successo. Come è successo negli Stati Uniti dove una parte importante del pil e della capitalizzazione di Borsa è costituita da imprese nate negli ultimi 10 o 20 anni.

Ecomyup

mercoledì 11 dicembre 2013

L'ossessione di essere perfetti. Meglio sbagliare e vivere felici.

Da Flaubert a Steve Jobs, chi sono i «maniaci» celebri Non esistono genitori a prova di errore: quel che conta è aiutare i figli ad affrontare la vitaPretendono troppo da sé ma soprattutto dai dipendenti. E alla fine i risultati ne risentonoLa star «Precisini si nasce, non si diventa. E la colpa è di mamma e papà», dice Gwyneth Paltrow.

Che cosa accomuna Jan Vermeer, un mago di colori e luci, Gustav Flaubert, cultore degli aggettivi mentre scriveva Madame Bovary e Arturo Toscanini, le cui urlate prove d'orchestra erano uno show a parte? L'attitudine, al di là dell?essere diversamente grandi, al perfezionismo. Attenzione però, soprattutto in mancanza di quel talento, a non esagerare. Mica sempre funziona. Senz'altro non nel privato, perché chi fa parte di quel «club» è portato a intervenire fallosamente su qualsiasi argomento alla sua portata: ricette, film, vacanze, percorrenze autostradali. Con il perfezionista, granitico macigno sulla leggerezza conviviale, nulla resta impunito. Chiaro che il suo nome venga sfrattato da molte agende, se mai sia entrato. Ma nemmeno, a quanto pare, funziona sulla riva professionale.

Il perfezionismo negli ambienti di lavoro semina una specie di spiacevole ansia da prestazione in senso lato: sì, pure i risultati economici fanno cilecca. L'ultimo ammonimento viene dal Financial Times , che con un articolo della psicoterapeuta Naomi Shragai, assicura quanto sia meglio imbrigliare in buone redini la nostra eventuale propensione alla perfezione. «Non è un caso ? conferma Shragai ? che anche verso quei genitori che si sentono inadeguati s'insista sulla necessità d'accettare limiti e possibilità di sbagliare. È inutile cercare d'essere perfetti, basta essere abbastanza bravi nell?aiutare i figli ad affrontare la vita». 

Ma quali sono, per esempio, i motivi per cui un capo perfezionista riesce a ottenere meno risultati di uno con qualche parvenza d'umanità ? Primo: pretendono molto da sé, e sono iper-autocritici ma con gli altri vanno giù anche più pesante e questo non è zucchero per il morale della truppa.Secondo: non amano delegare ma se temono ci sia il rischio-errore s'intromettono e non sono bei momenti. Terzo: l'ossessione del dettaglio impedisce loro d'avere una visione più alta di tutto il lavoro. Quarto: la paura che le cose non meritino il dieci e lode gli fa procrastinare le scadenze, aumentando l'altrui frustrazione. Quinto: il fatto di concentrarsi sui risultati in modo integralista, tralasciando qualche tonico anti-tensione, li rende francamente odiosi.

Sono ufficiali per cui attaccheremmo all'arma bianca contro l'artiglieria nemica ? Difficile. In ogni caso, come si diceva, il perfezionismo non è necessariamente antagonista del talento. Quando vediamo negli studios dei Beatles in Abbey Road, Paul McCartney spiegare per la sesta volta a George Harrison come deve fare l'assolo di Hey Jude, si capisce che lui è lì lì per mettergli le mani nel collo, ma a un genio come Paul questo non si fa. Vogliamo parlare di Robert De Niro e delle sue trasformazioni fisiche tipo sosia del pugile Jake LaMotta in Toro scatenato ? Anche Steve Jobs, caratterino di carta vetrata ad alto ingegno, faceva parte della congrega, visto che investiva montagne di dollari perché i suoi oggetti fossero (accademicamente) belli perfino all'interno. Il perfezionismo non è legato soltanto alle occasioni maiuscole: lo chef-star Carlo Cracco lo applica anche a una cosa casalinga come le verdure all'olio. 

Ma la cipolla di Tropea deve essere tagliata in quattro parti a X e le carote di traverso, se no s'incupisce senza rimedio.Le motivazioni possono essere le più disparate. Margherita Buy, ultrarigorosa nella preparazione d?un copione, fa riferimento all?ansia e al senso del dovere. Per Giorgio Armani, che va a controllare (senza farsi vedere) le vetrine dei suoi nuovi negozi, è una condizione irrinunciabile per il successo. E che dire del grande pianista Glenn Gould che considerava il pianoforte un'appendice del suo corpo? Ad ascoltare però due star hollywoodiane come Gwyneth Paltrow ed Emma Watson, la «colpa» sarebbe invece tutta di mamma e papà: perfezioniste si nasce, non si diventa. Caso mai ci si può (parzialmente) pentire .

Paracchini Gian Luigi (07 dicembre 2013) - Corriere della Sera